Pinuccia Bernardoni: l'arte, l'intensa ricerca.
A cura di Simonetta Barilli
L'intento dell'intervista è sempre il cercare di rendere una persona
più "visibile" e più accessibile a chi, magari, la conosce
già ma solo attraverso le sue opere, i suoi film, i suoi libri, la
sua vita pubblica o politica.
Con questa conversazione cerco di rendere più "disponibile"
l'avvicinamento a Pinuccia Bernardoni,
senz'altro un'artista veramente significativa
nel panorama dell'ultimo quarto di questo secolo e di questi primi
anni del nuovo millennio.
Pinuccia Bernardoni è un'artista giovane
e , anche se ha già analizzato molti campi
del "fare" artistico, si presume che il suo lavoro avrà
ulteriori sviluppi ed approdi. Niente è chiuso in schemi classificatori
e definitivi. Attendiamo dunque le sue prossime produzioni.
Breve
profilo dell'artista
Bernardoni nasce a Bientina, in provincia di Pisa,
nel 1953, si diploma all'Accademia di Belle Arti di Firenze, nel 1976
si trasferisce a Bologna come assistente alla cattedra di
Anatomia Artistica all'Accademia di Belle Arti della città.
L'origine toscana sarà sempre presente, sotto forme diverse, in tutti
i suoi lavori e lo si verificherà frequentemente.
Ritiene
di avere avuto "un filo logico" già dai tempi dell'Istituto
d'Arte, seguendo certi professori, ed è stato soprattutto Quinto Ghermandi
a farle scoprire le problematiche del fare circa l'arte. Negli anni
'70 Ghermandi parla di una scultura che
deve essere un segnale, un significante, avere un senso e riesce a
coinvolge completamente i suoi alunni in
svariate ricerche.
Bernardoni esordisce alla fine degli anni 70 nella X Quadriennale dei Giovani
a Roma (per la precisione nel 1975).
La
sua prima mostra personale è a Bologna, nel 1978, presso la Galleria
2000: presenta un lavoro concettuale di grande interesse nel quale
utilizza due strumenti differenti: la fotografia ed il suono.
Scultrice
pittorica. Forse questo è il termine migliore per introdurre e per
definire, al contempo, la nostra artista: Pinuccia Bernardoni.
E' un termine nel quale lei stessa si riconosce e si
identifica, una espressione che ella condivide pienamente.
Infatti, Bernardoni non è mai, in tutto
il corso della sua attività, né solo pittrice
né solo scultrice; nessuno dei due aspetti prevale sull'altro, nelle
sue opere c'è sempre una compresenza estremamente particolare di queste
due tecniche, è un alternarsi continuo. Bernardoni
si esprime con i colori e l'impianto compositivo
della pittura ma con le forme ed i volumi della scultura.
Nella
riflessione che Bernardoni fa sulla propria
arte, al fine di produrla e di rapportarla al mondo dell'arte in generale
ci sono delle caratteristiche costanti. La riflessione dell'artista
sulla propria arte, l'idea fondamentale che è alla base di tutto il
suo lavoro, l'idea che ella ha dell'arte,
in una parola la sua poetica, presenta dei temi principali. I tratti
fondamentali della poetica di Bernardoni sono tre. Ci sono inoltre altre caratteristiche
che o derivano direttamente da uno dei tratti fondamentali, o emergono
solo saltuariamente e in maniera più o meno preponderante secondo
il momento, o nascono dall'unione di due dei tratti fondamentali.
Memoria, materia e forma sono i tre temi principali della poetica
di Bernardoni; gli altri possono essere
definiti "sotto-temi".
Memoria,
materia, forma.
La
memoria è il tema centrale delle prime opere di Bernardoni
e riaffiora, in forma diversa, (come sempre nei "casi" dell'arte
e della vita) in tutti i suoi lavori. Dapprima è una memoria "collettiva"
(vedasi i lavori sulla Torre di Pisa), diventerà poi memoria personale,
alla scoperta di immagini e luoghi dell'infanzia per arrivare ad essere
una memoria dell'arte, cioè una revisione dell'arte stessa, delle
sue forme geometriche e dei suoi canoni. Non è una memoria nostalgica,
è una chiara indagine del passato, un ricordo vivace ed intenso che
scaturisce dal presente (quasi alla maniera di Proust)
e che quindi si rapporta costantemente col presente. Il tema della
memoria conduce forzatamente al sotto-tema del tempo. E' il tempo
del passato che si relaziona con il tempo
presente, cioè la memoria e le riflessioni che vengono stimolate da
un particolare evento. Si tratta però anche di un tempo della materia,
un tempo durante il quale si verifica la
sedimentazione, il cambiamento; è un tempo necessario per la modificazione
della materia.
".il
concetto di 'stratificazione' e l'idea del 'tempo'
sono strutture della memoria e, allo stesso tempo, sono elementi presenti
nei lavori di questa artista, come la stratificazione dei materiali,
carte bruciate, carta riso, inchiostri, ossidi, oppure come la ricerca
sul tempo, inteso come mutamento, evidente nella trasformazione indotta
dagli ossidi."[1][1]
La
materia è il secondo punto che si vuole evidenziare nella poetica
di Bernardoni, infatti se viene esaminato con attenzione critica il senso
che ella dà alla materia si intuisce subito come essa rappresenti
un fortissimo stimolo per l'artista. Ella
si applica alla sua ricerca con studi approfonditi e sperimentazioni
serissime. La materia, forse, le dà la
spinta necessaria per procedere sempre,
per scandagliare ogni eventualità, per non dare mai nulla per scontato.
Pinuccia Bernardoni è "manipolatrice
di materia", come si definisce lei stessa, è sempre alla ricerca
di una metamorfosi, che lei stessa provoca. Crea un perpetuo divenire..
"crea galassie".[2][2]
Cambia
in continuazione i materiali dei suoi lavori per capire fino a dove
si può spingere nella loro utilizzazione,
nella loro trasformazione, nel loro "stravolgimento".
