Il corpo narrante.
Incontro con Ermanno Cavazzoni (Parol 14, 1998)
Nanni- All'interno della serie dei nostri incontri con i protagonisti nel campo dell'arte, ho il piacere di ospitare lo scritore Ermanno Cavazzoni. Scrittore noto non solo in Italia, ma nel mondo. I suoi romanzi sono ormai tradotti in molte lingue, compreso il giapponese. La sua multi-medialità poi non guasta al D.A.M.S. Anzi, ce lo rende ancora più interessante. A suo tempo collaborò, infatti, con Fellini alla realizzazione del film La voce della luna liberamente tratto dal suo primo famoso romanzo, Il poema dei lunatici, edito nel 1987 da Boringhieri; editore con il quale ha publicato anche Le tentazioni di Girolamo (1991) e I sette cuori, un " divertimento verbale" su Cuore di De Amicis, scritto in collaborazione con un gruppo di suoi allievi all'Università. E questo è l'altro volto di E. Cavazzoni scrittore, grande espero di linguaggi bassi, franti e maccheronici, ma anche docente di estetica, antropologia filosofica e retorica presso la nostra Università e quella del progetto a Reggio Emilia. Successivamente è passato alla Feltrinelli, con cui tra l'altro ha pubblicato un altro romanzo Vite bevi di idioti ( 1994 ) e la rivista trimestrale " Il semplice " che tuttora dirige con Gianni Celati e Stefano Benni. Alcuni anni or sono Cavazzoni è già stato ospite dei miei corsi di estetica col compito mirato di esplicitare la sua poetica di scrittore. Oggi, invece, l'ho invitato a parlarci di quella della rivista " Il semplice ". Anche questa rivista, come ogni altra rivista che si rispetti, è guidata da un'idea circa l'arte di cui si occupa, nel caso un particolare tipo di scrittura narrativa molto marginale e trasgressiva rispetto alla letteratura ufficiale, e quindi in senso proprio da una poetica, appunto, di cui Cavazzoni ora ci parlerà. Anche se, chiaramente, essendo questa rivista una sua creatura, difficilmente riuscirà a scinderla dal suo lavoro di scrittore. Cosa, per altro, che nemmeno noi ameremmo facesse. Per carità ! Ma credo sia ormai ora di lasciare a lui la parola.
Cavazzoni- Questa parola: "poetica", molto in auge qui a Bologna, introdotta legittimamente da Luciano Anceschi, che è un po' stato il vecchio capo tribù degli insegnamenti di estetica qui dentro, è una parola che ha avuto una certa importanza, soprattutto perché si è contrapposta a quelle che erano le poetiche istintuali, cioè di coloro che facevano, senza avere alcuna idea di quello che facevano. Ecco io mi trovo molto in imbarazzo, proprio perché le poetiche ( cioè le dichiarazioni teoriche che fanno gli autori sulle ragioni del loro fare, sul perché fanno una certa cosa) sono un fatto estremamente inibente; lo dico perché c'è stata una specie di ipertrofia delle poetiche, soprattutto agli inizî del Novecento, legate alle cosiddette avanguardie, a tutti voi note, dadaismo, surrealismo, futurismo (in Italia abbondante); ecco, il guaio di queste scuole di letteratura o di pittura, era che hanno prodotto in prevalenza teorie e intenzioni; le loro riviste erano in larga parte delle riviste in cui si diceva cosa si dovrebbe fare in letteratura, quali intenzioni aveva l'autore. Ma i testi nati da queste riflessioni erano scarsi, molto scarsi, o erano molto (a me viene da dire) artificiali, fatti sulla base di un programma; e una cosa fatta sulla base di un programma è sempre una cosa un po' disgraziata; questa è la mia personalissima opinione, proprio perché diventa fredda, ghiacciata. Ci sono esempi più semplici di intenzioni calcolate nei particolari che rendono ghiacciato il risultato, anche nei rapporti umani, nei rapporti amorosi; pensate a Woody Allen: non so se avete visto quel film parodico Provaci ancora Sam?, in cui tutte le sue intenzioni verso la signorina del film, sul modello di Humphrey Bogart, diventano un imbranato comportamento proprio perché non è dettato da una sorta di naturalezza dei sentimenti, ma è dettato da un modello lì presente: fare la parte di Humphrey Bogart. Ecco, questo caso lo si può estendere a tutto quel fenomeno che è l'espressione artistica, dove certo le teorie esistono, ma quando sono troppo dichiarate, quando sono troppo sbandierate, quando precedono ogni prodotto artistico diventano una sorta di potenti inibitori.
