Martin Heidegger e il problema dell'opera d'arte: la questione ermeneutica.
Di Francesco Cardone
1. INTRODUZIONE AL PROBLEMA DEL TRAMANDAMENTO DEL SENSO DELL'ESSERE COME MOMENTO PREPARATORIO ALLA QUESTIONE DELL'OPERA D'ARTE.
In una qualsiasi indagine che abbia per argomento qualcosa che "è", è sempre presupposto una pre-comprensione di una delle parole che, dall'alba del pensiero greco, si è tra-mandata fino a noi - fondatori del più imponente progresso tecnico -, la parola in questione è: Essere, Sein, Être, Esse, ει̃ναι. Il nostro linguaggio, se pur così logicamente formalizzato, smussato dall'esigenza di questo "progresso" del pensiero, non avrebbe senso se come per incanto svanisse dalla sua struttura l'inappariscente parolina "è". È singolare che l'importanza di questa parola sia direttamente proporzionale alla vacuità del suo senso (o meglio dei suoi molteplici sensi tramandati).
È una questione che deve far meditare molto: più una parola è essenziale per tutto ciò che concerne la nostra vita nella sua interezza, più il suo significato si lascia sempre velare, come qualcosa ad essa costitutiva.
Posta in questo modo, la ricerca del senso dell'essere non può pretendere di chiarire il suo significato in funzione dell'immagine strutturale del linguaggio. Senza questa parola l'intera struttura del linguaggio (almeno nella tradizione occidentale) cadrebbe a pezzi. Questo ci deve far capire che la parola essere denota molto di più di una semplice forma verbale. Questo "di più" è forse "ciò" che permette la stessa possibilità della significazione: ossia la struttura formale della mondità del mondo. Chiediamoci adesso: questo "ciò" che rende possibile la significazione è il fondamento di tutti i fondamenti? Esso può essere inteso come un ente al di là del quale non è possibile andare?
Se ci chiediamo "cosa è l'essere", una domanda per molti aspetti ovvia, ci troviamo gettati in un "ambito" del pensiero oscuro. La metafisica chiede di ogni cosa ciò che essa è, ossia la sua essenza. Proprio Platone, a tal riguardo, chiama il "che cosa un ente è" la sua ι̉δέα. Essa è l'e-videnza della cosa compresa nel suo nocciolo essenziale, ossia nella sua generalità. Ciò che è generale di un ente, quale ad esempio di una casa, è ciò che "raccoglie" tutti i modi di mostratività dell'ente, ciò che fa di ogni singola casa l'esempio dell'idea di casa. Ma se adesso ci chiediamo qual è l'idea della parola essere, ecco che l'imbarazzo ci soprassale. Posto cioè che l'idea è il nocciolo essenziale su cui si dispiegano gli infiniti modi dell'essere, come possiamo denotarlo, e ancora, come si mostrano gli infiniti modi di tale idea?
Noi diciamo di ogni "cosa che è" è un ente, appunto qualcosa che è. Ma cosa significa per un ente essere?
Interrompiamo per un attimo la nostra ricerca e immaginiamo di essere un pesce dentro il suo elemento naturale. Se proviamo ad uscir fuori da quest'elemento, con l'intenzione di voler circoscrivere con lo sguardo i limiti di questa regione, cessiamo di vivere. Il pesce non potrà mai rap-presentare l'elemento in cui nasce, vive e muore. Ebbene, proprio questa è la condizione in cui il nostro pensiero svolge se stesso. Il pensiero non può oggettivare - porselo di fronte - il suo elemento, poiché ciò comporterebbe non pensare. Il pensiero, come il pesce, svolge tutte le sue possibilità nel suo elemento "naturale", ma, come il pesce, non bada mai a quest'elemento per se stesso, e se lo pensa lo rappresenta come tutto ciò che è. Ma possiamo affermare con certezza che l'elemento del pensiero "è"?
Immaginiamo il nostro pensiero come un doppio occhio, uno interno e uno esterno, il quale vede tutto ciò che "è". Ebbene dov'è l'Essere? Noi ad esempio diciamo che questo quadro è un ente, ossia qualcosa che "è", ma dov'è che troviamo quest'"è"? Qui il punto difficile (l'imbarazzo del pensiero) è pretendere di vedere ciò che ci permette di vedere. È proprio in questi termini che si pone il rapporto tra pensiero ed essere, tra uomo ed essere. È indubbio che a differenza del pesce il pensiero può immaginarsi un occhio che, immerso nel suo elemento, "percepisce" quest'ultimo come qualcosa che "è", ma questo non significa "vedere" questo elemento per se stesso. La trascendenza svolta in questo modo dal pensiero è resa possibile da questo elemento stesso. Quindi, con quest'operazione il pensiero non si è posto fuori dal suo elemento, ma lo ha ridotto ad un oggetto del rappresentare, ad una sorta di spazio contenitore. Si badi: non è che quest'occhio in origine era fuori da quest'elemento, come se, andando a ritroso, potessimo trovare il momento in cui i due estremi di questo rapporto s'incontrarono. Per ogni tentativo di rintracciare una possibile origine di questo rapporto (Bezug) - dalla religione alla scienza - noi siamo sempre risospinti in questo rapporto.
Se non c'è dato di trascendere questo rapporto - poiché la stessa trascendenza è una possibilità di esso -, allora l'unico modo per cogliere questo "elemento" (l'Essere), è quello di meditare questo rapporto senza pretendere di poterne uscire. In tal modo il pensiero diventa pensiero ermeneutico. Esso è tale perché in primo luogo medita sul rapporto al suo elemento, alla sua Sache. Il pensiero ermeneutico è il pensiero che pensa il rapporto di pensiero e essere. Questo rapporto, però, non è oggettivabile; esso semplicemente at-trae pensiero e essere, non certo come il semplice approssimarsi di questi due termini, bensì come lo schiudersi di pensiero ed essere nell'unità differenziata del loro rapporto. Ciò significa che ogni ricerca sull'essere parte e termina solo nel rapporto che raccoglie pensiero ed essere. Meditare un tale rapporto è perciò il primo e l'ultimo passo dell'indagine non solo del senso dell'essere, ma anche del pensiero, ossia dell'essenza dell'uomo. Ciò comporta che ogni indagine sul senso dell'essere deve includere un continuo chiarimento dell'essenza dell'uomo, e ogni indagine sull'uomo presuppone una comprensione dell'essere - da qui la necessità del circolo ermeneutico. Proprio in questo continuo rispecchiarsi, in questo gioco riflettente, in cui ciascun termine rimanda all'altro, si svolge ciò che Heidegger chiama la kehre del pensiero, ossia lo stesso svolgersi del pensiero rispetto alla sua Sache. Da ciò Heidegger differenzia il suo pensiero da quello dialettico. Egli definisce questo pensiero tautologico[i][1], ed è in questo pensiero che secondo il filosofo si svolge il senso originario della fenomenologia. Questo genere di pensiero sta ancora al di qua di qualsiasi distinzione fra teoria e prassi. Per comprenderlo bisogna distinguere fra via (odos) e metodo (methodos). Nel pensiero propriamente detto ci sono solo vie, nelle scienze invece ci sono metodi, vale dire modi di procedere.
È significativo che Heidegger abbia iniziato la sua ricerca del senso dell'essere mettendo in questione il modo d'essere dell'uomo, ossia l'uomo in rapporto alla sua originaria com-prensione dell'essere: nel rapporto uomo essere il primo si mostra come esser-Ci (Da-sein). Bisogna però subito precisare che, nel pensiero heideggeriano, non esiste una mera equivalenza tra uomo ed esserci, bensì l'uomo è ciò che è (west) poiché si apre (in-siste e-sistendo) da sempre all'ascolto dell'essere. Il che ci porta a dire che "esser-Ci" indica l'esistenza dell'uomo dalla prospettiva dell'apertura (il Ci) dell'essere. L'esserci è lo svolgimento del rapporto uomo essere dalla prospettiva dell'ascolto dell'essere. Questo è però solo uno dei tempi di questa composizione. Il secondo è il chiarimento dell'essere partendo dal modo d'essere dell'esserci. Per cui l'esserci è pensato in base al carattere aprente dell'essere, che inerisce in modo essenziale all'essenza dell'uomo. Ogni determinazione dell'essere com-porta una determinazione dell'essenza dell'uomo. Non a caso quando dell'essere rimane solo una vuota parola anche nell'indeterminato permane l'essenza dell'uomo. In ciò forse si chiarisce il senso attuale del Nichilismo.
Nella kehre del pensiero la ricerca dell'essere parte dal modo d'essere dell'esserci e poi rivolge le strutture dell'esserci verso l'essere. In pratica da un lato l'esserci dell'uomo è elaborato tenendo presente il costitutivo rapporto dell'uomo all'essere, ossia il suo essere ontologico, dall'altra l'elaborazione della ricerca dell'essere si svolge grazie ai risultati dell'ontologia dell'esserci. Il chiarimento di un estremo del rapporto presuppone il chiarimento dell'altro estremo. Il che comporta che non si è mai completamente dentro un estremo, come se fosse oggettivato per se stesso, bensì si è sempre nel rapporto di entrambi. È in questi termini che la kehre del pensiero è possibile, ed è questo il senso della parola Er-eignis (evento tras-propriante).
In tal senso parlare della storia dell'esserci significa ad un tempo parlare della storia dell'essere, ossia dei suoi invii destinali. Questi invii destinali si presentano ad un primo sguardo come le molteplici configurazioni dell'essente nella sua totalità. Un esempio evidente di queste diverse configurazioni dell'essente è quello mostrato nei diversi significati della parola "natura": φύσις, ι̉δέα, εντελέχεια, ens creatum, oggettità, sapere assoluto, volontà di potenza, la natura come riserva di energia disponibile per l'uomo. Tutte queste configurazioni dell'essente inviate nelle diverse epoche storiche, non sono un prodotto dell'uomo, ma il semplice schiudersi del rapporto uomo essere: perché la natura diventi disponibile per l'operato umano, essa stessa deve mostrarsi all'uomo, appunto come riserva di energia. La natura contiene tutte queste possibilità, ma perché siano attuate vi deve essere una misura, ossia si deve trasformare la υβρις in τέχνη.
Ma chi è che scorge queste possibilità? Chi le annuncia? Sono forse i poeti? O i pensatori? O ancora meglio il colloquio (Gespräch) che s'instaura tra poetare e pensare?
Il fatto che qui sia messo in evidenza la partecipazione dell'uomo nella determinazione del significato dell'essere e dei suoi invii destinali non è secondario per la nostra ricerca. Rispondere alla domanda "chi sia l'uomo" necessita, in primo luogo, del chiarimento del suo rapporto con l'essente che gli sta di contro. Infatti proprio in questo rapporto l'uomo tenta di volta in volta di recare l'essente nel suo essere, pro-getta l'essente in vista del suo essere. Ma questo significa poetizzare l'essente. La ποίησις è qui da intendere come un pro-durre, un istituire, un far-avvenire alla presenza, e ancora, un condurre-fuori, ossia uno schiudersi. Ma allora ποίησις è φύσις: il movimento (κίνησις) iniziale della pro-duzione dell'ente nel suo essere. In tal senso la ποίησις e la φύσις dicono il Medesimo (Selbe): il disvelamento, das Entbergen, il movimento intimo dell'αλήθεια.
Il rapporto che s'instaura tra ποίησις e φύσις diventa fondamentale per ciò che riguarda la ricerca del senso dell'essere. L'essere è lo stesso svolgersi di questo rapporto, e, non a caso, i primi pensatori greci non erano ancora filosofi, bensì pensatori che avevano poeticamente scandagliato la φύσις, l'essere. Allo stesso modo questo rapporto non è al di fuori del tempo, anzi si può affermare che il significato originale del tempo sta proprio nello svolgersi del rapporto di uomo ed essere. Non a caso Heidegger ha iniziato la sua ricerca del senso dell'essere col porre in stretto rapporto essere e tempo; un rapporto che inerisce la stessa essenza storica dell'uomo. Tutto questo ci porta a dire che il senso dell'essere sta nel tra-mandamento dell'essere dell'essente da epoca a epoca. L'essere è Ge-schick, destino che s'invia (schickt) all'esser-Ci dell'uomo, il quale lo riceve perché lo poetizza, lo istituisce, lo pro-duce nell'aperto di un'apertura.
Si può allora dire che la filosofia heideggeriana può essere pensata come una teoria della tra-duzione, ossia una teoria che pensi fino in fondo il tra-mandamento da un punto di vista prettamente filosofico. Basta in tal senso riflettere sullo stesso metodo di indagine utilizzato da Heidegger: 1) la ripresa di un termine greco, che viene ritradotto "più grecamente", dopo aver percorso il cammino dei suoi travisamenti successivi, a partire dalla prima traduzione latina; 2) oppure il cammino inverso, quello etimologico, che partendo da un termine tedesco, cerca di risalire verso un suo originario significato. Non è dunque azzardato dire che questo duplice procedimento, lungi dal configurarsi come un mero espediente tecnico, si mostra in realtà espediente non meramente filologico, bensì filosofico: il tradursi, lo sviarsi, il costruirsi-decostruirsi della parola, descrive la vicenda, l'avvicendarsi, il cammino (Weg) dell'Essere. Perciò, non vi può essere altra via (odos) di incontrarlo, se non quella di porsi all'ascolto del movimento che attraversa il linguaggio: il linguaggio è essenzialmente linguaggio tramandato. L'essere è allora la storia (Geschichte) dell'essere, ma questa storia si svolge solo come storia del linguaggio, che, a sua volta, si concretizza nel pro-getto poetico dell'essente nella sua totalità.
In tal modo non possiamo più intendere il linguaggio come una struttura sintattico-semantica, e la parola come l'insieme di significato e significante. E questo semplicemente perché tale struttura è il risultato di un'impronta storica dell'essere, un invio d'essere. Ma allora anche la classica teoria della traduzione non può essere più accettata. Tale teoria intende la traduzione come il "trasferimento" di un significato da una lingua ad un'altra; ciò che nel passaggio si trasforma è il solo significante, ossia il semplice lato fonico e grafico della parola. In tal senso quanto più una traduzione sarà letterale, tradurrà cioè un testo parola per parola, tanto più essa assolverà il suo compito: quello di restituire "intatto" il significato, pur nel modificarsi della forma linguistica.
Ora, proprio questa idea di traduzione sembra ad Heidegger illusoria e ingenua: se ad esempio traduciamo la parola einai con essere, la traduzione è senz'altro letterale, ma tuttavia noi sostituiamo una parola con un'altra diversa. Questa traduzione non è dunque un'operazione innocua e innocente come potrebbe sembrare. Specifica Heidegger: «ci siamo limitati a sostituire alle parole greche ens ed esse o Sein [essere] e Seindes [essente]. Con questa semplice sostituzione non arriviamo a nulla [.] Non basta sostituire le parole greche con altre di altre lingue, anche se queste hanno una vasta notorietà»[ii][2]. L'idea di questa innocua sostituzione è per Heidegger assolutamente illusoria: la traduzione letterale inganna, essa non consente quella fedeltà all'originale che pure sembra massimamente promettere: «il fatto che una traduzione sia semplicemente letterale non significa per ciò stesso che sia anche più fedele a ciò che è detto. Un traduzione è fedele solo se le parole parlano il linguaggio della cosa in causa»[iii][3]. In tal modo si inizia a intravedere il compito che deve assolvere una corretta traduzione: più che un'ottusa fedeltà, le è richiesta una capacità di tradursi nel tra-durre, una capacità, cioè, non solo di trasportare, ma anche di lasciarsi trasportare nel suo rapporto col testo. Questo significa che il movimento tra le due lingue deve essere reciproco: un andare-e-venire dall'una all'altra, e quindi mai in senso unico. Solo in questo modo è possibile ascoltare ciò che davvero parla in una lingua: «dobbiamo piuttosto lasciare che le stesse parole greche ci dicano ciò che esse nominano. Dobbiamo trasferire la nostra capacità di ascoltare nell'ambito del Dire poetico [Sagebereich] della lingua»[iv][4]. In questo movimento reciproco, la tra-duzione porta alla parola dell'Essere proprio un'altra trasposizione, e precisamente anche qui una che avviene a partire dal velamento (λήθη) dell'Essere, la trasposizione di un'altra umanità nel tutto dell'ente. La traduzione allora fa riferimento a un'altra trasposizione; è quest'ultima quella che per Heidegger è la traduzione che è da pensare, quella cioè che sempre, anche all'interno della stessa lingua, trascina la parola fuori di sé, dai suoi contesti e significati abituali, per portarla altrove, a costituire linguaggi per diverse umanità storiche, con ciò stesso dischiudendo all'Essere una nuova apertura.
Il tradurre non è semplicemente il trasporto di un significato da un significante ad un altro; il fatto che il significato cambi la veste che lo ricopre, non lo lascia inalterato. Ma allora il cambiar-luogo della verità dell'Essere indica il movimento stesso di questo passaggio che conduce da una parola all'altra.
Il luogo (Ort), in cui la traduzione fa pervenire la parola, richiede sempre una Erörterung, la quale non è mai semplice dislocazione, ma è apertura di un nuovo spazio, darsi di un luogo, nuova collocazione. Ma perché questa complessa operazione riesca, non è solo necessaria una competenza filologica, ma è richiesta anche la capacità di tradursi, di dislocare e ri-collocare ogni volta il pensiero stesso. Puntualizza Heidegger nello scritto Il detto di Anassimandro: «Ciò che noi ci proponiamo è di tradurre il detto di Anassimandro. Il che richiede, da parte nostra, il trasferimento di ciò che è stato detto in greco nella nostra lingua tedesca. Al qual fine richiede che il nostro pensiero, prima di tradurre, traduca se stesso in ciò che è detto in greco. Il trasferimento pensante in ciò che nel detto accede alla propria lingua, è un salto oltre il fossato. Fossato che non è costituito soltanto dalla distanza storiografico-cronologica di due millenni e mezzo. Il fossato è più largo e più profondo. Esso è così arduo da scavalcare, prima di tutto perché ci troviamo sul suo orlo. Siamo così vicini al fossato da non poter prendere la rincorsa per compiere un salto così lungo e arduo; perciò, di solito, saltiamo troppo corto, ammesso almeno, che la mancanza d'una sponda sufficientemente sicura renda possibile il salto»[v][5].
Tradurre è: andare-oltre e tornare-indietro da una lingua all'altra. In questo continuo rimando da un estremo all'altro iniziamo ad intravedere il movimento che dallo straniero porta al proprio. Ora però lo straniero non è la lingua arcaica, quale ad esempio il greco, bensì è proprio il tedesco ad assumere, per Heidegger, il significato di straniero; in tal senso, la lingua madre, la lingua madre dell'occidente, è la lingua greca. Il tradurre inteso come tradursi significa portare lo straniero nel proprio[vi][6]. Tale traduzione non accade però con fluidità, senza ostacoli: essa si configura come l'oltrepassamento di una frattura larga e profonda. La traduzione è un trans-porre, indica un passaggio ad un'altra sponda. Il punto è che i bordi su i quali le due lingue si affacciano non sono come le labbra di una medesima bocca: essi sono separati da un profondo fossato; nessun ponte può congiungerli e collegarli. La tra-duzione da una lingua ad un'altra richiede un salto (Sprung), il quale porta con sé il rischio continuo di sprofondare o di non trovare lo slancio adeguato per oltrepassare la distanza che separa le due sponde. Ora, proprio la difficoltà di questo passaggio mostra il darsi di una frattura, di una cesura: il darsi di una opacità irrimediabile, di una non-trasparenza che rende incomunicabili le due lingue; il permanere, in ciascuna di esse, di un fondo "intrattabile" di silenzio, di oscurità che non si lascia né ascoltare, né vedere. Heidegger lo chiama oblio dell'Essere, mostrandolo all'opera fin dalla prima parola con cui l'Occidente ha pensato la verità: α-λήθεια. Ed è proprio quest'oblio il fossato che ogni traduzione deve attraversare, senza cadere in esso; ma allora è dall'oblio di quest'oblio, dalla dimenticanza stessa che esiste un fossato e che nessun ponte lo può attraversare, che ogni traduzione deve partire. Essere consapevoli di questa frattura è già il primo fondamentale da-tradurre del pensiero.
Ma allora come superare il fossato senza cadere nell'arbitrio e nella presunzione di una totale trasparenza e trasferibilità delle due lingue? Chiarisce Heidegger in un passo del Il detto di Anassimandro: «Siamo vincolati alla lingua del detto, siamo vincolati alla nostra madrelingua e, per l'uno e per l'altra, siamo vincolati essenzialmente al linguaggio e alla comprensione della sua essenza. Questo vincolo è più esteso e rigoroso, anche se meno appariscente, di tutti i criteri derivanti dai fatti filologici e storiografici, che, in effetti, sono debitori della loro natura di fatti al vicolo suddetto. Fin che non ci renderemo conto di questo vincolo, ogni traduzione del detto di Anassimandro apparirà come un semplice arbitrio»[vii][7].
C'è un vincolo profondo, che tiene insieme, al di là d'ogni frattura ed estraneità, le lingue, che consente il salto oltre il fossato, il passaggio dall'una all'altra. Questo vincolo è più nascosto, ma non per questo meno importante, anzi esso è il più essenziale, in quanto rende più co-appartenenti due lingue diverse, e questo grazie all'essenziale rapporto al linguaggio. Se una profonda frattura divide due lingue, tuttavia è possibile tra-dursi dall'una all'altra, poiché un medesimo vincolo ci lega, ci fa appartenere al linguaggio, dal momento che in ognuna parla il vincolo che ci lega al darsi dell'Essere in parola. Questo però non elimina l'arbitrio e il rischio della traduzione. Anzi, quanto più si tratterà di un pensiero che si traduce, tanto più arrischiato e violento sarà il risultato: la traduzione resta sempre un presumere.
Questi caratteri, per così dire, negativi della traduzione, però, non impediscono lo svolgersi di essa, anzi solo così essa può davvero tradurre, rimettere in comunicazione lingue diventate assolutamente straniere. Ma è solo in virtù del più profondo vincolo che ci lega all'essenza del linguaggio, che la lingua di Anassimandro, Eraclito e Parmenide può essere ancora ascoltata da noi occidentali, abitatori di quella terra-della-sera (Abend-land), le cui parole sono giunte fino al loro estremo annichilirsi nella filosofia di Nietzsche. Il pensiero di Nietzsche giunge al linguaggio, mostrando ciò che ora è essente (la volontà di potenza), giunge però ad un linguaggio in cui parla la bimillenaria tradizione della metafisica occidentale, ad un linguaggio che l'Europa parla, sia pure attraverso una lunga serie di traduzioni, sia pure logorato, appiattito, stravolto e privato delle sue ragioni.
La storia del pensiero occidentale, da Anassimandro a Nietzsche, si presenta come una serie successiva di traduzioni. Grazie ad esse la lingua in cui Nietzsche parla, la nostra lingua, è ormai una lingua divenuta straniera, completamente logorata e stravolta; tuttavia la comune appartenenza all'essenza del linguaggio, il permanere di questo vincolo fondamentale, consente ancora di poter risalire da essa al luogo della sua provenienza, affinché nell'ultima parola possa ancora risuonare la prima[viii][8]. In questo modo la traduzione deve collocarsi in un orizzonte escatologico, per poter tradurre nella fine il compimento dell'inizio e far risuonare nell'ultima la prima. Di questo carattere escatologico dell'essere parlano alcuni versi di una lirica dello stesso Heidegger: «essere è evento / evento è inizio / inizio è conclusione che diverge / divergenza è congedo / congedo è essere»[ix][9].
È da notare che in questo processo di incessante traduzione, il più largo fossato che si apre nella lingua si consuma, per Heidegger, nella traduzione dal greco al latino. Se infatti già con Platone inizia il primo tradursi / tradirsi della verità dell'Essere intesa non più come aletheia, dis-velatezza, ma come idea, visione, e dunque come orthotes, giustezza, esattezza del vedere, se già all'interno della stessa lingua greca inizia un lento ma inesorabile processo di traduzione-travisamento delle prime parole originarie del pensiero, è tuttavia proprio con il passaggio a un'altra lingua, con la vera e propria traduzione del pensiero greco in quello latino, che questo sotterraneo erramento raggiunge la sua massima evidenza. Di più ancora: la traduzione delle categorie greche in quelle latine è anche un tra-passo, poiché chiude definitivamente per noi qualsiasi possibilità di ritorno all'esperienza greca del pensiero, facendo del greco una lingua morta. Infatti qualsiasi tentativo di resuscitarla non può prescindere dall'orizzonte latino, nel cui vocabolario la nostra lingua è ormai fissata. L'Occidente nasce veramente solo in quel punto di non ritorno in cui il mondo greco tramonta nella sua traduzione latina. Qualsiasi riproposizione di esso si scontra con l'inadeguatezza del linguaggio che, proprio a partire dalla romanità, è giunto sino a noi.
Con la traduzione latina, si apre, secondo Heidegger, un continuo travisamento e impoverimento del senso originario delle parole greche. Il compito del traduttore è allora un compito estremamente arduo: «per noi si tratta, invece, di saltare tutto questo processo di deformazione, di degradazione, per cercare di riconquistare l'indistruttibile forza evocativa della lingua e delle parole»[x][10]. Compito certamente disperato dato che lo Sprung (salto) che ci separa dalla nostra lingua madre ci costringe a poter ripensare ad essa solo a partire dal nostro bordo, da quell'estrema sponda straniera che è ormai diventata la "nostra" lingua, l'unica che davvero parliamo e conosciamo. Eppure questo compito impossibile, assolutamente disperato, è l'unico che davvero spetti al pensiero, che meriti di essere pensato. Poiché nella traduzione non sono in gioco solo le parole, ma ogni volta il destino dell'Essere, e, come si è visto, il pensare grecamente è un modo dell'Essere molto diverso da quello latino.
I nostri linguaggi, le nostre lingue europee non sono che l'esito estremo di questo movimento di traduzione-travisamento, di alienazione del pensiero in una parola che non riesce più a ri-trovarlo ed esprimerlo. Quest'epoca dell'erramento, la metafisica, è dunque una "cattiva" traduzione delle parole fondamentali della grecità; poiché essa è la lingua nella quale il pensiero occidentale si è costituito. Ma allora come è possibile ritrovare una sia pur pallida eco del risuonare originario delle parole? «La difficoltà si trova nella lingua. Le nostre lingue occidentali sono, ognuna in modo diverso, lingue del pensiero metafisico. Se l'essenza delle lingue occidentali porti con sé soltanto l'impronta metafisica, un'impronta quindi definitiva, della onto-teo-logia, o se queste lingue conservino altre possibilità del dire, ossia in pari tempo del dicente non-dire, è un problema che deve restare aperto»[xi][11].
L'incessante interrogare heideggeriano si muove proprio in questa apertura, nell'irresolubilità di questo problema, nell'impossibilità di dare una risposta univoca, che valga per sempre. Si può dire che questo spazio è la domanda che muove sotterraneamente tutto il suo pensiero. Infatti nell'oscillazione tra il negare e l'affermare la possibilità di una parola non metafisica si fonda la stessa modalità del darsi dell'Essere oltre l'orizzonte nichilistico della metafisica compiuta. Sulla possibilità di questo linguaggio si concentra del resto tutto lo sforzo di Heidegger. Per questa ragione, la prima e fondamentale domanda da porsi è la seguente: «Una semplice traduzione può aver causato tutto questo? Forse ora impareremo a meditare ciò che può accadere nel corso di una traduzione. L'incontro - autentico e conforme al destino dell'essere [geschickliche] - dei linguaggi storici [geschichtlichen] è un evento silenzioso. In esso parla il destino dell'essere [Geschick des Seins]. In quale lingua traduce la terra della sera, l'Occidente?»[xii][12].
La risposta a quest'ultima domanda è per noi adesso abbastanza chiara: l'Occidente traduce "in metafisico"; questa è la lingua che gli è propria, ed è in questo linguaggio, a partire soprattutto dalle traduzioni latine, che pensano tutte le lingue europee. La storia dell'Occidente è perciò la storia delle successive traduzioni delle parole fondamentali; ciò significa che il linguaggio ha un carattere essenzialmente storico. Questa constatazione non è però la semplice affermazione del divenire delle lingue. Questo concetto di storicità è ancora più radicale: se il linguaggio è l'apertura fondamentale a partire da cui si istituisce di volta in volta l'essente nella sua totalità, ossia è la casa dell'essere, allora il parlare storico delle lingue è disposto ogni volta dall'invio dell'Essere. Proprio la varietà delle significazioni è sempre storica. Poiché essa proviene dal rapporto del dire dell'uomo con gli invii dell'essere: noi siamo ciò che siamo in quanto reclamati dagli invii dell'Essere nel dominio del linguaggio. Nella molteplicità di significati di una parola è raccolto il suo di volta in volta essersi data storicamente, il suo aver trasmesso, ogni volta in modo diverso il darsi dell'Essere. Possiamo allora dire che la storia è storia di parole nel senso che è eminentemente storia del loro tradursi, effetto di traduzione. Proprio in questo differimento la differenza (Unterschied) che allontana e separa una parola dall'altra, un significato dall'altro, è produttiva, anzi è la ricchezza stessa di un lessico, di una lingua. Ma la molteplicità di sensi di una parola, il fatto che essa possieda differenti significati, non è solo frutto di un differimento temporale. Infatti questa distanza, questa differenza temporale è rilevante proprio a partire da quella differenza che è il tradursi della parola. In altri termini: la storia è storia in quanto tra-duzione, in quanto passaggio, trasporto di parole non solo da un significato all'altro, ma anche in quanto processo di slittamento del significato. Ed è proprio questo slittamento, questa deriva, questo sviamento ed erramento che fa di una parola fondamentale (Grundwort) una parola guida (Leitwort). Perciò la tra-duzione non è solo processo di degradazione e di oblio del senso originario, ma è anche effetto produttivo di senso, che è un tutt'uno con la vitalità e la ricchezza di una lingua, l'unico modo che le assicuri una sopravvivenza.
Da questo punto di vista il processo di traduzione non può essere opera dell'uomo, ma dello stesso inviarsi dell'Essere nella parola. È per questo che Heidegger insiste molto sul fatto che il linguaggio non è un prodotto dell'uomo, uno strumento che egli adopera per esprimere il suo pensiero. In un certo modo è l'uomo ad essere usato dal linguaggio perché gli invii dell'Essere siano custoditi. La traduzione è lo svolgersi storico di questa continua custodia degli invii. Se poi, come abbiamo detto all'inizio di questo paragrafo, indagare il senso dell'essere significa portarci nel rapporto uomo essere, nel loro vicendevole rimando, allora la partecipazione del pensiero in questo rapporto non è secondario, il che comporta che il tradurre è sempre un interpretare. Quest'ultimo non è semplicemente il metodo del giusto comprendere, ma essenzialmente il modo stesso con cui l'Essere si dà (Es gibt) al pensiero. L'uomo si immette nella "de-cisione storica" che fonda un nuovo orizzonte per una diversa umanità, proprio nel processo di traduzione-interpretazione. Bisogna insistere sul fatto che l'interpretare non può essere semplicemente inteso come una decodifica, nel senso che non consiste nella ricostruzione, in maniera filologicamente esatta, di un contesto storico in cui un'opera, un pensiero si collocano. L'interpretare è storico, in quanto costituisce nel modo più intimo la tradizione (Überlieferung), ossia la storicità come trasmissione dell'Essere in messaggi linguistici.