".ho
capito che l'uso di alcuni materiali, e
solo quei pochi è troppo limitativo e molto poco creativo perché tende
a ripercorrere gli stessi gesti fisici e poi mentali e viceversa"
[3][3]
La
sua primissima fase è molto concettuale, utilizza fotografie e suono;
in seguito passa all'utilizzo di carte di riso, e poi via via
a carte di riso insieme a rame e ferro, al piombo, al ferro utilizzato
da solo, alle foglie, alle foglie accostate a vetri e cartoncini.
Bernardoni spazia in tutti i campi
,scandagliando le possibilità che le materie le possono offrire
da un punto di vista concreto, ma sottolineando sempre anche la loro
simbologia, la loro "valenza metaforica"[4][4]. La materia infatti
in Bernardoni rimanda sempre a qualcosa
di altro, che si trova più in profondità. Con questa
artista non bisogna mai fermarsi alla superficie delle materie,
ogni materiale utilizzato "porta" un significato, introduce
un pensiero profondo, in una zona franca, un limbo, un mondo altro
che l'artista riesce a costruire e a far vivere. Inoltre, ciò che
può sembrare carboncino in realtà è carta
bruciata, ciò che può sembrare colore in realtà è metallo che subisce
una trasformazione, ciò che può sembrare vuoto in realtà è pieno,
e via dicendo. Quella di Bernardoni è
un'arte profonda, che richiede impegno e soprattutto attenzione; non
può essere fruita in fretta, abbisogna di tempo.
"Il
punto di rottura tra la materia e la forma che essa va a costruire
tende ad evocare altre immagini e altri sensi"[5][5].
L'ultima
importante costante che è sempre riscontrabile nei lavori di Pinuccia
Bernardoni e che costituisce il terzo
punto individuato nella sua poetica è la forma, oggetto di grande
attenzione per l'artista. Si tratta per lo più di forme geometriche
che, spesso e volentieri, deviano dalla norma, presentano qualcosa
di strano, di non canonico. Lo slittamento di senso è sempre possibile,
ci sono sbavature provocate dalla colla in zone pulite oppure sbavature
di ruggine in zone lucidate o tagli che provocano dei cambiamenti
di forma fino a farla protendere verso la terza dimensione. Sono sempre
delle "irruzioni" nella norma, nel già detto, nel costituito.
La
ricerca anche qui è continua: le forme possono generare altre forme,
creare delle tensioni inusuali ed inaspettate,
non ci sono canoni che tengano: Bernardoni
sperimenta e crea.
".
una ricerca condotta all'insegna della più rigida sobrietà, svolta
su una questione formale e la sua estetizzazione"[6][6]. Si tratta di forme "generative"
e di un continuo slittare di senso che si propone su due livelli,
quello reale e concreto ma anche quello poetico o mentale. Ciò dà
luogo ad una dialettica continua ed è proprio questa dialettica, il
perenne contrapporsi di qualcosa e del suo contrario a rappresentare
uno dei sotto-temi più interessanti.
Ciò
premesso è possibile affermare che Bernardoni è sì artista "concettuale" e "colta",
ma tuttavia molto concreta; proprio l'esperienza del lavoro nella
sua concretezza è per lei fondamentale. Nella sua arte ella
mette tutto il suo essere: fisico, psichico, emozionale, alla ricerca
sempre di quello che definisce il "nucleo centrale" che
si può raggiungere attraverso mille strade diverse e che ella capisce
di avere raggiunto (si rende cioè conto che "il lavoro funziona")
grazie ad una emozione profonda. Il lavoro è vicino
al suo essere, è tutto il suo essere.
Il
lavoro di Bernardoni passa dunque attraverso
una incessante e molteplice ricerca:
ricerca nella memoria, ricerca nella materia, ricerca nella forma.
La
parola "ricerca" ripetuta così spesso vuole sottolineare
la serietà di fondo dell'artista, qualità che i suoi critici evidenziano
spesso: è un'artista che rifugge le mode, che si impegna a tutto tondo
anche in azioni oggettivamente "faticose" (per esempio tutto
il periodo del ferro) o "noiose" (la foratura manuale di
carte e foglie) per rendere ben visibile la propria idea dell'arte,
per comunicare, per parlarci, per esprimersi.
Alcuni
studi e alcune letture influenzano Bernardoni particolarmente: Bachelard,
Bataille per quanto riguarda l'aspetto
più "filosofico" della sua formazione; l'Arte Povera, Yves
Klein, il Costruttivismo
russo per quanto riguarda invece l'aspetto più artistico.
Certe frasi e certe teorie sono estremamente
affini al modo di "sentire" di Bernardoni
in certi momenti della sua vita, così le "fa sue", per
poi rielaborarle, magari anche a distanza di anni. Nei suoi diari troviamo queste frasi: "Riflessioni e citazioni
mie, di altri, indicati e dimenticati" e ". per tutte queste
citazioni ringrazio di tutto cuore: Marion Woodman,
Bachelard, Burri, Tapies, Yves Klein,
Kandinskij, Klee,
Eva Hesse, Malevic, Mondrian, Klimt, Margherite
Yourcenar, Rilke, Bataille, Piero Manzoni ed altri"
(P. Bernardoni, dai suoi diari).
Uno
degli scrittori che l'ha influenzata maggiormente è stato sicuramente
Gaston Bachelard. Scienziato e filosofo francese del Novecento
è considerato uno dei padri della epistemologia
moderna, intendendo con questa definizione lo studio critico della
natura e dei limiti della conoscenza scientifica. Si ritrova il suo
pensiero nelle tematiche della memoria (e quindi del tempo) e della forma.
E' invece l'Arte Povera ad influenzarla maggiormente per ciò che concerne
la tematica della materia.
"Quello
che voglio dire è come spesso nell'Arte Povera. è la materia stessa
con le sue caratteristiche fisiche che sotto il
'suggerimento' iniziale dell'artista si adatta a forma sua
propria, così la tendenza nel mio lavoro è quella di creare forme
dettate dalla fisicità stessa della materia esasperando le sue caratteristiche
stesse. Il senso di provvisorio è quell'aspetto
che, opposto al geometrismo ma inteso
quasi come forma primaria (il geometrismo)
prevale e mi interessa dall'interno dell'opera. Recupero di una certa
Arte Povera? E perché no.. Il
tutto però non nella sua ideologia ma nel suo aspetto estetico"[7][7].
