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Una vita di "provincia"*
Di Alessio Aymone

Uno dei principali saggi sociologici di Alfred Schutz, filosofo e sociologo austriaco scomparso intorno alla fine degli anni '50, è intitolato "Sulle realtà multiple" (1) e fa parte di una celebre raccolta di scritti editi nel 1979. Il titolo del saggio è evidentemente significativo: esso non rimanda ad una realtà unica e sola, statica e monolivellare, ma ad un mondo stratificato, pluridimensionale, dinamico, i cui diversi strati sono ugualmente presenti ma non altrettanto ugualmente affiancati. Infatti, pur accettando il filo conduttore  proposto da William James, per cui esistono diversi e vari ordini di realtà (che egli chiama sottouniversi)(2) presenti in un numero infinito e caratterizzati ciascuno da uno specifico e distinto modo di esistenza, Schutz ritiene che in particolare sia il mondo della vita quotidiana quello da considerarsi realtà ultima e preminente. Ciò che accomuna, quindi, Schutz a James è la convinzione per cui "realtà significa semplicemente rapporto con la nostra vita emotiva e attiva" (3), da cui ne deriva l'opinione per cui affermare la realtà di una cosa equivale a sottolineare il legame che la lega a noi. La realtà del mondo della vita quotidiana risulta essere dominante non solo perché è l'ambiente in cui, volente o nolente, l'uomo è inserito sin dalla nascita ma anche e soprattutto perché è il contesto, lo sfondo, il palcoscenico, oltre che l'oggetto, delle sue azioni e interazioni, finalizzate alla realizzazione dei progetti e delle mete che intende perseguire insieme con i suoi simili. L'abbiamo anche definita "ultima" dal momento che è il mondo a cui si torna sempre e in quanto tutte le altre non sono che quasi-realtà sue derivate. La logica appena descritta risponde alla necessità che l'uomo ha di eseguire i suoi piani e di adoperarsi al fine di realizzarli, non solo entro il mondo ma anche su di esso, modificandolo in quelli che sono i suoi oggetti e i reciproci rapporti che li legano. Oltre che preminente, dominante e ultima, la realtà della vita quotidiana dimostra di essere anche inevitabilmente intersoggettiva in quanto l'uomo realizza i suoi progetti operando sì su cose inanimate ma anche - e si guardi oggi alle ormai normali gerarchie di potere - sugli altri uomini suoi simili, a partire dai quali agisce e re-agisce, ai quali è legato da relazioni sociali e con i quali condivide il medesimo mondo. Questa attività di manipolazione degli oggetti, delle cose e degli uomini, unita ai movimenti corporei compiuti in funzione di essa, rappresentano ciò che Schutz ha denominato "lavorare" e che ha dichiarato essere una specifica forma di spontaneità, tipica della vita quotidiana. In conclusione di questo percorso, potremmo ridurre notevolmente il campo ridefinendo il mondo della vita quotidiana come il mondo dell'attività lavorativa.

Proviamo a riflettere per un momento sull'estrema attualità della questione trattata da Schutz: in un'epoca, quella attuale, in cui il lavoro viene sentito come un bisogno fisiologico e inscindibile dell'uomo, come uno strumento impiegato per mettere in luce le sue capacità, non risulta poi così impegnativo per noi aderire alla sua posizione, che guarda all'attività lavorativa come a una summa di azioni fisiche, corpo e intenti. Non è forse questo oggi il lavoro? Senza minimizzare la sua importanza, potremmo infatti riassumerlo come un corpo che esegue dei movimenti per soddisfare degli scopi. Pur tuttavia, Schutz appare oscuro e non molto convincente per quanto concerne numerosi aspetti: innanzitutto, se riduciamo il mondo della vita quotidiana all'attività lavorativa corriamo il rischio di trascurare alcuni problemi basilari. Possiamo forse tralasciare il percorso antecedente con cui l'uomo si è costruito i propri progetti, il modo con cui è giunto a determinare la propria particolare metodologia di manipolazione delle cose e degli altri, il modo con cui ha deciso di rapportarsi a questi ultimi? La posizione di Schutz in relazione a tali quesiti può essere dedotta leggendo fra le righe del suo saggio: l'uomo agisce perché mette in atto il cosiddetto meccanismo dell'epoché, cioè sospende il dubbio che il mondo e i suoi oggetti siano diversi da come effettivamente appaiono a lui. Egli sta al mondo, quindi, con una certezza non da poco. Inoltre il suo Sé, il Sé che lavora, è totale e indiviso, dotato di una specifica tensione della coscienza, originata a sua volta nella piena attention à la vie e ai suoi requisiti. Sospensione del dubbio e tensione della coscienza contribuiscono a delineare meglio lo stile cognitivo caratterizzante il mondo della vita quotidiana.