Pensare la traduzione come interpretazione ogni volta a partire da una tradizione, significa, per Heidegger, porsi in ascolto della parola, volta per volta diversa, attraverso la quale l'Essere si invia. In tal senso, il passaggio cui la tra-duzione allude è lo stesso che muove la tra-dizione, fino a costituire un medesimo movimento. La tradizione non è nient'altro che lo slittamento di significati, il tradursi successivo delle parole fondamentali, l'accadere dei Leit-Worte. Potremmo dire che il tra-mandamento è la forma eminente attraverso la quale Heidegger pensa la traduzione: «Là dove il parlare delle parole fondamentali viene tradotto (übersetzt) da un linguaggio storico ad un altro, la traduzione diventa tradizione. Se si irrigidisce, una tradizione può degenerare, tramutandosi in peso e in ostacolo. Ciò può accadere poiché la tradizione, e cioè il «tramandare» (Überlieferung), come dice il nome stesso, è propriamente un «mandare» (liefern) nel senso latino del liberare, della liberazione. La tradizione, in quanto è un liberare, porta alla luce tesori nascosti del «già stato», anche se tale luce è ancora soltanto di un'aurora esitante»[xiii][13]. La tra-dizione è dunque tra-duzione, tras-missione, trasporto di senso. Grazie a questo movimento la tradizione-traduzione non solo ri-mette, fa circolare, ci consegna significati del passato, ma, proprio mettendoli in movimento, trasportandoli, essa li apre, li trasforma, producendo nuove significatività. Possiamo allora sostenere che la tradizione in quanto differimento e differenza, non è altro che il tramandarsi di questa stessa differenza (Unterschied). La molteplicità, la novità del significato dipende infatti dal suo tramandarsi in successive traduzione, in una dislocazione continua di senso.
Ora però, se la traduzione è pensata come differenza assoluta, cioè come trasporto non solo del significante, ma anche del significato di una parola, in altre parole se essa è pensata senza il rapporto alla tradizione, si può ancora davvero parlare di traduzione? Infatti, che rapporto potrebbe ancora intercorrere tra due parole assolutamente diverse, sciolte da qualsiasi legame (tradizione) che le unisca? Eppure in precedenza si è parlato di un vincolo che Heidegger intravede tra lingue diverse, cioè del vincolo che ci lega tutti all'essenza del linguaggio. Nelle sue innumerevoli sfaccettature il linguaggio nel suo parlare è (west) il nostro unico orizzonte, l'elemento del pensiero. Da qualsiasi parte ci volgiamo, ciò che torna a parlarci è il Medesimo vincolo di coappartenenza di uomo ed essere, il quale si svolge come essenza del linguaggio. Allora, la traduzione non è per Heidegger né semplice trasporto di un significato che permane identico nel mutare del significante, né, d'altro canto, imposizione di una parola assolutamente differente. In entrambi i casi, infatti, non si darebbe vera traduzione, poiché così nulla passerebbe. La traduzione è tra-duzione solo in quanto è capace di far passare nel differente il Medesimo. Ma il medesimo non è un significato che permane "identico", è, semmai, il Permanere dell'inviarsi, del tradursi di volta in volta dell'Essere nella parola. Questo Medesimo è da pensarsi come la struttura fondamentale attraverso la quale l'Essere si dà, si trasmette nella parola. Si badi ,però, che questa "struttura" non è pensabile come un sistema storico perfettamente trasparente, essa è invece la Topologia dell'essere, ossia la disseminazione di luoghi di senso in cui, da una parte, l'ente di volta in volta è fondato, dall'altra, l'Essere dislocando luoghi vela se stesso. Ogni luogo è legato all'altro perché appartengono alla Medesima topologia dell'essere. È per questo che l'ultima parola di Nietzsche può colloquiare con la prima parola di Anassimandro: «Il primo detto del pensiero iniziale e l'ultimo detto del pensiero finale conducono a farsi parola il Medesimo [das Selbe], ma non dicono l'Eguale [das Gleiche]. Quando nel diseguale è possibile parlare del Medesimo è soddisfatta da se stessa la condizione fondamentale per un colloquio di pensiero fra inizio e fine»[xiv][14].
Ciò che rende possibile la traduzione, ciò che essa trasporta, è il Medesimo, che giunge a farsi parola nel differente. È per questo che si può parlare di traduzione e non di arbitraria sostituzione di una parola con un'altra. Il legame, che unisce le parole - dalla loro differenza -, è il rapporto a questo Medesimo che dall'una all'altra s'invia, si trasmette, si tramanda.
Tutto il problema della traduzione, appena visto, inerisce nel modo più intimo la questione dell'ermeneutica heideggeriana, che ha come intento fondamentale fare esperienza del rapporto uomo essere. Rapporto che, come si è visto, raccoglie nel medesimo tutte le diverse epoche storiche dell'occidente. L'ermeneutica è l'Erörterung di tutte le vie e luoghi che quel Medesimo campo ha lasciato-essere, essa è perciò l'ascolto di quella continua disseminazione di sensi, che il linguaggio ha da sempre custodito e svolto.
Diventa allora chiaro che il problema dell'opera d'arte necessita di essere collocato in quest'unico svolgimento del rapporto uomo essere. L'opera sarà intesa come un luogo in cui si raccoglie questo rapporto, e che le permetterà di essere tra-mandata da un epoca all'altra, non però come un "oggetto" conchiuso che si trova "dentro" il tempo, ma come uno dei luoghi in cui il tempo si temporalizza; l'opera può aprire il tempo perché si dà (Es gibt) come suo stesso svolgimento, il che comporta che il suo tra-dursi, il suo tra-mandarsi non è qualcosa di separato dalla sua essenza, come appunto un oggetto che subisce un mutamento esterno. Prima di qualsiasi determinazione estetica vi è lo svolgimento del rapporto di uomo essere, e questo svolgimento è l'orizzonte temporale del senso dell'essere, ossia del suo disvelante-velarsi.
Viene spontaneo pensare l'opera d'arte come la parola - in base al medesimo movimento (κίνησις) -, la quale permane nel suo mutare, essa è prima di tutto Leit-wort, Weg, nel suo tracciare-tracciarsi mostra il medesimo campo, e questo perché slitta, ossia tra-duce tra-ducendosi. La parola (l'opera) non è mai un contenitore statico - è questo perché la possibilità di denotare la parola come significante di un significato è essa stessa frutto di una traduzione -, essa, allora, è κίνησις, movimento di allocazione di senso. Non è, quindi, un oggetto che subisce il mutare del tempo, ma è ciò che permette al tempo di svolgersi nelle sue tre estasi: esser-stato, presentazione e ad-venire.
Comprendere l'opera d'arte significa, in primo luogo, chiarire il suo carattere tramandante, il suo tradursi per nuove epoche; non certo come qualcosa ad essa aggiunto, bensì come suo modo di essere. Non è forse proprio questo suo carattere a rendere possibile una continua e sempre nuova lettura di un'opera, come, ad esempio, la Divina commedia? Ma, come si è chiarito in precedenza, il suo tramandarsi è possibile solo per quell'essenza dell'essere, che si dispiega nel suo rapporto con l'esserci dell'uomo. Solo quindi se partiremo da questo rapporto, ci verrà indicata l'origine della sua essenza. E a sua volta, solo se mostreremo il carattere aprente dell'opera, si chiarirà la portata del rapporto uomo essere: il circolo ermeneutico si mostra, allora, come la sola vera via del pensiero propriamente detto.
OPERA D'ARTE, VERITÀ ED EVENTO.
2. INTRODUZIONE ALLA QUESTIONE DELL'OPERA D'ARTE.
Il Bezug (riferimento) di uomo e essere è il luogo in cui solo può trovare fondamento la questione dell'essere, la Seinsfrage. Ma qual è il carattere di questo rapporto tra uomo e essere? Come può accadere (sich ereignen) qualcosa come il Bezug di uomo e essere? Heidegger ha continuamente insistito sul fatto che l'essere non può essere considerato come qualcosa di essente, dell'essere si può solo dire Es gibt (si dà), senza quindi nessun riferimento a un possibile donatore (ente) di questo donare. L'essere donandosi nelle aperture storiche dilegua se stesso. È, quindi, un carattere costitutivo dell'essere quello della donazione privo di donante. Ma perché l'essere si dia nelle aperture storiche, fondandole, occorre un luogo, una radura (il Ci), in cui solo possa illuminare l'ente velando se stesso. L'essere, insomma, esige un riferimento (Bezug) all'esser-Ci per la sua dinamica diradante-velante.
Tale riferimento dell'essere all'esser-ci accade nell'evento, nell'Ereignis. L'Ereignis è il significato ultimo di questo riferimento di uomo e essere.
Secondo quest'ultimo risultato l'Ereignis non è un modo dell'essere, è bensì l'essere un modo dell'Ereignis. Ciò che nelle epoche storiche si annuncia è L'Ereignis. In tal senso «la Metafisica è la storia delle configurazioni dell'essere (Seinsprägungen), cioè, dalla prospettiva dell'Ereignis, la storia del ritrarsi di quello che destina (des Sichentziehens des Schickenden) a favore di ciò che nel destinare è destinato: destinare che è ogni volta un lasciar-venire-alla-presenza»[xv][15]. Nell'Ereignis parla la co-appartenenza di uomo e essere, vale a dire la loro appropriazione nel medesimo accadere (sich ereignen).
La parola Ereignis significa correntemente evento, sich ereignen, accadere. Considerando però la sua etimologia Heidegger lega lo -eignen dell'Ereignis e dell'ereignen alla radice eigen che significa proprio; da qui Heidegger fa scaturire una costellazione di parole quali zu-eignen, ap-propriare, ent-eignen, es-propriare, ueber-eignen, tras-propriare. Nella parola Ereignis gioca lo Zusammergehören di uomo e essere, nel senso dell'insieme-appartenente di uomo e essere. Essere e uomo sono tras-propriati, ueber-eignen, l'uno all'altro, nel senso che sono sia ap-propriati, zu-eignen, sia es-propriati, ent-eignen. Proprio quest'ultima dinamica manifesta il sottrarsi che vige nell'intimo dell'Ereignis. In un'unica dinamica si chiarisce il carattere donante dell'essere, che donandosi come illuminazione dell'ente si appropria dell'uomo, come esser-Ci, ma allo stesso tempo si espropria nell'uomo velando se stesso[xvi][16].
Uomo e essere giocano la loro essenza solo all'interno dell'Ereignis, che accende di volta in volta la storia dell'oblio dell'essere, e con ciò la storia dell'esserci. Detto in altri termini, l'essere non è niente al di fuori dell'Ereignis, e si dà solo all'interno delle varie aperture storiche, ma allo stesso tempo l'uomo, proprio per questa reciproca appropriazione-espropriazione all'essere, se da una parte «trova tali aperture già sempre come date¼dall'altro, contribuisce anche a determinarle. Che l'uomo possa contribuire a determinare l'apertura dell'essere è appunto reso possibile dal fatto che tale apertura non è una struttura trascendentale, ma un evento anche nel senso letterale di fatto, di accadere storico»[xvii][17]. La storicità, che in Essere e tempo è determinata in base alla temporalità dell'esserci e successivamente come propria dell'essere stesso, comporta che, «nel suo storico esistere come progetto, l'uomo non è gettato nel senso di dipendere totalmente e assolutamente dall'essere ma, mentre l'essere dispone di lui, egli stesso dispone a sua volta dell'essere»[xviii][18].
In questa dinamica si presuppone che sia reperibile, nell'esistenza dell'esserci, un modo di essere nel quale l'esserci non si limita a stare dentro una certa apertura già aperta, ma partecipa in qualche modo all'aprirsi di essa. Infatti, in Essere e tempo Heidegger ha contrapposto l'esistenza inautentica, in cui per lo più l'esserci si trova, con l'esistenza autentica, fondata nella decisione anticipatrice della morte. Ora, se pur in Essere e tempo l'esistenza autentica non costituisce una vera alternativa all'inautenticità, nel senso che la decisione porta a un diverso modo di affrontare l'inautenticità stessa (si pensi alla tonalità emotiva dell'angoscia, al puro esser-gettato dell'esserci e al rapporto dell'essere col nulla), la decisione, in quanto progetto dell'esserci, è un accadimento storico. Le decisioni e le attività degli uomini viste in base all'autenticità dell'esserci possono quindi accendere la storia, nel senso dell'eventualità storica dell'essere.
Un luogo in cui le attività dell'uomo possono fondare epoche storiche è visto da Heidegger nell'opera d'arte.
In base al carattere di evento dell'essere il fenomeno dell'arte nella speculazione heideggeriana assume un carattere ontologico[xix][19], nel senso che nell'opera d'arte viene a manifestarsi l'eventualità dell'essere. L'opera d'arte venendo alla presenza, in quanto opera oprata, porta con sé l'accadere del suo puro sorgere, la luce del suo essere. Il fatto, poi, che l'opera d'arte sia pro-dotta e fruita dall'uomo chiarisce in tutta la sua portata la coappartenenza di uomo e essere all'Ereignis. L'opera d'arte, insomma, è uno dei luoghi essenziali in cui accade il riferimento (Bezug) di uomo e essere all'Ereignis.
La speculazione heideggeriana sull'opera d'arte prende avvio con un saggio del 36, L'origine dell'opera d'arte. La posizione di questo scritto rispetto all'intero cammino del pensiero di Heidegger è centralissimo, in quanto in esso Heidegger scopre un luogo concreto in cui poter fare esperienza dell'essere in quanto tale, nonché del suo carattere epocale (velante).
La reciproca appropriazione di uomo e essere all'Ereignis viene alla presenza nell'evento dell'opera d'arte in modo assai peculiare. Si pensi, in tal senso, al rapporto tra l'artista e l'opera d'arte: se da una parte l'artista pro-duce l'opera d'arte, si opera per la sua formatività, dall'altra l'opera stessa fa dell'artista ciò che è. Se ad esempio Beethoven compone le sue sinfonie, permettendo ad esse di far risuonare il proprio mondo, dall'altra le stesse sinfonie fanno di Beethoven ciò che è; Beethoven in concreto non sarebbe ciò che è senza l'opera beethoveniana.
Il rapporto che si viene a instaurare tra uomo e ente, nell'opera d'arte tocca l'essenza nascosta di entrambi. L'ente non è più qualcosa di oggettivabile, di semplicemente presente o disponibile all'uomo, bensì l'ente adesso è tale in quanto sorgendo porta con sé l'aprimento del mondo a cui appartiene. Tale ente è il primo ente del mondo che con esso si apre. L'uomo come artista partecipa con l'opera all'aprimento di una radura (Lichtung) in cui può abitare.
Con queste poche osservazioni si comprende che nell'opera d'arte non è propriamente l'ente ad affiorare, non insomma la sua enticità, ma a venire in primo piano è proprio la differenza ontologica. L'essere non è più semplicemente l'essere dell'ente, ma proprio quest'ultimo porta con sé il mondo a cui appartiene, cioè l'apertura che nel sorgere dell'ente lo trat-tiene al riferimento, al Bezug. L'ente "opera d'arte" nel suo enigmatico[xx][20] sorgere nell'aperto si mantiene nel riferimento alla differenza ontologica, alla disvelatezza-velante dell'essere. Ma l'opera d'arte aprendo e fondandosi nell'aperto della differenza ontologica non fa altro che manifestare l'oblio della differenza stessa. L'opera d'arte fonda epoche storiche in quanto e solo in quanto si apre e parla l'ε̉ποχή dell'essere[xxi][21]. Nel nascondimento dell'essere parla la differenza ontologica. «L'oblio che qui è da pensare è il velamento della differenza come tale pensato a partire dalla Λήθη (nascondimento, Verbergergung)¼L'oblio appartiene alla differenza, perché la differenza è all'ascolto [zugehört] dell'oblio»[xxii][22]. Proprio nell'opera d'arte la questione dell'essere metafisicamente intesa, cioè l'essere dell'ente, diviene problematica: se «l'essere significa sempre e ovunque: essere dell'essente, dove il genitivo dev'essere pensato come genitivus obiectivus. Essente significa sempre e ovunque: essente dell'essere, dove il genitivo dev'essere pensato come genitivus subiectivus. E comunque con cautela che parliamo di un genitivo volto verso oggetto e soggetto, giacché i termini soggetto e oggetto sono gia a loro volta sorti da un'impronta [Prägung] dell'essere. Soltanto una cosa è chiara, che nell'essere dell'essente e nell'essente dell'essere si tratta ogni volta di una differenza»[xxiii][23]. Nella differenza di essere e essente «L'essere si dirige verso (qualcosa), perviene svelando [entebergend] a (qualcosa), qualcosa che solo grazie a tale passaggio-che-tramanda [Überkommnis] arriva [ankommt] a ciò che di per sé è non-velato [Unverborgenes]. Arrivo [Ankunft] significa: trovar rifugio [sich bergen] nel non-velamento [Unverborgenheit], quindi durare celati nel rifugio [geborgen], essere essenti»[xxiv][24]. L'opera d'arte può attuare questo passaggio-che-tramanda in quanto in essa l'Er-eignis può dispiegare le sue trame essenziali, dando a ognuno dei contendenti (essere, uomo ed ente) la propria essenza, messa in gioco nel deferimento (Austrag) svelante-velante.
Se pur il frutto di questo ragionamento è elaborato da Heidegger circa un ventennio dopo L'origine dell'opera d'arte, esso è già concretamente svolto nella trattazione del saggio. La dottrina dell'Ereignis e la questione della differenza ontologica sono chiaramente rilevabili in tutta la problematica dell'opera d'arte. In più, la trattazione dell'opera d'arte, accendendo il pensiero della svolta (Kehre) di Heidegger, pone una stretta relazione tra arte e verità (α̉λήθεια), cioè tra l'arte come un sapere pro-ducente, τέχνη, e la verità come dis-velatezza, α̉-λήθεια. La disvelatezza-velante dell'essere, la differenza ontologica, in rapporto alla τέχνη rivela l'Ereignis di essere e uomo nell'opera d'arte.
La traccia della differenza ontologica nell'opera d'arte non è solo un punto d'arrivo della critica novecentesca dell'arte, ma è anche l'approdo dei movimenti artistici dell'epoca. In tal senso si può parlare del "secolo delle poetiche", vale a dire «del fenomeno delle poetiche esplicite, dei manifesti, dei programmi d'arte proposti, discussi, combattuti dagli artisti non solo con le loro opere d'arte, ma con scritti e prese di posizioni teoriche»[xxv][25]. Le poetiche esplicite come prese di posizioni fondative dell'arte nel novecento hanno una portata filosofica, perché non si limitano a dare delle regole di produzione, ma anzitutto determinano in maniera originale il significato dell'arte fra le altre attività dell'uomo, la posizione dell'artista nel mondo e il modo di accostarsi all'opera da parte dello spettatore o lettore[xxvi][26]. Un esempio fra tutti più essere rilevato nel movimento espressionista dei primi anni del secolo, e in particolare in uno dei suoi esponenti più importanti: Wassily Kandinsky. Dice in un passo Kandinsky: «La vera opera d'arte nasce «dall'artista» in modo misterioso, enigmatico e mistico. Staccandosi da lui assume una sua personalità, e diviene un soggetto indipendente con un suo respiro spirituale e una sua vita concreta. Diventa un aspetto dell'essere [corsivo nostro]. Non è dunque un fenomeno casuale, una presenza anche spiritualmente indifferente, ma ha come ogni essere energie creative, attive. Vive, agisce e collabora alla creazione della vita spirituale. Solo da questo punto di vista interiore si può rispondere alla domanda se l'opera d'arte sia buona o cattiva»[xxvii][27]. La qualità dell'opera ora non è più vista da un punto di vista puramente formale; la sua autenticità dipenderà essenzialmente dalla sua forza spirituale, vibrante e fondante. Solo un'opera che riesce ad imporsi nel mondo aprendo con essa un proprio mondo, una propria veduta dell'essere raggiungerà il più alto livello qualitativo. In tal senso Kandinsky parla del carattere profetico dell'opera d'arte, del suo farsi Welt, mondo, e tale da poter essere abitato dagli uomini.
In concordanza con Vattimo crediamo che la speculazione ontologica dell'opera d'arte heideggeriana possa trovare una forte vicinanza con il pensiero di Kandinsky sull'arte. Caratteri quali l'eventualità, la cosmicità (mondità) e la profeticità dell'opera d'arte sono tra loro fortemente intrecciati. Essi manifestano il medesimo carattere aprente dell'opera, ma allo stesso modo anche misterioso, poiché nel suo semplice aprirsi come mondo l'opera nasconde, custodendola, la verità della sua origine.
3. PRIMATO ONTOLOGICO DELL'ESSER-OPERA RISPETTO ALL'ESSER-MEZZO E ALL'ESSER-COSA.
La speculazione heideggeriana sull'arte inizia con il saggio L'origine dell'opera d'arte[xxviii][28]. Con essa la questione dell'essere raggiunge un primo concreto luogo, in cui poter porre la domanda dell'essere senza riguardo alla metafisica.
Il saggio prende inizio con la domanda sull'origine dell'opera d'arte, vale a dire sulla «provenienza della sua essenza»[xxix][29]. Intuitivamente l'opera è pro-dotta dall'artista, trova quindi la sua origine nell'operato dell'artista, ma allo stesso modo l'opera fa di lui ciò che è, l'opera è insomma l'origine dell'artista. In più, l'opera d'arte e l'artista trovano la loro provenienza in virtù di un comune denominatore: l'arte. L'arte da parte sua può essere esperita solo nelle concrete opere d'arte. Si comprende, quindi, che il pensiero che si domanda sull'origine dell'opera d'arte deve muoversi in un circolo ermeneutico; dove non può essere determinato a priori il risultato del cammino del pensiero, poiché ciò che solo conta qui è il cammino stesso, e questo a sua volta perché ciò che il pensiero cerca già da sempre si è rivolto ad esso. Il pensiero insomma deve permanere nel circolo, perché solo in questo modo può far esperienza dell'origine.
Il primo passo è di interrogare l'opera d'arte nella sua effettività. Ad una visione superficiale l'opera d'arte, nelle sue varie forme (scultura, pittura, musica e poesia), si manifesta alla stregua di un ente, un qualcosa che semplicemente è. In tal senso essa non è dissimile da qualsiasi altro ente, quale può essere un tavolo o una casa.
Heidegger nel suo primo fondamentale capolavoro, Essere e tempo, aveva attribuito all'ente, che si incontra nel mondo, il carattere del mezzo (per), ed il suo essere quello dell'utilizzabilità. «L'utilizzabilità è la determinazione ontologico categoriale dell'ente così come esso è "in sé"»[xxx][30]. Heidegger nega quindi all'ente intramondano il carattere della semplice-presenza, in quanto, pur annunciandosi nel mezzo, si ritira, però, di nuovo nell'utilizzabilità di ciò di cui ci si prende cura. In più, l'ente in quanto strumento è sempre strumento per qualcosa. Il "per" implica un rimandare ad altro e così ad altro ancora, fino a una totalità di strumenti, che sono s-coperti prima del semplice mezzo.
Questo carattere di rimando non fa altro che mostrare che l'appartenenza al mondo è il vero essere delle cose[xxxi][31]. Gli enti sono ciò che sono in base alla loro significatività, cioè al modo in cui appartengono al mondo, al Ci dell'esser-ci. Per ciò i significati stanno alla significatività complessiva come i singoli enti intramondani stanno alla totalità degli strumenti che costituisce il mondo.
«Invero possono anche esserci enti che non si possono adoperare o applicare. Può capitare che l'utilizzabile non sia d'utilità, e venga anzi d'impaccio nel provvedere a qualcosa. Lo strumento non si risolve, allora, nel contesto di rimando del mondo ambiente; anzi, proprio in questo venire a mancare del mondo, il mondo si annuncia [corsivo nostro]. Un'analisi che parte dallo strumento certamente non può assumere positivamente questo fatto, e cioè che qualcosa non si risolva nel contesto della propria significatività. In tal modo, però, questa analisi nasconde un momento essenziale della struttura del mondo: il lasciar-essere-velato, quel riporre e salvare, che impedisce un mero risolversi di tutti gli enti nei loro rapporti di significatività»[xxxii][32].
Se adesso ci rivolgiamo all'opera d'arte ciò che ad un primo sguardo si manifesta non è il rimando a una sua possibile significatività, ma a venire in primo piano è il carattere di cosa dell'opera. «Tutte le opere hanno questo carattere di cosa.¼L'esser-pietroso è nell'edificio, l'esser-legnoso nella scultura in legno, l'esser-colorato nel quadro, la vocalità è nell'opera in parole, la sonorità nell'opera musicale. Il carattere di cosa è talmente radicato nell'opera d'arte che noi, addirittura, capovolgiamo queste affermazioni dicendo: l'edificio è in pietra, la scultura lignea è in legno, il quadro è in colore, il poema in parole, la musica in note»[xxxiii][33]. È indubbiamente vero che l'opera d'arte tende a rendere noto qualcosa mediante qualcos'altro, è cioè allegoria, simbolo; ma quel qualcosa che manifesta qualcos'altro, che si riunisce a qualcos'altro, è proprio la cosità dell'opera d'arte. Perciò l'indagine che si prefigge di interrogare l'origine dell'opera d'arte, deve preliminarmente chiarire l'essenza della cosa, così massicciamente presente nell'opera[xxxiv][34].
Vi sono tre modi di porre la questione della cosa, tutti e tre sono nati dalla speculazione filosofica greca e poi tramandati nelle epoche successive. Perciò, «la domanda «che è una cosa?» è un problema storico»[xxxv][35].
Un primo modo di porre la questione della cosa è di considerarla come ciò intorno a cui le proprietà della cosa si raccolgono. «Una mera cosa è ad esempio, questo blocco di granito. È duro, pesante, esteso, massivo, informe, ruvido, colorato, in parte opaco e in parte rilucente»[xxxvi][36]. Esse sono le proprietà che si raccolgono intorno al "nocciolo" della cosa. I greci intesero tale nocciolo come τὸ υ̉ποκείμενον, mentre le caratteristiche di esso τά συμβεβηκότα. Successivamente tali concetti furono tra-mandati nel mondo romano-latino: υ̉ποκείμενον divenne subjectum e συμβεβηκός divenne accidens. Tali concetti fondano a loro volta la struttura fondamentale della proposizione, quale composta da soggetto (subjectum) e predicato (accidens). La struttura della cosa e la struttura della proposizione sono quindi analoghe. Ma si chiede a questo punto Heidegger se la costituzione della proposizione è il rispecchiamento della cosa, oppure se la costituzione della cosa è pro-gettata in base alla struttura della proposizione[xxxvii][37]. È indubbio che è quest'ultima ad assumere il primato della costituzione della cosa: la cosa è tale perché rientra nelle possibili rappresentazioni del soggetto, essa è ciò che è perché è l'oggetto delle rappresentazioni. Perciò, questo primo modo di porre la questione della cosa è inadeguato, perché usa violenza al carattere di cosa della cosa[xxxviii][38]. Se pur questo modo di considerare la cosa si addice ad ogni cosa, allo stesso modo anziché abbracciare l'essenza della cosa, la sopraffa.
A questo punto si rende necessario porre un secondo modo di considerare l'essenza della cosa. La cosa è per noi conosciuta mediante i sensi: il colore, la rigidità, la durezza, la sonorità e la vocalità sono tutti attributi sensibili dalla cosa. Ciò che vige qui è «l'αι̉σθητόν, ciò che, attraverso le sensazioni, è percepito dai sensi della sensibilità»[xxxix][39]. Ma come la precedente determinazione della cosa quest'ultima non riesce a portare in chiaro ciò che è proprio dell'esser-cosa, in quanto la cosa intesa come l'insieme delle sensazioni non è ciò che primariamente ci viene incontro della cosa: noi, ad esempio, non udiamo mai suoni o rumori puri, ma udiamo sempre qualcosa di determinato (nel suo essere), il rombo di un motore, lo scroscio del ruscello, il canto dell'usignolo. Essi non sono semplicemente suoni, ma la cifra del mondo. Per udire un semplice rumore non dobbiamo ascoltare le cose, ma udire astrattamente. Si pensi solo alla estrema difficoltà di ascoltare il suono della voce di una persona che ci parla, quando si esclude il senso di ciò che sta dicendo.
Il terzo modo di porre la questione della cosa è di considerarla come l'unione di materia (ύλη) e forma (μορφή). In tal senso, la cosa è materia formata[xl][40]. Il vantaggio di quest'ultimo approccio è di poter essere valido sia per le cose di natura sia per quelle d'uso.
Nello schema concettuale di materia e forma la scienza estetica da tempo ha fondato la sua teoria dell'arte[xli][41]. Ma l'estetica a sua volta, traendo storicamente il suo fondamento dal sapere metafisico, non fa altro che descrivere il modo d'essere dell'opera d'arte a partire dal modello ontologico (materia e forma) proprio della metafisica[xlii][42]. Quest'ultima, fondandosi su questo sapere, rende i concetti quali materia e forma onnicomprensivi: parole quali ει̉̃δος e ύλη, forma e contenuto, soggetto e oggetto, logico e illogico esprimono in fondo la stessa cosa, cioè il modello (παράδειγμα) per apprendere ciò che è l'essentia (τι έστιν) dell'essente, il vero dell'essente. Ma ciò solo perché la verità diventa un accordare, adaequatio.
Se adesso ci rivolgiamo alla cosa mediante i concetti di materia e forma notiamo certamente una concordanza tra cose di natura e cose fabbricate, ma anche una differenza notevole. Una cosa naturale, quale un blocco di granito, è certamente una materia formata, si può dire che la materia si ordina secondo una disposizione spazio-locale, allo stesso modo una cosa fabbricata è anch'essa materia formata; ma in quest'ultima materia e forma sono il risultato di ciò che la cosa come mezzo deve essere. È l'esser-mezzo del mezzo a decidere sulla forma e materia della singola cosa. Nelle cose naturali invece materia e forma hanno il carattere, per così dire, di essere sorte da sé.
Si scopre, quindi, che anche quest'ultimo modo di porre la questione della cosa aggredisce l'esser-cosa della cosa, perché considera l'ente in vista del suo esser-mezzo per l'uomo, e questo solo perché la verità come α̉λήθεια si trasforma in ο̉ρθότης, ο̉μοίωσις, concordanza. Ma non è proprio quest'ultimo carattere a determinare il fondamento del sapere sull'arte, cioè la μίμησις, che da Platone in poi ha determinato il fondamento dell'arte in generale? Solo attraverso questo tramandamento storico è stato possibile considerare l'ente come ente creato, come ens creatum, e poi come ente disponibile per la manipolazione tecnica dell'uomo.
