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Il buio oltre il foglio
Aprile 1998 Giorgio Bonomi

[@img#d#Figura 1@]Si dice, spesso, dell'horror vacui, da cui l'horror calami, se parliamo dello scrivente di fronte al foglio bianco, appunto vuoto. Menetti, la cui opera è sempre pervasa da una sottile, dolce, ironia, in questa mostra enfatizza l'horror artis. Un horror artis che è tanto dell'artista davanti al suo materiale - ancora una volta "vuoto"- quanto dello spettatore che, poco avvezzo alle ritualità del sistema dell'arte, entra nei musei, nelle gallerie, negli atelier, timidamente, con sospetto, con un certo imbarazzo. Ora è addirittura gettato nel buio fisico e dovrà da solo orientarsi e, con una piccola torcia elettrica, scoprire le opere che vogliono essere guardate. Lo scambio tra artefice e spettatore, con la necessità fondativa dell'intervento attivo di quest'ultimo, viene qui ottenuto assolutamente. La visione non è data, è trovata, è costruita, è organizzata dall'intervento fattivo dell'osservatore che ricrea altro da quello creato dall'artista.

Al di là dell'ironia - già presente nel titolo della mostra, do-it-yourself, una sorta di invito al bricolage - il discorso è molto serio ed è in linea con tutta la ricerca artistica di Nanni Menetti.

Chiariamo subito che, quando parliamo di ironia, ci riferiamo a quella del metodo socratico, cioè a quella per cui la realtà non è mai assolutizzata, restando sempre aperta e infinita la possibilità; quell'ironia, quindi, che fonda la tolleranza, il dialogo, la relatività di ogni realtà e di ogni verità. Al contrario dell'ironia romantica che conduceva all'assolutizzazione dell'Io nella svalutazione della realtà.

Se esaminiamo l'opera di Menetti, ciò che subito risalta è il materiale: un materiale "povero", quale carta carbone, carta velina, carta assorbente, colla, puntine da disegno, colore; insomma tutto materiale di "cartoleria" o, meglio, da scrittura. La scrittura diviene, quindi, l'aspetto dominante del suo quadro; e non a caso, se consideriamo il campo di intervento intellettuale e l'atmosfera culturale, sia in senso ambientale che in quello cronologico, in cui ha vissuto e vive l'autore. Certamente non arriva a certe assolutizzazioni derridiane per cui non esiste nulla fuori dal testo o gadameriane secondo cui "l'essere che può venir compreso è il linguaggio", ma è evidente che si situa in quel territorio dell'arte visiva connotato dall'introduzione dei segni alfabetici del linguaggio scritto nella struttura, più o meno convenzionale, del quadro. Così non è tanto la tecnica del collage che riveste interesse quanto, appunto, quella dell'introduzione di lettere, di parole concetto che vale sia per Menetti sia per il suo "inventore" Picasso. Questi, infatti, preso da una sorta di freudiana "invidia del pene" nei confronti dello scrittore, per comunicare, in una natura morta, che sul tavolo c'è un giornale, rinuncia, anche con un pizzico di ironia, a dipingerlo e si limita a dare indicazioni significative, atte alla comprensione e all'autovisualizzazione, scrivendo le prime tre lettere della parola "journal".

Menetti è troppo affascinato dalla scrittura per potersi sottrarre ad essa, ma è altrettanto consapevole che qui non sta scrivendo, ma sta facendo "pittura", e allora, per così dire, "gioca": con grande finezza, e sempre con la sua ironia che, ovviamente, è anche autoironia, usa tutte le possibilità che il suo materiale, povero e limitato, può offrirgli, quindi delle carte carbone usa tutte quelle esistenti, anche quelle rare come le rosse e le verdi,, introducendo così il colore; i tagli, gli strappi, le sovrapposizioni delle veline, rispondono a fini compositivi ben precisi, mai sono segno di automatica casualità o di gestualità incontrollata.

Ma c'è di più: la scrittura stessa diviene materiale visivo, al di là di ogni funzione comunicativa specifica; infatti, a parte poche opere in cui troviamo un messaggio leggibile, l'artista riporta il foglio scritto al contrario: noi possiamo capire che si tratta di scrittura ma non possiamo leggerla; ci troviamo come di fronte all'oracolo che in Delfi "non dice né nasconde ma accenna".