Nanni- È anche vero che Anceschi, tu lo sai, parla di poetiche implicite; ho infatti l'impressione che non si possa ridurre la riflessione di Anceschi alla poetica esplicita, perché Anceschi parla anche di una poetica interna all'opera, mai detta, mai dichiarata dall'autore e quindi in un certo senso adesso lo difenderei, dicendo che ha previsto anche la poetica di cui tu parli. E in un altro senso direi che comunque una decisione è inevitabile per far qualche cosa e che quindi un progetto consapevole o inconsapevole esiste sempre, naturalmente congettutabile sltanto. A partire dall'opera si può sempre tentare di individuarlo. Magari si è modificato nel corso del farsi dell'opera stessa, ma chiusosi definitivamente alla fine, nel momento in cui l'opera viene consegnata al pubblico. Il progetto si chiude con l'opera e ciò necessariamente può essere implicito e inconsapevole, questo sì; diciamo che sono d'accordo con... ma poi non è che noi dobbiamo essere d'accordo o non essere d'accordo: l'importante è che gli studenti comprendano che c'è tutta una problematica sotto che ha a che fare col produrre l'opera, che ha a che fare col pensarla, col sentirla, che ha a che fare col decidere e detto tutto ciò penso anch'io che nel Novecento ci sia stata una sorta di enfasi della progettazione ( tra l'altro tu stesso insegni in un corso universitario che, come ho già detto, ha come progetto il progetto ), questo senz'altro, ma da questo a buttar via con l'acqua sporca anche il bambino ce ne corre. Ecco, l'acqua sporca può essere l'elefantiasi di questa progettualità ecc., il bambino è sicuramente l'inevitabilità del progetto, conscio o inconscio che sia, perché l'apparire di una cosa implica il suo pensamento, inevitabilmente.
Cavazzoni- Per questo dico che quando dentro l'università (io stesso, come tu hai ben precisato, ne faccio parte) ci si mette a guardare un testo letterario, una delle cose che si intende spesso rintracciare sono i fili razionali, e intenzionali, dentro l'opera. Una cosa, però, è l'osservazione accademica, lo studio; altra cosa è fare, produrre un testo letterario, un racconto, un quadro. Ecco, bisognerebbe essere un po' due persone scisse, se uno fa questo mestiere, come lo è forse Luciano Nanni, anche lui probabilmente molto scisso tra un'attività di riflessione....
Nanni- Io, tra un po', ti strozzo. Adesso lasciami parlare, giacché il dialogo può diventare interessante ( forse...): tu pensi che io sia scisso?
Cavazzoni- Molto.