L'ente pensato in base all'unità di materia e forma non è l'origine della cosa, in quanto essa è il risultato di una de-cisione storica sull'essere, decisione che ha determinato l'essere come l'essere dell'ente. Materia e forma, insomma, non raggiungono l'origine dell'esser-cosa della cosa perché considerano quest'ultimo in base all'esser-mezzo del mezzo. In particolare, la mera cosa non è altro che una specie di mezzo spogliato del suo esser-mezzo[xliii][43]. Ma è proprio questo resto della cosa spogliato dell'esser-mezzo a rimanere indeterminato. Se cioè togliamo alla cosa il carattere del mezzo, ossia il suo rimando a una totalità di significati, rimane qualcosa di oscuro, e ciò perché materia e forma sono chiari solo in vista della pro-duzione del mezzo.
Questo carattere residuale della cosa spogliato dell'esser-mezzo è ciò che nelle varie epoche storiche rimane oscuro, nascosto.
Ma è questo un carattere veramente negativo della cosa? O forse indica ciò che nel suo riposare in se stessa gli è più propria? E non è proprio quest'ultimo un indice di quella riserva oscura che ha fatto accadere le varie epoche storiche, cioè la verità dell'essere pensata in base alla λήθη dell'α̉-λήθεια?
Nella differenza tra l'esser-cosa della cosa e l'esser-mezzo del mezzo si s-vela in tutta la sua portata la differenza ontologica. Proprio quell'elemento residuale della cosa spogliata del carattere del mezzo ne è un forte indizio. Ma la differenza ontologica come, e non a caso, la λήθη dell'α̉-λήθεια permane custodita nel mistero.
A questo punto della ricerca ci si può chiedere se vi sia un luogo in cui questo mistero sia esperibile, se cioè vi sia un ente che più di altri manifesta la differenza tra l'esser-cosa della cosa e l'esser-mezzo del mezzo. Ma non è proprio dell'esser-opera dell'opera il carattere essenziale di far permanere in se stessa i due momenti sopra indicati, cioè la cosa e il mezzo? L'esser-opera appartiene certamente ad un ente prodotto dall'uomo, ma allo stesso modo esso non si esaurisce nel suo esser-mezzo per qualcosa, in quanto il carattere cosale di esso non scompare nell'usabilità propria del mezzo, bensì per la prima volta appare in tutta la sua portata. In più, i due momenti dell'esser-opera dell'opera, cioè l'esser-mezzo del mezzo e l'esser-cosa della cosa, non si dissolvono nel nulla, come accade nella quotidianità. In quest'ultima, infatti, l'esser-mezzo del mezzo scompare nella significatività di una totalità di rimandi, cioè scompare nel mondo a cui appartiene; allo stesso modo l'esser-cosa della cosa scompare nel mezzo, nel senso che la sua cosità è funzione dell'uso a cui è destinata. Solo nell'opera l'esser-mezzo del mezzo e l'esser-cosa della cosa risplendono nella luce del loro essere, che è ad un tempo svelamento e nascondimento.
Per constatare tutto ciò basta rivolgere il nostro sguardo ad un'opera d'arte: un quadro di Van Gogh che raffigura un paio di scarpe da contadino[xliv][44].
Un paio di scarpe è certamente un mezzo per qualcosa. La loro materia e forma varia in base all'uso che se ne fa: dure e resistenti per il lavoro dei campi, leggere ed eleganti per il ballo. Tutti sanno cosa esse sono. Anzi proprio il non pensarle, ma semplicemente usarle è il modo più giusto per adoperarle. Come tutti i mezzi anche le scarpe per poter funzionare si devono disperdere nella significatività del mondo, esse cioè non devono, per così dire, creare attrito. E comunque, il modo effettivo di conoscerle è l'uso che se ne fa. Per cui ad uno sguardo superficiale la riproduzione di un paio di scarpe in un quadro impedisce la diretta com-prensione di esse, cioè la loro usabilità. Secondo Platone, un ente, quale un paio di scarpe, riprodotto in un quadro, è il frutto della μίμησις, cioè di un atto di imitazione di ciò che esso è nella sua essenza. Perciò, secondo Platone, l'arte non riesce a cogliere l'essenza (l'usabilità) delle scarpe, perché non le esperisce in ciò che in verità esse sono, nel senso che non coglie l'ι̉δέα delle scarpe. Nel quadro esse sono semplicemente-presenti.
«Ma tuttavia¼Nell'orificio oscuro dall'interno logore si palesa la fatica del cammino percorso lavorando. Nel massiccio pesantore della calzatura è concentrata la durezza del lento procedere lungo i distesi e uniformi solchi del campo, battuti dal vento ostile. Il cuoio è impregnato dell'umidore e del turgore del terreno. Sotto le suole trascorre la solitudine del sentiero campestre nella sera che cala. Per le scarpe passa il silenzioso richiamo della terra [corsivo nostro], il suo tacito dono di messe mature e il suo oscuro rifiuto nell'abbandono invernale. Dalle scarpe promana il silenzioso timore per la sicurezza del pane, la tacita gioia della sopravvivenza al bisogno, il tremore dell'annuncio della nascita, l'angoscia della prossimità della morte. Questo mezzo appartiene alla terra e il mondo della contadina lo custodisce. Da questo appartenere custodito, il mezzo si immedesima nel suo riposare in se stesso»[xlv][45].
In questi pochi passi Heidegger dà una visione di ciò che l'opera d'arte è nella sua essenza. È bene quindi soffermarci un po' sul passo citato.
Nel quadro le scarpe non sono più la semplice riproduzione del mezzo nella sua effettività. Esse stanno isolate, non sono neanche raffigurate nell'atto del lavoro campestre. Stanno semplicemente lì, alla stregua di una mera cosa. L'introduzione della formula «Ma tuttavia» indica, però, una rottura, un urto (Stoss), rispetto a ciò che esse sono nella quotidianità. L'urto che esse provocano si palesa mediante una tonalità emotiva. Questa tonalità emotiva dis-pone noi vedenti in ciò che il quadro manifesta in se stesso. Qui le scarpe, rispetto alla effettività del loro uso, provocano un attrito col mondo a cui normalmente appartengono. L'urto dell'opera ci porta, con un salto (Sprung), dall'abituale del loro uso all'inabituale del semplice che è. In più, la tonalità emotiva che ci dispone si manifesta come meraviglia (θαυμάζειν). Le scarpe nel loro semplice essere lì ci meraviglia; non perché viene semplicemente a palesarsi il loro esser-mezzo, ma perché in esse, nell'opera, per la prima volta si raccoglie l'intero mondo, a cui appartengono. Proprio nel momento in cui le scarpe sono tolte dal contesto di rimando in cui esse normalmente si dissolvono, ciò fa venire a mancare il mondo, ma questo venire a mancare non fa altro che annunciare il mondo. Insomma, le scarpe smesse dal loro uso manifestano in tutta la loro pienezza il loro mondo. Il mondo si manifesta nelle scarpe perché queste ultime raccolgono: «la fatica del cammino percorso lavorando», «la durezza del lento procedere», «la solitudine del sentiero campestre», «il silenzioso richiamo della terra», «il silenzioso timore per la sicurezza del pane», «il tremore dell'annuncio della nascita, l'angoscia della prossimità della morte». Nelle scarpe, insomma, si dis-vela l'intero mondo della contadina. Nascita e morte ne indicano i limiti: il venire dall'oscurità del bosco nell'aperto di una radura (Lichtung) e il suo trapassare di nuovo nell'oscurità.
Le scarpe non sono più semplicemente un mezzo fra i tanti, ma in esse adesso si palesa un mondo, il mondo della contadina. Nella effettività (usabilità) le scarpe custodiscono sempre questo mondo, ma questo custodire accade in modo silenzioso. Solo, quindi, nell'opera e con l'opera il silenzio del mondo può risuonare. L'opera risveglia in noi l'inabituale dell'abituale. Proprio come all'inizio del pensiero greco l'ente si manifestò in tutta la sua oscura pienezza, disponendo alla tonalità emotiva fondamentale: la meraviglia, θαυμάζειν[xlvi][46]. Insomma, l'opera risveglia in noi, in Heidegger, l'origine della nostra provenienza iniziale. In più, le scarpe del quadro di Van Gogh non semplicemente manifestano l'esser-mezzo del mezzo, cioè la loro usabilità, disponibile per la contadina che le usa; ma questa usabilità a sua volta riposa in un essere ancora più originale: la fidatezza (Verlässigkeit). Solo attraverso quest'ultima la contadina è certa del suo mondo. «L'esser-mezzo del mezzo, la fidatezza, tiene unite tutte le cose secondo il loro modo e la loro ampiezza. L'usabilità del mezzo non è che la conseguenza essenziale della fidatezza. Quella vibra in questo, e senza esso sarebbe nulla»[xlvii][47]. Nel passo sopra indicato la fidatezza si manifesta nella «sicurezza del pane», nella «tacita gioia della sopravvivenza al bisogno». Solo con la fidatezza del mezzo la contadina può esser certa del suo mondo.
Tutto quello che abbiamo indicato del passo citato costituisce, però, solo un momento dell'intero gioco che l'opera mette in opera. Qual è l'altro momento essenziale?
Si è detto in precedenza che l'esser-opera dell'opera è tale perché raccoglie in sé sia l'esser-mezzo del mezzo sia l'esser-cosa della cosa. Se il primo si è andato a palesare come il risuonare del mondo, e ciò in base alla fidatezza del mezzo, quale sarà il fondamento dell'esser-cosa della cosa?
Ritorniamo sul passo. L'esser-cosa della cosa si annuncia nel quadro mediante frammenti quali: «Nell'oscuro orificio», «Nel massiccio pesantore della calzatura», «il cuoio è impregnato dell'umidore e del turgore del terreno», e ancora «Sotto le suole trascorre la solitudine del sentiero», «Dalle scarpe promana il silenzioso timore della terra». In un primo momento si constata che ciò che noi andiamo ora a ricercare, cioè l'esser-cosa della cosa, sta fortemente intrecciato con l'esser-mezzo del mezzo. Nell'orificio oscuro, nel massiccio pesantore, nel cuoio impregnato, nelle suole, insomma nelle scarpe risuona il mondo della contadina, ma non solo. Dice Heidegger: «Per le scarpe passa il silenzioso richiamo della terra¼Questo mezzo appartiene alla terra, e il mondo della contadina lo custodisce». Cos'è questo richiamo della terra? Cos'è questa appartenenza alla terra? E la terra qui è da intendere nel senso comune, come una massa materiale stratificata? Oppure Heidegger intende con questa parola qualcosa di molto più profondo e ricco?
Il passo termina con la frase: «Da questo appartenere custodito, il mezzo si immedesima nel suo riposare in se stesso», cioè il mondo della contadina custodendo il mezzo che a sua volta appartiene alla terra, fa sì che quest'ultimo possa riposare in se stesso. Ma forse è proprio per l'appartenenza alla terra che le scarpe possono riposare in se stesse. Questo riposare in se stesso permane custodito nell'oscurità. Solo, quindi, chiarendo questa appartenenza alla terra sarà possibile additare, ma non determinare, l'oscurità del riposare in se stesso della cosa. Una cosa sembra chiara, tutto il passo gira attorno a ciò che Heidegger chiama Terra[xlviii][48]. Sembra che l'esser-cosa della cosa sia fondata proprio da ciò che Heidegger chiama Terra. L'esser-cosa della cosa si manifesta in ciò che la Terra indirettamente dice: il riposare in se stesso. L'opera si s-vela in questo riposare in se stesso, cioè l'esser-cosa della cosa, grazie a questo carattere di Terra, che è ad un tempo sia oscuro sia svelante, in quanto il mondo del mezzo nell'opera può illuminarsi solo sul fondo dell'oscurità dell'esser-cosa della cosa, ossia sulla Terra. Eppure noi nel corso del nostro ragionamento abbiamo già intravisto ciò che è proprio della Terra. La Terra ricorda il momento fondamentale della λήθη dell'α̉-λήθεια. La verità come α̉λήθεια è sia dis-velatezza sia velatezza, e ciò non in due momenti successivi, ma in un unico Evento (Ereignis). Insomma, α̉λήθεια e λήθη, disvelatezza e velatezza, Mondo e Terra giocano in un'unica dinamica, quella che all'inizio del capitolo abbiamo indicato con la parola Er-eignis. L'evento appropriante-espropriante gioca tra mondo e Terra, tra α̉λήθεια e λήθη.
L'opera, come si era detto, è il luogo dell'Ereignis, ma con ciò anche quello della differenza ontologica, la differenza tra ente e essere. E come si è accertato ora, nell'opera si viene a palesare sia la verità dell'ente, la fidatezza del mezzo, il suo mondo; sia l'oscurità del suo esser-cosa. Ma questi due momenti sono ciò che è proprio della verità dell'essere nella sua differenza dall'ente, cioè la dinamica disvelante-velante dell'essere.
Ciò che è in opera nell'opera d'arte è il farsi evento della verità, dell'α̉λήθεια.
Perciò per comprendere il senso di ciò che Heidegger chiama Terra dovremo partire col mettere in chiaro il significato dell'α̉λήθεια che nell'opera d'arte si eventualizza; ma allo stesso modo quest'ultimo si chiarirà se la Terra ci darà dei cenni.
Si vede con ciò come il cammino del pensiero che si muove nelle vicinanze dell'origine dell'opera d'arte debba sempre muoversi in un circolo ermeneutico, ma come ci ha insegnato Heidegger proprio «Nel percorrere questo cammino sta la forza del pensiero e nel non uscire da esso la sua festa»[xlix][49].
4. L'OPERA D'ARTE COME ΑΛΗΘΕΙΑ E LICHTUNG.
L'opera d'arte è la messa in opera della disvelatezza dell'ente. Il che vuol dire essenzialmente che ciò che è in opera nell'opera d'arte è il farsi evento della verità dell'essere. L'opera d'arte nel suo semplice schiudersi - venire alla presenza - porta con sé il suo Mondo e il suo fondamento, la Terra. Questo schiudimento dell'ente è un modo con cui la verità dell'essere accade. Il che vuol dire che la disvelatezza accade anche in altri modi. L'accadere della disvelatezza è ciò che ha fondato l'inizio del pensiero occidentale, portando con sé l'oblio della disvelatezza stessa. Non è quindi casuale che l'elaborazione dell'opera d'arte, come messa in opera della verità, e l'elaborazione della storia della metafisica, come storia dell'oblio dell'essere, siano pensate nello stesso periodo. Il rivolgimento verso l'origine dell'opera d'arte e verso l'origine della metafisica appartengono a un medesimo cammino, il quale prepara il pensiero per un superamento della metafisica[l][50] e con ciò dell'estetica. Il passaggio verso l'altro inizio può accadere solo se il pensiero si rivolge verso l'essenza del primo inizio. Solo quindi a partire da un ripensamento della provenienza della verità è possibile chiarire la dinamica dell'opera d'arte come messa in opera dell'α̉-λήθεια, in cui giocano la loro essenza Mondo e Terra. La nostra ricerca deve innanzi tutto rivolgersi a una rimeditazione del significato della parola α̉λήθεια, che preparerà la collocazione (Erörterung) dell'opera d'arte nell'Aperto della verità dell'essere.
Il tema dell'α̉λήθεια tocca un po' tutta la speculazione filosofica di Heidegger. Proprio la Kehre nasce da un ripensamento dell'essenza della verità. Infatti solo se si ricolloca l'essenza della verità nella sua origine - la verità dell'essenza -, mai fondata, è possibile preparare il salto verso l'essere (Seyn) in quanto tale.
Il ripensamento del significato dell'α̉λήθεια può realizzarsi solo se ci rivolgiamo verso l'origine del pensiero occidentale. Tale origine è il pensiero greco. Esso, però, non è quello di Platone e Aristotele, poiché proprio a partire da loro la verità si trasforma in accordo, correttezza, ο̉μοίωσις. Dall'altra però non si tratta di una vera e propria trasformazione, in quanto l'α̉λήθεια non fu mai fondata dal pensiero greco, ma semplicemente accennata. Eppure il significato dell'α̉λήθεια risuonò anche nella verità intesa come accordo, correttezza. Questo risuonare della parola fondamentale non fu mai problematizzato. Esso non era visto come un problema; ciò che era in discussione era solo l'accordo del dire (λέγειν) con la cosa detta. Ma ci si chiede, come può realizzarsi l'accordo della cosa col nostro dire se proprio questa cosa non si dis-vela nell'Aperto, portandosi nella luce del suo essere? Come possiamo noi dire il vero dell'ente se proprio noi stessi non siamo dis-posti (emotivamente) da sempre nella disvelatezza dell'ente? È indubbio che proprio la disvelatezza, l'Aperto in cui l'ente si schiude nel suo essere, non può essere dimostrato. Esso non è un ente che può essere mostrato, ma è ciò che permette la mostratività in quanto tale. Heidegger su questo punto riprende un passo di Aristotele tratto dal IV libro della Metafisica (1006 a) e che è tradotto: «È in verità assenza di educazione non avere occhio per ciò in riferimento a cui è necessario cercare una prova e ciò per cui non lo è»[li][51]. Vi sono, cioè, delle cose che necessitano di essere dimostrate, ma altre che, per loro natura, non possono, e perciò, non devono essere dimostrate[lii][52].
Se adesso ci spostiamo verso l'opera d'arte, in effetti, rintracciamo quest'impossibilità di poter dimostrare il perché del suo venire alla presenza, del suo semplice schiudersi. Certo, l'opera è il frutto dell'operare dell'artista, ma proprio quest'ultimo nel suo operare non fa altro che «lasciar essere l'opera nel suo puro sussistere in se stessa»[liii][53]. Nel momento in cui l'opera è compiuta, inizia a vivere di luce propria. Anzi, proprio questa luce si riflette sull'artista rendendolo l'artista che è.
La parola chiave sta proprio in questo schiudimento, in questo venire alla presenza e il permanere disvelato nella presenza. Ma questo schiudimento è ciò che agli albori del pensiero greco, del pensiero di Anassimandro, Eraclito e Parmenide, fu interpretato come il carattere proprio dell'Essere. È l'essere che permette lo schiudimento dell'ente, cioè il suo puro e semplice venire alla presenza. Ma questo venire alla presenza deve superare un velamento iniziale. La parola α̉-λήθεια non fa altro che mostrare questa lotta per il disvelamento dell'ente nell'Aperto dell'essere.
Si rende quindi necessario un ripensamento di questa parola fondamentale che, se pur mai fondata, ha reso possibile la fondazione storica dei successivi modi di intendere la verità, e con ciò l'essere dell'ente.
«Concepita in termini essenziali, cioè pensata in base al fondamento essenziale dell'essere stesso, «la storia» è il mutamento dell'essenza della verità»[liv][54].
Allo stesso modo la grande (storica) opera d'arte, in quanto messa in opera della verità dell'ente, è un modo con cui la verità stessa si storicizza. L'opera fonda la storia. Ma questo fondare la storia accade solo perché la verità dell'essere si fa Evento. L'opera ne rappresenta il luogo (Ort) di risonanza.
Rivolgiamo allora un sufficiente tratto del nostro cammino alla parola α̉λήθεια, vista agli albori del pensiero greco (Occidentale).
Heidegger mostra nel modo più chiaro che i primi pensatori greci considerarono l'α̉λήθεια la cosa più degna di essere pensata. Si pensi in tal senso al poema didascalico di Parmenide, in cui si fa cenno alla dea[lv][55] della verità. «Anche l'essenza del μυ̃θος si determina in base all'α̉λήθεια. Μυ̃θος è ciò che schiude, disvela e fa vedere, vale a dire ciò che da principio si mostra ovunque come ciò che è presente in tutto quanto è "presente"»[lvi][56]. Il μυ̃θος è la saga (die Sage) di un popolo, cioè il dire (sagen) iniziale ed essenziale, che mostra, in base all'esperienza del velamento e svelamento, ciò che nella presenza si fa presente. Il μυ̃θος è il mostrare iniziale. Se per i greci l'essere è la presenza, allora svelamento e velamento sono un tratto fondamentale dell'essere (Seyn).
La parola α̉-λήθιεα è il risultato dell'unione dell'α privativo e della parola λήθη, a cui si collegano le parole λαθές e λαθόν. Λανθάνω noi lo traduciamo con «sto nascosto, rimango nascosto»; λαθές e λαθόν esprimono questo stare nascosto. Ora però, «il dominio del velamento si esprime per i Greci soprattutto nella parola λανθάνεσθαι, ε̉πιλανθάνεσθαι, che di solito traduciamo con «dimenticare» (vergessen)»[lvii][57]. Ma questo dimenticare è il frutto di un velamento. «Esperito in modo greco, il dimenticato è ciò che «sprofonda via» in una velatezza, e precisamente nel senso che tale sprofondare, vale a dire il velamento, rimane esso stesso velato per colui che ha dimenticato il dimenticato»[lviii][58]. Questo velamento è quindi una dimenticanza, il che vuol dire che è l'oblio in quanto tale. Solo nell'oblio qualcosa cade nella dimenticanza. Nell'oblio (λήθη), nella mancanza (λιμός) qualcosa «cade via». «Questo «cadere via» è un modo dell'«esser essenzialmente via» (weg-wesen) e dell'assentamento (Ab-wesung). Ciò che «cade via» non si rivolge più verso ciò che è presente, eppure, nel suo volgersi altrove il «via» si rivolge contro ciò che è presente [corsivo nostro], e per la precisione nel modo inquietante del non tenerne conto»[lix][59]. Questo rivolgersi contro è il frutto di una contesa tra la λήθη (ciò che «cade via») e l'α̉ληθες (ciò che si disvela nella presenza). Λήθη e λιμός nascono da «Eris», la dea «Contesa». Con ciò si comprende che il mito (μυ̃θος) non è altro che la saga della lotta tra disvelamento e velamento. Non a caso i primi fondamentali pensatori greci, Eraclito e Parmenide, elaborano il loro pensiero in rapporto al pensiero mitico.
Questa lotta mitica tra disvelamento e velamento i primi pensatori greci la videro già nell'essenza del giorno e della notte. «Non c'è né un giorno «da solo», né una notte «isolata, a sé», ma proprio la coappartenenza dell'uno e dell'altra, di giorno e notte, è il loro essere. Se io dico soltanto giorno, non so ancora niente dell'essere del giorno. Per pensare il giorno, bisogna pensarlo fino alla notte, e viceversa. La notte è il giorno in quanto giorno tramontato»[lx][60]. «La notte e il giorno ricevono la loro essenza da ciò che si vela, si svela e si dirada (sich lichtet). Il rado ( das Lichte), tuttavia, non è solamente ciò che si può vedere e scorgere, ma, prima ancora - essendo ciò che si schiude - è ciò che abbraccia già tutto quanto viene alla luce»[lxi][61]. Ma ciò che nell'Aperto diradato per la luce viene a risplendere nell'ente è l'essere stesso. La com-prensione dell'ente è sempre la comprensione del suo essere.
Solo nella misura in cui l'essere è essenzialmente in base all'α̉λήθεια, all'essere appartiene lo schiudimento, che si svela e al contempo si vela. Questo schiudersi (φύσις) è l'aprirsi di una regione in cui l'ente appare nel suo essere.
L'aprirsi è il disvelamento stesso.
In più, il disvelamento-velante dell'essere è ciò che permette all'uomo di avere una visione dell'ente. Il vedere non è qui il risultato dell'organo visivo, ma al contrario noi essenzialmente abbiamo un organo visivo perché già vediamo. Noi guardiamo perché in quanto uomini (Esser-ci) siamo situati nel disvelamento-velante dell'essere. Questo «guardare è il mostrarsi, e lo è precisamente come quel mostrarsi nel quale si è raccolta l'essenza dell'uomo che incontra e in cui quest'ultimo «si schiude» in duplice senso: sia nel senso che nello sguardo la sua essenza è riunita quale somma della sua esistenza, sia nel senso che tale unione e semplice interezza della sua essenza si schiude nella veduta - e si dischiude in verità per lasciar essere presente nello svelato al tempo stesso il velare e l'abisso della sua essenza [corsivo nostro]»[lxii][62].
Il guardare è l'offrire la visione dell'essere.
Ma come l'uomo entra nella visione dell'essere? Rispondiamo: mediante una dis-posizione emotiva, che situa l'uomo nel mezzo dell'ente. Proprio nel momento in cui l'uomo si dispone emotivamente, accade il situarsi nell'Aperto. «L'emozione è questo tratto dis-ponente, che dispone in modo tale che, nel contempo, viene fondato lo spazio-di-tempo della disposizione stessa..Questa necessità del pensiero iniziale si manifesta secondo una tonalità emotiva fondamentale»:[lxiii][63] la meraviglia, θαυμάζειν. Essa è un certo non-poter chiarire e un certo non conoscere-il-motivo. Questo non-poter-chiarire è un modo del trovarsi di fronte a qualcosa che non può essere chiarito. La meraviglia come tonalità emotiva fondamentale dà il tono all'uomo all'inizio del pensiero, poiché dis-pone prima di tutto l'uomo per quell'essenza che si trova e consiste nel trovarsi nel mezzo dell'ente come tale nella sua totalità[lxiv][64]. Perciò una rimeditazione dell'essenza dell'α̉λήθεια deve volgersi al θαυμάζειν, cioè al tratto inconsueto dell'abituale, che è «il sopportare l'inspiegabile in quanto tale, sopportare su cui si riversa l'afflusso di quel che si disvela. Il sopportare che resiste di fronte all'inspiegabile cerca solo di apprendere quel che il non-nascondimento mostra nel suo non-nascondimento: il farsi presenza, la stabilità, il proporsi in una struttura, un darsi un limite nell'apparire»[lxv][65].
La meraviglia è un sentirsi nell'Aperto. Tale sentirsi è il sentimento che manifesta l'uomo nella sua pura dis-posizione emotiva. Qui l'uomo semplicemente si dispone come uomo. Ma chi è l'uomo? L'uomo è colui che si dispone emotivamente. Chi è che dispone l'uomo? L'essente? Allora l'uomo è colui che si dispone in base alla modalità di volta in volta dell'essente?
Il sentimento raccoglie uomo e essente. Questo sentirsi è il modo con cui l'uomo viene chiamato nel riferimento (Bezug) all'essente. Ma la chiamata qui in questione è silenziosa. Di essa si può dire solo che porta nella prossimità uomo e essente. La chiamata stessa è la prossimità vicinante. Ma questo portare nella prossimità, questo stare addossato l'uno con l'altro, l'uno contro l'altro, è tale solo perché è dis-allontanante[lxvi][66]. Il rivolgersi a qualcosa accade sempre con un dis-rivolgersi da qualcos'altro.
Ciò che dis-pone è la chiamata, ma ciò che chiama non è l'essente. Ciò che chiama è la dia-ferenza (Austrag) di uomo e essente. Solo il tra (δια) del loro reciproco rivolgersi può chiamare. Perché? Perché ciascuno dei contendenti (uomo e essente) non può produrre l'altro, nel senso di pro-durre dal nulla. Se ciò fosse possibile, invece, si potrebbe dire che esiste l'uomo anche senza l'essente, o che esiste l'essente senza l'uomo. È indubbio l'impossibilità del primo. Ma il secondo? Perché l'essente non può essere senza l'uomo?
L'essente è, il fiore fiorisce, la terra gira, l'uccello vola, la pioggia continua a cadere. Tutto ciò non ha bisogno dell'uomo. E poi, cosa potrebbe fare l'uomo per l'essente? Egli semplicemente lo guarda, l'ascolta, lo sente. Ma è necessario per l'essente essere sentiti dall'uomo? L'essente può stare senza nessun riferimento con l'uomo.
Ma ci chiediamo adesso: da dove pro-viene il frutto di questo ragionamento? Qual è il fondamento abissale che ci spinge a dire che l'essente può essere anche senza alcun riferimento all'uomo? Nel momento in cui penso all'essente privo del riferimento (Bezug) all'uomo, ecco che proprio questo riferimento si manifesta nella sua oscurità. Il riferimento è la differenza stessa. La dif-ferenza (Unter-schied) è un abisso (Ab-grund), è un taglio profondo, una scissione[lxvii][67]. Ma la dif-ferenza scindendo raccoglie ciò che ha scisso nel puro stare di contro. La dif-ferenza è la tras-propriazione di uomo e essente nell'Ereignis di uomo e essere. Cosa sia l'uomo privo dell'essente, o l'essente privo dell'uomo noi non possiamo saperlo! Ma non possiamo saperlo in primo luogo perché uomo e essente, uomo e essere accadono solo nella dif-ferenza (nella differenza ontologica di essere ed ente); il che vuol dire essenzialmente nell'Ereignis appropriante-espropriante di uomo e essere.
La differenza recide: «Non recidere forbice quel volto / solo nella memoria che si sfolla / non far del grande suo viso in ascolto / la nebbia di sempre» (Montale, Le occasioni).
Ciò che la memoria tiene in serbo è la dimenticanza della differenza, dell'α̉λήθεια. La differenza è la dimenticanza perché la lotta tra disvelamento e velamento accade (sich ereignet). Perché l'essente non possa essere dimenticato, cioè salvato nello svelamento, bisogna rivolgere lo sguardo verso di esso. In tal modo la differenza viene velata, tenuta in serbo.
Uomo e essente sono il frutto della risonanza silenziosa della differenza. Il loro riferimento è il luogo di questo evento. Il riferimento ha un luogo? Cosa è il luogo? Esso è il limite (πέρας, τέλος). Tutto confluisce nel limite. Ma questo confluire accade solo se il limite da sé ha risuonato. Il limite non è generato, è esso stesso che genera. Che l'uomo possa pensare al suo semplice portarsi nel riferimento all'essente è possibile solo e sempre a partire dal riferimento stesso.
Una cosa è certa, il riferimento accade in un attimo. L'α̉λήθεια, la differenza, la scissione, il riferimento, il limite, accade come un fulmine. Esso per un attimo illumina tutto, anche e soprattutto l'oscurità della sua provenienza. Ma questa provenienza non sta in un tempo antecedente. Solo quando il fulmine si accende, luminosità e oscurità possono giocare la loro essenza nello spazio-di-gioco-temporale. Illuminante è in questo senso un frammento di Eraclito: τὰ δέ παντα οὶακίζει κεραυνός (fr. 64), tutte le cose dirige il fulmine.
Siamo arrivati con questo cammino nel cuore dell'α̉λήθεια[lxviii][68]. Esso è l'Aperto disvelante-velante, ossia diradante dell'essere. Tale Aperto si è precedentemente indicato in base a ciò che è proprio del luogo (Ort). Tentiamo, allora, di chiarire con maggiore precisione ciò che i greci chiamano luogo. Esso viene nominato mediante la parola τόπος. «Τόπος, in greco, significa luogo, ma non nel senso del mero posto entro una pluralità di punti ovunque indifferenti. L'essenza del luogo consiste nel fatto che esso, in quanto rispettivo «dove», mantiene raccolta la cerchia di ciò che, in virtù di una coappartenenza, appartiene al luogo e rientra «in» esso. Il luogo è l'originariamente raccogliente contenente ciò che si coappartiene [corsivo nostro], ed è quindi per lo più qualcosa di molteplice, a causa della reciproca appartenenza di luoghi riferiti l'uno all'altro, ciò che chiamiamo una località. Nell'ambito esteso della località vi sono dunque vie, percorsi e cammini»[lxix][69].
