A segno, sull'opera di Riccardo Licata
di Leonardo Conti
Al sorgere dell'attività artistica di Riccardo Licata, a cavallo della metà del XX secolo, l'informale, nelle sue molteplici declinazioni poetiche, è uno dei movimenti dominanti nello scenario artistico occidentale. Tra i motivi fondamentali di questo ampio atteggiamento culturale vi è il rifiuto di ogni collegamento con il retaggio della tradizione, della storia stessa[1]. Il critico "militante" Michel Tapié, nel 1952, affermava che l'obiettivo del clima informale era di fare un'"art autre", svincolata cioè da ogni legame con il passato.
Vi è un'ansia di ricostruzione, fondata sulla necessità di nuovi valori, in grado di sopperire all'ormai vacua idealità di fine Ottocento, naufragata nei conflitti mondiali. In questo clima di generale rigetto e secessione, tuttavia, alcune derivazioni poetiche vanno rintracciate, per l'importanza che avranno nel riannodarsi all'incipit della ricerca licatiana. Tralasciando certa analisi cubista, il coinvolgimento espressionista e la provocazione dada, penso soprattutto all'influenza sull'informale dell'automatismo e biomorfismo surrealista[2]. Se, infatti, al surrealismo mancava del tutto il fremito del rapporto con la materia, è lo stesso surrealismo che farà dono all'informale del segno. Una sottile, spesso contaminata, linea di demarcazione è stata rintracciata tra informale materico ed informale segnico: alcuni artisti resteranno prevalentemente materici, come Fautrier, Dubuffet, Burri, Tápies e Riopelle, altri avranno un predisposizione al segno come Hartung, Mathieu, Michaux, Wols, Masson.
Informale si contrappone ad astrazione (dal latino ab(s)-traho, tiro fuori), anche se spesso, da un punto di vista terminologico, verrà fatta confusione. Astrazione è intesa come allontanamento ideale dalla materia. Informale è il contrario: è il gettarsi nella materia, percependo l'angoscia esistenziale dell'esserci. Non esistono però programmi in questa stagione dell'arte contemporanea, c'è un sentimento profondo ed è il senso della crisi della ragione come fondamento del telos, della finalità del mondo occidentale. Il nazismo è sorto nel mondo della ragione, usando la ragione ha cercato di defraudare l'uomo della sua libertà, gettandolo nell'incubo della guerra. Di conseguenza, ora, nell'opposizione filosofica tra noumeno e fenomeno è il secondo a divenire fondamento della realtà. Quel fenomeno è, nella stagione informale, la materia e la materia è storia, che si svolge diacronicamente. Nella materia dunque c'è la memoria, anzi, come ha detto Bergson, essa è memoria (matière-mémoire).
In uno scandaglio inconscio della materia l'artista può trovare un linguaggio originario, un magma primordiale in cui trovare una nuova autenticità. L'autentica (e non posticcia) "matericità" informale è ferita nel corpo e nello spirito, è simile al fango che d'inverno inghiotte le macerie da cui ricominciare, in cui affondare le braccia e le ginocchia per provare a ricostruire un mondo possibile. E' così che la torbida materia del reale si è solidificata nelle "alte paste" di Fautrier e che l'ansia schizoide dello spirito segna e graffia, attraverso la sismografica sensibilità di Hartung. C'è insomma, in quegli anni, il palpabile senso di crisi esistenziale che Pietro Chiodi ha così lucidamente delineato: "La guerra, l'odio, la distruzione, il tradimento, la sconfitta, l'amara vittoria, facevano emergere gli scogli perennemente frapposti tra il mare dell'esistere ed il porto dell'assoluto: la morte, l'errore, la colpa, il nulla, l'impotenza, il tempo".