Rimane tuttavia ancora insoluta una questione: se è vero - come dice Schutz - che "è caratteristica dell'atteggiamento naturale dell'uomo il dare per scontati il mondo e i suoi oggetti finché non si impone una prova contraria" (4), viene naturale chiedersi cosa possa allora accadere all'uomo nel caso in cui questa prova contraria si verifichi. E siccome non si tratta di un'ipotetica o lontana eventualità, rimane il dubbio di quanto possano influire su di lui le possibili mancate realizzazioni di un progetto o le inevitabili ed eccessive ambizioni esercitate da un uomo sugli altri. A questo dubbio possiamo solo rispondere che il nostro sociologo crede nella possibilità della presenza dei due fenomeni sopra citati ma non fornisce un esauriente approfondimento al problema: tiene a precisare solamente che l'uomo, nel proprio atteggiamento naturale, ha un interesse emotivo verso i risultati della sua azione. Ma se questi sono negativi? Cosa fa? Si precipita in un'altra realtà? Per farla breve, Schutz dà l'idea di avere costruito un grattacielo enorme ma solo apparentemente ben fondato, a cui basta un alito di vento per cominciare a barcollare; dà l'idea - per dirla in termini canori - di aver placidamente adottato l'etica del "finché la barca va lascia andare". Senza tralasciare che, dalle parole di Schutz, pare che l'uomo possa plasmare il mondo nel modo in cui vuole! Cosa a cui personalmente ognuno di noi può aspirare ma che nel complesso è motivo solo di caos.

Riprendendo il filo iniziale del discorso, si era cominciato questo scritto ricordando dell'esistenza di realtà multiple, di sotto-universi, altrimenti detti da Schutz "province finite di significato", perché ciò che le costituisce è "il significato delle nostre esperienze - di quelle che caratterizzano la nostra esistenza in una determinata provincia -  e non la struttura ontologica degli oggetti" (5). Fra queste Schutz certo non dimentica il mondo dell'arte e quello della contemplazione scientifica, pur soffermandosi - cosa che invece noi non faremo - sul mondo dei sogni, su quello dell'immaginario, del fantastico e su quello dell'esperienza religiosa. Sicuramente non li sottovaluta ma dimostra di ritenerli secondari, come fossero strati derivati, esterni, lontani da un ipotetico nucleo centrale. Non nega la loro esistenza, né tanto meno contesta la loro essenza, cioè il loro essere province finite; pur tuttavia non ritiene siano realtà dominanti. Ciascuna di esse possiede un proprio specifico stile cognitivo, al quale ogni forma di esperienza possibile deve essere coerente, oltre che compatibile con l'intero sistema che tutte quante le raccoglie. Ognuna necessita di un preciso accento di realtà, che non è quello tipico del mondo dell'attività lavorativa.