Il luogo raccoglie tutte le cose poiché esso apre un'apertura in cui solo l'ente può essere raccolto (λόγος) nel suo essere. Detto più precisamente, il luogo è l'aprirsi di una contrada (Gegend). A sua volta la «contrata è la vastità che fa permanere, è ciò che, raccogliendo ogni cosa, apre se stessa, cosicché in essa l'Aperto è tenuto e mantenuto per far schiudere ogni cosa nel proprio acquietarsi»[lxx][70]. La contrada è il diradarsi dello spazio che raccoglie. Ma ciò che raccoglie deve aprirsi. Questa apertura accade come un diradarsi della vastità. Solo in questa libera vastità ogni cosa può portarsi nel disvelamento del suo essere. Essente è ciò che si porta nella libera vastità e permane come tale nel suo dischiudimento. Lo spazio qui non è più l'indifferente spazio matematico, poiché solo dal luogo (τόπος) lo spazio si spazializza.
Il diradarsi della vastità e il disvelamento dell'ente non accadono in due momenti differenti. Se, infatti, il disvelamento accade come illuminazione, la luce che illumina l'ente è solo se attraversa l'Aperto. Ma questo Aperto proprio nell'aprirsi si offre per il disvelamento. L'offrire è un donare (gaben), in cui sia il donante sia il dono - il Medesimo - accadono come il libero diradarsi che apre vie per il disvelamento di volta in volta dell'ente nella sua totalità. La contrada è sia lo spazializzarsi dello spazio sia il temporalizzarsi del tempo. Essa mette in gioco uno spazio-di-tempo per il disvelamento.
Il τόπος, L'Aperto, la contrada, non sono altro che la dinamica interna dell'α̉λήθεια, cioè dell'Evento (Ereignis) diradante-velante, appropriante-espropriante dell'Essere.
Siamo ora sufficientemente preparati per la comprensione dell'opera d'arte come messa in opera della verità dell'essere. In base alla speculazione filosofica greca, che si fonda sull'α̉λήθεια, l'opera d'arte è un luogo (τόπος) che raccoglie l'ente nella sua totalità. Essa è l'aprirsi di una contrada che disvela oltre a se stessa anche l'ente che di volta in volta si trova disvelato nella contrada.
Per comprendere questa dinamica basta rivolgere la nostra attenzione su un'opera d'arte (greca). «Un edificio, un tempio greco, non riproduce nulla. Si erge semplicemente, nel mezzo di una valle dirupata. Il tempio racchiude la statua del Dio ed in questo racchiudimento protettivo fa sì che, attraverso il colonnato, essa risplende nella sacra regione. In virtù del tempio, Dio è presente [anwest] nel tempio. Questo essere-presente di Dio è in se stesso il dispiegamento e la delimitazione d'una regione sacrale. Ma il tempio e la sua regione non si perdono nell'indefinito. Il tempio, in quanto opera, dispone e raccoglie [corsivo nostro] intorno a sé l'unità di quelle vie e di quei rapporti in cui nascita e morte, infelicità e fortuna, vittoria e sconfitta, sopravvivenza e rovina delineano la forma e il corso dell'essere umano nel suo destino [Geschick]. L'ampiezza dell'apertura di questi rapporti è il mondo di questo popolo storico. In base ad essa e in essa, questo popolo perviene al compimento di ciò a cui è destinato»[lxxi][71].
L'opera in questione, schiudendosi semplicemente nell'aperto di una valle, apre una regione (Gegend) sacrale. Solo in questo disvelamento Dio è presente. Solo a partire da questo schiudimento il destino dell'uomo può assumere il suo corso. Nell'opera, quale il tempio greco, il Mondo si mondifica. Ma l'opera, in quanto opera, non è solo l'esposizione (Auf-stellung) del suo Mondo.
«Eretto, l'edificio riposa sul basamento di roccia. Questo riposare dell'opera fa emergere dalla roccia l'oscurità del suo rapporto, saldo e tuttavia non costruito. Stando lì, l'opera tien testa alla bufera che la investe, rilevandole la violenza. Lo splendore e la luminosità della pietra, che essa sembra ricevere in dono dal sole, fanno apparire la luce del giorno, l'immensità del cielo, l'oscurità della notte. Il suo sicuro stagliarsi rende visibile l'invisibile regione dell'aria. La solidità dell'opera fa da contrasto al moto delle onde, rivelandone l'impeto con la sua immutabile calma. L'albero e l'erba, l'aquila e il toro, il serpente e il grillo assumono così la loro figura evidente e si rivelano in ciò che sono. Questo venir fuori e questo sorgere, come tali e nel loro insieme, è ciò che i Greci chiamarono originariamente Φύσις. Essa illumina ad un tempo ciò su cui e ciò in cui l'uomo fonda il suo abitare. Noi la chiamiamo Terra.¼La Terra è ciò in cui il sorgere riconduce, come tale, tutto ciò che sorge come il proprio nascondimento protettivo. In ciò che sorge è-presente la Terra come la nascondente-proteggente»[lxxii][72].
Nella parola Terra Heidegger vede la risonanza dell'essere pensato in modo greco, vale a dire la φύσις. Esso non è altro che il modo in cui le cose vengono alla presenza, cioè nella disvelatezza. La Terra è lo schiudimento dell'ente nella sua totalità. Ma essa non si esaurisce nella semplice dinamica dello schiudimento, in quanto nel suo emergere riconduce se stessa nel suo nascondimento protettivo. La roccia, di cui il tempio è fatto, non è semplicemente la materia di costruzione, quale può essere quella della scure. Qui il «basamento di roccia» è irriducibile[lxxiii][73]. La roccia è semplicemente roccia. L'opera nel suo emergere emerge in quanto roccia e permane in questo schiudimento come roccia. La Terra è allo stesso tempo questo schiudimento e riconducimento nel proprio nascondimento-protettivo.
Per comprendere nel modo più chiaro questo carattere della Terra, φύσις, proviamo a rivolgere la nostra attenzione su un fenomeno naturale.
Un seme cade[lxxiv][74] sulla terra. Esso verrà custodito dalla terra, che gli darà calore e nutrimento. Il seme così custodito germoglierà, portandosi nell'aperto. La pianta, in quanto seme germogliato, potrà schiudersi; ma essa, fin quando sarà pianta, non perderà mai il suo legame con la terra. La pianta permane radicata nel terreno, ed è proprio questo il suo stare in sé, il suo riposare in se stessa. Portandosi nell'aperto la pianta manifesta - raccoglie - le nozze tra terra e cielo. Essa è il loro frutto. Ma nel suo emergere nell'aperto la pianta porta, in questo suo schiudimento, l'oscurità della sua provenienza, la Terra, la Φύσις. Essa non è semplicemente il suolo terrestre, non è qualcosa di essente. La Terra è il semplice schiudimento in cui l'essente viene alla presenza, e in questo venire alla presenza si radica nel sui nascondimento protettivo. La Terra è ad un tempo schiudimento e nascondimento. Essa è ciò che è proprio dell'α̉-λήθεια. Le radici della pianta, da cui essa si nutre, permangono nell'oscurità. Solo uno sguardo pensoso può cogliere la totalità di questa dinamica disvelante-velante. Il legame della pianta con la sua provenienza è coperto, nascosto; ma forse la parola più adatta è "custodito". Il custodire è un mettere al sicuro. Solo se le radici della pianta sono custodite dentro la terra essa potrà schiudersi nell'aperto. Solo quindi se essa rimarrà radicata nella terra la pianta è tale. Quando essa viene strappata dal luogo della sua provenienza la pianta perde il suo essere, diventando mezzo per qualcosa. La pianta deve schiudersi sul fondamento della sua nascosta provenienza. Solo così la pianta è veramente pianta.
Nell'opera, quale il tempio greco, tutto quello che si detto della pianta è evidente. Ma, allo stesso modo, nell'opera non accade semplicemente lo schiudimento dell'ente che esso stesso è. L'opera nel suo ergersi apre una contrada (Gegend). Nel suo puro schiudersi raccoglie tutto ciò che è in rapporto con essa, e solo in questo modo tutte le cose si illuminano nel loro essere. Il tempio nel suo permanere nell'aperto si oppone alla bufera che la investe, ma nel suo opporsi (nel suo stare di contro) non fa altro che rivelare l'essere della bufera. Allo stesso modo la luce del sole che lo illumina e l'oscurità della notte che lo oscura, solo nel suo schiudimento, possono manifestare la loro essenza. Insomma, tutto ciò che rientra nell'Aperto che il tempio, in quanto opera, apre, solo allora più risplendere ed essere ciò che è. «Eretto sulla roccia, il tempio apre un mondo e lo riconduce, nello stesso tempo, alla Terra, che solo allora si rivela come suolo natale. Non accade mai che uomini e animali, piante e cose, siano dapprima semplicemente-presenti e conosciuti come semplici oggetti, per divenire poi casualmente, il contorno adeguato del tempio, che, a sua volta, si sarebbe un giorno aggiunto alla restante realtà.¼Stando lì eretto, il tempio conferisce alle cose il loro aspetto e agli uomini la visione di se stessi. Questa visione resta attuale fin che l'opera è tale, fin che Dio non fugge via da esso»[lxxv][75].
L'esser-opera dell'opera è la messa in opera della disvelatezza-velante dell'essere. L'opera in quanto τόπος è l'aprirsi di una regione che illumina tutto ciò che in essa si fa presente. Questo significa essenzialmente che il modo in cui l'opera accade è l'esposizione di un mondo. Ma Mondo qui non è semplicemente l'insieme di tutte le cose, esso non è qualcosa di essente. Il Mondo è essenzialmente in quanto si mondifica. Esso «è il costantemente inoggettivo a cui sottostiamo fin che le vie della nascita o della morte, della grazia e della maledizione ci mantengono estetizzati nell'essere»[lxxvi][76]. Il che vuol dire essenzialmente che il Mondo è L'Aperto in cui l'essere si dà (Es gibt) come destino (Geschick) dell'esser-Ci. Questo implicitamente potrebbe rimandare al significato del mondo che si ha in Essere e tempo, cioè alla significatività a cui tutti gli enti, in quanto strumenti, sono rimandati. «Solo che mentre nell'analitica di Sein und Zeit la significatività appartiene al mondo inteso come esistenziale, a una totalità di strumenti che ha il suo centro e la sua origine nell'esserci, qui la totalità dei rimandi e dei significati che costituiscono il mondo è istituita dall'opera che è un accadimento della verità»[lxxvii][77]. È l'opera che dispone dell'ampiezza di ciò che è proprio del mondo, nel senso del «porre in libertà la pienezza dell'aperto e ordinare [corsivo nostro] questa pienezza dell'insieme dei suoi tratti»[lxxviii][78].
Nella parola mondo è raccolto il significato dell'equivalente parola greca κόσμος. Ad esso Heidegger attribuirà un triplice significato: «1) il verbo κοσμέω, a cui appartiene κόσμος significa: mettere in ordine. Indubbiamente non nel senso di una semplice classificazione, ma secondo il coappartenersi delle cose in seno a una «comune presenza», come giorno e notte¼Pertanto κόσμος non significa una cosa più grande delle altre e al cui interno tutte troverebbero posto, ma un modo d'essere [corsivo nostro]¼2) κόσμος è anche ciò che in tedesco si dice Zier, «ornamento»: la lucentezza, ciò che splende, originariamente è la stessa parola di Zeus. In essa viene evocata la luce del cielo¼3) C'è ancora un terzo significato, assai comune in Omero, quello di gioiello. È familiare anche in Pindaro, ad esempio quando proclama l'«aurea vittoria». Sia il gioiello, sia l'oro non devono risplendere soltanto per se stessi, ma, risplendendo, devono far risplendere colui che li porta e su cui essi brillano»[lxxix][79].
Il Mondo, il κόσμος, è ordine e luce. Solo a partire da esso tutte le cose si acquietano nel loro essere[lxxx][80].
Ma come si è più volte ribadito l'apertura del Mondo è solo uno dei due caratteri fondamentali dell'esser-opera dell'opera. L'esposizione di un Mondo implica nell'opera anche un porre-qui (herstellen) la Terra. Il tempio è in quanto in essa si pro-duce la materia di cui è fatta, nel senso che nell'opera si schiude la materia su cui, a sua volta, l'opera si ritira. La cosità dell'opera non si disperde in essa, come accade nell'usabilità del mezzo, ma nell'opera per la prima volta l'esser-cosa della cosa viene a risplendere in tutta la sua oscura presenza. Solo nell'opera la cosa può portarsi nel suo completo schiudimento. In essa «i metalli si fanno lampeggianti e rilucenti, i colori splendenti, i suoni risonanti, la parola dicente. Tutto ciò si fa perché l'opera si ritira nella massa e nel pesantore della pietra, nella saldezza e nella flessibilità del legno, nella durezza e nello splendore del metallo, nella luce e nell'oscurità del colore, nella tonalità del suono e nella forza nominativa della parola»[lxxxi][81]. L'opera schiude il suo Mondo solo se essa stessa si ritira nel suo fondamento cosale. Ciò che emerge in questo ritirarsi dell'opera è la Terra. L'essenza dell'opera è quindi l'esposizione di un Mondo e la pro-duzione della Terra. Ma è proprio nella produzione della Terra che si scorge ciò che nell'α̉λήθεια rimane velato. La cosità dell'opera emerge solo se essa rimane integra e inesplicita. Quando ad esempio andiamo a scomporre il suono in un calcolo di vibrazioni esso ci sarà di già sfuggito. Il suono (nell'opera) risuona e vuole solo risuonare.
Fare esperienza dell'opera, come dell'α̉λήθεια, non è un rappresentarsela, ma è essenzialmente un dimorare in essa, in modo che il suo mistero possa risplendere in quanto mistero (Terra, λήθη). «Il mistero non è un enigma che prima o poi si possa risolvere; non è neppure ciò che è semplicemente chiuso, di cui non ci importa nulla; non è neppure, da ultimo, un mistero tra gli altri; è, piuttosto, l'unico e solo: la velatezza, sul fondamento della quale soltanto la svelatezza dell'ente nella sua totalità, e in quanto tale, è»[lxxxii][82]. In tal senso la Terra è semplicemente l'autochiudentesi per essenza. «Porre-qui la Terra significa: porla nell'aperto come autochiudentesi»[lxxxiii][83]. L'opera in quanto opera può pro-durre la Terra solo perché quella si ritira in questa.
L'opera accade come esposizione di un Mondo e produzione della Terra. Questi due momenti (Mondo e Terra) sono ciò che è proprio dell'opera in quanto opera. Essi, però, non emergono in due momenti differenti, anzi è proprio dal loro continuo riferirsi l'uno all'altro che possono essere come tali. «Mondo e Terra sono essenzialmente diversi l'un dall'altro e tuttavia mai separati. Il Mondo si fonda sulla Terra e la Terra sorge attraverso il Mondo. Ma la relazione fra Mondo e Terra non si esaurisce affatto nella vuota unità contrappositoria di elementi indifferenti. Riposando sulla Terra, il Mondo aspira a dominarla. In quanto autoaprentesi, esso non sopporta nulla di chiuso. Invece la Terra, in quanto coprente-custodente, tende ad assorbire e a risolvere in sé il Mondo»[lxxxiv][84]. Questa contrapposizione di Mondo e Terra Heidegger la chiama lotta. Solo in essa i due contendenti possono elevarsi all'autoaffermazione della proprio essenza. Nella lotta ognuno dei lottanti porta l'altro al di sopra di ciò che esso è. Analogamente quando il tempio si erge nell'aperto opponendosi alla bufera non fa altro che esaltarne l'essenza. La vera lotta è tale solo quando i lottanti nel loro fronteggiarsi possono manifestare se stessi nella pienezza del proprio essere.
L'opera è essenzialmente il luogo[lxxxv][85] (Ort) di questa lotta.
La lotta è ciò che i greci (Eraclito) chiamarono πόλεμος, ε̉ρις. In essa è custodita l'essenza dell'α̉λήθεια, in altre parole la lotta tra disvelamento e velamento. I greci la espressero col μυ̃θος. Essenzialmente, il che vuol dire originariamente, l'opera d'arte è il τόπος in cui si schiude il πόλεμος tra disvelamento e velamento, esso è la saga (die Sage) di un popolo storico.
Solo dall'accensione di questa lotta ha luogo l'unità dell'opera, cioè il suo raccoglimento. Perciò, il riposare in se stessa dell'opera non deve essere visto come qualcosa d'immobile e statico. In essa in verità si produce l'estrema mobilità, che è ad un tempo estremo raccoglimento. È in questo che si trattiene come tale la lotta di Mondo e Terra, che è essenzialmente lotta per il disvelamento.
Ora però, l'ente perché venga alla luce deve esser-Ci un Aperto reso libero per il disvelamento. Questo Aperto diradato per il disvelamento è ciò che Heidegger chiama Lichtung[lxxxvi][86]. «Al di là dell'ente, ma non via da esso, anzi in cospetto a esso, qui si rivela un Altro. Nel mezzo dell'ente nel suo tutto, domina [west] un luogo aperto. C'è [ist] una Lichtung[lxxxvii][87] [illuminazione]. Questa, pensata a partire dall'ente, è più essente di ogni ente. Questo Centro aperto non è quindi circondato dall'ente; al contrario, è questo Centro che - come il nulla, noto a mala pena - circonda ogni ente. L'ente può essere come ente solo se si immerge ed emergere dal seno dell'illuminato [in das Gelichtete] di questa Lichtung. Solo questa Lichtung apre e garantisce a noi uomini l'accesso all'ente che noi stessi non siamo, e l'entrata nell'ente che noi stessi siamo»[lxxxviii][88].
Ciò che qui la parola Lichtung significa noi l'abbiamo già nominata quando parlavamo della contrada (Gegend), cioè della libera vastità che diradandosi permette la disvelatezza dell'ente. Questo diradarsi è l'aprirsi di un'apertura per il disvelamento. «Noi chiamiamo questa apertura che solo concede la possibilità di lasciar-apparire e mostrare, la Lichtung. La parola tedesca Lichtung è, quanto alla storia della lingua, un termine coniato per tradurre la parola francese clairière. Essa è formata sul modello delle antiche parole Waldung e Feldung (foresta; campo).
La radura della foresta (Waldlichtung) è esperita nel contrasto con la foresta là dove è fitta, detta nella lingua tedesca più antica Dickung (il fitto della foresta). Il sostantivo Lichtung, radura, rinvia al verbo lichten, diradare. L'aggettivo licht è la stessa parola che leicht, facile[lxxxix][89]. Diradare qualcosa significa: rendere qualcosa facile, aperto e libero, per esempio liberare la foresta in un luogo dagli alberi. Lo spazio libero (das Freie) che così sorge è la radura, Lichtung. Das Lichte, ciò che è facile nel senso di libero e aperto non ha né linguisticamente né quanto alla cosa di cui si parla niente in comune con l'aggettivo Licht, che significa hell, chiaro, luminoso. Questo è da tener presente per la differenza tra Lichtung, radura e Licht, luce. Nondimeno resta la possibilità di una connessione oggettiva (sachlichen) tra di esse. La luce può appunto cadere nella radura, nel suo aperto (in ihr Offenes) e in essa lasciar giocare la luminosità (helle) con l'oscurità (Dunkel). Ma giammai è la luce che crea originariamente la radura; invece è quella, la luce, che presuppone questa, la radura. La radura (l'aperto) è libera non solo per la luminosità e l'oscurità, ma anche per l'eco e per il suo spegnersi, per ogni suono e per il suo svanire. La Lichtung, la radura, è l'Aperto per tutto ciò che è presente e tutto ciò che è assente (das Offene für alles Anund Abwesende)»[xc][90].
La Lichtung, intesa come un diradarsi, un farsi libero; e l'α̉λήθεια, intesa come un disvelamento, accadono nel Medesimo Evento. Solo a partire da esso è possibile pensare l'essere senza riguardo della metafisica. L'Aperto, che qui è da pensare, libera per il disvelamento dell'essente. La Lichtung, come aperto che libera, è un diradarsi. Ma come può un diradarsi essere tale se proprio nel diradarsi non nasconde se stesso? La λήθη dell'α̉-λήθεια è proprio ciò che nel diradarsi dirada se stesso. La λήθη è la Lichtung in quanto dirada se stesso per il disvelamento. Perciò, la Lichtung, in quanto diradamento illuminante, presuppone l'oscurità, il mistero[xci][91]. Basti pensare in tal senso all'immagine della contrapposizione del fitto del bosco che circonda il rado della Lichtung. La Lichtung, in quanto diradamento del bosco, appartiene al bosco. Ma è solo a partire dal diradarsi del bosco che proprio il fitto di esso può essere realmente esperito. Come solo dalla co-appartenenza (Zusammengehören) del giorno con la notte, la chiarità del primo e l'oscurità del secondo, possono risplendere nel loro essere.
Tutto si gioca nella dif-ferenza.
Allo stesso modo nell'opera d'arte ciò che realmente gioca è la differenza (dia-ferenza), la lotta tra Mondo e Terra. «La Lichtung in cui l'ente si mantiene è parimenti un nascondimento.¼Il nascondimento come rifiuto non è in primo luogo e soltanto il limite del conoscere, ma è l'inizio della Lichtung dell'illuminato»[xcii][92].
L'opera d'arte è la messa in opera della verità, in quanto in essa Lichtung e nascondimento, svelamento e velamento, Mondo e Terra giocano la loro essenza - in quanto la verità è in se stessa non-verità. «Ma il Mondo non è senz'altro l'Aperto, corrispondente alla Lichtung, e la Terra non è senz'altro il chiuso, corrispondente al nascondimento. Il Mondo è piuttosto la Lichtung delle direttrici delle ingiunzioni essenziali in cui si ordina ogni decidere. Ma ogni decidere si fonda in qualcosa di non padroneggiato, di nascosto, di fuorviante, senza di che non potrebbe mai essere un decidere [corsivo nostro]. La Terra, a sua volta, non è semplicemente il chiuso, ma ciò che emerge come autochiudentesi»[xciii][93]. Ciò che più conta qui è la dinamica interna che si accende tra Lichtung e nascondimento: il primo ha bisogno del secondo come suo fondamento abissale, il secondo ha bisogno dell'illuminazione del primo per emergere nel suo nascondimento.
Mondo e Terra accadono solo nell'Ereignis, cioè nell'evento appropriante-espropriante. Il Mondo si appropria della Terra in quanto essendo per essenza aprente non sopporta niente di chiuso; allo stesso modo la Terra si appropria dell'illuminazione del Mondo assorbendola e risolvendola in essa. Il che significa ad un tempo che il Mondo si espropria nella Terra per svelarla, e la Terra si espropria nel Mondo per velarlo. Mondo e Terra si danno in quanto co-appartengono al Medesimo Evento (Ereignis). L'opera d'arte è «l'attizzatrice» di questa lotta.
Il πολέμος è il padre di tutte le cose[xciv][94].
5. ̉́ΕΡΙΣ (LOTTA) E ̉ΑΡΜΟΝΊΑ (ACCORDO) NELL'OPERA D'ARTE. SGUARDO SUL ΛΌΓΟΣ DI ERACLITO.
I risultati del paragrafo precedente hanno chiarito che l'unità dell'opera d'arte consiste nella lotta (ε̉́ρις) di Mondo e Terra che, nella misura in cui accadono, li pone l'uno contro l'altro, vale a dire li traspropria nell'unità differenziata della loro essenza. Heidegger ricava questa struttura originaria dell'opera d'arte da un incessante colloquio con uno dei fondamentali pensatori greci: Eraclito. Egli è il pensatore che pensa l'unità dell'essere per contrari: ε̉́ν διαφέρον ε̉αυτω̃, l'uno in se stesso differenziato. Heidegger, proprio pensando a Eraclito, individua l'essenza stessa del pensatore nel sostare nelle vicinanze di ciò che è in lotta (ε̉́ρις)[xcv][95]. La lotta che qui è da pensare non deve essere intesa come contesa e rissa, la quale ha come suo unico scopo quello della distruzione. «Nella lotta autentica, i lottanti - l'un l'altro - si elevano all'autoaffermazione della propria essenza»[xcvi][96]. Nella lotta così intesa gioca un accordo (α̉ρμονία) originario che connette i lottanti e li porta al più alto grado della loro essenza. Ed infatti alla φύσις, intesa come lo schiudersi da se stesso in uno spazio aperto e libero, appartiene il gioco armonico. Tale gioco è il dispiegarsi della lotta (ε̉́ρις) essenziale per il disvelamento. Alla lotta appartengono giorno e notte, vita e morte, essere e nulla. È la lotta che li mette in opera[xcvii][97] accordando essi stessi nel loro reciproco fronteggiarsi. L'accordo, che armonizza nella lotta del disvelamento, è pensato in tutta la sua essenza nel fr. 123 di Eraclito: φύσις κρύπτεσθαι φιλει^, «il sorgere dona il favore al nascondersi»[xcviii][98]. Questo accordo, che armonizza sorgere e nascondere, non è il frutto di un'elaborazione dialettica, ma è il semplice modo con cui le cose accadono. Detto per inciso se alla primavera e l'estate non sopraggiungessero l'autunno e l'inverno sulla terra la vita non potrebbe esser-Ci.
Nel frammento di Eraclito è la φύσις stessa a concedere il favore per il κρύπτεσθαι, e viceversa. Il modo con cui φύσις e κρύπτεσθαι sono accordati è indicato dalla parola φιλία, il cui significato è quello di amicizia. Essa è il puro e semplice «esserci [Dasein] l'un per l'altro»[xcix][99].
È importante nella comprensione di questa dinamica impegnarsi nel non pensare la φύσις e il κρύπτεσθαι, il giorno e la notte, la vita e la morte, il disvelamento e il velamento come blocchi irrigiditi in se stessi, che si portano nella loro prossimità contrapponendosi. Nella misura in cui qualcosa accade (sich ereignet) noi siamo già portati in questo essenziale modo in cui le cose si accordano. Non si è mai visto un giorno privo della notte, o la vita priva della morte. È, dunque, il giorno, la vita che cerca il suo tra-passare (tras-propriare) nella notte, nella morte. Ma questo cercare accade in quanto il giorno, la vita e la φύσις sono già ciò che è proprio - in quanto traspropriati - della notte, della morte e del κρύπτεσθαι.
Ciò che qui è in gioco è un concedere la libertà per il proprio. La libertà qui nominata è il puro e semplice atto di con-cedere se stesso, nel senso di libera donazione. Ed è proprio questa libertà che accese l'inizio dell'Essere (Seyn)[c][100]. Per questa libertà, il sorgere, proprio in quanto apertura aprente, non si sottrae per nulla al chiudersi, bensì lo esige per se stesso come ciò che accorda il sorgere e dà sempre ad esso la sola e unica garanzia. Come potrebbe, infatti, il sorgere essere tale se proprio quest'ultimo non provenisse e andasse nel suo tramontare? L'uno si con-cede all'altro.
Il fondamento comune del sorgere e tramontare sta nel puro trovarsi l'uno contro l'altro. In questo puro trovarsi entrambi lottano per la garanzia della propria essenza. Ciò significa essenzialmente che il favore è il tratto fondamentale della ε̉́ρις, della lotta. Entrambi si con-cedono, si danno nella lotta per l'autoaffermazione di se stessi. Ma allora, la φύσις accorda il favore al nascondersi perché in se stessa è già l'accordo (α̉ρμονία) in cui e per cui il sorgere si accorda al nascondersi, e quest'ultimo a quello. Qui il tratto essenziale dell'αρ̉μονία è nella connessione (Fuge), per cui una cosa si adatta ad un'altra e in cui entrambe le cose si connettono, in modo che vi è accordo. In questa connessione sorgere e nascondersi si scambiano l'un l'altro reciprocamente la con-cessione della loro essenza, cioè la tras-propriazione di se stessi[ci][101].
Riguardo all'α̉ρμονία Eraclito dice nel fr. 54: α̉ρμονίη αφανής φανερη̃ς κρείττων, «l'accordo inappariscente è superiore alla connessione che si introduce nell'apparire»[cii][102]. La φύσις è inappariscente. La φύσις - l'essere - proprio perché non è un ente, ma il modo in cui e con cui le cose vengono alla presenza, si ritira sullo sfondo quando si dispiega. Perciò la φύσις è l'accordo inappariscente. Qui si intravede il Medesimo che raccoglie φύσις e Lichtung, in quanto nel suo dispiegare si porta nel riparo del suo nascondimento. Ed infatti, la libertà, in precedenza nominata, non è altro che il diradarsi della Lichtung che si fa libero per il disvelamento.
L' α̉ρμονία della φύσις è, perciò, il più bell'accordo, in quanto la φύσις stessa è più aperta - in quanto aprirsi dell'Aperto - di ogni cosa manifesta. Proprio per questa libera vastità che tutto accorda, essa rimane l'inappariscente e si dispiega come tale.
Nell'armonia, intesa come un favore che concede l'essenza, vi è un passare l'uno nell'altro e un rivolgersi dell'uno contro l'altro. Questa dinamica è nominata in greco con la parola τὸ α̉ντίξουν, andar contro, opporsi. Quando il sorgere si inserisce nel nascondersi esso si porta in ciò che va contro se stesso. Ma allo stesso modo τὸ α̉ντίξουν, ponendo l'uno contro l'altro, fa anche in-contrare insieme il sorgere e il tramontare, rendendoli concordi. Questo far entrare insieme, questo portarsi dell'uno nell'essenza dell'altro, cioè l'entrare nella connessione si dice in greco: συμφέρον. Eraclito nel fr. 8 nomina sia τὸ α̉ντίξουν sia συμφέρον: τὸ α̉ντίξουν συμφέρον καὶ ε̉κ τω̃ν διαφερόντων καλλίστην α̉ρμονίαν. «L'opporsi [è] concordare e da ciò che è discorde lo splendido accordo»[ciii][103].
Il rendere concorde consiste in un andar contro, in un opporsi di ciò che si esperisce come essenza e si accorda; questo rendere concorde mette insieme in quanto inserisce nella connessione, «anzi rende conforme la connessione stessa e porta quest'ultima e ciò che si accorda ad apparire separatamente, nella purezza dell'opposizione che la connessione stessa concede»[civ][104].
La connessione si manifesta nell'opera d'arte nella lotta di Mondo e Terra. Essa accorda nel puro portarsi contro, che allo stesso modo porge (dona) l'essenza. Ma in che modo la lotta raccoglie concretamente Mondo e Terra? Nel Tratto (Riss) dell'opera. Esso però «non è un tratto [Riss] che spalanca un baratro, ma è l'intimità di un convenirsi reciproco dei lottanti. Un tal tratto at-trae i contendenti verso l'origine della loro unità, in base al comune fondamento. Esso è un disegno fondamentale [Grundriss]. Esso è il profilo [Auf-riss] che disegna i tratti fondamentali della Lichtung dell'ente. Questo tratto non permette che gli opposti si dilacerino separandosi, ma inserisce la contrapposizione di misura e limite in un unico contorno [Umriss]»[cv][105]. Il tratto di questa lotta separa e unisce nello stesso tempo. Questo tratto è essenzialmente il modo con cui la lotta è posta nell'opera; esso è il luogo in quanto limite (τέλος). Ed, infatti, è dal limite che una cosa inizia e non, viceversa, come si crede, dove la cosa finisce. Il limite dispiega la figura (Gestalt) dell'opera, in cui i lottanti possono convenire l'uno contro l'altro.