Nanni- Dunque ragazzi, divertiamoci un po'. Allora, l'idea della scissione presuppone l'ipostatizzazione di un io monolitico, l'identificazione dell'individuo con un io ben costituito, perché soltanto se si presuppone la presenza in noi di un "io" così fatto si può pensare ad una sua scissione, ma togliete di mezzo l'idea che ci sia sotto un unico io e la scissione scompare, perché di fatto si assisterebbe ad una sorta di fenomenologia di persone diverse. Pirandello, in qualche modo, ha già riflettuto su questo, ma poi io, caro Ermanno, direi questo: questa idea che ci sia un'unità di fondo è poi una costruzione culturale e da dove viene? Viene dall'idea... ora io non ho niente contro la pluralità delle culture ( passo addirittura per un suo sostenitore ), mi limito scientificamente a constatare che ci sono culture dove l'identità non è affatto pensata in questo modo. Diciamo che nella cultura occidentale l'dea (anche cristiana), che ci sia un'anima, un intervento anche divino, per cui io sono quello e nessun'altra cosa, porta poi a pensare che ci sia una scissione se io appaio funzionalmente con identità diverse. In verità io potrei essere altrove ( io sono un altro, ha ben detto qualcuno ), cioè potrei essere qui e altrove, non è matematicamente, scientificamente detto che chi si manifesta in diversi modi sia scisso, può essere appunto pensabile come qualcosa che si costituisce volta per volta nella pratica, a partire dal vuoto, a partire da un essere vuoto; in fondo l'ultimo Heidegger qui qualcosa potrebbe aver detto, per cui non è detto... sentiamo ora se Cavazzoni dice ancora che son scisso. Se lo riafferma nonostante tutto, beh, allora, mi adeguo!
Cavazzoni- Io credo che sia una gran fortuna essere scissi. Spero che siate tutti un po'scissi; però c'è una certa resistenza a dirsi divisi in due, certo non c'è un io monolitico; dopo Cartesio queste cose nella filosofia sono state un po' abbandonate; ogni persona ha nella testa una specie di formicaio dove ogni formica va a tentoni a destra e sinistra e quindi non si tratta solo di due io, ma c'è una specie di società interna all'anima; questa sorta di moltiplicazione entro la mente di una persona è una cosa su cui si è riflettuto nel Novecento e che forse corrisponde ad un'esperienza che tanti costantemente hanno. A parte però questo, spesso ci sono campi in cui è illegittimo essere scissi; per esempio c'è chi dice: "bisogna essere onesti, guai a chi ruba !"e poi sotto banco costui ruba. Di politici così ne abbiamo molti attorno e questo è uno scandalo; come può costui essere scisso, parlare contro i ladri ed essere ladro? Allora lo si mette in prigione o comunque, a parte la prigione, si è un po' indignati verso tale atteggiamento; e questa scissione, se ci pensate, è quello che intendevo dire prima, è quello che accade quando una persona fa il teorico della letteratura, fa un discorso che vuole essere vero, scientifico, da un lato; e dall'altro fa della letteratura, della poesia, che è pura e semplice finzione, cioè è come un bugiardo. Quindi io dico che una persona è scissa se fa il teorico e l'autore letterario; è al tempo stesso un bugiardo e un veritiero. Ora il dire le menzogne letterarie non è certo come rubare i soldi dello stato o rubare soldi al prossimo; esiste un campo di legittimità nella nostra società in cui dire queste menzogne ( ma per Platone sembra non fosse ammesso mentire neppure con le opere letterarie). Succede allora che quando la teoria è troppo presente, Questa parte teorica si fa molto invadente e grava sul mentitore, il mentitore diventa una sorta di mentitore su commissione. Se la sinistra dell'autore (la sinistra come mano legata all'emisfero creativo) è troppo ubbidiente alla destra, non sarà più originale e sorprendente (parola importantissima nelle cose letterarie) non sarà più un sorprendente mentitore, ma un mentitore su commissione, un esecutore; quando la parte destra, razionale, intenzionale, è troppo invadente, occorre la scissione, che fortunatamente trovo anche in te Luciano...; se l'intenzione è troppo presente diventa un forte inibitore. Accade anche nella vita quotidiana: quando i comportamenti, che si danno come spontanei, diventano calcolati danno come risultato una persona assolutamente meccanica; se per esempio uno camminasse qui davanti a tutti, penso che osserverebbe i propri passi e sentirebbe gli occhi degli altri che gli guardano i passi e i suoi passi diventerebbero "artificiali".