In questa mostra, che ci sembra una tappa molto importante nell'itinerario artistico del Nostro, la carta carbone nera simbolicamente si estende fino ad occupare la galleria stessa, che essendo al buio è totalmente nera; le opere perdono la loro comunicabilità immediata e possono farsi comprendere solo con uno sforzo ermeneutico o, se vogliamo, archeologico, nel senso che potremo trovare un significato compiuto soltanto dopo un lavoro di ricerca che non può non procedere che per parti e casualmente: solo dopo questo faticoso lavoro di interpretazione delle "scritture sconosciute" e l'accostamento logico e casuale dei vari reperti saremo in grado di cogliere il senso dell'operazione.

Il costante uso di carte atte alla duplicazione della scrittura - carta carbone, carta velina per le copie, carta assorbente che, sebbene abbia un'altra funzione, poi, nell'adempiere questa, si trova necessariamente trasformata anche in oggetto che duplica lo scritto toccato - ci rimanda a quel problema eterno che è quello del rapporto tra lingua parlata e lingua scritta, tra la singolarità dell'originale e la pluralità delle copie.

[@img#s#Figura 2@]Già Platone, pur riconoscendo tutta l'importanza della scrittura, propendeva ancora per una superiorità dell'oralità, perché il testo è lì muto, come morto, e non può dialogare. Poi con l'invenzione della stampa altre polemiche relative al bene e al male della possibilità di divulgazione degli scritti, fino ad oggi in cui l'elettronica abolisce l'originale, perché se la carta carbone prima e le macchine fotocopiatrici poi riproducevano un testo originale, dal computer escono solo, se ci si passa il bisticcio, tanti originali identici. Menetti, anche qui con la sua sottile ironia, usa i primi, elementari, desueti mezzi di riproducibilità, appunto la carta carbone, forse anche con un po' di nostalgia e ripropone la questione della verità e della originalità della scrittura, rispetto ad altri mezzi comunicativi.

Fino a questo punto Menetti ci ha offerto problemi estetico-conoscitivi, ma c'è un altro aspetto che il suo lavoro ci spinge ad esaminare, ed entriamo nel campo dell'etica. Se le "parole sono pietre", come è stato detto, la scrittura è un macigno, è anche violenza: violenza sul foglio bianco, violenza della propria mano, violenza, a volte, per i contenuti. Menetti sa bene tutto questo e titola un ciclo dei suoi lavori, proprio a partire dalla violenza che il foglio subisce, "micro-violenze", ma sa altrettanto bene che il primo elemento di questa parola assolve funzioni diminutive, forse anche vezzeggiative. Del resto la stessa violenza è relativa: nell'erotismo ( non patologico) si praticano " micro-violenze"; i corpi degli amanti restano segnati da queste, e la cosa è senz'altro piacevole e positiva; altre violenze - micro o macro - portano il segno negativo. La microviolenza della scrittura è simile a quella dell'erotismo e Menetti con questa terminologia affettuosa ci porta, per analogia e per comparazione, a riflettere sull'opposto, cioè sulla macroviolenza, o violenza tout court. Ovviamente non c'è nessuna intenzionalità didascalica; si tratta di una conseguenza indiretta provocata dai contenuti del suo lavoro, come sempre per l'arte concettuale che non vuole la pura e semplice contemplazione, bensì la complicità nella riflessione e nell'analisi dei problemi che propone.

Da alcuni anni l'artista è solito usare delle linee tratteggiate che rispondono ad una molteplicità di scopi: da quello compositivo, a quello rappresentativo - nella verticalità - di una specie di peso, di filo a piombo indice della dirittezza, a quello ironico - come sorridendo dice lo stesso artista - di catena da toilette, a quello più pregnante di limite. Il quadro, cioè, oltre ai limiti, per così dire, naturali dati dal supporto, dai lati del foglio di carta, indica altri limiti, altre soglie. Anche qui non sono assoluti - la linea non è una retta uniforme, è tratteggiata - semplicemente suggeriscono una possibilità, un invito a scegliere, quindi a decidere, che non è imperativo.

Il cerchio, così, si chiude: l'horror vacui, inteso come condizione umana, si colma con la grande potenza della scrittura e con la grande possibilità di scelta che vuole sempre la posizione di confini, di limiti, entro cui agire o che possono essere oltrepassati per un nuovo posizionamento e un'ulteriore azione. Abbiamo, quindi, una metafora della vita; ma l'arte, in fondo, non vuole essere nient'altro.

"DO IT YOUR SELF", una mostra di Nanni Menetti

Le immagini della mostra

 

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