Bergamo Film Meeting 98
sedicesima mostra internazionale del film d'essai
14-22 marzo
A guardare il programma di questa sedicesima edizione del Meeting, si rimane colpiti dalla varietà delle proposte: film recenti provenienti dal cinema indipendente di tutto il mondo (da quello americano e inglese al cinema di paesi come il Vietnam, il Messico, la Repubblica ceca, l'Olanda e lo Uzbekistan); una ricca retrospettiva sull'opera di Tex Avery; Shakespeare al cinema (seconda parte del ciclo cominciato l'anno scorso); un gruppo di gangster film britannici; la personale di Catherine Breillat; e ancora, anteprime, classici e cult movie. Proprio questa diversità sembra essere la caratteristica principale della mostra, più attenta alle diverse sfaccettature dei tanti modi con cui si è fatto e si continua a fare il cinema, che a una fedeltà a ferree categorizzazioni e idee preconcette. Da qui la voglia di affiancare nel calendario film nuovissimi e film d'annata, film da scoprire o da continuare a scoprire, film d'animazione, film che hanno fatto la storia del cinema e film che forse non la faranno mai. Un invito ad attraversare gli infiniti luoghi d'incontro tra Shakespeare e il cinema, per poi ritrovarsi faccia a faccia con i Bugs Banny e i Droopy di Avery, a lasciarsi coinvolgere nella ricerca dell'estasi cinematografica di Catherine Breillat, o dalla sfida del gangster film giocata tra notazione sociale e malessere esistenziale. Ma anche la possibilità di vedere esempi di cinema indipendente, spesso in bilico tra confini geografici e temporali, però sempre capaci di sviluppare una ben precisa identità narrativa. Magari ricorrendo a una sceneggiatura che sembra caparbiamente decisa a suggerire toni e atmosfere per abbandonarle dopo poche scene. Così accade in The James Gang di Mike Barker, autore di fiction e documentari per la BBC, che proprio a questa alternanza affida il ritmo della storia. L'apertura della quale narrata attraverso lo sguardo sognante di un bambino, immette un punto di vista irreale immediatamente scavalcato dal procedere della vicenda, che mescola senza troppe preoccupazioni realismo sociale e ironia della disperazione, road-movie e spirito fiabesco. O nel caso del lungometraggio del regista praghese Petr Zelenka, Knoflíkari (Bottonieri), dove la variazione si fa processo determinante del film, struttura che lo articola e lo sorregge nei diversi episodi in cui si sviluppa. Collegate attraverso bruschi salti temporali e spaziali, le sei storie che compongono il film sono narrate con una leggerezza ironica e con un gusto del gioco surreale che poco si cura delle regole di verosimiglianza del racconto. Spazzate via le barriere di tempo, di spazio e di ruolo obbligato per i protagonisti, diventa semplice ambientare tutto nella notte del 6 agosto; che sia quella dei due piloti pronti a sganciare la bomba su Hiroshima, o che ci trasporti in un appartamento del 1995, dove la "mania" del bombardamento è questa volta il gioco preferito di una tranquilla e rispettabile coppia. Ma la necessità di incrociare differenti storie e le mutevoli forme che le contengono, può implicare un'idea di trasformazione come abbandono, distacco incolmabile dagli esiti di avvenimenti irrimediabilmente già accaduti. Così il viaggio del protagonista di Ai xuoi Van Ly (Il lungo viaggio), secondo lungometraggio del regista originario di Hanoi Le Hoang, iniziato per poter portare a casa i poveri resti dell'amico morto in guerra, non è che il tentativo sempre prossimo al fallimento di inseguire per trattenere con sé ciò che è ormai passato. Dentro un universo in perenne esodo da se stesso, nel movimento che tutti sembrano compiere senza direzioni precise, emerge quasi una coazione allo spostamento come unica possibilità di abitare in qualche modo la cesura tra il presente e il passato. Se il tema del viaggio e dell'abbandono (di situazioni, di storie, o semplicemente di paesaggi) agisce efficacemente anche nella linearità precisa del film del regista olandese Ben van Lieshout, De Verstekeling (Il clandestino), l'opera prima della regista americana Univers'l, ne introietta la spinta nell'adozione di uno stile tagliente e dinamico e nell'ambientazione nella scena unica di un piccolo centro commerciale. Mentre tutta Los Angeles attende il verdetto su