Nanni- Tu vorresti dire che il teorico Nanni occulta il creativo Menetti?
Cavazzoni- Non vi sembra scisso uno che al tempo stesso si chiama Luciano Nanni e Nanni Menetti?
Nanni- Bisogna distinguere tra i soggetti empirici, che sono i corpi, e i soggetti funzionali, che sono i soggetti logici delle diverse pratiche in cui uo stesso corpo può entrare. Così, nel caso mio, per dare corpo, diciamo così, a questa corporeità diffusa, ho ritenuto proprio di usare un altro nome nel momento in cui questo corpo entra in un'altra pratica. Quando questo corpo entra in un'altra pratica, in una pratica primaria, che cioè produce opere visive, in questo caso, si chiama Nanni Menetti. Al limite un giorno io inviterò Nanni Menetti come artista qua dentro e lo interrogherò, farò con lui ua specie di dialogo tra ignoti. Non è infatti che lo conosca molto bene, anche se abita dentro a questo stesso corpo che, a questo punto, non posso più dire mio ma nostro, anche perché secondo me non subisce molto l'influenza di Luciano Nanni; se ne infischia proprio, quindi la mia esperienza è tale da poter affermare che si può tentare di essere puramente teorici e nello stesso tempo avere dei desideri pratici fortissimi e quindi praticarli: le due cose possono funzionare insieme benissimo. A questo proposito c'è un aneddoto. Raccontavo tempo fa a questi miei studenti che l'anno scorso venne in studio un giovane poliziotto e cortesemente mi invitò a parlare a un loro convegno. Io risposi che non avrei saputo che cosa dire ai poliziotti e lui mi rispose di non preoccuparmi, perché qualsiasi cosa avessi detto sarebbe andata bene. Mi disse che mi conosceva, che conosceva alcuni miei libri e che quindi ne aveva dedotto che avrei sicuramente detto cose interessanti anche per la polizia. Lusingato, lo ringraziai e rimasi in attesa dell'ispirazione. Una mattina, tre o quattro giorni prima che ci fosse il convegno, andando al bar, ho aperto il giornale e ho letto: "Stimato professore di lettere arrestato perché sequestra la moglie". E ho capito cosa sarei andato a raccontare ai poliziotti. Così andai a porre loro questo problema: un sano arresto, un giusto arresto dovrebbe esser tale da arrestare il marito geloso che sequestra la moglie, ma da lasciare libero lo stimato professore di lettere, che non c'entra niente e il convegno a me parve veramente animarsi. Ci si cominciò collettivamente a chiedere come fosse possibile mettere in galera il marito e lasciar libero il professore che abitano nello stesso corpo e così via. Vengono arrestati dei corpi, non dei soggetti funzionali e ogni arresto è in qualche modo debordante rispetto alla colpa, perché arresta anche dei soggetti che non c'entrano niente; in questo senso penso alla pluralità dei soggetti e delle funzioni. Quando parliamo dell'artista che produce l'opera e poi magari parliamo dell'artista che parla dell'opera, noi pensiamo che si tratti della stessa persona, perché ha lo stesso corpo. Di fatto tale corpo entra in due funzioni del tutto diverse, perché quando produce l'opera attiva la funzione artistica, che all'interno di una certa cultura obbedisce a certe legalità, e quando legge o interpreta la sua opera attiva la funzione critica; funzione che può darsi che, anche nella stessa cultura, obbedisca ad altre regole, ad altre legalità. Non si può a mio parere attribuire la stessa identità ai due soggetti; se lo si fa si cade in quella che Kant chiamava allucinazione trascendentale, dove un fenomeno viene indebitamente ridotto a verità totale, a essenza. Detto ciò, caro Ermanno che si fa? Si parla dei tuoi romanzi o del "Semplice"? Il "Semplice" da dove viene?