I
tre temi che sono stati individuati nella poetica di Bernardoni,
a ben vedere, si "intrecciano" di continuo, si collegano l'uno
all'altro: la memoria che viene attivata da qualcosa nel presente
provoca un viaggio a ritroso, una serie di riflessioni, provoca un
ricordo, magari vivace ed intenso, che riemerge dal passato e si relaziona
col presente. A ciò si riallaccia di conseguenza il tema del tempo
che è già stato definito come un sotto-tema. Si tratta di un tempo
lento, di sedimentazione, di cambiamenti, che dà
vita ad una materia che nasce da applicazioni in strati successivi,
materia "spessa" quindi, con uno spessore che è il risultato
di queste stratificazioni. E' un tempo lento che permette di arrivare
alla percezione di un mondo altro, di penetrare maggiormente nelle
cose. Ma è anche il tempo del lavoro, infatti
per il tipo di lavoro di Bernardoni occorre
spendere molto tempo. Ecco quindi che la forma, a sua volta, cambia
continuamente creando una dialettica (sotto-tema) tra il pieno e il
vuoto e un continuo ribaltamento di senso
E' una unione degli opposti che dà vita ad un senso nuovo. Sono mondi
nuovi svelati da situazioni impreviste. Citiamo
alla lettera Bachelard: "La chimera che ci spinge a vivere negli
angoli, nasce talvolta, anch'essa, dalla grazia di un semplice disegno:
ma allora, la grazia di una curva non è un semplice moto bergsoniano
dalle inflessioni ben definite, non è soltanto uno spazio che si dispiega,
ma è anche uno spazio abitabile che si costituisce armoniosamente".[8][8] L'esterno diviene interno, il microcosmo diviene
macrocosmo; la poetica bachelardiana della
revérie porta Bernardoni a non
dare mai nulla per definitivo, ad operare dei continui cambiamenti
e ribaltamenti che, partendo dalla forma "fisica" ci portano
a dei cambiamenti di senso e di pensiero: interno-esterno,
micro-macro, angolo-curvo, chiuso-aperto, materia-ombra,
etc.
Il
percorso artistico di Bernardoni è molto
"lineare", ci sono sì enormi differenze presenti nelle successive
fasi ma è lineare come base, sembra quasi definito a tavolino fin
dagli esordi. E' proprio grazie a questa linearità, a questa successione
perfetta, che è possibile "dividerlo per fasi", sezionarlo
per analizzarlo meglio. Nella progressione, nella "evoluzione",
nei cambiamenti, la coerenza è totale, così come la chiarezza, e queste
sono prerogative non comuni.
Bernardoni esamina ogni possibilità di tutto ciò che in un momento dato la
attrae maggiormente. Ella sperimenta in profondità, è infatti convinta di poter
indagare in qualsiasi ambito dell'esperienza artistica, ed arriva
così ad esaurire le possibilità che le vengono offerte da una materia
e, una volta esaurite le sperimentazioni, passa ad un momento successivo,
portandosi sempre dietro il "nucleo centrale" (che è la
sua spinta al fare arte). Ogni volta recupera una fase di lavorazione
del passato, un piccolo "lembo" del lavoro, che diventa
il filo conduttore del nuovo lavoro. Ecco perché
le sue fasi sono così consequenziali ma così diverse le une dalle
altre. Trattiene quel qualcosa che ancora la attrae e che contemporaneamente
la spinge verso nuovi terreni di studio; il piccolo nucleo che porta
con sé diventa l'elemento portante del nuovo lavoro, inizia così una
nuova fase creativa nel corso della quale sperimenterà - ancora e
sempre in profondità - altre forme, altre materie, altre memorie.
Le varie fasi della sua produzione sono quindi estremamente diverse le une dalle altre, i materiali usati
sono i più differenti (carta, piombo, ferro etc.), i colori cambiano
moltissimo (alle volte squillanti, altre volte terrosi), ma ne risulta
sempre un lavoro di grande equilibrio, pulizia, armonia.
La forma generativa è l'idea che sorregge ogni scelta di Pinuccia Bernardoni e che determina i vari passaggi, non secondo modalità pre-definite o studiate ma secondo modi che nascono durante il lavoro stesso, "sul campo", nella pratica. "Bernardoni agisce per cicli, come a voler adeguare il gesto a diversi possibili esiti, senza interdetti, e va componendo un suo personale sistema di varianti"[9][9].
Sarebbe interessante ripercorrere insieme ora la "cronologia"
dell'artista, gli sviluppi della sue "fasi" ed i vari passaggi
da un materiale all'altro. Ma il discorso
si farebbe veramente troppo lungo poiché, anche se giovane, Bernardoni ha molto prodotto e molto cambiato le sue esperienze,
pur nella sua "chiarezza", linearità e "rigore".
Intervista
SB: Pinuccia, nel corso delle tue varie fasi artistiche hai scolpito
la carta e hai traforato il ferro, potresti
raccontare i tuoi attraversamenti della materia? Quale istinto ti
ha guidato nella scelta di questi materiali?
PB: E' una partenza molto lontana, sono i ricordi dei vissuti infantili,
nella casa dei nonni, erano contadini, e dalla campagna toscana mi
sono portata dietro sensazioni forti, il verderame sulle foglie, che
dalle pergole finiva sulle pareti della casa. La terra che cambiava,
d'inverno si ghiacciava, il ghiaccio che si compenetrava con la terra
e diventava una materia che scricchiolava sotto i piedi, così misteriosa.
Da piccola avevo un amore per la costruzione di
oggetti inutili e un modo di disegnare un po' violento. Ero
sempre a cercare quel nero che si avvicinava più ad una materia che
al chiaroscuro che mi veniva richiesto.
SB: Quindi tendevi già più alla materia che al colore. Già da allora
forse propendevi per la scultura piuttosto che per la pittura.
PB: La prima materia che ho veramente creato, è stata usando la carta
velina. Ricostruivo cieli. La materia non è mai stata adoperata per
se stessa, ma sempre è stata evocativa di un qualche
cosa d'altro. Usavo la carta velina per avere una sensazione
di morbidezza, la capanna, il bozzolo: il periodo delle installazioni.