Un dipinto quale le scarpe di Van Gogh si raccoglie nel tratto della sua figura. I colori e il disegno sono essi stessi questo tratto, in quanto il profilo (Auf-riss) dell'opera è assorbito dalla Terra, che emerge dal profilo stesso. «Nella misura in cui la Terra ritira in sé il tratto, questo viene pro-dotto nell'Aperto e così ricondotto, cioè posto, in quella che come autochiudentesi custodente, emerge nell'Aperto»[cvi][106]. Perciò, l'opera d'arte, come messa in opera (ε̉́ργον) della verità, è la fissazione della verità nel tratto della figura, vale a dire nel tratto della lotta tra Mondo e Terra. La figura, in quanto è il risultato del tratto che at-trae Mondo e Terra, deve sempre determinarsi in base all'esposizione del Mondo e alla produzione della Terra.
Il tratto della figura dell'opera è il luogo (Ort) originario in cui si raccoglie l'unità della contrada (Gegend), che l'opera, in quanto messa in opera della verità, apre e ordina.
Uno studio materialistico (percettivo) o idealistico (trascendentale) dell'opera d'arte non può cogliere l'essenza di essa, in quanto fondono il loro sapere sulla separazione meta-fisica tra sensibile e soprasensibile, tra materia e forma. La lotta dell'opera non è né qualcosa di sensibile né qualcosa di soprasensibile, come anche la Terra non è il sensibile e il Mondo il soprasensibile. Prima di questa separazione inconciliabile vi è l'unità differenziata che raccoglie tutto nell'unico tratto. La dif-ferenza[cvii][107], quale indice del tratto dell'opera, viene prima di tutto. Certo, il marmo, i colori, la pietra, i suoni, le parole "sono" prima del tratto in cui sono posti, ma è solo nel tratto che i colori, la pietra, i suoni, le parole sono in quanto tale. Solo perché ad un tempo il tratto si ritira nell'ostinato pesantore della pietra, nell'intensa vampa dei colori, nel vibrante risuonare dei suoni, nella forza dicente della parola, a sua volta, la pietra, il colore, il suono, la parola può schiudersi nella sua pura irriducibilità: ciò che è autochiudentesi per essenza.
Si è più volte ribadito che Mondo e Terra non accadono in momenti differenti; essi appartengono a un unico Evento che, nella misura in cui li fa accadere, li dis-pone l'uno nell'altro, l'uno contro l'altro.
La lotta (ε̉́ρις) di Mondo e Terra è in se stessa α̉ρμονία: accordo traspropriante.
Del carattere proprio dell'αρ̉μονία parla il fr. 51 di Eraclito: ου̉ ξυνια̃σιν ο̉́κως διαφερόμενον ε̉ωυτω̃ι ομολογέει˙ παλίντροπος α̉ρμονίη ο̉́κωσπερ τόξου καὶ λύρης. «Essi non concordano su come ciò che è discorde, pur essendo discorde (nell'esser in se stesso discorde) debba essere concorde, tendendosi all'indietro (distendendosi) (ciò che è discorde) dispiega l'accordo come si (l'essenza) mostra nella vista dell'accordo e della lira»[cviii][108]. L'accordo (α̉ρμονία) è in se stesso sia l'allontanarsi di uno dei due elementi dall'altro nella libera distensione, sia il rivolgersi dell'uno verso l'altro nella tensione che si tramuta in distensione. L'armonia dei contrastanti è l'accordo originale che raccoglie Mondo e Terra; ed in cui l'unità della lotta si dispiega sia nella tensione sia nella distensione del loro essere: l'uno contro l'altro, l'uno per l'altro. Tutto questo Heidegger lo vede nell'enigmatica parola Er-eignis.
Vista da questa prospettiva l'α̉ρμονία, indicata nel fr. 51 di Eraclito, «non consiste tanto nella tensione reciproca, in modo che quando i due elementi si separano nella distensione essa rimanga distinta e sia presente al massimo in ciò che risulta armonizzato; piuttosto della α̉ρμονία fa parte il lasciar divergere nella distensione»[cix][109]. La tensione contraria e contrapposta appartiene unicamente all'essenza dell'accordo. Ma proprio l'Ereignis come l'evento appropriante-espropriante contiene già in se stesso questi due momenti di tensione e distensione della connessione (Fuge) originaria. Ed è quindi ad esso (l'Ereignis) che bisogna rivolgere la massima attenzione per comprendere nel modo più chiaro la lotta di Mondo e Terra. In base a ciò che è proprio dell'Ereignis di Mondo e Terra, non possiamo affermare che essi semplicemente sono, bensì si deve dire: il Mondo si dà (Es gibt) come illuminazione autoaprente e la Terra si dà (Es gibt) come fondamento autochiudente. È quindi la pura oscillazione dell'Ereignis che apre essenzialmente ciò che è proprio del Mondo e della Terra. L'origine di questa oscillazione è il tratto che li unisce differenziandoli. Si pensi all'espressione eraclitea: ε̉́ν διαφέρον εαυτω̃, l'uno in se stesso differenziato. Il tratto, però, non è l'Ereignis, ma al massimo si può dire che quello è un modo di questo.
Ciò che propriamente parla nell'opera è l'accordo-traspropriante di Mondo e Terra. Ma adesso, con Eraclito, possiamo anche dire che nel tratto dell'opera si dispiega l'accordo-traspropriante di κόσμος e φύσις. Il κόσμος noi l'abbiamo già chiarito, intendendolo come l'accordo della compagine strutturata dell'essente, cioè l'ordinamento nel quale e a partire dal quale l'essente appare nel proprio splendore. Da una parte abbiamo quindi l'ordinamento dall'altro lo schiudimento, entrambi essenziali per l'accadimento dell'ente.
Nella misura in cui l'ente è, accade lo schiudimento e l'ordinamento dell'ente stesso[cx][110].
Nell'opera d'arte ciò che schiude e ordina è il tratto della lotta di Terra e Mondo, che unifica e raccoglie i lottanti; e con ciò l'opera stessa. Questo raccoglimento, che abbiamo anche indicato con la parola α̉ρμονία (accordo), è ciò che Heidegger usa per tradurre la parola fondamentale del pensiero di Eraclito: ̉ο Λόγος.
Tradizionalmente (metafisicamente) λόγος significa discorso, ma anche ratio, legge del mondo, ciò che è logico e costituisce la necessità del pensiero, il senso, la ragione. Il λόγος - metafisicamente inteso - è la legge del pensiero.
Eraclito ci dà un cenno del Λόγος nel fr. 50: ου̉κ ε̉μου̃, α̉λλὰ του̃ λόγου α̉κούσαντας ο̉μολογει̃ν σοφόν ε̉στιν έν πάντα ει̉ναι. «Se non avete ascoltato a me, ma avete prestato ascolto al logos (disposti verso di lui, a lui attenti), il sapere (consiste in questo), nel dire - dicendo la stessa cosa che dice il logos - che tutto è uno»[cxi][111]. In questo passo, in cui la parola λόγος non è tradotta, è nominato il modo in cui noi uomini entriamo in rapporto con il Λόγος: l'ascolto.
In questo prestare ascolto al Λόγος noi possiamo ridire (in conformità al dire del Λόγος) l'essenza dell'essente: ε̉́ν πάντα ει̉ναι, tutto è uno. Il Λόγος mostra l'essenza dell'essente, ε̉́ν πάντα, in quanto il Λόγος stesso è, o meglio accade come, ε̉́ν πάντα. Esso è la legge che tutto ordina e raccoglie. Ed infatti, quando noi prestiamo ascolto al Λόγος dobbiamo raccogliere quello che ci vien detto; ma noi possiamo raccogliere quello che ci viene detto solo perché ciò che si mostra a noi (nel dire) è già di per sé raccolto. Ed è per questo che noi possiamo ̉ομολογει̃ν, cioè ridire ciò che già di per se stesso si mostra raccolto. ̉Ομολογει̃ν è quindi il modo con cui noi uomini ci conformiamo al mostrare raccogliente del Λόγος; l'̉ομολογει̃ν è un concordare. Allo stesso modo ̉ομολογια è l'accordo che concorda e ammette[cxii][112].
In conformità con ciò che il Λόγος dice, ε̉́ν πάντα, esso è essenzialmente un raccoglimento, cioè il modo con cui l'ente nella sua totalità si accorda nell'uno unificante.
Questo significato della parola λόγος lo possiamo desumere dal verbo λέγειν, che in una traduzione corrente significa dire, parlare; ma «in un tempo ugualmente antico e in un modo ancora più originario, e quindi già sempre e perciò anche nel significato ora menzionato, λέγειν significa anche ciò che è espresso nella analoga parola tedesca «legen»: posare, mettere dinnanzi. In questo si fa sentire il senso di «riunire», «mettere insieme» (Zusammenbringen), il latino legere nel senso in cui il tedesco lesen andare a prendere, raccogliere. Λέγειν significa propriamente il posare e mettere dinnanzi raccogliente se stesso e altro»[cxiii][113].
Vista da questa prospettiva, cioè in base a ciò che è proprio del λέγειν, ο̉ Λόγος è essenzialmente «il posare raccogliente e nient'altro»[cxiv][114]. Ed è proprio in base al Λόγος così inteso che l'uomo, in quanto esser-Ci, assume la sua essenza: ζω̃ον λόγος ε̉́χον. L'uomo è «un accogliere che si distende come quella riunione riunita in se stessa che è la riunificazione originaria. L'uomo è il luogo [Ortschaft] della verità dell'essere»[cxv][115]. Nel fr. 50 sopracitato viene indicata l'essenza dell'uomo proprio nella ο̉μολογείν, cioè nel corrispondere al Λόγος originario e in ciò che in se stesso mostra: ε̉́ν πάντα ει̉ναι, tutto è uno.
In base a ciò che si è appena detto, come si accorda ciò che è proprio dell'opera d'arte con il Λόγος?
L'opera d'arte è in se stessa la messa in opera dell'α̉λήθεια, cioè della disvelatezza di ciò che si fa presente nella presenza. Ma proprio il Λόγος, in quanto posare raccogliente, cioè lasciar stare dinnanzi come tale ciò che sta dinnanzi; «disvela il presente nella presenza»[cxvi][116].
L'α̉λήθεια e il Λόγος sono la stessa cosa.
In più, l'opera d'arte fissa (colloca) l'α̉λήθεια nel tratto della lotta di Mondo e Terra, di κόσμος e φύσις, in cui i lottanti sono accordati nell'uno differenziato. Ma proprio l'«unire che risiede nel λέγειν non è né soltanto un cogliere insieme cose diverse mediante un atto che le abbraccia tutte, né un accostamento di contrari attraverso un puro e semplice compromesso. L'̉́Εν Πάντα lascia stare-insieme-dinnanzi in una presenza ciò che è staccato e opposto come il giorno e la notte, l'inverno e l'estate, la pace e la guerra, la veglia e il sonno, Dioniso e Ades. Ciò che è così transportato (Ausgetragene), διαφερόμενον, attraverso l'estrema distanza che separa presente e assente, è quello che il posare raccoglente lascia stare-dinnanzi nella sua dia-ferenza (Austrag). Il suo posare stesso è, nella dia-ferenza, ciò che regge. L'̉́Εν stesso è dia-ferente»[cxvii][117].
Con quest'ultima determinazione si comprende nel modo più chiaro l'intimo rapporto che vi è tra l'opera e il Λόγος. Nell'opera il Λόγος, il posare raccogliente, lascia stare-dinnanzi Mondo e Terra nella loro dia-ferenza, raccogliendoli nell'̉́Εν unificante. Ma con questo raccoglimento originario tutte le cose che si trovano in rapporto con l'opera vengono raccolte nell'̉́Εν Πάντα.
Solo adesso comprendiamo in tutta la sua portata il perché solo con lo schiudersi raccogliente del tempio greco le cose assumono il loro essere.
L'opera d'arte è il luogo di risonanza del Λόγος originario, o meglio ancora:l'opera è un luogo (Ort) in cui il λόγος umano si accorda con il Λόγος originario. Solo da questo accordo (α̉ρμονία, ο̉μολογία) l'opera può far risuonare il Λόγος, il posare raccogliente. Quest'ultimo raccoglie Mondo e Terra nella loro dia-ferenza; senza, però, tramutare la loro lotta in rissa e distruzione. La lotta di Mondo e Terra è in se stessa φιλία, amicizia.
Della legge della contesa (ε̉́ρις) di Mondo e Terra ne parla Heidegger in una sua breve e illuminante lirica:
La legge di contesa
Terra
custodisci l'inizio.
Mondo
veglia l'accordo.
Mondo
rendi grazie alla terra.
Terra
dai il benvenuto al mondo[cxviii][118].
6. LA QUESTIONE DELLA COSA E DEL GEVIERT IN VISTA DELLA QUESTIONE DELL'OPERA D'ARTE.
Nell'opera d'arte si raccoglie l'unità differenziata della lotta di Mondo e Terra. Essa è fissata nell'opera grazie al tratto della sua figura, che ad un tempo separa e unisce. È, perciò, dal tratto - il τέλος dell'opera - che si dispiega l'accordo di Mondo e Terra.
Se, adesso, ci rivolgiamo alla speculazione successiva del saggio L'origine dell'opera d'arte si può notare che Heidegger trasforma questa lotta per il disvelamento in base ad un incessante colloquio con la poesia di Hölderlin[cxix][119]. Ora, il luogo in cui l'essere si eventualizza non è più nella lotta di Mondo e Terra, ma è il Geviert (Quadratura) di Terra e Cielo, Mortali e Divini[cxx][120].
Uno dei primi saggi in cui viene nominata la dottrina del Geviert è tratto da una conferenza del 1950: La cosa. Se si ricorda, anche il saggio L'origine dell'opera d'arte era iniziato col porre in questione l'esser-cosa della cosa. Sarà perciò interessante seguire, su grandi linee, il percorso del cammino di Heidegger che, nel porre la questione della cosa, perviene alla dottrina del Geviert.
Il saggio inizia dalla constatazione che l'epoca moderna è fortemente caratterizzata dall'annullamento di tutte le distanze (si pensi solo ai nuovi mezzi di comunicazione). Con essa si ha l'annullamento di ciò che è lontano ma anche di ciò che è vicino. Cade in un certo qual modo la possibilità di poter esperire ciò che è altro nella sua alterità[cxxi][121]. La causa di questo modo di esperire il reale Heidegger lo vede nell'essenza della tecnica, indicata nella parola Ge-stell, im-posizione. Esso non è un prodotto dell'uomo, ma il modo con cui l'essente nella sua totalità si disvela nell'epoca moderna. L'essente ora è tutto ciò che è disponibile per la manipolazione e la produzione dell'uomo. Quest'ultimo, a sua volta, proprio perché non produce questo sapere da sé, è pro-vocato da questo modo del disvelamento dell'essente nella sua totalità. Perciò il «Ge-stell, im-posizione, indica la riunione (das Versammelnde) di quel richiedere (Stellen) che richiede, cioè pro-voca, l'uomo a disvelare il reale, nel modo dell'impiego, come "fondo"»[cxxii][122]. È illuminante in tal senso un aforisma di Nietzsche tratto dalla sua opera capitale, La volontà di potenza, per cui: «Ciò che contraddistingue il secolo XIX non è la vittoria della scienza, ma il trionfo del metodo scientifico sulla scienza»[cxxiii][123]. Tutte le cose che l'uomo moderno conosce sono tali in quanto rientrano, come esempi, nel metodo calcolante, che si pone come "fondo" (soggetto). Ma a sua volta tale metodo è il frutto del modo con cui l'essente nella sua totalità si disvela all'uomo. Perciò, l'unico ente ad essere davvero pro-vocato dal Gestell è proprio l'uomo.
Grazie all'annullamento delle distanze le cose, nell'epoca moderna, si svuotano del loro senso, diventando esempi del metodo calcolante. Ma si chiede Heidegger se la cosa è solo oggi annullata, oppure se l'esperienza della cosa non è stata ancora fondata in modo pensante nella sua originalità?[cxxiv][124] Nell'impostazione della domanda si intuisce che forse l'esser-cosa della cosa nell'epoca moderna non è il frutto di un cambiamento del modo di comprendere la cosa, ma tale modo di intendere la cosa è storicamente fondato molto prima di quest'epoca.
Platone per primo fonda l'essenza della cosa in base alla sua dottrina delle idee. Per essa una cosa, quale ad esempio una brocca, è tale perché è pro-dotta in base al suo aspetto (ει̉̃δος, ι̉δέα), che viene prima della brocca in quanto qualcosa di prodotto. Ora però, «ciò che è proprio dell'essenza della brocca non è mai fabbricato dalla produzione. Staccata dalla produzione, la brocca sussistente per sé ha da mantenersi (fassen) raccolta in tale essenza. Nel processo di produzione la brocca deve indubbiamente mostrare previamente il proprio aspetto (Aussehen) per il produttore. Ma questo mostrarsi, questo aspetto (l'ει̉̃δος, l'ι̉δέα) caratterizza la brocca solo nella prospettiva in cui essa, in quanto recipiente che ha da esser prodotto, sta come tale di fronte al produttore»[cxxv][125]. È in base a questo stare di fronte che è esperito l'aspetto della brocca e perciò della sua pro-venienza. Questa provenienza è, a sua volta, duplice: in primo luogo la cosa pro-viene nel senso che «deriva da», sia che essa si produca da se stessa sia che venga fabbricata; in secondo luogo, la cosa pro-viene nel senso del pervenire e sussistere di ciò che è prodotto nella disvelatezza del già-presente[cxxvi][126]. In questo modo la cosa in quanto tale è solo perché rientra nel suo aspetto essenziale. Perciò, Platone, fondando la Meta-fisica, fa rientrare l'esser-cosa della cosa nella dottrina delle idee, sbriciolando in tal modo ciò che è proprio della cosa. In base al pensiero platonico la cosa è tale solo perché è visibile nel suo aspetto essenziale.
Se poi, con la scienza, ci rappresentiamo la brocca piena di vino, essa si riduce a qualcosa di meramente quantificabile e misurabile; la brocca in tal senso è un semplice contenitore[cxxvii][127]. Perciò, ciò che è proprio della brocca è per sempre perduto.
Se adesso ci rivolgiamo all'esser-brocca della brocca nella sua semplicità, si scorge sia il carattere del contenere sia quello, ad esso indissolubile, del versare. Questi due caratteri della brocca sono riuniti nell'essenza dell'offrire. Nella sua semplicità «L'esser-brocca della brocca si dispiega nell'offerta del versato»[cxxviii][128]. Anche una brocca vuota riceve la sua essenza dall'offerta, in quanto solo la brocca può non permettere alcun mescere. Una falce, un martello non può "non permettere" un tale offrire.
Nella brocca, pensata in base all'offerta, i liquidi quali l'acqua il vino non sono più indifferenti, ma in essi adesso si fa palese la loro provenienza.
«Nell'acqua che viene offerta permane la sorgente. Nella sorgente permane la roccia, e in questa il palesante sonnecchiare della terra, che riceve la pioggia e la rugiada dal cielo. Nell'acqua della sorgente permangono le nozze di cielo e terra. Questo sposalizio permane nel vino, che ci è dato dal frutto della vite, nel quale la forza nutritiva della terra e il sole del cielo si alleano e si congiungono. Nell'offerta dell'acqua, nell'offerta del vino permangono ogni volta cielo e terra. L'offerta del versare, però, è l'esser-brocca della brocca. Nell'essenza della brocca permangono terra e cielo»[cxxix][129].
Con questo modo di pensare noi siamo risospinti nella dimensione ancestrale[cxxx][130] che da sempre ha dis-posto l'uomo nella sua essenza. Questa dimensione è il frammezzo che raccoglie terra e cielo. Tale frammezzo viene indicato da Hölderlin, a cui Heidegger fa riferimento, il «tenero rapporto infinito». Qui la parola «In-finito significa che le parti finali, i lati, le regioni del rapporto non stanno ciascuna per sé nell'isolamento e nell'unilateralità, ma invece, liberi dall'unilateralità e dalla finitezza, si appartengono l'un l'altro in modo in-finito nel rapporto che, «percorrendoli da un capo all'altro» li tiene insieme a partire dal suo punto di mezzo»[cxxxi][131]. È a partire da questo frammezzo che l'uomo fonda il suo abitare su questa terra[cxxxii][132]; abitare che è sempre un colloquio con i messaggeri della divinità, anche quando questo colloquio viene rifiutato. Ed infatti, «L'offerta del versare dà da bere ai mortali. Essa calma la loro sete. Anima il loro riposo. Rallegra le loro riunioni. Ma l'offerta della brocca viene talvolta offerta anche in consacrazione. Se il versare ha questo senso di consacrazione, esso non calma una sete. Esso quieta la festosità della festa solennizzata. In questo caso, l'offerta del versare non avviene in osteria, né l'offerta è una bevanda per i mortali. Ciò che è versato è la bevanda offerta agli dèi immortali. L'offerta del versare come bevanda sacrificale è l'autentica bevanda»[cxxxiii][133]. Perciò, «nell'offerta del versare permangono terra e cielo, i mortali e i divini. Questi quattro uniti di per se stessi, sono reciprocamente connessi. Venendo prima di ogni cosa presente, essi sono compresi in un'unica Quadratura»[cxxxiv][134].
L'esser-cosa della brocca, l'offerta, trattiene terra e cielo, divini e mortali, facendoli avvenire (ereignet). Questo far avvenire accorda a ognuno di esso ciò che è proprio, nel puro stare l'uno di fronte all'altro. Perciò, l'essenza della cosa, in questo caso la brocca, sta nel riunire (λέγειν) la Quadratura dei quattro.
Proprio l'antica parola tedesca «Thing», che usualmente significa cosa, indica il riunirsi, «e precisamente il riunirsi per trattare una questione in discussione, di un caso controverso»[cxxxv][135]. Ma anche la parola romana per cosa, la parola «res», vuol dire proprio quello che ci riguarda. Il romanzo cosa, chose, risale a causa, la quale parola designa nel significato originale il caso controverso, la questione (Sache) di cui è ora di trattare, a cui provvedere. «Queste tracce che portano all'essenza riunente della cosa furono però mal presentate e celate già quando l'essenza della cosa si determinò a partire dallo ο̉́ν pensato nel modo greco, e dallo ens latino: a partire dall'ente come essente-presente nel senso del pro-dotto e rap-presentato»[cxxxvi][136]. Solo a partire da questo travisamento del significato originale della cosa, in quanto riunente, si è pervenuto allo svuotamento di senso dell'esser-cosa della cosa, e che si è totalmente compiuto nell'epoca moderna.
La cosa, invece, vista nella sua originarietà è tale in quanto coseggia riunendo. «Coseggiando la cosa fa permanere i Quattro uniti, terra cielo, i divini e i mortali, nella semplicità della loro Quadratura, unita di per se stessa»[cxxxvii][137].
Ma cosa sono propriamente terra, cielo, divini e mortali?
«La terra è ciò che producendo regge, ciò che fruttificando nutre, custodendo l'acqua e la roccia, le piante e gli animali.
Quando diciamo terra, pensiamo già gli altri Tre a partire dalla semplicità dei Quattro.
Il cielo è il corso del sole, le fasi della luna, lo splendore delle stelle, le stagioni dell'anno, la luce del giorno e il suo tramonto, l'oscurità e la chiarità della notte, il tempo favorevole e il tempo avverso, la corsa delle nubi e la profondità azzurra dell'etere.
Quando diciamo cielo, pensiamo già anche insieme gli altri Tre a partire dalla semplicità dei Quattro.
I divini sono i messaggeri della divinità, che ci fanno segno. Nel nascosto dispiegarsi di questa il Dio appare venendo nella sua essenza, che lo sottrae a ogni confronto con ciò che è presente.
Quando nominiamo i divini, pensiamo già anche insieme gli altri Tre a partire dalla semplicità dei Quattro.
I mortali sono gli uomini. Si chiamano mortali perché possono morire. Morire significa essere capaci della morte in quanto morte. Solo l'uomo muore. L'animale perisce. Esso non ha la morte in quanto morte né davanti a sé né dietro di sé. La morte è lo scrigno del nulla, ossia di ciò che, sotto tutti i rispetti, non è mai qualcosa di semplicemente essente, e tuttavia è (west), e addirittura si dispiega con il segreto dell'essere stesso. La morte, in quanto scrigno del nulla, alberga in sé ciò che è essenziale dell'essere. In quanto scrigno del nulla la morte è il riparo dell'essere. I mortali li chiamiamo mortali non perché la loro vita terrena finisce, ma perché essi sono capaci della morte in quanto morte. I mortali sono quello che sono come mortali avendo la loro essenza nel riparo dell'essere. Essi sono il dispiegantesi rapporto all'essere come essere[¼] Quando diciamo: i mortali, pensiamo già anche insieme gli altri Tre a partire dalla semplicità dei Quattro»[cxxxviii][138].
Se adesso ci rivolgiamo al saggio L'origine dell'opera d'arte, se pur mai tematizzato, le quattro regioni del Geviert sono già dispiegate. Si pensi alla descrizione del tempio greco, al rapporto della statua del Dio con i mortali, e al rapporto della terrestrità del tempio, il suo basamento di roccia, con il cielo che lo illumina e lo oscura. Il tempio, come si è detto, raccoglie l'insieme di questi rapporti[cxxxix][139]. Perciò l'opera, come l'essenza della cosa, raccoglie l'insieme della Quadratura dei quattro; ma quella, ancor più della mera cosa, porta questo riunirsi nello splendore più elevato.
In precedenza si è detto che l'opera espone un suo Mondo, cioè un suo ordinamento dell'ente nella sua totalità. Ma adesso, in riferimento all'essenza della cosa che riunisce la Quadratura dei quattro, dove è finito il suo mondo? Il mondo è ancora uno dei due lottanti dell'opera?
L'esser-cosa della cosa ora l'abbiamo indicato nel trattenere i quattro del Geviert. In esso ognuno dei quattro si rispecchia in ciò che gli è proprio. Ma questo rispecchiare non è la semplice presentazione della propria immagine, bensì il rispecchiare «fa avvenire in una reciproca appropriazione la loro propria essenza nella semplicità del traspropriare»[cxl][140]. Perciò, ognuno dei quattro si appropria della propria essenza solo quando si traspropria negli altri.
È nella dottrina del Geviert che l'Ereignis può dispiegarsi in tutta la sua portata. Grazie all'Ereignis, all'accordo-traspropriante, «nessuno dei Quattro si irrigidisce in ciò che ha di specificamente proprio. Invece, ognuno dei Quattro, all'interno della loro traspropriazione, è espropriato in modo da divenire qualcosa di proprio. Questo espropriare traspropriare è il gioco di specchi della Quadratura. in virtù di esso i Quattro si legano nella semplicità che li affida l'uno all'altro.
Il facente-avvenire-traspropriante gioco di specchi della semplicità di terra e cielo, divini e mortali, noi lo chiamiamo mondo»[cxli][141].
Il Mondo, che nell'opera d'arte era uno dei lottanti della lotta di Mondo e Terra, adesso, è il modo secondo cui i Quattro del Geviert si ordinano, o meglio si squadrano. Perciò il Mondo non ha perso il suo originario significato di ordinamento, anzi proprio adesso può raggiungere la sua pienezza, in quanto ordina le quattro regioni che lo costituiscono.
La cosa vista da questa prospettiva non è altro che il luogo (Ort) che di volta in volta riunisce il Mondo.
Il Mondo, come lo squadramento della Quadratura dei Quattro, e la Terra, come una regione del Mondo, non è essenzialmente differente rispetto alla lotta di Mondo e Terra, ma adesso è vista in un modo ancora più essenziale. Come infatti ci ha insegnato Heidegger, il pensare essenziale (rammemorante) non è semplicemente un dare risposte ultime e definitive, ma partendo da alcuni risultati riproporre le domande in modo ancora più essenziale; in un cammino che non ha termine, in quanto il pensiero non arriva, nel suo cammino, all'essere, ma si muove nelle vicinanze dell'essere, o per meglio dire all'interno della regione aperta dall'essere.
Ciò che solo conta è il cammino stesso[cxlii][142].
La spiegazione di questa apparente differenza tra la lotta di Mondo e Terra nell'opera d'arte e il Geviert che si raccoglie nella cosa non va cercata in una discrepanza tra lo Heidegger del saggio L'origine dell'opera d'arte e l'ultimo Heidegger: «La spiegazione va cercata in altra strada, ed è quella che valeva già per il rapporto mondo-terra nel saggio sull'origine dell'opera d'arte. Là, mondo e terra stavano solo a indicare che all'interno dell'opera d'arte, proprio in quanto essa è messa-in-opera della verità, si riproduce (o meglio, si attua) il conflitto tra nascondimento e non-nascondimento in cui «nasce» la verità. Nel Geviert accade lo stesso: proprio in quanto esso è l'aprirsi dell'evento originario dell'essere, l'accadere dell'essere come mondo, nella sua stessa struttura è riconoscibile l'eventualità dell'evento. In quanto, per così dire, è il «prodotto» di un evento, l'evento in quanto evento, il Geviert porta in sé il marchio dell'eventualità»[cxliii][143].
Si badi che, come nella lotta di Mondo e Terra, i Quattro del Geviert non sono qualcosa di essente, ma contrade (Gegenden) del Mondo, del κόσμος. Come anche la lotta di Mondo e Terra non è scomparsa, ma si dispiega in modo ancora più essenziale[cxliv][144]. La lotta adesso è il Mondo stesso, in quanto lotta tra Terra e Cielo, Divini e Mortali. In più, il carattere nascondente della Terra, così essenziale nell'opera d'arte, non è scomparso, ma anzi, adesso, nella Quadratura insieme alla terra rientra anche l'uomo come Mortale[cxlv][145]. La mortalità, che manifesta lo scrigno del nulla, e perciò del mistero dell'essere, appartiene all'uomo nella sua terrestrità, cioè nel suo co-appartenere alla Terra, alla Φύσις[cxlvi][146].
Perciò in modo ancora più essenziale l'opera d'arte raccoglie la Quadratura di terra e cielo, divini e mortali.
Essa dispiega la sua essenza nel raccogliere, nel tratto della sua figura, l'insieme dei Quattro, che sono accordati l'uno all'altro e si ordinano in base a ciò che è proprio del loro Mondo.
Heidegger suggerisce di intendere il Geviert come la partitura di un canto polifonico. Perciò le quattro voci cielo e terra, divini e mortali non si confondono in un unico canto, pur appartenendo al Medesimo. Dice più precisamente Heidegger: «Sono quattro le voci che risuonano: il cielo, la terra, l'uomo, il dio. In queste quattro voci il destino raccoglie l'intero rapporto infinito. Ma nessuno dei Quattro sta e va per conto suo, in modo unilaterale. Nessuno è, in tal senso, finito. Nessuno è senza gli altri. Essi si tengono, in-finiti, gli uni agli altri, sono ciò che sono a partire dal rapporto in-finito, sono quest'intero stesso»[cxlvii][147]. Questo canto è un richiamarsi reciproco delle voci, è un uscir fuori, un guardar fuori ognuna dal proprio insuperabile limite[cxlviii][148], un indicare verso la lontananza dell'altra. Perciò il Geviert è τέλος, πέρας. Esso traccia il limite che ognuno dei Quattro non può valicare e, nella sua linea di demarcazione, anche il loro punto di attrito e contatto.