Rodney King (l'uomo di colore picchiato da quattro poliziotti bianchi, tutti assolti) nel microcosmo periferico della città si vivono le molte contraddizioni di una comunità che a fatica contiene un caleidoscopio di differenti prospettive e culture. I disordini che di lì a poco scoppieranno a causa del verdetto, sembrano materializzarsi in anticipo comprimendo i già precari rapporti tra gli abitanti del centro commerciale, e diffondendo un soffocante senso di minaccia che finirà per far implodere l'intera scena. Se la scelta di uno stile fortemente connotato e altrettanto caparbiamente mantenuto fino in fondo rischia di produrre una certa freddezza d'insieme, è anche però opzione che riverbera significativamente sul senso della storia. La realtà della vita del centro commerciale è investita dall'autrice con uno stile rapido e documentaristico, simile nella sua ossessione di registrazione e definizione dell'informazione a quello televisivo, richiamato anche dalla continua presenza di telecamere puntate sulla realtà (quelle che riprendono l'inseguimento della polizia e quella che registra gli scontri all'interno del centro). Ma a questo non corrisponde che una bassa comprensione dell'evento - la consapevolezza dei personaggi di essere coinvolti con quanto sta accadendo è tardiva e insufficiente - e l'ipotesi che le immagini televisive e quelle cinematografiche possono ridursi a segni che si scambiano tra di loro senza mai scambiarsi con qualcosa di reale. Se Univers'l dimostra una certa attenzione al ruolo dell'immagine e dei media in generale nella cultura contemporanea, la corposa sezione dedicata all'opera di Tex Avery (padre geniale di Bugs Bunny, Daffy Duck, Droopy) ha messo in luce la sorprendente sensibilità dell'autore americano, rispetto ai linguaggi dominanti nella società tecnologica e consumistica. Gli oltre settanta titoli presentati coprono tutta la carriera di Avery, dalla metà degli anni '30 a quella degli anni '50, dagli inizi alla Warner Brothers, all'esplosione negli anni alla MGM fino agli ultimi capolavori diretti per l'Universal. Ma soprattutto dimostrano la capacità di Avery di lavorare all'interno dei fondamenti e presupposti della tradizione culturale e cinematografica dei suoi contemporanei, per scardinarli attraverso una riscrittura giocosa e a tratti surrealistica. Erede della comicità parossistica e sregolata delle slapstick comedy, il cinema di Avery ne conserva il senso di provvisorietà del reale, di un mondo messo in scena privo di senso perché privo di ogni unità di misura e di razionalità. Il susseguirsi caotico delle gag in una struttura narrativa che deforma e ingigantisce ogni referente effettivo, permette l'irruzione del fantastico e dell'inammissibile all'interno della normalità quotidiana. Il mondo dei cartoni di Avery è frutto di un rovesciamento iperbolico che si innesta su un immaginario collettivo accettato e riconoscibile, per sottoporlo a una distorsione grottesca che ne dissolve i confini tradizionali. Uso abbondante della parodia quindi, ma anche un costante ammiccamento rivolto allo spettatore, tramite l'apparizione di cartelli, scritte e innumerevoli giochi metalinguistici: dal continuo rivolgersi dei personaggi direttamente al pubblico (I Love to Singa, The Sneezing Weasel, I Wanna Be a Sailor, The Wild Hare, The Crackpot Quail...), alle volte disegnato come parte integrante del film (Daffy Duck and Egghead, Thugs with Dirty Mugs, I'd Love to Take Orders from You, Little Red Walking Hood...), al loro infrangere i confini del fotogramma (Northwest Hounded Police) o apparire nel cartone sbagliato (The Screwy Truant) o ancora ai loro commenti sul film in cui si trovano (Red Hot Riding Hood). L'attacco continuo e dichiarato alle convenzioni classiche della narrazione, l'uso della citazione e della fusione di testi esterni, spesso provenienti da altri media, produce un effetto immediato di distanziamento, un attentato alla rassicurante immedesimazione emotiva del pubblico, a favore di una sua partecipazione attiva. Anche perché il privilegio assegnato alla logica interna della gag piuttosto che alla verosimiglianza, oltre a frammentare incessantemente la forma rendendola costantemente imprevedibile, conduce la corsa dei personaggi averyani nei territori di confine, negli scarti tra