In seguito ho creato il primo vero e proprio materiale. Era un materiale
organico che cercavo. La forma era geometrica ma trasgredita da questo
materiale vitalistico. Dentro questa pelle,
i materiali duri gli davano l'ossatura, la tingevano anche, gli creavano
un'anima. O era il filo di ferro o di rame
o era l'asta di ferro su cui questa carta si piegava. C'era sempre
questa corrispondenza tra un elemento morbido e un elemento duro.
Quando sono arrivata al ferro, non è il ferro per se stesso, ma il
ferro che diventa evocativo di un qualche cosa
d'altro. La materia che trasmuta all'interno di se stessa attraverso un processo
alchemico, come la ruggine o i bagni catalitici che conferivano al
ferro altri colori permanenti. Come questo strano nero con
un azzurro profondo nell'interno. L'uso del piombo,
che nel tempo assume una colorazione, particolare. Insomma
un processo a cui io sono spettatrice, o che decido di fissare in
un determinato momento. Mi interessa
la sua trasmutazione interna nella misura in cui diventa evocativa
di un qualche cosa d'altro. Per cui, sì è vero, adopero il ferro e
il piombo che sono materiali pesanti, però voglio
che acquisiscano senso di leggerezza, e allora, questo nero che non
è un nero sordo ma è un nero che canta.
SB: Sembra che il senso dell'ironia che percorre tutto il secolo
scorso (Duchamp, Futuristi, Pop Art) sia esaurito, ora quando c'è si rivolge contro se stesso.
Come e quando hai usato l'ironia nel tuo lavoro?
PB: L'ironia nel senso duchampiano io
non l'ho mai usata. Quando ho adoperato l'oggetto
non è il ready made.
Lavoravo sulla memoria, un lavoro quasi a tutti
sconosciuto. Era il momento in cui mi stavo diplomando in Accademia,
stavo facendo una tesi sulla scultura come intervento nella città
ed era il momento in cui in architettura si cercava l'anarchitettettura,
i primi interventi nell'ambiente. Allora il senso dell'ironia fu usato.
Essendo Pisa la mia città di provincia, incominciai a lavorare su
questo elemento fallico
e fortemente simbolico che è la torre di Pisa. Nel '74 mi
invitarono ad una mostra a Volterra. A Volterra c'era stata
una grossa iniziativa sulla Scultura come intervento nella città l'anno
prima, e nel '74 fecero un'edizione dei giovani e io mi inventai la "morte della torre di Pisa". Feci
stampare dei manifesti mortuari, in cui c'era scritto "la torre
di Pisa ha cessato di pendere" e li feci appendere in
tutta la città il giorno prima dell'inaugurazione della mostra.
Poi all'interno del Palazzo dei Priori avevo ricostruito dei
souvenirs sul ricordo della torre di Pisa, la torre com'era,
e avevo costruito vari oggetti (elencati nella tesi). Usando come
medium la fotografia, la serigrafia eccetera. Avevo misurato anche
la dimensione spazio-temporale della torre:
con un registratore avevo salito e ridisceso la Torre, avevo misurato
con il mio passo attraverso il rumore la dimensione spazio-temporale.
In mostra c'erano anche due piccole foto, una d'ingresso e una di
uscita dalla torre, con sotto il registratore: tum,
tum, tum. C'era anche un gioco:
ho stampato delle foto della torre, grandi un metro per 50, poi le
avevo ritagliate e incollate a cubi di legno. Giocando nascevano delle
forme nuove all'interno dell'immagine della
torre di Pisa.
SB: Parliamo sempre dei tuoi inizi. Coincidono
con il dominio dell'Arte Americana, l'hai guardata? E quali
affinità elettive hai avuto?
PB: Il Minimalismo in America, l' Arte
Povera in Italia. La scultura come anti-scultura, cercare la radice
del linguaggio della scultura. E poi soprattutto
un amore per Eva Hesse. Era una
artista minimalista, che trasgrediva con il materiale il senso
freddo della forma minimale. Era ebrea, morì
giovanissima.
SB: "Tutto è stato detto e tutto continua ad essere dettato"
dice un poeta che amo molto. Così anche nell'arte visiva. Io ho sempre
pensato all'impasse dell'artista che si trova di fronte al tutto già
fatto. Quali sono gli artisti del tuo immaginario e del tuo bagaglio
culturale, e come pensi di averli superati e di esserti emancipata?
PB: Bisogna accennare alla mia toscanità. Avendo studiato a Firenze,
camminato per le vie di Firenze e avendo visto tutto questo Rinascimento
e questo senso di ordine, questo senso
di pulizia, questo bianco e questo grigio. I primi lavori con le foglie,
il primo lavoro, quello con la sedia, Composizione n.1.
Io cercavo di confondere, di mischiare gli oggetti come si mischiano
nelle case e invece veniva sempre fuori un rigore, un senso di pulizia...
Ho pensato: questo rigore viene da questa convivenza negli anni di
formazione dentro il "fiorentino", dentro il Brunelleschi,
il Vasari. I lavori con le carte piegate bucate e incorniciate altro
non sono che le modanature usate dal Brunelleschi,
dal Vasari nella Sagrestia Vecchia, nella Sagrestia Nuova. Sul contemporaneo
c'è come ti ho già detto il mio grande amore per Eva Hesse.
Poi chiaramente ho amato moltissimo Burri,
Fontana. Sono stata molto incuriosita dalla trasformazione di Burri
nella materia. La materia che diventa pittura
pur rimanendo plastica, pur rimanendo ferro. Questo mi ha sempre
affascinata moltissimo.
SB: Quindi nelle tue radici c'è la Toscana, il Minimalismo americano,
l'Arte Povera, poi Burri, Fontana.
PB: E' anche un rigore interno. Se nasci toscana ti viene inculcato!
SB: Jean Cocteau
dice di Mirò: gli basta fare una croce per crocifiggere. Mi sono venute in mente delle tue opere a croce. Tu hai usato la
croce, chi, che cosa volevi crocefiggere? Hai usato il taglio, in
quale altrove dovevi andare? Hai tra-perforato,
non certo da ricamatrice, con che intenzione?