Ancora una volta è dalla differenza che si schiudono le dimensioni dell'essente (del mondo), e perciò anche quelle dell'opera d'arte.
Resta ancora da decidere in che modo possa essere concretamente esperita la dottrina del Geviert nelle varie forme d'arte[cxlix][149], in quanto Heidegger ricava tale dottrina da un incessante colloquio con la Poesia di Hölderlin. Eppure Heidegger ci dà un'indicazione di questo possibile cammino quando indica l'essenza dell'arte nella Poesia (Dichtung), che è l'instaurazione della verità nel linguaggio. È quindi alla dimensione del linguaggio poeticamente inteso che bisogna rivolgere la massima attenzione per comprendere la posizione delle altre forme d'arti, le quali «hanno sempre luogo solo nell'Aperto del dire e del nominare: ne sono rette e guidate»[cl][150].
Perciò, il canto polifonico che armonizza l'apparente discordia delle quattro voci del Geviert è in se stessa Poesia. È in essa che cielo e terra, divini e mortali si raccolgono nella loro intimità.
L'intimità qui è un chiamarsi reciproco delle quattro contrade del Mondo. Ma tale chiamarsi deve essere salvaguardato. Il luogo che salvaguardia l'intimità dei Quattro è il colloquio (Gespräch) poetante dei mortali.
Il paragrafo precedente terminava con una preziosa indicazione sulla provenienza della dottrina del Geviert: essa è il colloquio (Gespräch) del pensiero (di Heidegger) con la poesia (di Hölderlin). Questa breve indicazione ci fa capire che tutte le determinazioni ontologiche dell'opera d'arte, viste in precedenza, devono essere ri-collocate nell'essenza della poesia[cli][151], vale a dire nel luogo originario in cui si schiude l'arte come modo di pro-gettamento dell'ente nella Lichtung dell'essere. Perciò, «ogni arte, in quanto lascia che si storicizzi l'avvento della verità dell'ente come tale, è nella sua essenza Poesia [Dichtung]»[clii][152].
Qui la parola Dichtung non sta a significare, per Heidegger, semplicemente la mera arte della parola, ma, facendo leva sul suo etimo ποίησις, indica essenzialmente un eminente modo del pro-durre, vale a dire del dis-velamento. In tal senso, l'essenza della ποίησις appartiene all'αλήθεια, è per così dire al sevizio della verità dell'essere. È indubbio, dall'altra, che il dire poetico assume qui un ruolo particolare rispetto alle altre forme d'arte. Questo ruolo è determinato dal privilegiato rapporto che la poesia ha con il linguaggio.
Ma cos'è il linguaggio nel suo rapporto con la Poesia (Dichtung)?
Già nel saggio L'origine dell'opera d'arte Heidegger nega che il linguaggio sia semplicemente l'espressione di pensieri orali o scritti. «Esso non si limita a trasmettere in parole e frasi ciò che è già rivelato o nascosto, ma, per prima cosa, porta nell'Aperto l'ente in quanto tale»[cliii][153]. Essenzialmente, il che vuol dire originariamente, il linguaggio schiude l'ente nella luce del suo essere, ma allo stesso modo esso è anche l'«aprimento del non-essente e del vuoto»[cliv][154]. Perciò dis-velatezza e velatezza hanno senso solo nella regione del linguaggio. Visto da questa prospettiva il dire (Sagen) del linguaggio è un pro-getto (ποίησις) della «Lichtung in cui è detto il modo di essere in cui l'ente accede all'Aperto»[clv][155]. L'ente di volta in volta (nelle varie epoche storiche) è sempre il frutto di un progettamento, cioè la liberazione di un gettamento[clvi][156] che ordina il disvelamento dell'ente nel suo insieme. Il linguaggio perciò è nella sua essenza il dire (Sagen) progettante, vale a dire Dichtung. Questo non sta, però, a significare che il linguaggio è Poesia «perché è la poesia originaria [Urpoesie], ma la poesia si realizza nel linguaggio perché questo custodisce l'essenza originaria della Poesia»[clvii][157]. Vale a dire che il linguaggio nella sua essenza è l'apertura storica dell'ente: il pro-getto poetico dell'essere. Qui apertura e pro-getto dicono il Medesimo (Selbe) accadere: la disvelatezza-velante dell'essere.
Allo stesso modo, la lotta di Mondo e Terra, che schiudeva la verità dell'essere nell'opera d'arte, ora deve essere vista come il risuonare della saga originaria. Forme d'arte quali architettura, scultura, musica e pittura «hanno sempre luogo solo nell'Aperto del dire e del nominare: ne sono rette e guidate. E proprio per questo restano sempre vie e maniere particolari in cui la verità si dispone nell'opera. Ciascheduna di esse è un particolare Poetare entro la Lichtung dell'ente che di già, e in modo inosservato, si è storicizzato nel linguaggio»[clviii][158]. Ogni forma d'arte può accadere solo quando il dire poetico si è storicizzato nel linguaggio. Questo ovviamente non significa che, ad esempio, la produzione di un opera musicale, quale quella di Beethoven, non possa fondare la storia, bensì significa che la fondazione di un'epoca grazie all'opera beethoveniana deve trovare sostegno nel linguaggio storico che, come dice Heidegger, in modo inosservato si è già dispiegato. Da questo punto di vista le aperture storiche sono essenzialmente aperture del linguaggio nel linguaggio.
Potremmo noi produrre o ascoltare opere musicali se in primo luogo non fossimo ascoltanti-parlanti?
Questo però non significa che la struttura musicale è essenzialmente una struttura linguistica[clix][159], come se la musica dovesse essere letta alla stregua delle pagine di un libro; bensì la musica come le altre forme d'arte, in quanto modi del disvelamento, possono accadere solo se l'esserci di già si è aperto nella Lichtung dell'essere: ma la dimora dell'essere è propriamente il linguaggio, e i suoi custodi sono i poeti e i pensatori[clx][160].
Queste poche osservazioni sul linguaggio non pretendono di essere esaustive, ma di introdurre la questione dell'essenza della poesia che, come si è visto, insieme al linguaggio assume in Heidegger una portata ontologica fondamentale. Ciò si vede nel fatto che se l'essenza dell'opera d'arte è l'arte intesa come messa in opera della verità, «l'essenza dell'arte è la Poesia»[clxi][161]. Ed è tale in quanto la Poesia (Dichtung) come ποίησις è in se stessa instaurazione (Stiftung) della verità. A sua volta l'instaurazione è intesa da Heidegger in un triplice significato: come donare, come fondare e come iniziare. Se si bada bene, questi tre caratteri dell'essenza della Poesia sono i tre caratteri essenziali dell'essenza dell'essere. L'essere, infatti, in primo luogo "non è", ma si dà (Es gibt); esso è pura donazione. Allo stesso modo l'essere è ciò che nelle varie epoche storiche, diradandosi, fonda le epoche stesse[clxii][162]. Questo carattere fondante deve essere sempre legato al suo altro carattere sfondante[clxiii][163], vale a dire al suo diradarsi per lasciar-essere l'ente. L'essere è di conseguenza anche un iniziare proprio perché è il destino (Geschick) dell'esserci: a fondamento di ogni epoca storica c'è sempre una visione-comprendente di ciò e di come l'ente nel suo insieme "è". Perciò al fondo è l'"è" che dà inizio alla storia, ed è tanto più fondante quanto più l'"è" stesso è inappariscente.
Donare, fondare e iniziare sono caratteri dell'essere come tale, ed uno dei luoghi in cui l'essere può attuare questi tre suoi caratteri è la Poesia.
In più, al servizio di questo progetto poetico della verità dell'essere non sono solo i poeti, ma anche i salvaguardanti dell'opera[clxiv][164]. Entrambi sono essenziali per l'accadimento della verità, in quanto l'essere si dona perché si tra-manda. Perciò la verità in opera «è pro-gettata per i salvaguardanti a venire, cioè per l'umanità storica»[clxv][165]. Solo a partire da questa dinamica di annuncio e ascolto è possibile chiarire la posizione di fondo di Heidegger nei confronti della Poesia e del linguaggio come dimora dell'essere. Allo stesso modo il poeta, in quanto pro-duttore dell'opera poetica, non crea dal nulla; egli, in base al carattere progettante dell'opera, può fissare la lotta di Mondo e Terra nel dire progettante perché il fondamento nascosto di tale lotta si è già annunciato a lui, ma in modo in-dicibile. Perciò il suo progetto poetico è già il frutto di un ascolto pensante della donazione.
La poesia è il luogo del colloquio del poeta con tutto ciò che si è donato nel progetto stesso.
Qui cade ogni forma di soggettivismo creativo, cioè di un'autorità superiore che sta a fondamento del progetto poetico: ciò che propriamente pro-duce l'opera poetica non è né la pura donazione isolata in se stessa né il fare del poeta, bensì il colloquio che si instaura tra donazione e pensiero poetante[clxvi][166]. Al fondo di tale colloquio vi è l'abisso, il ni-ente[clxvii][167]. Precisa Heidegger: «il progetto poetico viene dal nulla, nel senso che non riceve il suo dono dall'abituale e dal tramandato. Ma esso non sorge mai dal nulla assoluto, poiché ciò che è pro-gettato in virtù sua, è semplicemente la determinazione rattenuta dello stesso Esserci storico»[clxviii][168]. Questo venire dal nulla ,dal ni-ente, sta a indicare il carattere privativo della donazione dell'essere, che però non è da intendere come il nulla metafisico, bensì è il non-detto serbato - rattenuto - nel suo carattere velante, che attende di essere cor-risposto nel dire poetico. La parola della poesia è veramente tale solo se si svela dal colloquio che intrattiene con la velatezza dell'essere. Perciò il detto poetico e il non-detto manifestano la disvelatezza-velante dell'essere, e più precisamente, l'Ereignis appropriante-espropriante.
Da queste delucidazioni si comprende che solo nel colloquio col dire poetante Heidegger può esperire il Mistero[clxix][169] che ha alimentato tutto il suo cammino di pensiero: l'Essere (Seyn) in quanto differenza.
Il colloquio con la poesia, e in particolare quella di Hölderlin, non è un "mezzo" per esperire il Mistero dell'essere, ma è un tutt'uno con questa esperienza. Il pensiero è perciò ermeneutica nel senso più elevato, cioè ascolto pensante di ciò che nella poesia rimane serbata come non-detto. Ancora più precisamente, il Mistero stesso dell'essere si dà solo come ascolto ermeneutico, come esperienza (Erfahrung) del pensiero. È quindi la Sache del pensiero che necessita del colloquio col dire poetico.
Questa necessità del pensiero è chiarita da Heidegger nella prefazione alla raccolta dei colloqui con Hölderlin, in cui si afferma: «le seguenti Delucidazioni non pretendono di essere contributi alla ricerca storiografica sulla letteratura o all'estetica. Esse scaturiscono da una necessità del pensiero»[clxx][170]. Il che significa che la Kehre del pensiero di Heidegger verso la poesia inerisce la stessa questione dell'essere, nel senso che proprio nel carattere colloquiante del pensiero con la poesia, Heidegger intravede un modo di esperire l'essere nella sua differenza con l'essere dell'ente della metafisica. Ed è proprio il colloquio a far riverberare il Mistero dell'essere come differenza: il movimento che il colloquio accende è il reciproco approssimarsi di annuncio e ascolto.
È importante chiarire anticipatamente questo carattere colloquiante dell'essere[clxxi][171] prima di qualsiasi indagine dei colloqui di Heidegger con Hölderlin, in quanto è proprio tale carattere a indicare a Heidegger una via per l'esperienza dell'essere non metafisica[clxxii][172]. Detto per inciso dal colloquio di poetare e pensare non si deve pretendere di uscire per trovare un "luogo" in cui l'essere può essere finalmente "stanato" alla stregua di un ente, bensì tutto sta nel camminare nel modo giusto in questo colloquio[clxxiii][173]; solo quindi quando la poesia è veramente dicente e il pensiero ascoltante il colloquio può riverberare il Mistero dell'essere. Con questo possiamo anche dire che l'essere si dà solo come colloquio.
Siamo ora sufficientemente preparati per l'ascolto dei colloqui del pensiero di Heidegger con la poesia di Hölderlin.
Nel colloquio del 1936, Hölderlin e l'essenza della poesia, Heidegger individua cinque detti guida per mostrare l'essenza della poesia[clxxiv][174]. Quest'ultima non è ricavata da uno studio comparativo degli innumerevoli poeti che hanno disseminato la loro parola nella storia dell'umanità. Heidegger avverte che qui non è in questione il «generale» della poesia, vale a dire ciò che è sempre «indifferente», che svuota l'essenza del suo carattere essenziale. Ciò che qui è in questione è l'essenza della poesia che poeticamente deve essere mostrata. È perciò la poesia stessa a dire (sagen) - mostrare (zeigen) - l'essenza della poesia. Ma proprio questo è, per Heidegger, la peculiarità del dire poetico di Hölderlin, destinato cioè «a poetare espressamente l'essenza stessa della poesia. Hölderlin è per noi in un senso eminente il poeta del poeta. Per questo immette nella decisione»[clxxv][175].
Ora, se il dire poetico di Hölderlin è quello di poetare l'essenza della poesia, quale sarà il ruolo del pensiero di Heidegger? Esso è quello di salvaguardare la parola poetica. Infatti, come abbiamo in precedenza detto, la messa in opera del dire poetico non sta solo nel progettamento poetante dell'autore, ma anche nella salvaguardia del suo dire. Quest'ultimo non è altro che l'ascolto pensoso della parola, che, in quanto ascolto, fa risuonare la purezza della poesia[clxxvi][176]. Il luogo di questa risonanza della parola poetica è il colloquio (Gespräch) di Poetare e Pensare. Ma è possibile che cinque brevi detti possano manifestare l'essenza stessa della poesia? Sì, se per essenza non intendiamo il significato di «generale», bensì un carattere proprio dell'essere. L'essenza qui deve essere intesa nel suo significato verbale, wesen. Per cui ciò che l'essenza della poesia dice è proprio la poesia dell'essenza, ossia il dire poetico dell'essere. Ad esso non è necessario il carattere di completezza - cosa che peraltro non si potrebbe mai realizzare fin quanto pensiamo l'essere come differenza - ma quello del cenno mostrante. Questo carattere è proprio della parola poetica, la cui regione semantica è così vasta, che ogni volta essa dice di più di quello che noi mortali riusciamo a scorgere.
È proprio della parola poetica questa sovrabbondanza, tenuta in serbo per le epoche storiche a venire.
I cinque detti guida che Heidegger interroga per mostrare (ma sarebbe meglio dire: lasciarsi annunciare) l'essenza della poesia non sono, perciò, scarni, bensì manifestano una sovrabbondanza, che il pensatore può appena scorgere.
Il primo dei cinque detti guida dice cosa è il poetare:
«Poetare: "l'occupazione più innocente di tutte"»[clxxvii][177].
Fino ad ora noi abbiamo tentato di interpretare il poetare come un eminente modo del disvelamento dell'essere, ma adesso esso ci viene mostrato come un gioco innocente, anzi il più innocente di tutti. Questo detto sembra avvalorare il giudizio di chi (Platone) vede nella poesia un lavoro poco serio, un gioco fine a se stesso. «La poesia è come un sogno, non certo una realtà, è un gioco fatto di parole, non un azione seria. La poesia è innocua e inefficace»[clxxviii][178]. Quest'ultima, a sua volta, alimentandosi nel linguaggio gli dà un carattere innocente, innocuo. Il che ci porta a dire che il linguaggio è ciò che è meno pericoloso. Eppure il secondo detto dice proprio il contrario:
«Per questo è dato all'uomo il più pericoloso di tutti beni, il linguaggio [¼] affinché testimoni ciò che egli è»[clxxix][179].
Questi due detti sembrano manifestare una contraddizione: da una parte il poetare assume il ruolo di gioco innocente, dall'altra il linguaggio si presenta come il più pericoloso di tutti i beni.
Per risolvere l'apparente contraddizione ci sarà d'aiuto un frammento di Eraclito, che Heidegger sicuramente aveva presente; esso dice: «αι̉ὼν ε̉στι παίζων πεσσεύων˙ παιδὸς η̉ βασιληίη». La cui traduzione corrente è: «il tempo è un bimbo che gioca, con le tessere di una scacchiera di un bimbo è il regno»[clxxx][180]. Qui Eraclito intende l'accadimento del mondo (αι̉ὼν: il tempo del cosmo) un gioco, addirittura un gioco giocato da un bimbo. Heidegger, commentando questo frammento, dirà che «il destino dell'essere è un fanciullo che gioca, con le tessere di una scacchiera, di un fanciullo è il regno - e cioè l'α̉ρχή, il fondare che istituisce e governa, l'essere dell'ente. Il destino dell'essere: un fanciullo che gioca»[clxxxi][181].
Il destino dell'essere è un gioco che, a sua volta, è tale in quanto è senza "perché". Essenzialmente il gioco gioca giocando. Dall'altra l'essere è in se stesso abisso, mistero; di esso si può solo dire Es gibt, pura donazione. Perciò l'essere gioca (si dà) solo come fondo abissale che, in quanto Ge-schick, si invia come fondamento. Qui non vi è più un principio di causalità, anzi proprio il principio di tutti i principi, ovverosia il principio di ragione, si alimenta solo da questo gioco abissale. La provenienza di tutti i fondamenti è un gioco senza fondamento. A conclusione di questo ragionamento Heidegger dirà: «rimane la domanda se e come, sentendo le fasi di questo gioco, i tempi di questa composizione musicale, noi siamo in grado di partecipare al gioco inserendoci in esso»[clxxxii][182].
Ora, proprio la poesia, in quanto essenza dell'arte, è un eminente modo con cui l'uomo partecipa al gioco dell'essere. Il poetare adesso si chiarisce come gioco senza "perché", anzi come partecipazione al gioco abissale[clxxxiii][183].
Solo adesso iniziamo a comprendere il senso del primo detto. Il poetare è l'occupazione più innocente non perché è un'attività poco seria, bensì perché esso partecipa al gioco abissale dell'essere, e come tale non ha finalità: gioca in quanto gioca e basta! Il carattere «innocente» del poetare ha affinità con ciò che abbiamo adesso nominato nel gioco senza "perché", un'affinità che è dettata dal colloquio che si instaura tra donazione dell'essere e dire-ascoltante del poeta, tra annuncio e ascolto (ridicente), dono e ringraziamento. L'innocenza del poetare è la pura risonanza del gioco dell'essere[clxxxiv][184], un gioco in cui il giocatore può giocare solo quando si apre completamente nel suo essere. In questa apertura (il Ci dell'esser-ci) il giocatore si de-cide per l'autenticità della propria esistenza, che in Essere e tempo è un tutt'uno con l'essere-per-la-morte. In tal senso il giocatore può partecipare al gioco dell'essere solo se si riappropria della sua mortalità. Si inizia a comprendere da queste poche proposizioni quanto sia serio l'occupazione del Poetare.
Nell'innocenza del poetare si raccoglie il pericolo più profondo per l'esserci umano: la sua finitezza. Pericolo in cui l'esserci è già da sempre gettato. Perciò l'autenticità dell'esserci non sta nell'uscire fuori dal pericolo, ma nell'assumerlo in tutta la sua angosciante pienezza[clxxxv][185]. Hölderlin ne sapeva qualcosa.
Con ciò si inizia a chiarire anche il rapporto tra il primo e il secondo detto.
Già in precedenza avevamo detto che il linguaggio nella sua essenza (wesen) non è uno strumento che l'uomo usa per i suoi scopi, esso è invece l'apertura originaria in cui l'uomo da sempre abita. Se partiamo da questo presupposto non si può più chiarire il linguaggio sul fondamento dell'uomo, bensì accade in un certo modo il contrario: è il linguaggio a dirci cos'è l'uomo. Nel secondo detto Hölderlin dice che il linguaggio è donato all'uomo affinché egli possa testimoniare ciò che egli è. Ma qui il testimoniare non è più qualcosa che sopraggiunge in un secondo momento all'essenza dell'uomo, è infatti solo da quello (testimoniare) che egli raggiunge la sua essenza. «L'uomo è quello che è proprio testimoniando il proprio esserci»[clxxxvi][186]. Ma cosa deve testimoniare l'uomo? La sua appartenenza alla Terra. Quest'ultima deve essere sempre intesa come φύσις, come sorgenza. L'appartenenza alla Terra e la testimonianza di tale appartenenza qui dicono il Medesimo: tutto è intimo.
Come si è detto in precedenza: le cose si schiudono nell'Aperto e nel contempo si ordinano in un mondo, ordine che non annulla le differenza, ma anzi le mostra interamente, perciò esse si raccolgono nell'Ε̉́ν πάντα solo se permangono nel loro contrastarsi. Questo raccogliersi nell'uno differenziante Hölderlin lo chiama intimità (Innigkeit). Perciò l'uomo appartiene all'intimità testimoniandolo. Questa testimonianza di appartenenza all'intimità accade come αι̉ὼν, tempo del cosmo, in cui un mondo sorge e poi tramonta[clxxxvii][187]. Ma questo significa anche che «l'essere-testimone dell'appartenenza all'ente nel suo insieme accade (geschicht) come storia (Geschichte)»[clxxxviii][188]. È il linguaggio che fonda la storia, vale a dire l'accadere storico di volta in volta dell'esser-Ci.
Ma perché il linguaggio è il più pericoloso di tutti i beni? Esso è tale perché è in esso e con esso che si crea la possibilità stessa del pericolo. Quest'ultimo è qui intesa come la minaccia dell'essere da parte dell'ente. Perciò solo nel linguaggio vi è la possibilità sia di un rapporto genuino con l'essere sia del suo oblio[clxxxix][189], in un certo modo possiamo anche dire che solo nel linguaggio vi è in generale possibilità. Il pericolo indicato da Heidegger, che glossa Hölderlin, sta proprio nella possibilità della perdita dell'essere. Pericolo che nell'epoca della tecnica ha raggiunto il suo massimo grado: l'oblio dell'oblio dell'essere. Se da una parte il linguaggio schiude le possibilità di volta in volta dell'esserci, e se, a sua volta, le possibilità stesse sono veramente tali solo nella decisione anticipatrice della morte, si scorge l'oscuro rapporto di linguaggio e morte. Detto per inciso il rapporto autentico o in-autentico con il linguaggio è lo stesso che si instaura tra autenticità o in- autenticità dell'essere-per-la-morte. Come infatti il linguaggio può tramutarsi in chiacchiera (ma sarebbe meglio dire che il nostro rapporto con il linguaggio si schiude come chiacchiera), così l'esserci può occultare il proprio destino: l'essere-per-la-morte; negandosi la possibilità di scegliersi.
Da una parte scorgiamo il pericolo insito nella morte, in quanto al suo sopraggiungere l'esserci non Ci è più, dall'altra il pericolo dell'oblio dell'essere. Ma qui il pericolo è il medesimo. Solo perché l'uomo muore a lui si schiude il linguaggio, e con esso la possibilità dell'oblio dell'essere.
La metafisica è la storia dell'oblio dell'essere. Il suo principio guida è il principio di ragione, nihil est sine ratione; il suo agire consiste nel rendere ad ogni cosa e ad ogni epoca il proprio fondamento. Ma forse ciò che la metafisica deve sempre fondare è proprio la morte. Essa infatti custodisce l'abisso dell'essere e il suo rapporto con l'esserci. La morte è lo sfondamento che la metafisica deve sempre velare, appunto fondandolo. È ad esempio il dio della metafisica che dà un senso alla morte, attribuendole il significato del trapassare al vero mondo. Ma ciò che permette la fondazione della morte è il linguaggio. Esso è l'apertura in cui l'esserci da sempre è gettato, ma tale gettatezza accade solo come finitezza dell'esserci. L'esserci è gettato nella Lichtung dell'essere solo perché è finito, mortale. Questo però non significa che la morte è la causa fondante dell'apertura dell'essere, come anche l'apertura dell'essere non è il fondamento della morte, ma semplicemente morte e apertura dell'essere (il linguaggio) accadono nel Medesimo Evento. È per questo che Heidegger dice che il linguaggio è «quell'evento (Ereignis) che dispone della suprema possibilità dell'essere-uomo»[cxc][190].
Se il linguaggio è l'evento dell'apertura originaria dell'esser-Ci, resta da chiedersi: come il linguaggio accade, vale a dire, il suo modo di aprirsi all'esserci?
A questa domanda risponde il terzo detto guida:
«Molto ha esperito l'uomo / Molti celesti ha nominato / da quando siamo un colloquio / e possiamo ascoltarci l'un l'altro»[cxci][191].
Il verso che ad Heidegger più interessa è: «da quando siamo un colloquio». Il colloquio è il modo autentico di accadimento del linguaggio, nel senso che «solo come colloquio il linguaggio è essenziale»[cxcii][192]. In più, la peculiarità del colloquio che viene mostrata non è quella del parlare, bensì quella dell'ascoltare: «da quando siamo un colloquio / e possiamo ascoltarci l'un l'altro». La possibilità dell'ascoltare non può essere inteso qui come una conseguenza del parlare, ma ne è un presupposto. Discorrere e ascoltare sono cooriginari. La struttura del colloquio è perciò quella di annuncio e ascolto. Quando poi il verso dice che noi siamo solo un colloquio significa che noi siamo un solo colloquio. Il carattere essenziale del colloquio è sempre il Medesimo, ed è proprio quest'ultimo che di volta in volta si manifesta a noi[cxciii][193]. Non è che il colloquio è sempre identico, bensì nella diversità dei vari colloqui (genuini) viene sempre a risuonare il Medesimo Evento. Il che non significa che la struttura formale di annuncio e ascolto è la stessa, ma che annuncio e ascolto sono solo quando accadono come Evento traspropriante. È nella stessità dell'Ereignis che è custodito il medesimo del colloquio.
Nel detto guida viene anche nominato il carattere temporale del colloquio: «da quando siamo un colloquio». Il medesimo del colloquio è ciò che è stabile, ma, a sua volta, la stabilità è solo nella presenza. Proprio quest'ultima è tale solo «nell'attimo in cui il tempo si apre nelle sue estensioni. Solo da quando l'uomo si pone in presenza di qualcosa di stabile, egli può esperire il mutevole, a ciò che va e che viene, solo ciò che persiste, infatti, è mutevole. Solo da quando il «tempo che travolge» (reißende Zeit) è svolto (aufgerissen) in presente, passato e futuro, c'è la possibilità di trovarsi uniti su qualcosa di stabile. Un colloquio, noi lo siamo dal tempo in cui "vi è tempo"»[cxciv][194]. La temporalità, che in Essere e tempo era vista come un carattere costitutivo dell'esserci e doveva aprire la possibilità dell'esperienza dell'essere, ora è vista come un carattere del colloquio, ed è ad esso cooriginario: solo da quando siamo un solo colloquio il tempo si apre nelle sue tre estasi.
Potremmo mai dire di un tempo in cui l'uomo non vi era ancora o di un tempo in cui egli non ci sarà più se, in primo luogo, il tempo stesso non si aprisse al linguaggio come colloquio? Si può parlare di un tempo infinito, eterno, solo quando esso si è aperto all'esserci, vale a dire da quando l'esserci è (un colloquio). Che il tempo scorre anche senza l'uomo è "vero", ma senza il colloquio si potrebbe mai dire qualcosa? La verità del tempo? Ci sarebbe ancora qualcosa come il senso del tempo? Ci potrebbe insomma essere il tempo se l'"è" che lo nomina non risuonasse più?[cxcv][195]
In questa cooriginarietà di colloquio è temporalità Heidegger, glossando Hölderlin, vede l'avvento degli dèi alla parola. Qui non vi è più nessun principio primo che fonda gli altri. L'esserci, il colloquio, il tempo, gli dei e il mondo sono cooriginari, nel senso che accadono tutti nel Medesimo Ereignis. Essi sono lo stesso svolgersi del gioco dell'essere, il quale gioca giocando ed è senza "perché": di un bimbo è il regno.
Gli dèi possono essere nominati e quindi venire all'apparire solo se a sua volta essi stessi ci chiamano e ci reclamano. Ciò significa che dèi e mortali si appartengono solo nel colloquio di annuncio e ascolto. I mortali annunciano gli dèi solo quando a loro volta hanno ascoltato l'annuncio degli dèi, i loro in-dicibili cenni. Da questo si vede che annuncio e ascolto sono sempre traspropriati: l'annuncio è tale se ha posto ascolto a ciò che deve dire, e l'ascolto a sua volta ri-dice ciò che si annuncia. Questa dinamica, come si è visto, non accade solo tra il dire poetico e l'ascolto del pensiero, ma in primo luogo tra la pura donazione dell'essere e il dire pensante del poeta. Ma come gli dèi si annunciano nel colloquio con i mortali (poeti)? È il cenno la loro parola. Esso è donazione privo di donante. Il cenno non è un segno che denota un significato, esso è sovrabbondanza e perciò «ha bisogno di un campo di oscillazione amplissimo»[cxcvi][196]. Il cenno è in se stesso silenzio. Quando il poeta ascolta i cenni degli dèi egli a sua volta deve porgerli ai mortali, ma nel fare questo la purezza del cenno (silenzio) deve trasformarsi in qualcosa di più comune. È per questo che Hölderlin in un frammento dice: «Tu parlasti alla divinità, ma questo avete dimenticato tutti quanti: le primizie non appartengono mai ai mortali, esse appartengono agli dèi. Il frutto deve dapprima farsi più comune, più quotidiano, poi sarà proprio dei mortali»[cxcvii][197].
Forse è proprio nella polisemia della parola poetica che è custodita la traccia del cenno che si annuncia al poeta. La parola poetica è irriducibile a un semplice segno, perché essa proviene dal colloquio puro con il Sacro[cxcviii][198] (Heilige).
In precedenza noi abbiamo accennato alla possibilità che la metafisica abbia nelle varie epoche storiche fondato velandola in primo luogo la mortalità dell'esserci. Per velamento qui noi intendiamo il totale coprimento della pura alterità della morte. Il modo per fondare la morte è certamente rapportarla al principio divino. Ora però, con quest'affermazione non si vuole assolutamente dire che il nostro rapporto col Sacro sia essenzialmente dovuto alla necessità di velare la nullità della morte, insomma, per sopportarla. Altresì esiste la possibilità di un rapporto genuino con il sacro, senza che per questo la morte sia velata[cxcix][199]. Ma ciò è possibile solo nel colloquio del silenzio (cenno) con la parola. Solo quando il Sacro permane nella sua in-dicibile purezza, il colloquio tra dèi e mortali è genuino. Si badi che è proprio la genuinità del colloquio a dire dèi e mortali e non dèi e uomini. Perciò il colloquio tra dèi e mortali è possibile, anzi necessario; ma solo quando gli dèi non sono più pensati come qualcosa di essente o come principio fondativo, bensì come messaggeri della divinità, cioè del Sacro. Pensati insomma come appartenenti a un gioco senza "perché"[cc][200]. Ma esser pronti all'ascolto dei cenni del Sacro può accadere solo quando l'esserci si è deciso per la propria morte, nella sua pura alterità. In questo modo la questione della fede religiosa non può più essere posta nei termini della fede sulla "esistenza" o "non esistenza" di Dio, bensì la fede, se così possiamo dire, è rivolta al colloquio del mortale con Dio, inteso come messaggero del Sacro. Dio è (west) solo cenno, è solo annuncio silenzioso, ed è tale solo se è ascoltato e nominato nella parola poetica. Che il dono sia privo di donante non comporta che non vi sia un beneficiario del dono. Posto però che il beneficiario non sia qualcosa al di fuori del colloquio: l'esser-Ci. Questo colloquio non è fondato da Dio o dall'uomo, esso è invece lo spalancarsi di un frammezzo, vale a dire la dia-ferenza che separa unendo uomo e alterità. Esso è l'Evento del «sacro Chaos», del gioco abissale dell'Essere (Seyn).
