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L’artista non ha mai avuto mani!

di Nanni Menetti

L’artista non ha mai avuto mani. Si tratta di un’affermazione che il pubblico in genere comprende se riferita a Duchamp e ai suoi ready-made, vale a dire a cose “trovate” e quindi, ecco, “fatte” dalle mani di altri. Ready-made che poi Duchamp, si sa, si limita a dichiarare, a “battezzare”, “arte”. Se riferita a Duchamp e, a seguire, a diversi altri artisti nell’arte contemporanea, ma del tutto, per il pubblico, incomprensibile se riferita, come io qui intendo sostenere, a qual si voglia artista, non solo d’oggi ma anche del passato.

Passi che Sol LeWitt esegua un’opera per la Galleria G7 di Bologna, restandosene in America e servendosi delle mani di un suo assistente e di quelle di una ventina di studenti dell’Accademia di Bologna; passi che Jeff Koons e infiniti altri, da Andy Warhol ad Arman a Kostabi ecc., deleghino la produzione delle loro opere a “fabbriche” e “officine” varie. Si sa, sono artisti d’avanguardia e all’avanguardia tutto o quasi viene in mente, ma che si affermi che anche Morandi, in quanto artista, non ha avuto (non ha mai usato) mani e così Picasso, De Chirico o vivaddio Leonardo, Michelangelo, Raffaello, Tiziano e pure Fidia, Prassitele, Zeusi, Parrasio ecc. sembra proprio un’eresia, se non una bieca e cervellotica  provocazione.

E invece no. Invece, a chi ben guardi, per dirla ancora con De Saussure, con l’occhio dis-interessato della scienza[1] (quell’occhio analitico del resto che anche ognuno di noi si augura di incontrare quando si sottopone a qualche indagine medica) nell’operazione di Duchamp non viene fuori una verità logica (teoretica) relegabile alla sola poetica dell’arte concettuale propria della storia dell’arte del Novecento, ma una verità propria di tutta l’arte, perché prima ancora che dell’arte si tratta di una verità che sta alle radici della costituzione di ogni nostra identità in generale.

La chiave per comprendere questa verità sta in una corretta teoria del linguaggio che ora, con qualche aneddoto e qualche esempio, proverò sinteticamente a spiegare.

Il linguaggio non nomina cose e corpi ma funzioni

Cose e funzioni. Questa distinzione è fondamentale. Distinzione che il semiologo L.J. Prieto, per esempio, tematizza nell’opposizione tra identità numerica e identità specifica [2]di ogni entità, cosa o essere vivente che sia.  Occultarla significa predisporsi a cadute continue nell’ipostatizzazione ad essenza del fenomenico, nell’indebita estensione di verità parziali a verità totali, in una parola nell’ideologia, mostro letale per chi vuole capire veramente come stanno le cose. Ma passiamo all’aneddoto e agli esempi.

Me ne stavo un giorno bel bello (così tanto per dirla in stile manzoniano) nel mio studio, accudendo tranquillamente ai miei lavori, quando, dopo aver bussato, entrò un giovane che si presentò come poliziotto e mi invitò gentilmente ad intervenire a un loro annuale convegno. Alla mia precisazione che, occupandomi in via prioritaria d’arte, non avrei saputo cosa andare loro a raccontare, egli mi rispose che conosceva i miei lavori e il mio pensiero e che, se avessi voluto, sarei stato certamente in grado di trovare qualcosa di interessante anche per loro. Stimolato nel mio amor proprio accettai e cominciai subito a chiedermi quali argomenti avrei potuto trattare, rimanendo nell’ambito di pertinenza della polizia. Devo dire che la faccenda non si stava mettendo tanto bene: quanto più la scadenza si avvicinava tanto più io brancolavo nel buio. Non sapevo proprio che cosa sarei andato a dire, finché una mattina, aprendo al bar un giornale, la salvezza mi venne miracolosamente incontro. Sul giornale c’era questa notizia: “Stimato professore di lettere arrestato perché sequestra la moglie”. Era fatta! Sarei andato a proporre alla polizia questo rompicapo. Come fare ad arrestare il marito, colpevole di gelosia perniciosa, lasciando libero lo stimato professore di lettere, che non aveva alcuna colpa, anzi era pieno di meriti per il suo lavoro? Così feci e ne venne fuori un dibattito di cui alcuni hanno ancora memoria. Ogni arresto è sempre debordante, giacché si arresta un corpo (un’identità numerica), ma il colpevole è sempre e solo un soggetto funzionale, vale a dire un corpo non in assoluto, ma in relazione a una qualche pratica. Un corpo può entrare in diverse pratiche e il linguaggio non nomina il corpo ma l’identità che il corpo acquisisce nelle pratiche in cui entra, insomma, nei termini di Prieto, un’identità specifica, professore in rapporto agli scolari, marito in rapporto alla moglie, padre in rapporto ai figli ecc. ecc..