Cavazzoni- Il tema del doppio io, nella letteratura dell'Otto-Novecento, ha prodotto delle cose bellissime, una famosa è il Dottor Jekill e Mister Hyde; però tutti questi racconti che raccontano un grande mito della contemporaneità, il mito del doppio, producono a colui che si sdoppia dei guai terribili. In un libro di Dostoevskij, tradotto in italiano come L'altro io o Il sosia, al Signor Goljadkin scorge davanti a sé un gemello, un altro lui stesso, il quale, in certe delicate situazioni, produce un comportamento di maniera che mai vorrebbe avere, e anche lì finisce con l'autoambulanza che lo porta alla neuro.
Dunque, Luciano Nanni mi aveva invitato a parlare di questa piccola rivista, l'idea della quale è nata da me, Gianni Celati e Stefano Benni; e la rivista aveva proprio l'idea, piccolo paradosso, di non avere idee. La parola "semplice" è stata pensata in due sensi: prima di tutto c'era un particolare amore in chi l'ha fatta nascere per la prosa "semplice"; è sempre difficile da indicare quale sia la prosa semplice, ma ci sembrava fosse la prosa che non adotta il modo di scrivere che a noi veniva da chiamare il "letterariese", analogo ad un'altra lingua che possiamo chiamare il "traduttorese". Se leggete certi romanzi americani tradotti in italiano, spesso le traduzioni sono cattive ( ma ne esistono anche di molto belle) e le traduzioni cattive sono un po' tutte uguali, in un italiano improbabile, che nessuno parla; ci sono autori italiani che imitano questa lingua che è un calco dell'americano. Analogamente esiste un modo di scrivere letterario che è il "letterariese", come esiste lo stile burocratico, "il burocratichese": se dovete fare una domanda d'ammissione all'università, ecco, non siete voi a parlare, avete prodotto un secondo soggetto parlante, usate cioè quel linguaggio improbabilissimo che dice "il sottoscritto, etc. etc., frequentante il secondo, etc. etc."; conoscete questo stile, lo sapete adottare, è uno dei gerghi della lingua italiana, ne esistono tanti; uno di questi è anche il gergo letterario; a volte, quando si legge una riga di prosa letteraria, si riconosce istantaneamente che colui che l'ha scritta aveva l'intenzione, lì già dalla prima sillaba, di scrivere qualcosa di "letterario", e questo è un gergo, una sorta di scivolamento verso il desiderio di farsi riconoscere come autore letterario; è come se fosse una sorta di segnale: "qua si sta scrivendo in forma di finzione letteraria". Ecco, il modo a me non gradito di scrivere. A scuola, quando si faceva il tema in classe, si dovevano esporre certi sentimenti, certi argomenti, un certo modo corretto, scolastico, di parlare, che poi per il resto della vita nessuno avrebbe mai più avuto occasione di adottare. E un po' le cose letterarie hanno spesso questo vizio, dico vizio perché non mi piace molto (altri possono dire virtù), di farsi riconoscere in quanto appartenenti ad una cerchia letteraria; ecco, questa era la cosa che si voleva un po' evitare. Poi, in secondo luogo per spiegare sempre il titolo della rivista, i semplici erano le erbe medicinali; la parola deriva dal latino "medicamentum simplex", le erbe che i frati coltivavano negli orti, per scopi curativi, le erbe curative, che nella terminologia medica erano diventati i semplici. C'era la volontà di sottolineare la virtù medicamentosa delle cose letterarie; le cose più felici letterariamente non sono quelle che nascono dal desiderio di voler apparire, far circolare il proprio nome (questi spesso sono dei guai). Sia leggere che scrivere spesso hanno una funzione guaritiva, un po' aiutano a guarire; mi ricordo certe lunghe influenze, erano le epoche più belle per leggere, quando si era convalescenti per una settimana e si leggeva un libro e sembrava di guarire per virtù del libro. Queste ovviamente sono intenzioni, quella che si potrebbe dire una poetica. Ma un titolo: come quando si dà un nome ad un figlio; lo si chiama in un certo modo, perché gli si vuole augurare qualche cosa; si vuole, per esempio, che somigli allo zio Mario e allora lo si chiama Mario. Ecco, dare il nome ad una rivista è augurarle qualcosa.