Dio, come pura alterità, non può essere esperito come qualcosa di essente, ossia come qualcosa che "è" o "non è". Dio si dà solo come ni-ente; ma anche la morte si dà all'uomo come dimensione del ni-ente. L'uomo perciò è tale solo quando è gettato in questo «sacro Chaos», aprendosi nel frammezzo come mortale. Frammezzo che egli tenta sempre di ritessere, fondandolo; ma il suo inganno sta nel credere che, coprendolo, esso possa dileguare, distendersi. Ebbene, la genuinità del colloquio di mortali e divini è tale solo se lo spalancarsi del Chaos non è coperto, solo se la divinità non è esperita come ciò che fonda, solo se, cioè, il mortale si riappropria della sua mortalità nel colloquio con l'alterità.
Ma adesso con questo discorso non ci siamo allontanati dal nostro tema guida, l'essenza della poesia? Cosa ha da fare il Sacro con l'essenza della poesia? In un certo modo tutto.
Ora però, per avvalorare quest'ultima affermazione sarà necessario chiarire ancora meglio il senso della parola Sacro, che Heidegger ricava dai colloqui con la poesia di Hölderlin. Per fare questo ritorniamo sulla via poc'anzi percorsa, senza con ciò tentare di uscire fuori dal circolo ermeneutico.
La poesia è istituzione, progettamento dell'essere nel linguaggio. Essa è in se stessa linguaggio originario e come tale apre le varie epoche storiche, vale a dire le possibilità dell'esserci storico. Le possibilità sono il modo con cui l'esserci si progetta, ed è proprio il carattere esistenziale della possibilità che, in Essere e tempo, c'indica il fondamentale rapporto tra esserci e temporalità. La possibilità è il modo con cui l'esserci si apre alla temporalità del tempo, che, a sua volta, si temporalizza solo nel Ci dell'esser-ci. Perciò possiamo anche dire che la poesia, in quanto progettamento dell'essere nel Ci dell'esserci, apre di volta in volta le tre estasi del tempo. La poesia però istituisce il tempo storico perché lo anticipa, nel senso che annuncia il tempo a venire, ancor meglio: prepara ciò che viene. Ora, proprio la poesia di Hölderlin ha questo carattere anticipante. Essa anticipa un tempo storico: il tempo della povertà. Questo tempo è caratterizzato dalla fuga degli dèi e dal mancato arrivo del dio. È perciò un tempo di estrema povertà per l'esserci[cci][201]. Possiamo con ciò anche dire che Hölderlin è il «poeta del poeta» perché è anche e innanzitutto il «poeta nel tempo della povertà», «la sua determinazione poetica dell'essenza della poesia è anche e innanzitutto determinazione dell'essenza (e dunque istituzione) di un tempo storico»[ccii][202]. L'anticipazione di un tempo storico da parte del poeta è visto da Heidegger come ciò che è proprio del προφητεύειν, del profeta. Ma precisa Heidegger che i poeti «non sono "profeti" nel significato giudaico-cristiano del termine. I "profeti" di queste religioni non si contentano di preannunciare prima le parole del sacro come fondamento antecedente. Essi predicano subito il dio come sicura garanzia di salvezza nella beatitudine ultraterrena»[cciii][203]. È importante questa precisazione, perché la parola poetica, essendo ascolto-ridicente dei cenni dell'essere, deve assumere in sé quel carattere di cenno e sovrabbondanza, che, come tale, non assicura mai l'arrivo della salvezza ultraterrena.
La Poesia è riverberazione dell'in-dicibile, che pur si annuncia, ma, appunto, in modo in-dicibile.
Ma come può il poeta dire la parola del Sacro? Come può anticipare nella sua parola un tempo storico? La sua parola è il frutto del colloquio con i cenni del Sacro; perciò il luogo di questo colloquio è lo Zwischen, il frammezzo che unisce e divide mortali e divini. È per questo che Hölderlin chiama i poeti "semidei". Essi sono coloro che raccolgono il sacro raggio e lo porgono al popolo[cciv][204]. È a partire da questo Zwischen che i poeti possono fondare la storia, vale a dire l'abitare mortale sulla terra[ccv][205].
Hölderlin parla del destino mediatore dei poeti nella poesia Wie wenn am Feiertage¼, Come quando al dì di festa¼; in cui vien poetato: «Ma a noi compete sotto le tempeste del dio, / o poeti, stare a capo nudo, / afferrare del padre il raggio stesso con la mano / e porgerlo al popolo, velato / nella canzone¼»[ccvi][206]. Solo partendo da questo frammezzo, che pone in intimità dèi e mortali, è possibile chiarire il senso della parola Sacro, quale Geschick della poesia di Hölderlin. All'inizio della terza strofa di Come quando al dì di festa Hölderlin dice: «Ma ora fa giorno! / Trepidavo in attesa e lo vidi venire, / e ciò che vidi, il sacro, sia la mia parola»[ccvii][207].
Il Sacro (Heilige) è la parola di Hölderlin, il cui destino è quello di mediare tra i cenni del Sacro e il dire che è tramandato al popolo. Nella stessa poesia la parola "sacro" è paragonata alla stessa natura, la quale è «onnipresente» e come tale «educa in lieve abbraccio». Essa però è onni-presente, non perché si estende quantitativamente su ogni reale, ma perché pre-vede proprio anche quei reali che, per come sono, sembrano escludersi vicendevolmente. «L'onnipresenza regge gli opposti del cielo più alto e dell'abisso più profondo. A questo modo le cose che attengono l'una all'altra restano dis-tese nella loro discordanza»[ccviii][208]. Qui risuona l'α̉ρμονία eraclitea che non annulla la discordanza degli opposti, ma li dispiega e connette proprio come contrastanti. L'Ε̉́ν πάντα è l'uno unificante che raccoglie tutti i reali nella loro differenza. La natura (φύσις) è onnipresente perché schiude le cose e le raccoglie nella loro differenza. Ma la natura, che così schiude tutti i reali, «educa in lieve abbraccio» i poeti e, perciò, incanta e rapisce[ccix][209]. Ed è proprio in questo carattere che Hölderlin e Heidegger vedono l'essenza del bello. «La bellezza lascia essere presente il contrario nel contrario, la loro appartenenza nell'unità che a quest'ultima è propria, e così tutto in tutto a partire dalla compattezza del ben distinto. La bellezza è l'onnipresenza»[ccx][210].
La lievità dell'abbraccio della natura, che pervade ogni cosa, è trasfigurata dal poeta come ciò che dorme, la natura è certamente onnipresente in ogni cosa, ma la sua onnipresenza è un lieve abbraccio. Il carattere di lievità, di leggerezza della natura, noi l'abbiamo già incontrato quando parlavamo della Lichtung. Quest'ultima infatti è tale perché dirada se stessa, cioè si fa lieve, permettendo ad ogni cosa (reale) di apparire. Questo nascondimento della natura non è però la sua totale assenza (perché questo comporterebbe il fatto che non se ne potrebbe parlare), essa trattiene se stessa e, come tale, è ricca di presagi; anzi «lei stessa riposa presentendo». Heidegger, glossando Hölderlin, paragona il riposo della natura all'oscurità della notte che già in se stessa annuncia l'arrivo del giorno. Perciò il «lutto» dei poeti nominato nella poesia non è il dolore per la perdita della bellezza della natura, bensì è l'attesa del suo arrivo. Il lutto è insomma l'ascolto paziente dei poeti, che solo per questo loro cor-rispondere alla natura possono essi stessi presentificare. Il tal modo, il movimento che Heidegger vede tra la seconda e la terza strofa di Come quando al dì di festa è quello stesso raccogliersi di notte e giorno nella loro essenza: φύσις κρύπτεσθαι φιλει.
«Ma ora fa giorno! / Trepidavo in attesa e lo vidi venire, / e ciò che vidi, il sacro, sia la mia parola». Il Sacro è il giorno. Il Sacro è la natura che si desta.
C'è subito da precisare che il Sacro, in quanto natura che si desta, non è il giorno isolato dalla notte che lo preannuncia: il Sacro è ciò che viene e permane in questo venire[ccxi][211]. Ciò che qui è in questione non è né la notte (la natura che dorme) né il giorno (la natura che si desta), ma lo Zwischen, il frammezzo, ed è proprio in questo Zwischen che si schiude la parola di Hölderlin. Non solo la sua parola, ma egli stesso deve assumere il peso di questo frammezzo[ccxii][212].
Chiarito questo carattere proprio del Sacro (Heilige) dalla poesia stessa, sarà opportuno mettere a fuoco ancor meglio il suo significato. Nella parola heil- risuona quell'idea di vigore, vitalità, impeto che ritroviamo nel vedico isirah e nel greco hieròn[ccxiii][213]. Omero chiama hieròn il pesce che si dibatte, tratto fuori dal mare (Illiade, XVI, 407). Nella radice heil- risuona perciò il lampo della vita (fa-villa) che, se pur nella sua istantaneità, è potente e indimenticabile. Nella parola Heilige non vi è nessuna idea di sacralità, di sacer con cui s'intende ciò che viene, separato, allentato è perciò preservato quale arkeo, arcanum[ccxiv][214]. L'heilig è ciò che balza dinanzi, vivissimo e "salvo". Questo significato di heilig è conservato intatto nell'uso che ne fa Hölderlin: «il vino è heilig (ravviva, ridesta); heilig è il sacerdote del dio del vino, di Dioniso; heilige sono i «vasi» in cui il vino della vita si raccoglie: i poeti; heilig è la Lebenslust, la gioia, che il vino così raccolto nel canto dona, e che «trattiene» dal morire, cura (heilen!) della nostalgia della morte. La vita dell'origine si effonde lungo tutta la sequela senza mai spegnersi, e più si dona più si manifesta germogliando; heilig è il Celeste - sole, giorno, stelle («heiligfrein») - e ogni suo eco: anzitutto, il cuore, la giovinezza, poi, la potenza della Terra, ma anche il singolo luogo, se "poeticamente" lo abitiamo. Heilig è lo spiritus, il soffio onniavvolgente e onnianimante, heilige i raggi del divino»[ccxv][215]. Proprio lo spiritus, Heidegger, nel suo colloquio con la poesia di Trakl, lo intenderà «come fiamma che divampa, strappa al sonno, sgomenta, sconvolge. Fiamma è luce e calore. Il fiammeggiare è l'estasi che illumina e fa risplendere»[ccxvi][216]. Lo spirito, il Sacro (Heilige) è l'animatore.
Il Sacro qui si chiarisce come un'epifania luminosa, vale a dire come un Wesen che si dà come luce, soffio che anima tutto. Ed è per questo che in Hölderlin è raro l'uso assoluto das Heilige, più frequente l'uso di heilig come attributo. Das Heilige non è un ente, e come tale si dà solo come φύσις. La Natura così intesa, ridestandosi di volta in volta, in-spira ogni cosa. Meglio ancora, la Natura stessa (il Sacro) è «l'inspirazione». In più, essa inspira «come legge ferma». Se da una parte l'Aperto è l'immediato e perciò è al di sopra degli dèi e dei mortali, dall'altra, esso, inteso come spirito, fiamma, è ciò che media, ossia «legge ferma». Solo a partire dal Sacro ogni cosa assume il suo aspetto e il suo luogo; perciò dèi e mortali sono ciò che sono solo a partire dal frammezzo che li raccoglie separandoli. Esso è l'immediato che tutto media, ovverosia «la mediatrice di tutto ciò che è per mezzo di mediazione e quindi del mediato»[ccxvii][217]. Si badi che qui l'immediato, vale a dire la mediatrice, non è una "cosa" che media, in quanto se fosse tale sarebbe già mediato. Esso è la sorgente, che come tale viene prima di tutto; la natura è perciò «più antica dei tempi». Non però nel senso che è qualcosa di «sovratemporale», bensì essa, in quanto onnipresente, ha già donato la Lichtung «all'intero del cui aperto soltanto può apparire tutto ciò che è reale»[ccxviii][218].
Ma tuttavia la natura che tutto media è «generata dal sacro caos». Per capire il senso di questa frase bisogna prima di tutto capire il significato della parola caos. Questa parola non significa disordine o confusione, ma «χάος significa innanzitutto lo sbadiglio, uno spacco che spalanca, l'aperto, già prima aprentesi, in cui tutto è inghiottito [.] Pensato a partire dalla «natura» (φύσις), il caos resta quello spalancarsi a partire dal quale l'aperto si apre per concedere a ogni ente distinto il suo presentarsi definitivo»[ccxix][219]. Visto da questa prospettiva possiamo anche dire che il caos è il sacro stesso, ovverosia l'immediato che tutto media. Lo spalancarsi del «sacro caos» precede ogni reale, che solo da esso assume il proprio essere. Questo ci fa capire che il «sacro caos» è l'Essere in quanto dif-ferenza. Prima degli dèi e dei mortali, del cielo e della terra vi è la differenza che li raccoglie separandoli. Ciò però non significa che la differenza è "prima" del loro apparire, bensì la differenza è il τόπος da cui i quattro del Geviert si schiudono e si dispongono ognuno rispetto all'altro.
La differenza è l'immediata mediatrice.
Solo adesso comprendiamo sia il ruolo mediatore del poeta sia perché la parola è parola del sacro. Entrambi dicono il Medesimo, nel senso che la parola del poeta è mediatrice di dèi e mortali perché è la parola del «sacro caos», della differenza da cui dèi e mortali sono mediati e perciò rap-portati (traspropriati). È per questo che Heidegger dice che il sacro non è tale perché è divino, ma è il divino a essere tale perché sacro. Solo cioè a partire dal «sacro caos» si dà qualcosa come il divino e di conseguenza il mortale.
Si è detto in precedenza che la natura è ciò che in-spira, ma allora il Lied (canzone), essendo ciò che è inspirato, deve provenire dal destarsi della natura. «Poiché la canzone si desta insieme all'«ispirazione che si desta», in essa deve aleggiare l'alito della venuta del sacro»[ccxx][220]. Questo significa che l'Aperto nel suo aprirsi, il caos, dà vita (inspira) alla parola, la quale non è un accidente, ma l'essenza dell'Aperto. L'Aperto, il Chaos e il Sacro altro non sono che i nomi dell'inizio nella legge del canto, nei metra della Dichtung. Allora: il sacro è Verbum[ccxxi][221]. «Il sacro dona la parola e viene esso stesso in questa parola. La parola è l'evento del sacro. La parola di Hölderlin è ora quel chiamare iniziale che, chiamato proprio da ciò che viene, lo dice, e dice esso soltanto, in quanto è il sacro»[ccxxii][222].
Il sacro pensato come ciò che viene e che permane solamente in questo suo venire, cioè l'inizio, è ciò che precede e anticipa ogni cosa, esso è per così dire «ciò che resta».
Il quarto detto guida del saggio di Hölderlin e l'essenza della poesia dice:
«Ma ciò che resta lo istituiscono i poeti»[ccxxiii][223].
Il detto è il verso finale dell'inno Andenken, Rammemorazione, a cui Heidegger dedicherà il suo colloquio più lungo nel 1943. Il contenuto del detto ci è ormai familiare. La poesia è istituzione, vale a dire: fondazione, donazione e iniziazione dell'essere nella parola. Ma si chiede Heidegger, nel saggio del '36, ciò che è stabile deve essere istituito? Non è già di per sé qualcosa di permanente? «No! Proprio lo stabile deve venire fissato, lottato contro il travolgimento; il semplice deve venire strappato alla confusione, la misura deve venire preposta allo smisurato. Deve venire all'aperto ciò che regge e pervade l'ente nel suo insieme»[ccxxiv][224].
Se pensiamo alla natura poetata nella poesia Come quando al dì di festa.si può intuire il perché proprio ciò che resta deve essere istituito. L'ispirazione della natura in-spira il poeta che solo però quando la istituisce nella poesia è veramente tale. L'annuncio del sacro deve essere preservato nella parola, che, appunto, l'ascolta indicandolo, mostrandolo. Solo quando l'annuncio viene cor-risposto nella parola poetica esso è tale. Questo ci dice che l'ispirazione della natura deve essere mediata dalla parola poetica, deve diventare, cioè, qualcosa di più «comune» perché esso possa essere donato al popolo.
Come abbiamo già detto questa mediazione da parte della parola del poeta non è qualcosa di estraneo all'ispirazione della natura, essa appartiene alla sua essenza (Wesen). L'immediato è ciò che tutto media (la mediatrice), ma solo quando si dà nella e come parola poetica. Proprio questa libera donazione è l'istituzione di ciò che resta nella parola del poeta.
Nel colloquio con l'inno Andenken del '43 Heidegger chiarisce ancora meglio il senso di questo verso. Qui l'istituire (stiften) viene inteso come il modo con cui i poeti (naviganti) scandagliano l'uno, l'Ε̉̀ν πάντα. Questo scandagliare è un ascoltare che mostra. Ciò che lo scandagliare vuole mostrare è «ciò che resta». Ma quest'ultimo non è più semplicemente lo stabile, ma è essenzialmente il restare nel proprio, vale a dire il cammino alla sorgente. «Questa è l'origine da cui si origina ogni abitare dei figli della terra»[ccxxv][225].
Ora, «ciò che resta», lo stabile, il restare si mostra come un cammino. Restare e camminare per noi dicono due azioni differenti, eppure per Heidegger il restare è solo un camminare.
Si è detto più volte che l'essere non è qualcosa che il pensiero può raggiungere, come se stesse al termine di un viaggio. Noi ci muoviamo da sempre nella prossimità dell'essere, ma, d'altra parte, proprio perché l'essere non è un ente, perciò è ni-ente, esso è allo stesso modo la "cosa" più lontana. Restare vicino permanendo lontano non è una condizione che si possa superare. Noi siamo gettati in questo frammezzo in cui l'essere, che getta, rimane la cosa più vicina e allo steso tempo la più lontana. Perciò restare, inteso come un camminare, è il dimorare presso la sorgente, perché scandaglia il frammezzo che tutto raccoglie. È per questo che la vicinanza verso il proprio presuppone l'aver fatto esperienza dell'estraneo. Il proprio e l'estraneo sono i due estremi del frammezzo in cui l'esserci è gettato. Estremi che non sono prima del frammezzo, ma accadono mentre il frammezzo li raccoglie separandoli. Il cammino è L'Istro poetato da Hölderlin. Esso «"è" di volta in volta il luogo [Ortschaft] che domina tutto il soggiorno degli uomini sulla terra. Il luogo viene dato in proprietà all'uomo come una cosa sua propria; ma questa cosa data in proprietà abbisogna dell'appropriazione: il luogo di sosta dev'essere guadagnato con la migrazione»[ccxxvi][226]. L'appropriazione del proprio accade solo se è guadagnato con l'espropriazione nell'estraneo. Il fiume è perciò l'unità di luogo stabile e peregrinazione: l'Evento appropriante-espropriante. Ed è solo da questo divenire-di-casa attraverso il passaggio in ciò che è estraneo che è possibile la fondazione della storia, vale a dire, la fondazione dell'abitare dell'uomo su questa terra. È infatti il fiume - il poeta - che rende la terra fertile, permettendo all'uomo di trovare un luogo appropriato per il suo abitare[ccxxvii][227].
L'ultimo detto guida dice:
«Pieno di merito, ma poeticamente abita / l'uomo su questa terra»[ccxxviii][228].
Il verso di Hölderlin mostra una contrapposizione tra il merito dell'uomo e il carattere del suo abitare. Indubbiamente l'uomo è pieno di merito, egli opera, produce, costruisce con le proprie fatiche; «ma» ciò non tocca l'essenza del suo abitare, il fondamento, cioè, del suo esserci storico. Quest'ultimo nella sua essenza è poetico. È la parola «poeticamente» che dà il tono a tutto il verso. Ed è quindi il poetico a dirci cos'è l'abitare di volta in volta degli uomini su questa terra.
In precedenza si è detto che la poesia è istituzione del frammezzo che raccoglie l'estraneo e il proprio; frammezzo che è solo un cammino che fa esperienza del proprio a partire dall'estraneo. Quest'ultimo Hölderlin lo chiama con parola poetica il «fuoco celeste», il che ci fa pensare al cielo stesso. Ma allora qui il proprio è la terra. Il frammezzo, che la poesia istituisce, è il tra di cielo e terra; ed è proprio questo frammezzo così inteso ciò che Heidegger chiama la «dimensione» (Dimension)[ccxxix][229]. Il frammezzo che misura l'intera dimensione di cielo e terra è il Medesimo che misura il frammezzo di dèi e mortali. Esso è la dimensione del Geviert. È a partire da questo misurare essenziale che è possibile qualsiasi altro misurare, ne consegue che Poetare è misurare. Il misurare è uno scandagliare l'intero frammezzo che, come tale, prende-misura e la dà ai quattro del Geviert. Da ciò s'intuisce che il «Poetare è misurare» perché, a sua volta, la misura stessa si è data all'uomo.
In che consiste la misura dell'uomo? «La misura consiste nel modo in cui il Dio che rimane nascosto proprio come tale è manifesto mediante il cielo. L'apparire del Dio attraverso il cielo consiste in un disvelamento che lascia vedere quello che si nasconde, ma lo lascia vedere non in quanto cerchi di strappare ciò che è nascosto al suo nascondimento, bensì solo in quanto custodisce il nascosto nel suo nascondersi. Così il Dio sconosciuto appare in quanto sconosciuto nella manifesta apertura del cielo. Questo apparire è la misura sulla quale si misura»[ccxxx][230]. Questa misura è il misurare del Poetare che, in quanto parola del Sacro, ascolta i cenni del divino e li ridice al suo popolo. Attraverso questo porgere la misura essenziale l'abitare umano viene di volta in volta fondato: «poeticamente abita / l'uomo su questa terra».
È da tenere ben chiaro che con la parola "misura" qui non s'intende un mero calcolo quantitativo, il misurare del Poetare è un cor-rispondere alla misura essenziale che, di per sé, si è destinata all'uomo. Questo prendere-misura da parte del poeta è un dire (Sagen) che «dice gli aspetti del cielo in modo da adattarsi alle sue apparenze come all'estraneo in cui il Dio sconosciuto si «trasmette» (schiket)»[ccxxxi][231]. Cogliendo la misura dagli aspetti del cielo il poeta parla per immagini (Bilde), le quali sono «incorporazioni (Einschlüsse) visibili dell'estraneo nell'aspetto di ciò che è familiare»[ccxxxii][232]. Il poeta manifesta nel suo dire quel gioco di luce e ombra proprio della Lichtung[ccxxxiii][233]: da una parte la chiarità dell'immagine poetica, dall'altra «l'oscurità e il silenzio dell'estraneo». Ma è solo da questo gioco di luminosità e oscurità che l'uomo fonda il suo abitare nella Lichtung dell'essere. Se infatti l'essere non è, ma si dà (Es gibt), allora esso si dà sia come luminosità, in quanto illumina ciò che l'ente "è"; sia come oscurità, poiché, in quanto dono privo di donante, rimane oscura la sua provenienza. A sua volta, luminosità e oscurità sono proprie dell'essere perché quest'ultimo si dà come Lichtung, la quale è lucus a non lucendo, «luce scura». Quest'ultima «non nega la chiarezza, ma piuttosto l'eccesso di chiarore perché questo, quanto più è chiaro, tanto più impedisce la vista. Il fuoco troppo ardente non solo acceca l'occhio, ma l'eccessivo chiarore inghiotte anche tutto ciò che si mostra ed è più dello scuro [.] Il poeta chiede il dono della luce scura in cui il chiarore è attenuato. Ma questa attenuazione non indebolisce la luce del chiarore. Infatti lo scuro apre l'apparire di ciò che nasconde altro e preserva in esso l'altro che vi è nascosto. Lo scuro preserva a ciò che è luminoso la pienezza di quanto esso può donare nel suo apparire radioso»[ccxxxiv][234].
Nel passo citato i significati di luminosità e oscurità si sono invertiti, l'oscurità qui è l'eccesso di chiarore, mentre la luminosità è l'attenuazione della luce stessa. Questo sta ad indicare che queste parole non sono il risultato di concetti metafisici irrigiditi, ma di quel dire poetico che, come tale, non rappresenta concetti, bensì mostra il colloquio col non-detto da cui proviene. La poesia è essenzialmente un colloquio perché lo ri-dice ogni volta nella sua parola; la sua essenza è quella di cor-rispondere ai cenni del sacro, della φύσις, fondando, in quanto cor-rispondere, l'abitare dell'esser-Ci nella Lichtung dell'essere.
La parola poetica, corrispondendo ai cenni dell'essere, è in continua oscillazione, ma noi adesso possiamo anche dire in continua risonanza. A quest'ultima partecipa in modo costitutivo l'esperienza del pensare. La poesia per assolvere al suo destino, quale quello di porre in opera le enigmatiche oscillazioni dei cenni del Sacro, deve corrispondere al pensiero, il quale, a sua volta, è tale solo perché partecipa a questo accadimento. È per questo che il carattere dei pensatori è quello di salvaguardare la verità dell'opera. Questo partecipare alla salvaguardia dell'opera è l'esperienza (Erfahrung) del pensare.
La poesia è istituzione della storia dell'esserci, vale a dire dell'abitare dell'uomo sulla terra. A sua volta l'istituzione è in se stessa colloquio del poetare con il pensare. Solo perché il dire poetico si tra-manda come colloquio, può di volta in volta istituire le epoche storiche. Heidegger vede perciò il pensare nel suo cor-rispondere al dire poetico. Questo però non significa che poetare e pensare siano la stessa cosa, come se il pensare sia essenzialmente un poetare, bensì poetare e pensare appartengono al Medesimo colloquio, ancora più precisamente, poetare e pensare accadono solo nel colloquio che li raccoglie nell'unità in se stessa differenziante. È quindi l'elemento comune ad entrambi che li pone in essere: tale elemento è il linguaggio.
In precedenza si è detto che la poesia è il linguaggio originario, ovverosia l'apertura dell'essere nel linguaggio con la parola poetica. Allo stesso modo, il pensiero, alimentandosi nella parola poetica, è in se stesso un dire, cioè un ascolto pensoso che ri-dice ciò che di già si è donato al pensiero, dando con esso la sua Sache. Poetare e pensare sono il frutto di una donazione che non è in se stessa parola detta, ma cenno indicibile dell'essere. Ed è perciò solo nell'officina del poetare e del pensare che tale cenno può risuonare nella parola detta. Vista da questa prospettiva il dire che li raccoglie è «la controparola [Gegenwort] alla parola dell'essere»[ccxxxv][235]. Quest'ultima, in quanto cenno dell'essere, è parola del silenzio. La controparola è il risuonare del cenno silenzioso dell'essere.
S'inizia con ciò ad intravedere la difficoltà che il pensiero di Heidegger deve affrontare nel mostrare un'esperienza dell'essere che non sia più l'essere della metafisica.
Poetare e pensare possono cor-rispondere solo perché entrambi ascoltano il silenzio dell'essere. Ciò che li fa essere è il pro-getto gettato dell'essere stesso, che trova nel colloquio di entrambi il luogo di risonanza. Si badi che il colloquio progettante non è qualcosa che anticipa la Gabe dell'essere, come se fosse uno spazio vuoto che successivamente si riempie del dono dell'essere. Il dono dell'essere è la possibilità stessa dell'accadimento del colloquio, perciò il dono deve essere pensato nel suo significato verbale, come anche la Lichtung dell'essere si dà solo come un diradarsi dell'essere, un farsi lieve per l'accadimento dell'essente. Parole quali dono, radura ed essenza non sono cose ma trasfigurazioni dell'Ereignis dell'essere: il dono è un donarsi, la radura un diradarsi e l'essenza un essenzializzarsi.
Poetare e pensare sono modi dell'accadimento dell'essere, cioè sono al servizio del pro-gettamento dell'essere che, appunto, si serve del colloquio di entrambi per dispiegare le possibilità concesse all'esserci storico dell'uomo. Tali possibilità devono essere da una parte pro-gettate e dall'altra salvaguardate, proprio questi due caratteri del colloquio progettante sono ciò che Heidegger vede nella parola Dichtung. In tal senso Heidegger può dire che «la nascosta essenza del pensare e cantare è la Dichtung. In essa si fondano pensiero e canto. In essa si fonda ancor prima il rapporto di entrambi. Quest'ultimo tiene in rapporto, tiene in sé e risparmia esitante entrambi. La Dichtung avviene originariamente come rapporto di entrambi e li congeda [entlassen] da sé senza abbandonarli [verlassen]. La Dichtung, in quanto dire rispondente del silenzio dell'essere, va pensata e cantata in forma di rapporto [verhältnishaft], poiché essa è avvenuta a partire dal silenzio. L'avvenire di questo è duplice, come cenno e come suono. Questa duplicità riposa nella quiete della semplicità, in quanto unico e solo, tale evento traspropria [vereignet] il dolore dell'espropriazione [Enteignis] nella grazia (il mistero della serenità)»[ccxxxvi][236].
Cenno e suono, annuncio e ascolto sono i margini del rapporto, ovverosia dell'essere come differenza. L'essere però non è semplicemente il rapporto che "avvicina" silenzio e parola, ma è il frammezzo da cui entrambi si schiudono, esso è lo spalancarsi (Chaos) di un'apertura in cui solo silenzio e parola sono ciò che sono: il silenzio è tale solo se corrisponde al suono della parola, ma allo stesso modo quest'ultima può risuonare, ossia avere senso come parola sonora, solo se si con-fronta con il silenzio (la quiete di ogni senso).
8. IL COLLOQUIO TRA PENSIERO E ARTE.
Tutto il cammino fin qui percorso ha come denominatore comune il tentativo di pensare il problema dell'opera d'arte, e in particolare della poesia, in base alla questione ermeneutica, intesa come struttura di annuncio e ascolto, silenzio e parola. Ogni singolo passo da noi percorso ha mostrato che l'uomo non è essenzialmente un animale razionale che erige il suo sapere al di sopra di tutto, ma è colui che originariamente è reclamato dall'essere per custodire la sua donazione. Perfino nell'epoca attuale, nel pieno dispiegamento della tecnica moderna, chi è pro-vocato in questo fare impositivo è proprio l'uomo. Solo perché all'uomo l'ente nella sua totalità si disvela come ciò che è disponibile per il suo fare fondativo, può a sua volta ergersi ad ente sommo della produzione tecnica. L'uomo è uomo perché ascolta-parlando il "suono della quiete" al quale è destinalmente appropriato-espropriato.