Verità talmente evidente per Isaac Asimov, per esempio, da servirsene addirittura per spiegare il rompicapo della natura sia ondulatoria che corpuscolare della luce: “Potrebbe sembrare un paradosso, o addirittura qualcosa di mistico, quasi che la vera natura della luce superasse ogni possibilità di comprensione umana. Al contrario, io vorrei spiegare – egli scrive - il concetto ricorrendo a una analogia: un uomo può avere molti aspetti - marito, padre, amico, uomo d’affari…-. A seconda delle circostanze e dell’ambiente in cui si trova, si comporta da marito, da padre, da amico o da uomo d’affari. Nessuno si aspetta che egli esibisca il suo comportamento maritale con un cliente o il suo comportamento di uomo d’affari con la moglie; eppure un singolo uomo non ha nulla di paradossale né è qualcosa di più di un singolo uomo.”[3]. Nulla di paradossale, ripeto, tranne che ancora, per molti di noi, la questione dell’artista e delle sue mani.

E non si pensi che ciò valga solo per i nomi comuni. Vale anche per i nomi propri. Anzi, ancora di più per i nomi propri. Lasciando stare la scelta funzionale del nome per un neonato da parte dei parenti, che spesso tramite il nome scelto vogliono relazionare il bambino a qualche altro parente defunto o a un qualche auspicabile buon futuro, in senso logico il nome proprio funziona come un meta-nome, come la somma logica dei nomi comuni indicanti le varie relazioni tramite le quali la persona è stata da qualcuno conosciuta e quindi il nome proprio è ancora più lontano dal nostro corpo di quanto lo siano i nomi comuni. E’ inutile ricordare che i significati di cui il mio nome è portatore per mia moglie non sono quelli che esso racchiude, che so, per un critico  (si pensi ancora ad Asimov) che si occupi dei miei lavori o di qual si voglia altra persona che sia entrata in una qualche relazione con me. Dentro allo stesso nome, comune o proprio che sia, la nostra identità si dissemina all’infinito: vogliamo dire che siamo sempre uno, nessuno e centomila?

Ora, a che fine questo racconto? Credo sia già più che chiaro, ma conviene ribadirlo definitivamente: checché se ne dica, il nostro linguaggio non nomina mai i corpi (gli oggetti, i soggetti empirici o invarianti extrafunzionali come in cert’area francese oggi si ama dire) da soli, in assoluto, ma nell’identità che essi hanno dentro a una qualche pratica. Dovessi riscrivere la Bibbia non direi che Adamo diede il nome alle cose, ma a come le cose apparivano nelle relazioni che egli intratteneva con esse. Non altro. Non per nulla un tempo ci si diceva che il verbo, appunto l’azione, era la parte fondamentale del discorso. I verbi implicano sempre una relazione tra due poli (non importa se anche solo del soggetto con se stesso) e noi nominiamo la relazione e non i poli: sempre. E se a volte ci sembra, in rapporto a qualche termine, il contrario è perché abbiamo perso memoria delle sue radici. Ma dove le radici sono raggiungibili questa verità trova sempre conferma. Verità devastante per ogni realista ingenuo o metafisico che ora, prima di arrivare finalmente alla questione delle mani dell’artista, vedrei ancora più dettagliatamente appunto nell’arte.