PB: La croce ha un forte significato simbolico che tutti noi conosciamo.
L'ho usato in un momento particolare della mia vita, ma l'ho usato
anche perché simbolicamente è un segno forte, di grande
rigore e perfezione.
SB: Sì, basta pensare a Malevic.
PB: Infatti, basta pensare a Malevic.
Il Costruttivismo l'ho guardato molto,
la croce come segno archetipo e mistico...
SB: E il taglio?
PB: Sui tagli io ho lavorato molto.
SB: Vuoi andare altrove?
PB: E' un taglio che vuole portare in evidenza qualcosa d'altro.
Lascia affiorare un'altra materia, il piombo non ha il senso
del taglio di Fontana. Il taglio di Fontana è una
taglio sulla tela. Il mio è un taglio più costruito, è un taglio
di separazione e di unione nello stesso tempo.
SB: Questi "mondi altri" che ci sono sempre nei tuoi lavori.
forse questo taglio è un andare a cercare
qualcos'altro che comunque c'è sempre ma che si svela solo a momenti,
a flash?
PB: E' come evidenziare qualcosa che ti
viene fuori da un vuoto, il taglio è anche un vuoto, un vuoto dal
quale emerge un'altra figura. Se guardi
formalmente l'opera, il taglio fa emergere una terza immagine, è quella
dell'ovale, è quindi qualcosa di nuovo, ri-costruire, fare emergere
una forma da questo vuoto, perché il taglio è fatto in funzione dello
svelare qualcosa che c'è dietro.
SB: Nelle tue sculture colorate c'è una specie di matematica del
colore. Puoi spiegarmela?
PB: Sì, è vero. Io cercavo un colore che si relazionasse
con quella forma, spesso il colore era in funzione dell'esaltazione
di quella forma, a volte usavo il colore per annullare l'aspetto plastico
di quella scultura. Mi spiego meglio: lavorando in un campo sempre
a cavallo tra la pittura e la scultura, talvolta nella forma con il
colore aiutava l'aspetto plastico, talvolta invece di abbassarlo,
di avvicinarmi di più verso la pittura. Inoltre in quel momento io
stavo lavorando anche per la scuola e stavo rileggendo per me la Teoria
dei colori di Goethe, la Teoria dei colori
di Hitten, Kandinskij.
Stavo lavorando su questo tema.
SB: Di fronte alla scelta degli oggetti destinati a diventare opera
l'artista esercita il suo sentimento profondo, la sua attenzione e
attitudine a penetrarne il significato. Sto parlando delle foglie,
grande periodo del tuo lavoro. Scolpire
non più la roccia, il ferro, la tradizione ma la fragilità.
La natura come mezzo o come fine?
PB: Il rapporto con la foglia, è tutte
e due le cose, è mezzo e fine. La foglia è un elemento della natura,
ma anche un' idea di scultura minima che svelo forandola. Però è la natura che si presenta per se stessa, non è rappresentazione.
SB: Col tempo, alle singole sculture o tele, sei arrivata all'accostamento,
all'assemblaggio di cose e oggetti, talmente armonico e necessario,
questo accostamento, che non è più possibile
esistere senza coesistere. Non è più possibile immaginarli smembrati,
singoli. Come sei arrivata a questo?
PB: In quel momento avevo in mente ed ero molto affascinata ed incuriosita
dalle relazioni che nell'ambiente, domestico, nascono
tra gli oggetti di uso e l'oggetto d'arte. Nasce sempre una certa
tensione, soprattutto quando l'oggetto di contemplazione è collocato
nel luogo giusto. Ulaf Metzel, del quale avevo
visto alcuni lavori in Germania mi aveva
molto affascinata. Lui prendeva degli oggetti, li rompeva e li riassemblava,
ma li riassemblava in un modo tale per
cui diventavano evocativi di aspetti della sua cultura tedesca.
Non so se sia stata una mia fantasia, però
quando vedevo questi tavoli da ping-pong rotti o oggetti di vetro
rotti e riassemblati "casualmente"
io vedevo Friedrich, rivedevo questo spirito
loro, fortemente romantico. E dicevo: mi
piacerebbe ricreare un caos, non così violento perché non è della
mia anima, ma un Caos ideale. E allora
è nato quel primo lavoro con la sedia. In quel lavoro ho
lavorato tre mesi, è nato tutto attraverso delle casualità.
Io avevo una foglia di loto in studio, e l'avevo incorniciata, e l'avevo
attaccata al muro. Poi casualmente la sedia che adopero in studio
c'era andata a finire sotto. Un giorno torno in studio e vedo questa
sedia che in qualche modo si relazionava
perfettamente con questo oggetto sopra. Allora mi sono messa lì, davanti,
e ho cominciato a dire: qui succede qualcosa. E
allora ho cominciato ad appoggiare pezzi di ferro, pezzi di legno,
delle cose, stava accadendo qualcosa, una tensione. Però
mi sono cominciata anche ad accorgere che succedeva quello che succedeva
in certi quadri astratti italiani. Per esempio Soldati costruisce
il quadro astratto, però improvvisamente c'è una ringhiera, un oggetto.
Allora ho cominciato a riflettere, ad andarmi a riguardare tutta la
nostra Astrazione italiana degli anni '30. Stava venendo fuori un
lavoro strano. Stavo tornando un ordine. Il loto nella cornice di
ferro, la sedia, il vetro curvato, il vetro incorniciato, i due pezzi
di ferro hanno ritrovato una precisa collocazione
spaziale.
SB: Ritorniamo all'aurea proporzione, tu hai, dentro, l'aurea proporzione.
PB: Ma io non la cerco.
SB: No ti viene di istinto.
PB: Perciò poi in queste opere, che io chiamo Composizione numero.,
cito i titoli dei quadri di quel periodo. Gli oggetti sono inscindibili
nel senso che quella bottiglia insieme a quel vetro e a quella cornice
non possono vivere in maniera diversa. E
di nuova faccio della scultura guardando la pittura.