Nell'ermeneutica heideggeriana la parola non è pensata come un segno sottoposto all'oggettivizzazione del pensiero calcolante, bensì la parola è lasciata essere (nella maniera in cui si lascia che i giochi giochino). Questo lasciar-essere è un abbandonarsi al puro gioco delle parole, un ascoltare nel silenzio il movimento silenzioso che nella parola dispiega mondo e cosa, mondo e terra. Il pensiero ermeneutico è il Gelassenheit (abbandono), la via come gioco senza perché.
Ma in che modo nel pensiero heideggeriano si esplica questo lasciar-essere la parola? Troviamo una traccia preziosa di questo pensiero ermeneutico nel concetto di tratto (Riss) dell'opera d'arte, che, a sua volta, corrisponde nella parola al segno come fenditura. Se il linguaggio è pensato da Heidegger come una trama (Auf-riss), un intreccio da sciogliere, ciò comporta che proprio questo scioglimento del linguaggio, per coglierne la Chiamata silenziosa, può compiersi solo attraverso il linguaggio. Per questo intento ermeneutico Heidegger si avvale della parola Riss. In primo luogo, Riss, Auf-riss è il profilo che, ad esempio, tracciamo quando apriamo un solco nel terreno, perché custodisca il seme e lo faccia crescere; in base a questa metafora, il Riss è la trama del linguaggio, il profilo di un mostrare (Zeigen) entro il quale i parlanti e il loro parlare restano saldati insieme alla Parola. Mediante questa fenditura si può udire l'eco misteriosa, come crepa tra il parlato e il non-parlato, tra il linguaggio come discorso e il linguaggio come dire originario (Sage), tra Mondo e Terra.
L'effetto di questa fessura, in qualunque contesto, è quello di mantenere le cose separate per creare un "tra" le cose, uno squarcio in cui le cose sono mostrate nel loro raccogliente differenziarsi. Ora, sia il Riss come tratto tra Mondo e Terra nell'opera d'arte sia il Riss, Auf-riss, come trama del linguaggio introducono un "tra" che implica a sua volta un "nulla-tra", una continuità silenziosa, un flusso di scrittura bianca.
Ebbene, proprio questo carattere del Riss heideggeriano è confrontabile con la concezione della musica sperimentale di John Cage, in cui il flusso sonoro denota solo un aspetto del mostrarsi della trama musicale, altrettanto importanti sono i tratti silenziosi che raccolgono ogni singolo suono. Lo stesso Cage ideò una scrittura in cui i flussi silenziosi, la scrittura per così dire non scritta, assumeva un ruolo fondamentale; in modo tale che il testo (scritto e non-scritto) diveniva una vera e propria partitura da leggere. In tal modo la lettura del testo che pensa Cage è un'indissolubile commistione tra lettere e silenzi. La pratica di questa lettura sta tutta nel coglimento del gioco contrappuntistico tra suono e silenzio, un alternarsi di schiudimenti e coprimenti mediante oscillazioni che convergono verso lo zero[ccxxxvii][237]. L'idea di questa operazione di lettura non si ferma qui: nel leggere ad alta voce dobbiamo alternare il tempo di lettura con quello di respirazione. Questi due gesti (lettura e respirazione) coesistono senza reciproci impedimenti. Ma qual è la loro differenza? Da una parte il leggere ad alta voce è, per così dire, sottolineato, ma allo stesso tempo non ha sviluppo, ci troviamo di fronte a un fare musica leggendo ad alta voce; dall'altra il respiro non è sottolineato, ma ha sviluppo, ed è perciò un fare musica senza dire nulla. Ci troviamo di fronte a una vera e propria pratica che esperisce il detto e il non-detto, intenzionalità e non intenzionalità. Questo comporta che: «il punto tra «leggere» e «respirare» dimostra (Zeigen) inequivocabilmente tanto la loro separatezza quanto la loro reciproca appartenenza (Ereignis); in sé, è una fenditura (Riss) che riguarda identicamente lo spazio e il tempo»[ccxxxviii][238]. Questo comporta che ogni evento che succede a uno spazio vuoto (respiro) è un nuovo evento, è φύσις, la sorgenza che schiude ogni volta nuovi eventi. Uno sviluppo, beninteso, che non è un vuoto alternarsi di nyn: qui sviluppo vuol dire portarsi nella presenza, maturare. Ebbene questa dinamica di cui l'uomo fa sempre esperienza, se pur inconsapevolmente, Cage la vede esplicarsi nella dinamica interna della storia. Essa è l'oscillare di una coappartenenza, di un reciproco ri-chiamarsi tra il futuro non documentabile, un respiro che ci porta avanti (in quanto ha sviluppo), e il passato, qualcosa che può verificarsi ogni qual volta si debba di fatto inventare quel che è accaduto, perché non lo si ricorda. Cage inverte in tal senso il rapporto tra memoria e oblio, in cui il passato che noi serbiamo nella memoria non è semplicemente ciò che è accaduto, bensì una risposta all'oblio. Ma l'oblio di cosa? Come si esplica questo non-detto a cui rispondiamo col nostro dire?
Prima di rispondere rivolgiamo la nostra attenzione sui risultati dell'ermeneutica attuale, per ciò che riguarda il problema della continuità storica dell'opera d'arte tramandata, di cui il nostro ascolto-dicente si alimenta.
Gadamer, ad esempio, ritiene che il relativismo dell'opera aperta conduce «all'assoluta puntualità che raggiunge ugualmente l'unità dell'opera, l'identità dell'artista con se stesso l'identità dell'interprete, del fruitore»[ccxxxix][239]. Per Gadamer la «coscienza estetica», poggiando sull'individuale e sul soggettivo, manca di peso ontologico. Per recuperare le qualità fondative dell'arte, dobbiamo rivolgerci alla classicità: l'emergere della verità e del significato dell'arte può essere compreso solo dall'interno di una tradizione, mediante cioè una dialettizzazione della storia dell'arte. La memoria diviene qui un elemento essenziale per l'accadimento stesso della verità. In tal senso Gadamer resta fedele alla definizione heideggeriana dell'arte come «storicizzarsi della verità», come instaurazione di un mondo che è sempre in colloquio con la tradizione. In questa «urbanizzazione» del pensiero di Heidegger operata da Gadamer si perde, però, qualcosa di essenziale: si perde l'antagonista del Riss dell'opera d'arte: la Terra. La terrestrità dello «storicizzarsi della verità» è attestato dal carattere effimero e mortale tanto dell'opera (simulacro funebre) quanto dell'autore, ossia il suo essere mortale. Questo carattere effimero dell'opera non è semplicemente il suo dover tramontare, entrare nell'oblio - poiché l'opera appena si schiude nell'aperto è già un simulacro funebre -, bensì è la condizione essenziale che rende un'opera duratura nel tempo. La terrestrità dell'opera è l'inesauribilità del ni-ente che ossessiona il «soffio» del poeta, del poeta allorché canta in verità: «Cantare è in verità un altro soffio / Un soffio per nulla. Un respiro in Dio. Un vento»[ccxl][240]. Gadamer nella sua ermeneutica ontologica dimentica che qualsiasi cosa che possiamo rammentare tende a identificarsi con il nulla, con i tratti fuggevoli di un'esistenza confinata nei limiti della nascita e della morte: dimentica l'oblio.
La lezione di Heidegger, invece, sta tutta in questo scorgere la spaccatura del Riss tra Mondo e Terra, che è ulteriormente approfondita fino a che non si frantuma in un Auf-riss del linguaggio - una disseminazione - in cui ogni cosa perde il proprio ancoraggio, in cui il linguaggio, l'apertura originaria e insuperabile, si scioglie in una trama (Auf-riss) che ha come s-fondo un non-dire: il ni-ente[ccxli][241]. Questo comporta per Heidegger pensare la storia come ε̉ποχή dell'essere, una storia fatta di regioni finite, di mondi che in misura si accendono e in misura si spengono, ritornando nell'oblio, anzi tingendosi dell'oblio: si è sempre detto che la continuità del tramandato è possibile solo in base a questo carattere di finitezza dell'esserci, ma in primo luogo dell'essere stesso. Con questo continuo andare alla deriva - in cui ad un tempo "mi sovvien l'eterno, / e le morte stagioni" -, uscire ed entrare nell'oblio, in cui l'idea di un essere sovratemporale è solo il nostro tentativo di coprire, ossia di girare le spalle all'oblio; possiamo pensare la filosofia di Heidegger - se ne esiste una - come "an-archica", in cui tutti gli arché sono destinati ad andare alla deriva, a sprofondare nell'oblio.
Ora, proprio in questo carattere an-archico troviamo il punto di convergenza tra il pensare rammemorante di Heidegger e la poetica del silenzio di Cage. In primo luogo, l'anarchia mostra un destino di declino, la decadenza dei modelli a cui gli occidentali, a partire da Platone, hanno uniformato le proprie azioni a imprese per ancorarvele, e in tal modo sottrarle al dubbio e al cambiamento. Ebbene questa produzione razionale di ancoraggi - compito proprio dei filosofi - con il pensiero di Heidegger e la poetica di Cage diviene impossibile. In entrambi troviamo il tentativo di liberarsi da quegli ancoraggi, che, in primo luogo, condizionano il nostro modo di esperire il linguaggio (poetico): da una parte Heidegger nel paragrafo 34 di Essere e tempo parla della necessità di «liberare la grammatica dalla logica», dall'altra Cage tenta di sciogliere le parole dalla gabbia della sintassi, come anche i suoni dalla rigida partitura. In entrambi i casi ci accostiamo verso la complessità del mondo (linguistico) non come un'acquisizione dell'ingegno dell'uomo, ma prodotto (ποίησις) di «ciò che semplicemente accade», e richiede solo un gioco-di-spazio-di-tempo aperto (Lichtung),un lasciar-essere, un abbandono (Gelassenheit). Ma dove porta questo abbandono? C'è un punto di convergenza tra il pensiero an-archico di Heidegger e la poetica di Cage? Una parola di Hölderlin può forse indicare la via: Chaos. Se infatti pensiamo questa parola nel suo significato originale quale sbadiglio, lacerazione che spalanca, l'aperto che tutto ingoia, si chiarisce la posizione di fondo di Heidegger e Cage: da una parte, il tentativo di Heidegger di un'ermeneutica che operi tutta in un gioco in cui ogni parola viene, per così dire, sfondata, ossia vista nel suo corrispondere con il non-detto, in un gioco senza fine; dall'altra, la poetica di Cage, in cui le parole e i suoni non sono più semplicemente ingabbiati in un reticolo rigido, ma sciolti in un colloquio tra suono e silenzio, parola e non-parola. Entrambi mostrano, in modo diverso, questo gioco di continui sfondamenti, in cui le parole, i suoni, i colori, ad un tempo, giocano con la quiete a cui sempre corrispondono. Solo grazie a questo andare alla deriva, questo sfondarsi nell'indicibile, nell'inudibile e nell'invisibile essi (parole, suoni, colori) si schiudono nella loro purezza. Ma questo corrispondere, per noi adesso, vuol dire cor-rispondere con il «sacro caos», con l'inizio che si è già sempre compiuto: «essere è evento / evento è inizio / inizio è conclusione che diverge / divergenza è congedo / congedo è essere»[ccxlii][242].
È importante constatare che sia Heidegger sia Cage hanno colto questo gioco abissale proprio nell'opera d'arte, nella sua irriducibilità a qualcosa di coglibile una volta per tutte. L'opera d'arte prima di essere un oggetto estetico o un oggetto della coscienza, è (west) il luogo (Ort) in cui si istituisce un movimento, un oscillare tra mondo e terra, tra detto e non-detto, tra suono e silenzio. Si deve anche badare che l'opera d'arte non è ciò che produce tali oscillazioni, ma è essa stessa questa lotta, questo vibrare nella quiete, questo tramandarsi cor-rispondendo col nulla, con l'oblio. Ci troviamo di fronte a una poetica dell'oblio, di un originale Chaos che non si lascia dire, ma che noi in un modo o in un altro sempre corrispondiamo: "Così tra questa / immensità s'annega il pensier mio: e il naufragar m'è dolce in questo mare".
A conclusione di questo lavoro vorrei indicare un'ulteriore affinità del pensiero rammemorante di Heidegger con le poetiche del novecento, e in particolare con la poetica ontologica di Wassily Kandinsky.
Per Kandinsky valutare o fruire un'opera d'arte non significa altro che incontrare un nuovo mondo e provare ad abitarci. Questa determinazione a sua volta si fonda sul fatto che per lui come anche per Heidegger il senso dell'arte non è quello di esprimere o rappresentare un determinato modo di vedere le cose, né semplicemente il prodotto di una facoltà dell'uomo, ma «è l'accadere di una radicale novità sul piano dell'essere-nel-mondo, è la fondazione di questo stesso essere-nel-mondo»[ccxliii][243]. Per Kandinsky questa fondazione deve esplicarsi su basi ontologiche rigorose, scevre da qualsiasi irrazionalismo, e perciò il suo sforzo, come pure quello di Klee, sta teso nel sottrarre l'arte all'arbitrio dell'ispirazione per darle una struttura grammaticale la più rigorosa possibile. La sua idea di un'arte profetica non si dispiega in costruzioni arbitrarie, ma nella concreta pro-gettazione di opere come mondi.
Il testo di Kandinsky che voglio prendere in esame è Punto, linea, superficie[ccxliv][244], un testo in cui l'autore decostruisce la struttura interna dell'opera pittorica nei suoi elementi costitutivi, mostrando il carattere ontologico dell'opera fin nelle sue parti più piccole.
La decostruzione-costruzione dell'opera parte dal suo concetto primo: il punto (e non lo spazio, come invece opera la scienza matematica). Esso è definito da Kandinsky in questo modo: «Il punto geometrico è un'entità invisibile. Deve quindi essere definito come un'entità immateriale. Pensato materialmente il punto equivale a zero»[ccxlv][245]. Kandinsky dà una definizione rigorosa del punto geometrico, la cui realizzazione è quella di annullarsi, di tendere a zero. Questo carattere è solo l'elemento più superficiale del punto, il quale è chiarito a partire dal significato della parola zero: «Noi ci rappresentiamo questo zero - il punto geometrico - come associato con la massima concisione, cioè con un estremo riserbo, che però parla. In questo modo, nella nostra rappresentazione, il punto geometrico è il punto più alto e assoluto, l'unico legame fra silenzio e parola. È perciò il punto geometrico ha trovato una forma materiale, in primo luogo nella scrittura - esso appartiene al linguaggio e significa silenzio. Nello scorrere del discorso, il punto è il simbolo dell'interruzione, del non essere (elemento negativo), e, nello stesso tempo, è un ponte da un essere a un altro essere (elemento positivo). Questo è il suo significato interno nella scrittura [.] Il suono del silenzio, che viene abitualmente associato al punto, è così forte, da coprire completamente le altre proprietà»[ccxlvi][246].
La prima considerazione da fare riguarda l'affinità tra il punto di Kandinsky, pensato come suono del silenzio e come ciò che raccoglie lo scorrere del discorso, con il significato della parola Ort di Heidegger: l'Ort è la punta della lancia, il punto di convergenza di ogni parola: il suono della quiete. Il suo suono è un'onda che di volta in volta sommuove il dire umano. Esso è lo stesso concetto della respirazione di cui parla Cage, come il fare linguaggio senza dire nulla. L'Ort, il punto, è prima di tutto un'accordare un posto, uno spazio. È quindi l'Ort che accorda ciò che è proprio dello spazio e non il contrario. Dice Heidegger: «Raum, Rum, significa un posto reso libero per un insediamento di coloni o per un accampamento. Un Raum è qualcosa di sgombrato, di liberato, e ciò entro determinati limiti, quel che in greco si chiama πέρας. Il limite non è il punto dove una cosa finisce, ma, come sapevano i greci, ciò a partire da cui una cosa inizia la sua essenza (Wesen)»[ccxlvii][247]. È significativo che Kandinsky non costruisce la sua ontologia dell'arte a partire dallo spazio, come dato primo, ma dal punto, ossia dalla riduzione dello spazio a zero: l'Ort estremo dove ogni cosa confluisce. Il suo suono è silenzio, quiete, la quale però non è mera staticità, essa è estrema motilità. Kandinsky pensa questo suono come delle scosse che sommuovono. Ebbene, questi urti a noi sembrano intimamente connessi con la parola heideggeriana Stoss (urto, scossa). L'opera d'arte è riverberazione dell'Ort, in cui confluiscono differenziandosi Mondo e Terra; l'urto (Stoss) che essa è (west) è la loro lotta, in cui nessuno dei due prevarica sull'altro, esso è il riverberarsi di questo polemos, ossia l'oscillazione appropriante-espropriante dell'Ereignis: l'evento della differenza. Allo stesso modo il punto di Kandinsky è il legame tra silenzio e parola, tra terra e mondo. Il punto, l'Ort, è pura tensione, sempre concentrica[ccxlviii][248]. Grazie alla tensione del punto esso stesso fa presa sulla superficie; il punto diventa la più concisa affermazione stabile, che sorge breve, ferma e rapida[ccxlix][249]. Esso è l'elemento originario della pittura: l'origo, il principio. Notevole è anche il fatto che per Kandinsky vi è differenza tra le singole forme viste dall'esterno e dall'interno; questa differenza inerisce sulla modalità con cui esperiamo il fenomeno che si mostra a noi. Ebbene, dall'esterno la forma designata è un semplice elemento, dall'interno l'elemento non è quella forma stessa, ma tensione interna che vive in essa. L'opera pittorica vista dall'interno diviene un insieme di forze-tensioni viventi in questa forma[ccl][250]. È ovvio che queste tensioni, come anche la lotta di mondo e terra, non sono il risultato di un'impressione "pura", un oggetto semplicemente-presente, ma un darsi dell'essere a cui noi corrispondiamo: il Chaos di forze pure a cui noi tentiamo di dare una misura poetica.
Si vede da queste poche proposizioni che l'intento di Kandinsky è di mostrare gli elementi essenziali dell'arte come gli elementi di una cosmologia fatta di forze, di tensioni, più che di cose, enti. «Anche in un altro regno di elementi puri - nel regno della natura - ci si presenta spesso l'accumulazione di punti; ed essa è sempre funzionale e organicamente necessaria. Queste forme della natura sono, in realtà, piccoli corpi nello spazio e si trovano, in rapporto a un punto astratto (geometrico), nella stessa relazione del punto pittorico. A dire il vero, d'altra parte, tutto quanto il «mondo» può essere considerato come una composizione cosmica in sé conchiusa, che è formata a sua volta di infinite composizioni autonome, anch'esse in sé conchiuse e sempre più piccole; e questo mondo, nel grande e nel piccolo, fu creato, in definitiva, da punti; e con ciò, d'altra parte, il punto ritorna al suo stato originario di entità geometrica. Si tratta, infatti, di complessi di punti geometrici che stanno sospesi in diverse figure nell'infinito geometrico. Le più piccole di queste in sé conchiuse sono figure puramente centrifughe e si presentano di fatto al nostro occhio poco esperto come punti, che stanno in rapporto fra loro attraverso connessioni allentate. Lo stesso aspetto hanno alcuni semi: e se noi apriamo la capsula del papavero (che è, in definitiva, un punto sferico ingrandito), così bella, liscia e levigata come avorio, scopriamo in questa calda sfera delle miriadi di freddi punti azzurro-grigi, che obbediscono a un piano di composizione e portano in sé la latente quieta forza generatrice, proprio come il punto pittorico. [.] Incontriamo i punti in tutte le arti e l'artista si renderà certamente conto sempre più cosciente della loro forza intrinseca. La loro importanza non può essere trascurata»[ccli][251].
È questa cosmologia piena di punti forza ad inspirare l'operato dell'artista, in tutte le varie manifestazioni: dalla danza alla musica, dalla grafica all'arte astratta. Proprio in quest'ultima il suono del punto arriva al suono pieno, non velato.
Tutto ciò che è stato detto sul punto appartiene all'analisi del punto in sé conchiuso, in quiete. Ma vi può essere anche un'altra forza, che non cresce nel punto, ma al di fuori di esso. «Questa forza si getta sul punto che fa presa nella superficie, lo strappa via e lo sposta sulla superficie stessa, in direzione qualsiasi. In questo modo la tensione concentrica del punto viene subito distrutta, il punto stesso perde la vita e dà origine a una nuova entità, che vive una vita nuova, autonoma, e obbedisce, quindi, a leggi proprie. Questa è la linea»[cclii][252].
«La linea geometrica è un'entità invisibile. È la traccia del punto in movimento, dunque un suo prodotto. Nasce dal movimento - e precisamente dalla distruzione del punto, della sua quiete estrema, in sé conchiusa. Qui si compie il salto dallo statico al dinamico»[ccliii][253]. Questo secondo concetto cosmico dell'arte viene pensato da Kandinsky come la pura negazione del punto, della sua quiete. La linea così intesa è un tratto (Riss) che squarcia ed apre. Ciò che essa apre è la liberazione di forze, che distruggono la concentricità del punto. Questa distruzione non vuol dire mero annientamento del punto, ma velamento. E questo semplicemente perché la linea si genera dal movimento del punto, che in tal modo è occultato. La linea ha bisogno del punto, dell'Ort, per poter velare il suo suono silenzioso, e così facendo prodursi come suono alternativo. La linea intesa come movimento deve essere a sua volta pensata come tensione a cui si aggiunge la direzione. «La «tensione» è la forza viva insita nell'elemento, che esprime solo una parte del «movimento» creatore. La seconda parte è la «direzione», che viene anch'essa determinata dal movimento»[ccliv][254]. L'elemento differente che si palesa tra punto e linea è quindi l'aggiunta della nozione di direzione: il punto è pura tensione, che, come suono della quiete, non ha nessuna direzione, il suo movimento è la vibrazione; la linea, invece, è tensione diretta, essa mentre traccia taglia e così facendo si fissa sulla superficie. In base alla nozione di direzione Kandinsky elenca tre tipi fondamentali di linee: 1) la forma più semplice è l'orizzontale, essa corrisponde alla linea o alla superficie sulla quale l'uomo si trova e si muove; i suoi suoni fondamentali sono la freddezza e la piattezza, essa è «la forma più concisa della infinita possibilità di movimento freddo»[cclv][255]. 2) Completamente opposta è la linea verticale, che forma con l'orizzontale un angolo retto; nella verticale la piattezza viene sostituita dall'altezza, e la freddezza con il calore, essa è «la forma più concisa dell'infinita possibilità di movimento caldo»[cclvi][256]. 3) Il terzo tipo di linea è la diagonale; essa, ponendosi a metà strada tra l'orizzontale e la verticale, assume una medesima inclinazione verso ambedue; perciò determina il suo suono intermedio, essa è «la forma più concisa dell'infinita possibilità di movimento freddocaldo»[cclvii][257]. Queste tre linee sono le forme più pure di rette, che si differenziano fra loro per la temperatura.
Si inizia ad intravedere con questa ulteriore articolazione il profondo significato ontologico che Kandinsky attribuisce a queste forme essenziali dell'arte figurativa. Non si parla più semplicemente di rette indifferenti, determinate da un puro calcolo matematico, bensì adesso la posizione di ogni retta ha un ben preciso significato ontologico: l'orizzontale vibra con un suono freddo, la verticale vibra con un suono caldo e la diagonale vibra con un suono freddocaldo. Ogni altra retta assumerà il proprio suono in base alla sua posizione, ossia alla prossimità di queste tre fondamentali coordinate ontologiche. Il fatto poi che le prime due linee fondamentali, l'orizzontale e la verticale, siano pensate in base alla spazialità originale in cui da sempre l'uomo abita, conferma maggiormente l'intento della poetica ontologica di Kandinsky: ridare all'arte un senso cosmico originale, una dimensione in cui l'opera d'arte non è più un oggetto estetico, ma la riverberazione di un vero e proprio mondo.
Se poi a queste tre linee se ne aggiungono infinite altre si produrrà una vera e propria superficie. Precisa Kandinsky: «osserviamo qui solo di sfuggita che, in questo caso, si ha a che fare solo con una speciale proprietà della linea - con la sua forza formatrice di superfici. L'espressione di questa forza è, in questo caso, come il movimento di una pala che traccia sul terreno, col suo bordo sottile, una superficie»[cclviii][258]. Le linee sono vie (Wege), solchi che mentre tracciano schiudono un campo, l'aperto. Esse trasfigurano in modo poetico-figurativo le vie del pensiero di Heidegger, il loro tracciare solchi sul campo del linguaggio, facendo esperienza della sua trama (Auf-riss).
A questa costellazione simbolica già molto ricca Kandinsky aggiunge l'elemento del colore, che è elaborato a partire dalle due rette fondamentali: «se si esaminano le rette schematiche - in primo luogo l'orizzontale e la verticale - nelle loro proprietà cromatiche, per forza di logica s'impone un confronto col nero e il bianco. Come questi due colori [.] sono colori silenziosi, così anche le due rette suddette sono linee silenziose. Qui e là il suono è ridotto al minimo: silenzio o piuttosto sussurro appena percepibile e quiete. Il nero e il bianco stanno fuori dal cerchio dei colori; e così anche la linea orizzontale e la verticale occupano un posto particolare fra le linee, perché, quando sono centrate, esse non sono ripetibili e quindi sono solitarie. Se consideriamo il nero e il bianco dal punto di vista della temperatura, sarà piuttosto il bianco a rappresentare il caldo, mentre il nero totale è del tutto freddo interamente. Non per nulla la scala orizzontale dei colori va dal bianco al nero: un lento, naturale scivolare giù dall'alto verso il basso»[cclix][259]. I suoni silenziosi sono gli estremi colori: la luce accecante e la profonda oscurità, la luce accecante del sole e l'oscurità profonda della terra. Ad essi corrispondo i silenziosi cenni dell'essere divino e la profonda oscurità della terrestrità del mortale. Solo nel frammezzo di questi due estremi si danno i suoni sonanti dei colori e le parole dicenti degli uomini. Nel pensatore (Heidegger) e nel poeta delle forme (Kandinsky) vi è un medesimo intento: quello di pensare e poetare una dimensione dell'abitare semplice e per questo originaria, la quale fa da controcanto alla chiassosità dell'uomo moderno. Dice in tal senso Kandinsky: «"Oggi" l'uomo è completamente occupato dall'esterno, e per lui l'interno è morto. Questo è l'unico gradino della discesa, l'ultimo passo del vicolo cieco - un tempo luoghi di questo genere si chiamavano abissi, oggi basta la modesta parola di «vicolo cieco». L'uomo «moderno» cerca la pace interiore, perché è assordato dall'esterno e crede di trovare questa pace nel silenzio interiore; così, nel caso nostro, è nata l'inclinazione esclusiva verso l'orizzontale-verticale. L'ulteriore conseguenza logica sarebbe l'inclinazione esclusiva verso il bianco-nero, che la pittura ha già sentito alcune volte. Ma il collegamento esclusivo delle linee verticali-orizzontali col bianco-nero è ancora un compito del futuro. Poi tutto sarà immerso nel silenzio interiore, e solo i fragori scuoteranno il mondo»[cclx][260].
Successivamente Kandinsky mostra che col passaggio graduale dalle linee orizzontali alle linee libere acentrate, la lirica fredda si trasforma in una lirica più calda, arrivando infine ad assumere un certo sapore drammatico, ciò comporta uno scontro tra tipologie di suoni diverso. Anche qui la simbologia è compresa in una cosmologia originaria: la lirica fredda è la terrestrità del mondo, mentre la lirica calda e drammatica è l'elemento divino del cielo; le diverse Voci si con-frontano a vicenda, sono cioè in lotta tra di loro, lotta che però non si riduce a una rissa furibonda; questa lotta originaria invece lascia che i lottanti possano dispiegare il loro essere l'uno contro l'altro, l'uno per l'altro.
Questa lotta sinfonica è ulteriormente chiarita con l'entrata in gioco della "superficie di fondo" destinata ad accogliere il contenuto dell'opera. Essa raccoglie i due suoni fondamentali quello della quiete calda (linea verticale) e quello della quiete fredda (linea orizzontale). In tal modo la forma del quadrato è la forma più pura della superficie di fondo, in essa freddo e caldo si compensano reciprocamente. La superficie di fondo è suddivisa in quattro regioni, quattro tensioni: sopra e sotto, destra e sinistra. «Il sopra suscita l'immagine di una maggiore scioltezza, un senso di leggerezza, di liberazione, e, in definitiva di libertà»[cclxi][261]. «Il «sotto» ha un effetto del tutto opposto: condensazione, pesantezza vincolo»[cclxii][262]. I due margini verticali sono posti a destra e a sinistra. Essi sono tensioni il cui suono interno è determinato dalla quiete calda e per questo sono affini all'ascesa. Essi però non sono identici. Essi sono pensati da Kandinsky in base al rapporto che la destra e la sinistra hanno nel corpo dell'uomo, solo che sono invertiti, perché non sono decisi in funzione dell'osservatore, ma come se avessimo di fronte un essere vivente con la propria destra e la propria sinistra. Ebbene: «la parte sinistra» della superficie di fondo ci dà un'impressione di maggiore scioltezza, un senso di leggerezza, di liberazione, e, infine di libertà»[cclxiii][263]. La differenza rispetto alla posizione dell'alto sta solo nella gradazione di questa proprietà. La «destra» invece «è, in un certo modo, la continuazione del «sotto» - continuazione con lo stesso indebolimento. La condensazione, la pesantezza, i vincoli diminuiscono, ma ciò nonostante le tensioni urtano contro una resistenza, che è maggiore, più compatta e più pura della resistenza della sinistra»[cclxiv][264].
In tal modo Kandinsky completa gli elementi essenziali di quest'arte cosmica. Ogni figura raccolta in questa superficie è condizionata dalla prossimità e lontananza di queste quattro regioni, cioè dalla riverberazione dei loro suoni interni. Ogni cosa è per così dire inscindibilmente condizionata da queste Voci tra loro in lotta, ma solo per questa dimensione originale ogni cosa assume il suo essere. Esisteranno allora cose più o meno fredde, pesanti, vincolate e cose più o meno sciolte, leggere, libere; ma solo perché esse sono raccolte in questo quadrato (mondo) che dona il loro essere. Lo stesso movimento verso sinistra (condizionato dall'alto: cielo) e verso destra (condizionato dal basso: terra) non è più insignificante: andare verso sinistra, verso la leggerezza, vuol dire andare verso la lontananza, verso l'estraneo (il fuoco celeste); in questa direzione l'uomo si allontana dal suo ambiente naturale, dalla terra. Andare, invece, verso destra vuol dire movimento verso casa, esso porta verso la quiete, la terrestrità, la mortalità. Il gioco dell'opera, del suo mondo, si dispiega in un continuo movimento verso l'alto (cielo, divini) o verso il basso (terra, mortali), verso sinistra o verso destra, ogni cosa è per così dire posta in gioco da queste quattro Voci silenziose, fatte risuonare in sintonia con esse. Ma queste Voci, a loro volta, possono risuonare solo perché sono originariamente appropriate-espropriate tra loro nell'Ereignis, senza cioè questo reciproco coappartenersi esse stesse non potrebbero mai risuonare, mai lottare per essere.
Questa lotta originaria Kandinsky la dipinge, Heidegger la rammemora.