Le  funzioni  e il linguaggio nell’arte

 Noi siamo chiusi dentro al linguaggio come siamo chiusi dentro l’atmosfera e in modo inevitabile. Noi possiamo uscire dall’atmosfera solo in grazia dell’atmosfera stessa. Che fanno infatti gli astronauti? Se la portano dietro come ossigeno. Noi possiamo al pari uscire dal linguaggio in grazia del linguaggio stesso. Ci sono infatti delle parole, nel linguaggio, a significato sospeso,  parole come indici puntati verso l’esterno e basta. Due di queste parole sono appunto “cosa” e “corpo”, ma ce ne sono altre; in italiano penso, per esempio, ad “aggeggio” e simili. Parole a contenuto semantico puramente indicale che servono a gettare le entità fuori dalle relazioni e quindi fuori dai loro nomi (fuori dal linguaggio) in attesa di inserirle in altre relazioni e quindi di recuperarle al linguaggio con altri nomi. Nel ready-made di Duchamp è precisamente nascosta questa verità. Prendiamo il famoso Scolabottiglie, dove per altro la derivazione dal verbo è evidente: “scolare bottiglie”. Esso deve la sua artisticità semplicemente alla sua dislocazione (definendolo arte Duchamp ne ha spostato la collocazione) e quindi funzione e quindi relazione, dalla cantina alla galleria d’arte. Da “scolabottiglie” a “opera d’arte”, quindi da un nome a un altro passando per lo stato semanticamente indeterminato di “cosa”.

E se come opera d’arte continuiamo a chiamarlo “scolabottiglie” lo facciamo in memoria di ciò che fu, della relazione da cui è stato prelevato e in cui non è più. Entrato nella galleria d’arte, in relazione con la galleria d’arte, naturale che venga chiamato “arte”. Uscito dalla relazione con le bottiglie ha perso il proprio nome primigenio ed è divenuto “cosa”. Entrato in relazione con l’arte è diventato arte, ha cambiato nome, tant’è che se lo si vuole continuare a chiamare “scolabottiglie” ci sentiamo in obbligo di aggiungere “di Duchamp”, che è come dire che “scolabottiglie” proprio non è più. Lo scandalo di questa operazione è tale per chi è vittima di due forme di ipostatizzazione, di due indebite estensioni di verità parziali a verità totali. La prima, l’idea di provenienza biblica appunto che il nome non nomini le relazioni, ma l’anima, l’essenza delle cose; la seconda, quella della indebita trasformazione di una verità valida in linea di principio (dove c’è già un’anima, un’essenza, non ci può essere posto per un’altra) in una verità valida in linea di fatto. Del tutto naturale allora che si faccia fatica ad accettare uno scolabottiglie come opera d’arte, ma dal far fatica ad avere ragione ce ne passa. L’artisticità è una funzione (una relazione) in cui, volendolo qualche cultura, qualsiasi cosa può entrare: non ci sono cose e oggetti artistici per natura, ma solo per cultura nel senso etimologico del termine, vale a dire perché così, come “arte”, coltivati, usati, fatti insomma funzionare. A differenza di quanto pensava Asimov per quella di “uomo”,  verità niente affatto corrente. Anzi è diffusa l’idea, anche in persone colte della nostra contemporaneità, che nell’arte del Novecento ci sia molta mistificazione e, come dire, presa per i fondelli del pubblico. Ma è un’idea dovuta ad una ignoranza teoretica preoccupante, tanto più in persone che per il loro ruolo e la loro visibilità fanno spesso opinione. Ricordo in proposito un articolo di uno scandalizzato Magris[4], non affatto corretto da coloro che dialogarono con lui. Certo, si può non amare questa o quella forma d’arte, ma da qui a tacciarle di mistificazione ce ne corre. La mistificazione implica un rapporto violato con l’idea di una verità uguale per tutti che non ha nessun supporto scientifico. Ma torniamo a noi e a un’ulteriore conferma della credibilità di ciò che sto dicendo. Qualcuno ricorderà Occhetto e la sua svolta politica alla Bolognina? Volendo cambiare nome al partito di cui era segretario (l’allora storico PCI) e non sapendo ancora a quale programma nuovo relazionarlo che fece Occhetto? Non lo chiamò forse “la cosa”? Non c’è scampo: il nome alle cose e ai corpi è frutto solo delle relazioni in cui entrano e non di una pretesa essenza a priori eterna e immobile da sempre. Il che non vuole dire che non ci sia, non dico questo, non so; dico solo che il nostro linguaggio non può nominarla. Rassegnati a questa impotenza e, occupandoci solo delle funzioni, torniamo finalmente alla questione da cui siamo partiti: l’artista e il suo esser privo di mani.