E' in simile contesto che la poetica del giovane Riccardo Licata si viene configurando. Sin dal principio il suo è un desiderio di trovare, con l'entusiasmo del novizio, un nuovo linguaggio, in grado di oltrepassare gli inquietanti marosi dell'informale. Sente il bisogno di uscire dallo scacco, di non rimanere intrappolato in un'improponibile "maniera". Del resto l'orizzonte culturale di Licata è vasto e, come ha acutamente rilevato Giovanni Granzotto, risente degli influssi luministici del colore, appreso nelle amate calli veneziane e della lezione dei coetanei spazialisti, rappresentanti dell'ala più antimaterica dell'informale. Anche se a mio avviso Licata non apparterrà mai in senso stretto alla "corrente" spazialista, da quei confronti veneziani avrà appreso indelebilmente che la conquista dello spazio reale procede parallelamente alla costituzione di uno spazio mentale.
Ai suoi esordi, dunque, la pittura di Licata si misura con la necessità di ricostruire una base di creatività, ormai insofferente verso le certezze infrante, ma disorientata nel "mare dell'oggettività" della materia. In una prospettiva semiologica, l'artista ventenne si trova di fronte al dilatarsi del momento poietico (del fare l'opera), poiché non dovendosi più conformare ad una prassi di materiali dati, deve affrontare la ricerca dei suoi materiali: la fase del reperimento si mescola alla fase strettamente creativa e spesso la modifica. Eppure, da un punto di vista operativo, Licata sceglie subito. Le direzioni di ricerca tra loro in relazione, che più sente a sé congeniali, sono il segno, così vicino ad un controllato gesto, la padronanza dello spazio, inteso come luogo in cui il gesto accade, ed il colore, costantemente rivissuto come memoria inobliabile. E la memoria è l'elemento che ritorna, che connette le tappe del suo viaggio, nella frastagliata delineazione dei confini della sua terra culturale, del suo mondo. L'orizzonte si sposta continuamente nella consunzione del tempo e la vittoria sullo spazio e sul tempo non può avvenire che in un'attività di conservazione dello spazio e del tempo.
Seguendo una ricognizione antologica approfondita, già nei primissimi anni Cinquanta, viene delineandosi nelle opere del giovane artista una situazione embrionale, volta a convogliare le tessiture e i grovigli delle sue superfici in "punti focali, in cui è il segno (.) ad emergere e a costruire una nuova trama di accadimenti spaziali"[3]. Alla materia pittorica l'artista rinuncia completamente: egli cerca un suo varco nell'indeterminazione e decide di costituirlo sulla superficie, rifuggendo quasi totalmente anche dalla dimensione prospettica. In questo la sua è una pittura principalmente testuale, dichiarante un preciso limite di ricerca. Sono del resto affini i due infiniti della progressione e della suddivisione.
Il segno che inizialmente appare nelle opere di Licata è il cosiddetto
fig. 1 Albero-totem |
"albero-totem" (fig.1*) o "albero-nota musicale", destinato a divenire una cifra inconfondibile e ritornante nell'arco di tutto il suo percorso. La forma di questo segno sembra sorgere da un'agglutinazione della più ampia, anche se circoscritta, gestualità dei grovigli e delle concatenazioni di tracciati, cui l'artista si abbandona nei primissimi anni Cinquanta. L'automatismo della mano, che inizialmente dilaga sulla superficie, in turbini alimentati da potenti forze talvolta centrifughe ed altre centripete, tende a isolare campi di accadimento in cui il segno-gesto conserva il minimo di energia di attuazione. La mano di Licata si abbassa sulla superficie dal basso verso l'alto, poi ridiscende ritmicamente e si sposta prima a sinistra e poi a destra. Accade così la prima vera