fotogramma e fotogramma, tra il reale e il suo doppio, consapevolmente intrappolati nei punti di contagio tra cinema, radio, teatro e televisione. Il costante riferimento all'universo dei media così come l'esibizione continua del dispositivo cinematografico, indica come ad Avery non interessi perseguire un perfezionamento dell'illusione realistica come garante di una maggiore artisticità. Anzi nella sua dematerializzazione delle sembianze del reale, la fantasmagoria ottenuta deve affermarsi non come sostituzione del mondo -anche se nel mondo di Avery nessuno è sicuro di avere a che fare con la realtà naturale - ma come creazione calcolata al ventiquattresimo di secondo di un immaginario desiderante. Negata la necessità di un assoluto realismo figurativo, che conferma ma al contempo indebolisce la nostra relazione con il mondo, iniettato il suo cinema di pulsioni sessuali e spesso aggressive fino al sadismo, la sconcertante macchina del desiderio messa in moto da Tex Avery elabora e rende manifesto un contenuto simbolico difficilmente esprimibile in termini concettuali, ma che dal quale emerge una raffigurazione, a tratti esilarante e a tratti inquietante, della psiche collettiva di un'epoca. Certamente uno degli aspetti sconcertanti nell'opera di Avery è la presenza di una sessualità adulta in figure dai tratti infantili; cambiando completamente universo, lo sconcerto muta in esperienza conoscitiva, allorché ci imbattiamo in una messa in scena della sessualità e del desiderio che la dispiega come possibile luogo di verità. E quanto accade con l'opera di Catherine Breillat, presente a Bergamo con una retrospettiva a lei dedicata: Une Vraie jeunne fille (1976), Tapage nocturne (1979), 36 fillette (1987), Sale comme un ange (1990), Aux Niçois qui mal y pensent (1995) e Parfait Amour! (1995). Opera controversa quella della regista e scrittrice francese, ha spesso scatenato reazioni ostili e di rifiuto; forse proprio a causa di uno sguardo puntato su una sessualità ostinatamente fuori collocazione, che nel suo essere definita come referente principale del suo cinema si fa oggetto di una ricerca di verità. Di una verità del cinema certo; che però non si incarna in una forma preesistente alla sua realizzazione, ma diversamente in una disponibilità all'attesa, in un'attenzione fenomenologica alla manifestazione dell'evento. Che poi risulta essere insistentemente e quasi minacciosamente l'apparizione circolante del desiderio e del suo mistero, scrutato e mostrato da molteplici punti di vista. La complessità di una tale tematica è però trattata attraverso una struttura unitaria che procede ossessivamente al presente, nel tentativo di concedere il tempo affinché ogni particella dell'esperienza trattata possa essere esperita oggettivamente, senza mistificazioni né promesse. Gli atti che compongono le storie della Breillat riempiono tutto lo spazio e il tempo dell'immagine, anche in assenza totale d'azione, anche nell'immobilità che non vuole essere ripensamento. Questo accade sia nella densità pressoché continua e quasi irrespirabile di Tapage nocturne, che nella maggiore diluizione di 36 Fillette o di Sale comme un ange; dove però tutto può convergere nell'istante unico, irripetibile nella sua prossimità all'abisso, al quale tutta la messa in scena pare indirizzarsi. Si veda ad esempio, la sequenza di Sale comme un ange quando i due protagonisti finiscono per concedersi l'uno all'altro; in essa nulla della loro esitazione di fronte alla vertigine del desiderio, niente dell'abbandono e della lucidità che si alterna nei loro sguardi, viene celato. O ancora nelle scene esplicitamente sessuali di 36 Fillette, dove sono solo i volti a esprimere la distanza tra il pensiero e l'atto, tra il proprio corpo e quello dell'altro. Ma sempre la forza di questi film è nell'intrusione della macchina da presa nel cuore della storia, nel vivere al suo interno ogni atto e ogni confronto tra lo sguardo femminile duale e inquietante e quello maschile che lo rende tale. E con questo movimento essere più vicino a quel senso di cedimento proprio dell'universo cinematografico della Breillat; anche quando, come accade in Aux Niçois qui mal y pensent, l'incrinatura non è nella perdita propria di ogni relazione amorosa, ma nell'idea di un mondo ormai in agonia.