Prendiamo in esame il mondo dell'arte: come accade per qualsiasi altra provincia di significato, esso è dotato di un suo stile di vita particolare, di una sua specifica epoché, di una determinata forma di spontaneità, di un particolare Sé e di una precisa prospettiva temporale. Ci consenta il lettore di aprire una breve parentesi critica sul metodo analitico di Schutz che riduce la realtà, qualunque essa sia, ad alcune essenziali caratteristiche. Pensiamoci bene: è forse possibile determinare precisamente le regole costitutive di un mondo nel quale possono potenzialmente esistere illimitate situazioni e azioni differenti? Se così fosse, non credete anche voi che sarebbe un gioco da ragazzi per il sociologo studiare la società? Ora, risulta evidente che artisti non si nasce ma lo si diventa in conseguenza di un desiderio, di un progetto spontaneo, voluto e non imposto. Appare altrettanto evidente che non si è artisti sempre, in ogni istante della giornata, ma solo nel momento in cui chi produce arte prende un foglio e comincia a comporre, o afferra un pennello e comincia a dipingere, o viene intervistato da un critico, o presenta le sue opere al pubblico. Da ciò ne deriva la parzialità e non totalità del suo Sé, oltre che una specifica prospettiva temporale, che non può essere identificata con il tempo comune, tipico della vita quotidiana, ma - secondo la nostra opinione - con una temporalità interiore a chiunque entri a far parte del mondo dell'arte. Prima di tutto l'artista è un uomo, ovvero una persona che vive nel mondo, insieme ai propri simili, agisce secondo i propri piani personali, modificando le cose e gli altri. In questo senso è impossibile negare che anche il fare arte sia una tipologia di attività lavorativa. Schutz non contesta il fatto che l'artista, operando, modifichi il mondo: cosa assolutamente vera, perché, facendo arte, egli produce qualcosa che prima non c'era e che ora c'è. Tuttavia, in questa trattazione, qualche incongruenza tale da non rendere il mondo dell'arte una realtà dominante, inevitabilmente sorge: di certo non possiamo credere che l'artista condivida lo stesso mondo con gli altri uomini. Semmai lo condividerà con gli altri artisti e con il pubblico che funziona da destinatario delle sue opere, ma comunque l'oggetto di questa sua condivisione non sarà mai il mondo in sé, bensì solo ed esclusivamente il mondo dell'arte. Non a caso quest'ultimo non rappresenta una dimora stabile per l'artista ma solo un contesto momentaneo, cosa che invece non accade per il malato di mente o per il sacerdote le cui realtà permanenti sono rispettivamente il mondo della follia e quello della religione. Quella dell'arte è quindi una realtà limitata e non estesa, assunto che siamo in grado di convalidare se riflettiamo sulla domanda: siamo forse tutti artisti? Beh, in un certo senso sì, se pensiamo che ognuno di noi è produttore di ciò che costruisce per sé o di ciò che scrive, così come noi siamo - non ufficialmente, però - gli unici titolari dei diritti d'autore di questo testo. Ma nel pieno senso del termine non tutti lo siamo. Ciò però non implica che solo l'artista possa avere accesso al mondo dell'arte: qualsiasi persona può temporaneamente godere di questo diritto. Facciamo un esempio: ipotizziamo di passeggiare per le sale di una mostra d'arte, di rivolgere talvolta il nostro sguardo su ciò che l'artista ha appeso al muro per noi. Abbiamo volutamente detto "talvolta": questo significa che i nostri occhi potranno essere rivolti per un momento ai quadri appesi, il momento successivo ai muri sui quali sono stati attaccati,  quello ancora dopo alla persona che ci sta affianco o al trambusto che c'è nella sala, per ritornare infine ad ammirare qualche altra opera. Adottando questo atteggiamento apparentemente naturale non facciamo altro che saltare continuamente dal mondo della vita quotidiana a quello dell'arte. Quale il confine fra i due? Riflettiamo: l'unico elemento che separa il contenuto del quadro dal resto della parete è la cornice, il "trauma", il "salto" (6) che ci costringe a rompere i confini della finita provincia di significato in questione e a spostare l'accento della realtà su un'altra. Come ha affermato anche Gregory Bateson, "la cornice di un quadro dice all'osservatore che nell'interpretare il quadro egli non deve impiegare lo stesso tipo di ragionamento che potrebbe impiegare per interpretare la carta da parati esterna alla cornice" (7). Se riusciamo, quindi, ad agire in modo tale che il nostro campo visivo sia limitato a ciò che è dentro la cornice - operazione non così semplice - lì troveremo l'arte e avremo accesso all'universo pittorico. Lo stesso discorso può valere per altre forme di arte, come la scultura o la musica? Schutz non le affronta ma ci è lecito credere di sì. Dove ha inizio il piedistallo che sorregge la scultura e dove comincia il pentagramma a cinque righe, lì riceviamo il segnale dell'estrema vicinanza al mondo dell'arte. Ultima questione: essa ha come oggetto il caso in cui due persone contemplino la stessa opera d'arte. Quando ci troviamo a discutere di un quadro insieme con un altro che lo osserva, stiamo "lavorando" con l'altro grazie al fatto che entrambi abbiamo subito il medesimo trauma o compiuto lo stesso identico salto dalla provincia finita di significato della vita quotidiana a quella dell'arte. Un'esperienza, questa, che in realtà viviamo spesso: si guardi al momento in cui si alza il sipario all'inizio di uno spettacolo teatrale, a quello in cui ci addormentiamo o all'istante in cui ci accingiamo a giocare con un bambino. Abbandoniamo, per un periodo di tempo momentaneo, la realtà quotidiana rispettivamente a favore del mondo del palcoscenico, di quello dei sogni o di quello del gioco. Goffman sembra dello stesso parere quando, a proposito del chirurgo, ha saggiamente scritto che "egli può essere un padre, un marito, o un tifoso di baseball a casa sua, ma, nel corso di un'operazione chirurgica, è una cosa sola e basta, un chirurgo". (8)