SB: Sei sempre in bilico. Ma allora, sei uno scultore che commenta
la sua pittura o viceversa?
PB: Questa è una domanda molto appropriata in questo momento! Io
dico sempre: sono una scultrice ed una pittrice per sbaglio. Sono
una scultrice e inciampo nella pittura. Ma
sono una scultrice perché anche quando disegno, come negli ultimi
lavori delle impronte e mi dicono: ma è pittura! io
stringo i denti perché io la vivo come materia e come materia più
legata ad una idea di scultura. L'aggiungere e il togliere, è poi
il gesto tipico della scultura. Sì, sono una scultrice che inciampa
spesso nella pittura.
SB: In certi momenti nei tuoi lavori troviamo dei margini estremamente sfaldati, come quando usavi la carta bruciata
e poi rifinivi con un chiodo per rendere la sfaldatura nei contorni.
Poi in certi momenti adotti dei margini nettissimi e di nuovo, oggi
nelle "Spie di pelli", "Foglie" di materia frastagli
i margini
PB: C'è una ragione. Dove vado a frastagliare è perché cito una materia
organica, quando invece il margine è netto, come in tutto il periodo
del ferro c'è una progettualità
precisa. Uno è un gesto che costruisce, l'altro è un gesto che svela.
SB: Poiché abbiamo parlato finora del tuo lavoro e del tuo atteggiamento
nel lavoro, attraversando i diversi periodi, affronterei il ora tema della critica e del tuo rapporto con la critica.
vorrei sentire la tua opinione su come
ti relazioni con essa. Trovi che il tuo
lavoro sia stato interpretato per come lo avevi espresso?
PB: Io direi che tutti i critici con cui sono
venuta a contatto hanno svelato una parte importante del lavoro. Anche quelli apparentemente più frettolosi, mi ricordo il
testo di un catalogo scritto da Elena Pontiggia,
molto bello. Con lei fu un contatto brevissimo ma lei scrisse questo
testo cogliendo dei punti fondamentali del lavoro come quello della
costruzione sul vuoto. Non ho avuto moltissimi critici con cui sono
entrata in contatto, ma con la maggior parte di loro era nato anche
un rapporto di amicizia, per cui c'era
anche una frequentazione e una possibilità maggiore di entrare dentro
il lavoro a coglierne aspetti reconditi.
SB: Ho potuto vedere i tuoi bellissimi libri d'artista, carnet dell'anima,
diari di bordo. Cos'altro?
PB: Ho i miei diari di bordo. Poi il libro d'artista, lì vado a esplorare un mondo più magmatico, interiore, più istintivo.
Questi libri sono sempre fatti nel momento in cui ho esplorato un
materiale. vedi per esempio questo libro, Caliginìe,
usavo la carta bruciata, allora è nato questo libro "disegnato"
tutto fatto con la carta bruciata. Per magmatico intendo questo, vedi
che c'è ancora una geometria, un segno geometrico, ma è anche negata
continuamente da questa materia magmatica.
SB: L'artista, spesso, viene guardato
dal prossimo come un diverso. Pinuccia, confermi o dissenti?
PB: Siamo considerati un po' dei "diversi"! Nella mia esperienza
ciò è successo maggiormente nell'ambito non professionale, cioè nel rapporto col mondo. Nell'ambito professionale, con
le persone con cui mi relaziono, galleristi,
critici, artisti, collezionisti non è così. Ho avuto la fortuna di
incontrare persone che consideravano il mio lavoro d'artista come
lavoro e come lavoro l'hanno seguito, seguendo
anche il mio impegno da tutti i punti di vista.
SB: E nei rapporti con le persone non dell'ambiente artistico?
PB: Con persone non dell'ambiente spesso sono stata guardata in un
primo momento con uno sguardo, un'espressione, che faceva intendere
"questo è un artista. chissà". Poi, nella frequentazione,
ciò è sempre scomparso, non so, forse dipende dal mio atteggiamento,
come ti ho detto, ho sempre considerato il mio lavoro veramente come
un lavoro, se vuoi anche privilegiato,
molto privilegiato, perché mi ha sempre permesso di esprimere una
parte di me. Forse è stato questo approccio con il tipo di lavoro
che ha fatto sì che venisse considerato "lavoro" dagli altri.
SB: Per quanto riguarda la mia personale esperienza "dal di fuori", l'arte contemporanea - non parlo specificatamente
dell'artista, parlo dell'arte contemporanea - viene giudicata con
una sorta di sospetto. C'è sempre sospetto da parte del fruitore,
colui che va a vedere tutte le mostre "canoniche", gli Impressionisti
etc., però appena gli proponi di andare
a vedere due o tre gallerie storcono il naso!
PB: Infatti Picasso
diceva che l'artista nasce postumo, sapeva cosa voleva dire. L'artista
è sempre guardato con sospetto, come dire "chi è quello lì?",
Spesso si dice "quel matto di quell'artista".
La parola matto viene spesso usata. Però
con me può succedere questo: io per prima dico che sono matta.
SB: E' il carattere che difende la tua opera.
PB: Sì, scavalco la cosa. Io lo dico subito,
sì sono un po' matta. Certo, bucare una foglia di un metro
e mezzo con dei buchi perfettamente uguali nel senso delle ortogonali.
mi rendo conto che è una cosa da pazzi. Molte persone per esempio
mi chiedono se non penso al problema della deperibilità delle opere.
Certo che mi pongo questo problema, uso tutte
le precauzioni possibili, ma la trasformazione fa parte del mio lavoro.
SB: L'arte è gratuita, il gratuito non è più sacro. In questa perdita
è possibile che l'artista abbia difficoltà a capire la sua condizione?
PB: E' molto bella questa domanda. Capisco questo senso di perdita.
Adesso prevale più l'aspetto maledetto che l'aspetto sacro. Almeno
nella mia esperienza, l'opera ha un grosso contenuto spirituale, perché
in essa metto in gioco me stessa, metto in gioco la parte più
profonda di me ma talvolta viene fuori anche la parte maledetta.
SB: L'artista è stato disinvestito di
questa sacralità.