e propria epifania testuale, in cui si realizza una stabilizzazione espressiva del gesto, in una sorta di creazione di un "concetto manuale". Non è la prima volta che questo particolare segno appare nella storia della scrittura: ha notevoli affinità con il pittogramma rappresentante i culmi di cereali nella cultura di Harappa della Valle dell'Indo, sviluppatasi tra il 2200 e il 1700 a.C.; esisteva nell'alfabeto ionico di Mileto e nell'alfabeto etrusco del VII secolo a.C. Senza cercare improbabili analogie o motivazioni semantiche, resta indubitabile il frammentario ma ridondante riapparire formale di questo segno. Come le scritture arcaiche avevano una fondamentale ingenuità ed immediatezza, se non parziale casualità segnica, l'Albero-totem appare quasi da sé, come ictus minimo. Licata in quel momento non sa quale sarà lo sviluppo di più di cinquant'anni di attività artistica, non conosce ciò che ora noi, con volo radente, vediamo in uno sguardo antologico, a quel tempo il suo segno si erge unico e isolato. Al suo apparire, nel 1953, Licata ha ottenuto la prima conquista: ha costituito un suo elemento di equilibrio, manipolando l'informe e dibattendosi nelle dinamiche libere ed indeterminate della superficie pittorica. Attraverso poi la distribuzione spaziale del suo segno ed il suo accumulo, egli ripercorre le declinazioni energetiche e coloristiche nelle quali presagiva il naufragio degli epigoni dell'informale, infatuati della "materia". Licata non confonde la tavolozza con il quadro e sa che il credere che la materia possa parlare da sola rappresenta una forma di pericolosa cecità. La sua pittura, fortemente bidimensionale, sembra rifuggire dall'ormai logoro aggettivo "materico", abusato nelle poetiche e nelle dissertazioni critiche contemporanee. Con il suo segno-gesto Licata ora può fare vela verso nuove rotte. E' in questa elaborazione di un elemento di partenza, in questa "vocalità visiva di una nominazione originale"[4], con mutevoli valenze ritmiche, spaziali e coloristiche, che mi sembra di potere scorgere le maggiori assonanze con le ricerche che stavano avvenendo in quegli anni nel campo delle avanguardie musicali. Ben al di là dunque delle derivazioni dalla musica, considerata come una "fonte d'ispirazione"[5], credo che le maggiori corrispondenze possano ascriversi ad una comune ricerca di nuove basi per la costituzione di un linguaggio.
Ma occupiamoci ancora, per qualche attimo, di alcune elaborazioni e modificazioni segniche licatiane.
Anche se l'Albero-totem ritornerà sempre come fondante elemento originari
o, dal momento che in quest'arte la forma è continua formazione della forma, anch'esso attraverserà notevoli evoluzioni morfologiche, che, nei vari stadi, raggiungeranno caratteri di considerevole stabilità (fig.2).
fig. 2 Alcune evoluzioni dell' Albero-totem |
fig. 3 Alcune conformazioni del Giogo-occhiello |
Già dalla metà degli anni Cinquanta, poi, è affiancato da numerosi altri segni, con diversi gradi di ridondanza. Tra questi uno sarà destinato a ritornare con continuità nelle opere licatiane: è il segno Giogo-occhiello (fig. 3), con struttura costante ma a configurazione variabile. Questo segno, che va considerato comunque unico e non scomponibile[6], è formato da due tratti verticali paralleli, attraversati da un terzo orizzontalmente, ma mai con un angolo d'incidenza di 90°, nella conservazione di una persistente obliquità. L'occhiello può posizionarsi, prevalentemente con il vertice in basso, su tutta la lunghezza del tratto orizzontale, spesso inglobando uno dei segmenti superiori dei due tratti verticali. E' sostanzialmente un segno evoluto, in grado di adattarsi alle diverse relazioni spaziali sulla superficie.