Tutte le opere d’arte sono dei ready-made

Di fronte all’affermazione di partenza “l’artista non ha mai avuto mani” s’era supposto un pubblico in genere pieno di incredule domande. Come? L’artista non ha mai avuto mani? Non  ha forse usato le mani, Leonardo, per dipingere le sue opere? Ovviamente quelle che, al di là di ogni dubbio, sono sue. E così Raffaello, e così Michelangelo e così ogni altro artista notoriamente autore materiale delle proprie opere? Certo, ma considerato tutto ciò che fin qui si è detto, si può ora, spero convincentemente, rispondere che rigorosamente parlando Leonardo che produce (dipinge) materialmente la sua opera non può essere correttamente chiamato artista, semmai artigiano o qualcosa di simile, ma non proprio artista nel senso che a tale termine diamo noi oggi. Leonardo può essere definito artista quando attiva un’altra funzione, quando una volta prodotta l’opera la riconosce (la nomina) come arte e la licenzia come tale. Nominazione che può benissimo non essere esplicita, ma implicita in qualche pratica: o nella firma o nella semplice collocazione dell’opera in un luogo d’arte o tramite altro gesto, interno o esterno all’opera, che rinvii all’arte, quale che esso sia. E chiaramente in questa pratica non c’è bisogno di mani. Che differenza allora con Duchamp? Nessuna. La difficoltà a cogliere questa identità è dovuta al fatto che nell’operazione dello scolabottiglie le due pratiche, quella della produzione materiale dell’oggetto e quella del suo battesimo d’arte sono rette da due soggetti funzionali diversi: la fabbrica per la sua produzione materiale e Duchamp, l’artista, per la sua collocazione nell’arte, mentre nel caso di Leonardo (dell’artista tradizionale insomma) le due funzioni sono gestite dallo stesso corpo e questo confonde e crea una differenza, ma è una differenza apparente, allucinatoria direbbe Kant che per una sana conoscenza delle cose va smantellata e rifiutata. Anche Leonardo come Duchamp entra in gioco, in quanto artista, quando l’opera è materialmente già fatta, quando l’artigiano Leonardo l’ha già fatta. Che poi sia un corpo a farla o una fabbrica che cosa cambia? Nulla dal punto di vista logico.

L’artisticità arriva alle opere a cose fatte, un po’ come il soffio di Dio sul corpo di creta di Adamo o come lo sguardo d’approvazione con cui Dio licenzia la vita di ogni cosa creata. “Disse Dio ‘sia fatta la luce ’. E la luce fu. E Dio vide che era cosa buona”. Mi viene in mente il racconto di un collezionista di Morandi a cui Morandi aveva promesso un quadro. Racconta tale collezionista che ogni volta che andava da Morandi per prendere il quadro, Morandi diceva che non era ancora pronto. Finché arrivò in giorno in cui gli disse: “sì, lo puoi prendere”. Ciò che colpì il collezionista fu il fatto che Morandi in realtà, nel lasso di tempo in cui aveva tenuto il quadro presso di sé, non vi aveva apportato nessuna modifica. Semplicemente, dico io, Morandi, come il Dio della Bibbia, non aveva ancora deciso che “era cosa buona”. E’ questa decisone l’operazione fondamentale per porre una cosa dentro l’arte. L’inevitabile conclusione è quella che tutte le opere d’arte sono dei ready-made, all’arte devono sempre arrivare materialmente già fatte non importa se da altri a o dallo stesso corpo dell’artista.

Prove? Tante.

Una prima. Corpo dell’opera e sua identità artistica non fanno proprio - e mi si perdoni il gioco di parole - corpo. Hanno identità analitica diversa. Un’opera può come corpo attraversare i confini e abitare culture diverse, ma non è detto che in questi passaggi si trascini obbligatoriamente dietro anche la sua eventuale identità artistica di partenza. Considerata arte nella cultura A può non rimanerlo affatto nella cultura B o C e così via… la storia offre a ciò conferme a iosa. Si pensi a quanti affreschi prodotti da A sono stati coperti da una cultura B e magari poi ri-scoperti da una cultura C. E naturalmente viceversa. Si pensi, come dire, all’uso artistico che la nostra cultura ha fatto di alcuni manufatti africani, prodotti che presso i loro autori avevano tutt’altra identità. L’artisticità può abitare o abbandonare l’opera a piacere (a piacere di qualche poetica, di qualche cultura, singola o collettiva che sia, si capisce). Solo un etnocentrismo ciecamente ottuso e dogmaticamente ideologico potrebbe sostenere il contrario, ma da tempo simili etnocentrismi sono stati espulsi dal ventre di una volontà di conoscenza che voglia dirsi corretta.