PB: Questo sì. Ma è stato disinvestito anche un po' per colpa sua, perché spesso se
si è messo in mano alle mode, allora non sei più tu che crei liberamente
ma è il critico, è il gallerista, è il direttore di museo che crea
una situazione. Allora per forza questa aura,
come dici tu, di sacralità, viene meno.
SB: Da questa domanda ne scaturisce un'altra, è possibile che la
diminuita capacità di soffrire abbia dato in pasto l'artista alle
manovre di altri? L'artista di solito soffre, in senso spirituale,
del suo lavoro. E' possibile che sia diminuita la capacità di soffrire
in un mondo che vuole tutto subito e quindi "lui" si sia
consegnato al mercato?
PB: Questo sì, però. Vedi, adesso le opere
spesso sono opere veloci e hanno una fruibilità e una consumazione
molto molto veloce. Ma conosco i giovani, poiché vivo nella scuola,
e posso dire che non è vero che i giovani artisti non hanno travaglio
interiore, ce l'hanno eccome, solo che
quando vanno a formalizzare il lavoro lo formalizzano molto spesso
seguendo i segni di cui sono circondati. Dal momento in cui il segno
del contemporaneo entra in Accademia, è già consumato e vuol dire
che la sua pregnanza, la sua profondità, la sua verità è già stata
consumata. Dietro un gesto facile il pensiero
va in fretta. Nella mia esperienza l'artista ha bisogno di silenzio
intorno perché è dal silenzio che nasce la forma, è dal silenzio che
nasce l'emozione. Se vivi solo nel turbinio continuo
è molto difficile, oppure crei un'opera che ha la stessa velocità
del turbinio in cui vivi.
SB: Però la fine secolo non è ancora finita.
PB: Io poi sono ottimista, questo è un passaggio. Dopo non so bene
cosa accadrà.
SB: Forse anche le stesse gallerie, gli stessi critici sono arrivati
ad "inglobare".
PB: Il problema è: l'aspetto trascinante dell'arte è questa sorta di scarica elettrica che ti dà, però non ti nutre se
tu ti lasci prendere solo dal vortice della mostra, dal gallerista,
dall'arrivare. Sì è questo desiderio di novità. Le persone vanno in
galleria e dicono "cosa c'è di nuovo?". Insomma, il gallerista
dovrebbe spiegare che il mutamento è un mutamento lento, non quello
che vogliono loro. Anche la moda muta, ma muta dall'interno. E' un discorso
culturale.
SB: Come artista-insegnante che cosa vuoi trasmettere ai tuoi ragazzi?
PB: Lavorare con gli studenti è molto stimolante,
ma talvolta molto difficile. Spiego loro di cercare la propria dimensione
poetica, che vuol dire cercare il contatto con la parte più profonda
di sé, con la centralità di sé. E' un grande
lavoro attorno al linguaggio che metti in atto, che sia pittura, scultura,
fotografia, video o altro, la conoscenza del proprio linguaggio è
fondamentale. Io insegno anatomia artistica e questo diventa un lavoro
per me interessante, è un po' radicalizzare quello che io faccio in studio. Il veicolo
espressivo, qualsiasi esso sia, è un segno che va messo in atto. Se
è solo entusiasmo dettato dall'intuito di un momento e non c'è la
capacità di elaborazione, non c'è coscienza
di quello che fai, non c'è opera. In un momento come questo è molto
difficile, perché il lavoro dell'artista è diventato eclettico per
eccellenza. E' spiegare loro che debbono
appropriarsi del proprio mezzo linguistico. E' un'impresa titanica!
SB: Tu non concedi nulla alla moda, all'ammiccamento. Privilegi un'antica eleganza e un progetto rigoroso, fuori
e dentro all'opera. Ti è mai stato richiesto di concedere di più al
mercato?
PB: Qualche volta. Ma ho sempre seguito me
stessa. Nel mio lavoro c'è sempre stata corrispondenza tra forma e
contenuto, in una ricerca tra astrazione e senso, e come piace dire
a me, l'aspetto viscerale c'è sempre, non progetto a tavolino. Per
esempio quel lavoro là, "Danza n.4"
è stato realizzato in un giorno in cui io avevo in mente una sorta
di torsione. Era un momento di vita particolare, difficile. Avevo
in mano della carta, ho cominciato a piegarla, tagliarla, sporcarla,
così è nato quel lavoro.
SB: Scusa, a proposito del lato orientale che ti viene fuori, io
ho accennato nel testo della tesi a ciò. A mio parere questo gioco
di ombre è un qualcosa che viene fuori più che altro nella
cultura orientale, la cultura occidentale mi sembra che si orienti
più sulla luce oppure su un'ombra dipinta, rappresentata, non un'ombra
vera.
PB: Anche questa cosa non è nata partendo da una passione per l'arte
orientale. La mia conoscenza dell'arte orientale è
molto superficiale, non mi sono mai messa a studiare tutta
una serie di problematiche. Però mi rendo conto che un po' della sua
estetica viene naturalmente fuori dal mio
lavoro, è allora che vado a guardare l'arte orientale, non è prima.
Dell'Oriente mi affascina non solo la forma ma anche la gestualità,
il rapporto con l'oggetto, il rapporto col mondo, un rapporto quasi
di meditazione.
SB: Questo rapporto "lento" forse anche, che è
tutto l'opposto del nostro.
PB: Sì, la lentezza, l'atteggiamento meditativo nel guardare le cose.
Come l'haiku, che
nella sua semplicità è un momento di meditazione. L'incollare
le carte, il gesto di incollare le carte, il gesto di piegare le carte.
Anche i lavori in ferro partono da un progetto
che nasce sempre da un gesto semplice: una carta che si piega su se
stessa. Anche il tema della costruzione intorno al vuoto è una dimensione
orientale, come le forme che nascono dal vuoto: tutto questo mi affascina
molto. Mi piace fare l'esperienza delle cose. Attraverso l'esperienza
dello yoga ritrovo una parte di me che
si avvicina alla mia esperienza religiosa, il cattolicesimo in cui
sono stata cresciuta. E' però anche un modo più profondo per entrare
dentro le cose. Mii dà pace, un momento
di pulizia mentale.