Un altro segno, ad alto grado di ridondanza, è l'occhiello verticale (fig.4) che, dal suo apparire nei primi anni Settanta, non abbandonerà quasi più le composizioni dell'artista.
fig. 4 "Occhiello verticale" |
fig. 5 "Spezzata" |
Insieme alla spezzata (fig. 5) può considerarsi un segno a forte propensione aggregativa: molteplici semiogrammi derivati di Licata si strutturano come evoluzioni o aggregazioni di questi segni. Ma se talvolta è identificabile la presenza di entrambi, frequentemente essi compaiono come elementi stabilizzanti di altri eventi gestuali contingenti. E' infatti la situazione spaziale, o cromatica[7], a costituire il campo di accadimento in cui l'imprevedibile epifania segnica si realizza: essi vi appaiono come elementi di appoggio, appartenenti ad una sorta di mitologia consolidata. Vi sono poi molti altri segni che possono essere rintracciati con notevole regolarità, ma credo che questi quattro siano da considerarsi, lungo tutto il percorso licatiano, come primari. Esiste poi una piccola sottoclasse di segni, costituita da tre elementi, di notevole importanza per ogni semiogramma derivato o evoluto: li chiamo per comodità segni articolativi, tutti ad orientazione spaziale variabile e sono il segno a emme, il segno a triangolo e il tratto singolo (fig.6). E' interessante notare come essi compaiano spessissimo nei segni evoluti e derivati più stabili. Gli esempi più significativi credo si possano rintracciare nella catena evolutiva del segno albero originario, al quale via via s'inglobano, mescolano o appoggiano.
fig. 6 segni articolativi (ad orientazione variabile) |
Lungo l'arco degli anni Cinquanta, mentre le ancora instabili modificazioni del nascente linguaggio procedono lentamente, Licata si occupa dell'organizzazione sequenziale e spaziale degli elementi, che progressivamente conquista alla sua gestualità. La propensione compositiva è "per fasce e scomparti"[8], evidenziando indubitabilmente una vocazione linguistica, da una parte, e musicale dall'altra. In questa sede occupiamoci, per un momento, della seconda.
Nell'agglomerazione dei suoi segni in scomparti, l'artista istituisce dei campi di relazioni simultanee e non lineari. La percezione è perciò globale, simultanea appunto, e non successiva o discorsiva. Vi è cioè la conquista di un istante complesso, concretamente esistenziale anziché esteriormente temporale. Per meglio comprendere questo concetto d'istante può essere utile riflettere sulla concezione bipartita del tempo: da un lato crediamo che il tempo vada costantemente avanti (è il tempo dello storico per intenderci), dall'altro sentiamo che la storia è fatta di attimi interiori, eternamente presenti (è il tempo del mistico). Credo che negli scomparti a simultaneità segniche di Licata sia il secondo a realizzarsi, con interessanti affinità alla bergsoniana "durata interiore". Analoghe riflessioni teoriche e innovazioni poetiche sono quelle verificatesi, alla metà del secolo, nell'ambito dell'arte più consustanziale alla natura del tempo: la musica. Scollegandosi dal sistema tonale, inteso come decorso narrativo, i compositori della Neue Musik, partiti dalla conquista del rumore (il materiale sonoro), si sono dedicati alla costituzione di nuovi suoni (anche attraverso sperimentazioni elettroacustiche), non più sottomessi alle gerarchie stabilite dal sistema temperato della tradizione musicale. Del resto, già a proposito di uno dei padri putativi delle avanguardie musicali come Claude Debussy, si era potuta osservare una dissoluzione della "gerarchia che non si trovi implicata nell'istante musicale stesso"[9]. Come ha scritto Philippe Albèra il nuovo "suono non è più considerato come una funzione motivica, tematica, armonica e formale, un colore o un effetto aggiunti alla struttura, ma, in quanto forma immediatamente sensibile come elemento avente un significato autonomo, in grado di creare una forma musicale specifica"[10]. In quegli anni, compositori come Boulez o Stockhausen costituiscono delle entità sonore, prelevate dall'indeterminatezza del rumore, per organizzarle in strutture generanti ogni volta nuove gerarchie[11], spesso non concatenate nello scorrere del tempo. Come nella ricerca di Licata, anche questo modo di considerare il linguaggio musicale, spesso dedito alla simultaneità dei suoni, ha a che fare con una spazialità interiore, vicina al concetto della bergsoniana durée. Vi sono, dunque, affinità interessanti tra le elaborazioni dei compositori d'avanguardia e l'evoluzione della segnica licatiana. Quest'ultima, del resto, in rapporto ai vari supporti scelti dall'instancabile attività sperimentale del maestro, è estremamente varia ed affascinante e credo sarà utile approfondirne in altra sede la portata artistica[12].