Una seconda prova: il falso. L’opera falsa evidenzia del tutto quanto fin qui si è detto. Ciò che il falsario può riprodurre è solo il corpo materiale dell’opera, il lavoro insomma dell’artigiano e a volte lo fa talmente bene che soltanto il falsario stesso può svelare l’inganno (si pensi alla esemplare vicenda di van Meegeren e dei suoi falsi Wermeer) ma mai il battesimo artistico dell’opera. Talché l’operazione di falsificazione  riesce solo se si riesce a far credere che l’opera fu così voluta dell’artista falsificato.

Terza: le opere dei bambini. Si pensi: nei Musei d’arte non c’è nessun bambino. Ci sono dei pittori che dipingono magari come i bambini (vari Näif ma anche Klee, Mirò ecc.), ma nessun bambino. Ciò che al bambino manca è l’autonoma forza mentale necessaria a dichiarare arte i suoi lavori, ed essendo questa consapevolezza inevitabile per avere l’arte è naturale che nei luoghi dove sta l’arte le loro opere non ci siano. Se ci finiscono, artisti non sono i bambini ma chi per loro dichiara arte le loro opere. Artista non è lo scimpanzé Congo ma Desmond Morris che dichiara artistici i suoi disegni. Verità difficile da accettare? Diceva Einstein che spesso la sua matita era più intelligente di lui. Ci sono verità che spesso l’uomo medio ( il Mittel Mensch) che è in noi non riesce a pensare, ma ciò non toglie che restino verità.

Sento dire spesso da artisti e critici che ormai occorre uscire da Duchamp. Occorre passare ad altro. Se con ciò si intende dire che si deve accedere all’arte senza passare attraverso queste decisioni puramente mentali credo che ormai si possa convenire con me  che si tratta di una pretesa del tutto assurda, un po’ come se si pretendesse di far logica, by-passando, che so, il principio di non contraddizione. Qualcuno ritiene che se ne esca spostando l’attenzione dagli oggetti (in fondo Duchamp ha lavorato su oggetti) ai gesti, ai comportamenti, ma il problema non è una diversa segmentazione della materia (anche il gesto è materia) è che è la materia in generale (bruta o lavorata che sia) a non avere in sé l’artisticità. Anche il gesto dovrebbe essere assunto all’arte concettualmente. Il che non vuole dire affatto che ogni new entry nell’arte sia poi, solo per questa sua nascita concettuale, significativa. Anche qui vale la legge di Darwin: una volta nata all’arte in tal modo l’opera, nell’arte, dovrà dimostrare di avere il diritto di starci, instaurando relazioni, smuovendo senso, sia all’interno che all’esterno dell’arte stessa, fuori da ogni déjà-vue o epigonismo. Ci mancherebbe! Nascere è la condizione necessaria per farsi valere, ma non è affatto la condizione sufficiente, nemmeno nell’arte.

[1]   F. De Saussure, Corso di linguistica generale, Bari, Laterza, 1968, p.9.

[2]   L.J.Prieto, Sull’identità dell’opera d’arte in “Studi di Estetica” n. 7, 1985, pp. 9-20.

[3] I. Asimov, Il libro di fisica, Milano, Mondadori, 1986, p. 419.

[4] Mi riferisco alla risposta che Claudio Magris diede a Tullio Pericoli che lo sollecitava ( “Corriere della sera” del 21 settembre 1999) a  prendere posizione circa l’incomprensione di alcune operazioni del famoso gallerista Leo Castelli da parte del pubblico e della inopinata meraviglia dello stesso Castelli di fronte a queste reazioni impreviste del pubblico di cui Magris aveva parlato pochi giorni prima (“Corriere della sera” del 12 settembre). In questa risposta Claudio Magris ipotizza appunto la possibile presenza, nell’arte contemporanea, di deplorevoli mistificazioni.

 

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