SB: Allora, visto che siamo arrivate ad
argomenti più personali vediamo qualche domanda non necessariamente
legata alla tua arte ma legata più alla tua persona. Si dice che le
arti vadano a braccetto. Quando leggi,
che cosa leggi; quando ascolti musica, che cosa ascolti?
PB: Questo cambia nel tempo. In questo momento un po' particolare
della mia vita vado sempre a cercare un
libro di poesia. Quando leggo letteratura vado sempre a cercare autori
o autrici che mi comunichino delle sensazioni forti. Ho amato la Yourcenar, ho amato la Duras,
ho amato la Wolf. Mi rendo conto che sono
più le autrici donne che alla fine andavo
a prendere in mano, non so perché, forse perché mi riconoscevo in
molte loro emozioni.
SB: Ma perché tu in fondo stai parlando di grandi scrittori,
non di donne.
E musica?
PB: Questa è un'altra storia. nel senso che io non ho una cultura
musicale, non sono cresciuta all'interno di un ambiente che mi ha
avviato a questo mondo, però ascolto quasi sempre
musica classica quando lavoro, musica etnica, musica minimalista,
da Philip Glass, Neymann.
Ascolto molto la radio, Radio Tre colma la mia lacuna nell'ambito
della musica ed è una radio molto stimolante.
Poi il jazz. un'altra delle mie passioni è Gaabarek,
riesce a trasportarmi lontano.
SB: Teatro?
PB: Ora purtroppo non lo frequento molto, l'ho frequentato negli
anni '70, il Carrozzone, questi spettacoli incredibili al
limite tra il teatro e la performance. "Punto di rottura",
"Crollo nervoso", splendidi, di una forza!
SB: Cinema?
PB: La Nouvelle Vague. Godard, Chabrol. Mi piacciono i film intensi. Resnay.
E poi Truffaut. La cultura del
bianco e nero. E poi i nostri italiani, Antonioni
per esempio, Fellini, Pasolini.
E poi ho amato moltissimo anche il cinema
tedesco, Wim Wenders. Fassbinder
e anche Herzog, "Cuore di vetro",
girato in super8. Mi piace molto questa ultima corrente, Lars
Von Trier, "L'onda del
destino", "Dancing in the dark". E' molto profondo.
Anche Bergman. Io il cinema l'ho
scoperto tardi, quando sono venuta ad abitare a Bologna. Anche
Kusturiza è stupendo, Underground. Il
cinema mi piace, mi nutre a livello emotivo, esco con una
emozione che mi porto dietro per dei giorni.
SB: Le emozioni per un artista non cadono mai nel vuoto, mentre per
un comune mortale è diverso, si porta dietro queste emozioni per qualche
giorno ma non produce niente, è una emozione
sua ma non di altri. Un artista invece queste emozioni le trasmette
agli altri.
PB: Un altro che mi è piaciuto molto è stato Tarkowski,
in un film magico. Ricorda un oggetto, la tazza appoggiata sul tavolo,
ricorda quel gesto, inquadra il tavolo e c'è la traccia del vapore...
Un altro straordinario è Almodovar
"Tutto su mia madre" l'ho trovato denso di cultura enorme.
Citava la Pop Art americana, citava l'Iperrealismo.
SB: Poiché voglio conoscere a fondo tutti
i tuoi gusti, per dare una immagine globale di te, dopo aver passato
in rassegna le arti vorrei provare anche con i sensi. Partiamo dal
gusto: la cucina per te è cultura? E se
sì, cosa mangi?
PB: Io mangio cibi molto semplici e molto saporiti, ma poco elaborati.
Ho fatto l'esperienza della cucina macrobiotica, amo la cucina vegetariana,
sono curiosa e mi piace sperimentare.
SB: Si potrebbe provare a far coincidere ogni tuo periodo con le
tue cucine.!
PB: Non amo cucinare, ma mi piace mangiare. La cucina va a toccare
i sensi, il gusto, il piacere. Il vino, lo adoro.
SB: L'olfatto?
PB: Per me l'odore è fondamentale, come fondamentale è il tatto.
Essendo una scultrice che inciampa nella pittura. anche il rapporto
col ferro. mi sono resa conto che lavorandolo,
levigandolo, si ammorbidisce, il tatto accompagna meglio la vista.
SB: Lo scultore, quello classico, è come un domatore di materia e
tu in un certo senso sei classica perché usi materiali da domare.
PB: Più il materiale lo tocchi più entri in relazione con lui, il
senso che tu vuoi dare passa anche attraverso l'esperienza tattile.
Importante è anche l'odore.. Quando vado
in studio, adesso che adopero barrette ad olio, per me è un grande
piacere. Nel mio studio non si è mai sentito l'odore del pittore, si sentiva un odore più
di fabbrica, di polveri, olii.
SB: Ti vorrei fare un'ultima domanda: che cosa consigli al fruitore medio, digiuno di arte contemporanea, la stragrande
totalità delle persone che si sono fermate alle primissime Avanguardie
e ancora non riescono a capire certe rotture delle Avanguardie storiche?
Vorrei un suggerimento semplice per avvicinarsi a quest'arte
che invece è l'espressione del nostro tempo e non può essere lasciata
a parte o ai posteri.
PB: Di non voler cercare necessariamente di voler capire
tutto subito e fino in fondo, ma frequentare l'arte con "la pancia"
e con il cuore aperto.
Ciò significa disporsi serenamente alla frequentazione dell'arte,
perché se non c'è frequentazione non c'è conoscenza. Se una persona
è abituata a leggere la sua dimestichezza alla lettura l'aiuta, e così con la poesia, con la letteratura,
con qualsiasi cosa che ha una specificità. E' questo
atteggiamento che permette di capire il mondo. Quindi
quello che consiglierei è una frequentazione serena, come si va al
cinema, non subire negativamente la "sacralità" del luogo.
Andare in galleria senza scetticismo. Però, ripeto,
senza voler necessariamente capire tutto ma cercare di entrare in
sintonia con quello che vedi. E' un problema di frequentazione!
E' quello che dico agli studenti quotidianamente, se voi non frequentate
l'arte, non la saprete mai fare, perché
non la capirete mai.