Infine, due parole sul mondo del teorizzare scientifico: innanzitutto, esso non serve a nessuno scopo pratico. Il suo fine non è quello di dominare il mondo, ma di osservarlo e possibilmente di comprenderlo. Ecco una prima importante differenza rispetto al mondo dell'arte e a quello della vita quotidiana, realtà essenzialmente pragmatiche. Esso è progettato entro una gerarchia di piani stabiliti ed è pensiero intenzionale, essendo la sua intenzione quella di scegliere l'oggetto della sua futura ricerca, esporre il problema in questione e risolverlo. (il P1 e il P2 della formula di Popper) In questo contesto, è doveroso distinguere fra lo scienziato in quanto essere umano che, come tale, agisce e vive la sua vita quotidiana tra gli altri uomini suoi simili e il pensatore teorico che non ha interesse per il dominio del mondo ma per la conoscenza che può raggiungere osservandolo. Lo strumento che lo scienziato adotta per guardare al mondo è, quindi, l'occhio disinteressato (9) (altrimenti detto "occhio innocente"), vale a dire una specifica epoché che mette fra parentesi  punti di vista e opinioni soggettive con l'intento di studiare il mondo senza nuocere ad esso. Si tratta di una specifica attenzione all'universo della vita, che è già pre-dato allo scienziato stesso. Il pensatore teorico, una volta eseguito il salto traumatico nell'atteggiamento disinteressato tipico dello scienziato, che altrimenti non avrebbe avuto nel mondo della vita quotidiana, procede nel suo teorizzare rifacendosi ad esperienze precedentemente sedimentate e meritevoli d'attenzione (la prima T della formula popperiana), attribuibili ad altri scienziati. Non appena stabilito l'oggetto della sua ricerca, "lo scienziato entra in un mondo precostituito di contemplazione scientifica da lui ereditato dalla tradizione storica della sua scienza. Da questo momento in poi egli parteciperà a un universo di discorso che comprende i risultati raggiunti da altri, problemi esposti da altri, metodi elaborati da altri." (10) Non a caso il pensiero teorico è sempre soggetto a revisione permanente: deve essere ritenuto transitorio, può essere rifiutato, disfatto, eliminato, modificato, falsificato, nonché corretto senza provocare nessun mutamento nel mondo esterno. (il momento della seconda T e della doppia E) Il Sé di chi pensa teoricamente è un Sé certamente non totale, ma parziale, che assume un ruolo, quello teorico, e che abbandona il suo punto di vista soggettivo, caratteristico nella realtà quotidiana. Inoltre, i postulati del teorizzare scientifico devono dimostrare di essere coerenti con lo stile cognitivo della provincia a cui indiscutibilmente appartengono, oltre che compatibili con l'intero sistema delle proposizioni scientifiche. Rimane da considerare quale sia la specifica prospettiva temporale del mondo dello scienziato: il Sé che teorizza volge la sua attenzione non solo al passato, cioè alla storia delle sue pre-esperienze e delle sue sedimentazioni, ma anche al futuro, cioè agli orizzonti aperti del problema che è intento ad affrontare e ai futuri altri problemi che necessariamente dovranno essere risolti. Sembra quindi che esso non conosca la dimensione temporale del vivido presente, il momento cioè dei movimenti corporei finalizzati alla realizzazione di uno stato di cose progettato. Ma, come abbiamo già anticipato, lo scienziato non ha necessità di modificare il mondo: perciò, dei movimenti corporei non saprebbe cosa farsene. E poi "il sé che teorizza è solitario, non ha alcun contesto sociale, sta al di fuori dei rapporti". (11) Ma attenzione! Proviamo a domandarci: allora come può il pensiero teorico essere comunicato? Dato per assodato che lo scienziato fa ricorso a un universo di discorso che gli è dato in precedenza e che è il risultato degli atti di teoria di altre persone, al fine di comunicare il suo pensiero teorico ai suoi colleghi, dovrà necessariamente volgersi al mondo della vita quotidiana, che costringe l'uomo ad assumere il suo comportamento naturale - non è l'espressione giusta ma la adottiamo per evitare ripetizioni - e ad abbandonare il suo atteggiamento teorico. Solo in questo contesto comunicativo, costituito di rapporti sociali e temporalmente situato nel presente, potrà riferire agli altri i risultati dei suoi studi, solo lì tornerà ad essere semplicemente un uomo. (12)