Avviandomi alla conclusione di questa breve e parziale riflessione, penso sia importante considerare il grado di referenzialità dei semiogrammi licatiani. Già in altra sede ho definito questa poetica come totalmente referenziale, anche se illeggibile da un punto di vista semantico in senso stretto. Qui, ovviamente, la rappresentazione della realtà non è direttamente figurativa[13], bensì avviene ad un livello relazionale tra l'interiorità stratificata nell'esperienza e il rivolgersi costantemente attuale dell'uomo nel mondo. All'ars imitatio rei si sostituisce una struttura soggiacente che connette le esperienze vissute. Vi è un puro fluire, uno scambio osmotico ininterrotto tra l'artista e il mondo. In altre parole, il contatto delle opere con l'ambiente esterno è dovuto ad un'attenzione inclusiva dell'artista, per cui le relazioni tra i suoi segni sono in un'ulteriore relazione con gli accadimenti cui fenomenologicamente egli si sottopone[14]. In questo senso le opere di Licata sono intrecciate nel mondo e del mondo rappresentano un "aprimento" o svelamento: in esse, heideggerianamente, il Mondo si mondifica (Welt weltet). L'arte è un qualcosa che si vive e non si racconta. Anche l'approccio conoscitivo verso le opere di Licata non può mai essere lineare o narrativo ma sempre olistico. Ciò che conta in queste progressioni di relazioni tra segni è che non trovano conclusione ma ricominciano sempre: ogni opera è una scoperta, è un inciampare ed un rialzarsi, ancora, su una nuova forma, ancora, è uno svelarsi, un riconoscersi ancora. Così come la realtà è sempre diversa da ogni schema preordinato, il linguaggio licatiano ha un'immediatezza che si oppone ad ogni formulazione schematica del suo significato. Ogni suo lavoro è più vero della realtà, perché nella forma-immagine compiuta, si è liberato dalla casualità ed indeterminatezza che caratterizza l'esperienza quotidiana. Eppure, dell'esperienza detiene con riserbo l'indecidibilità semantica: essa non è circoscrivibile ad un senso, ma il senso (o i sensi) la travalicano costantemente. La scrittura di Licata ha tutta la portata di ciò che è al di qua e al di là della scrittura[15]. Il colore, poi, che ne è parte integrante, assolve alla funzione che il silenzio ha nella musica: è un'intercapedine tra suono e suono, crea una distanza mentre contiene ed in questo è parte dell'esserci.
Le opere di Licata non vanno considerate come un racconto autobiografico, nel quale si fissa ciò che già è accaduto anche un attimo fa, bensì sono i tracciati di un vitale movimento che si vive e si modifica attimo per attimo. La personalità stessa, fortemente umana dell'artista si inserisce, lui inconsapevole, nel quotidiano ed instancabile lavoro di affinamento della sua arte e quello stesso lavoro instancabilmente forgia la sua personalità. In senso forte, dunque, questa scrittura è un modo dell'autocomprensione, è hegelianamente Erfharung, un'esperienza estetica che modifica colui che la fa. Questa scrittura non rappresenta né esprime qualcosa d'altro rispetto a ciò che è, e cioè lo storicizzarsi costante dell'esistenza: perciò resiste nella sua ineluttabile illeggibilità. Già Eraclito, del resto, diceva che la Natura ama nascondersi.