 Note

 *: nel senso di provincia finita di significato.

(1) A. Schutz, Saggi Sociologici, a cura di A. Izzo, Torino, UTET, 1979

(2) Nei testi di William James compaiono anche con il nome di sub-universi. Si veda in particolare Principles of Psychology, vol. 2, cap. XXI

(3) Cfr.  A. Schutz, "Sulle realtà multiple", in A. Schutz, Saggi Sociologici, pag. 181, cit.

(4) Cfr.  Ibid.

(5) Lo spunto viene da E. Husserl, Ideas, General Introdution to pure Phenomenology, Londra-New York, 1931, sez.55, pag. 168, cit.

(6) Si tratta di un termine adottato da Kierkegaard.

(7) Cfr. G. Bateson, "Una teoria del gioco e della fantasia", (parte III - sez. 2) in G. Bateson, Verso un'ecologia della mente, traduzione di Giuseppe Longo, Milano, Adelphi Edizioni, 1976, pag. 228, cit.

(8) Cfr. E. Goffman, "Distanza dal ruolo", (cap. II) in E. Goffman, Espressione e identità, Traduzione e introduzione di Paolo Maranini, Milano, Arnoldo Mondatori Editore, 1979, pag. 117, cit.

(9) Schutz adotta l'espressione  occhio disinteressato impiegata anche da F. De Saussure.

(10) Cfr. A. Schutz, "Sulle realtà multiple", in A. Schutz, Saggi Sociologici, pag. 223, cit.

(11) Cfr. Ibid., pag. 226, cit.

(12) Così come solo colui che non sogna più può comunicare agli altri le sue esperienze di persona che ha sognato.

 

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