Le cosiddette riviste letterarie sono molto utili, anche se poco lette ( cosa daltronde abbastanza naturale, anche Nanni fa una rivista di tipo letterario...) ecco, le riviste letterarie hanno il grande merito di stampare gli scritti brevi, che non avrebbero altro luogo ove apparire; spesso le prime prove, le prime scritture che uno può mettere insieme (se uno ha questa passione), sono cose brevi, frammentarie, e il luogo più naturale è appunto la rivista. Che hanno tutte vita difficile; con gli editori, perché la vendita è sempre abbastanza contenuta. Abbiamo pubblicato questa rivista con Feltrinelli; faremo uscire ancora il sesto numero, dopo di che questo primo capitolo della rivista finisce: è l'ultimo numero che facciamo (chi sa poi se riprenderemo).
Posso leggervi brevemente qualcosa per darvi appena l'idea del tono. Una delle cose a cui tenevamo, che io apprezzo molto nelle faccende letterarie e con me Celati e gli altri, è lo stupore, uno degli elementi in un testo letterario più forti, più importanti: suscitare un certo stupore, una certa attenzione, una certa sorpresa; l'altro elemento è una leggera comicità; io sono personalmente convinto che i testi cosiddetti riusciti ( e riusciti sono poi quelli che piacciono a me) sono necessariamente e sempre leggermente comici; la riuscita di un testo scritto produce un sotterraneo e inevitabile riso, un riso che si estende dal semplice sorriso di piacere per ciò che si sta leggendo ad un riso vero e proprio per le sorprese che le parole presentano. La caratteristica di questa rivista è di non avere parti teoriche, se non ridotte al minimo, ma di avere testi letterari, racconti, narrazioni; tutto quanto è organizzato in una sorta di erbario, che classifica, come gli erbari classificano le erbe, per generi. Se prendete in mano un manuale o un trattato di retorica prima dell'Ottocento, i testi letterari venivano classificati in: descrizioni, brani storici, allocuzioni, etc. etc. Abbiamo provato anche noi a fare delle classificazioni, ma un po' scervellate, che vanno dal tematico al generico, cioè all'indicazione di genere. Vi provo a leggere queste ipotetiche classificazioni; in ogni numero della rivista c'è un elenco di generi possibili, cioè cosa ci piacerebbe trovare; racconti che debbono essere ancora scritti, ma che ci piacerebbe trovare scritti:
Storie di pugili che prendono tutto alla leggera; monologhi sull'arte di far la polenta; letture dai manicomi filosofici; atei che parlano a favore di Dio; popolazioni poco umane; visioni allucinazioni teorie cosmiche; personaggi storici non passati alla storia; frammenti di estasi; stoici a cui viene l'ulcera; prose che manifestano almeno un po' di ribrezzo per la parola io; contra academicos; ritratti di grandi balordi; scritti solo per dar noia a qualcuno; gelosie, furiosi discorsi che vanno avanti come cani randagi; tristi casi sessuali di critici che vedono il sesso ovunque, perfino in Freud; inchieste etnologiche sui più celebri critici delle capitali; istigazioni a delinquere; convegni per decidere questo problema: come si può scrivere dopo Pulp Fiction?; scrittori che a sentire tali parole spaccano il tavolo e la biro; giudizi iracondi su opere famose; storie di sposati che sperano nella guerra atomica; testamenti di moribondi infuriati; elenchi del telefono di città inesistenti compilati per puro piacere; storie di sguatteri e di cuochi che non hanno il senso della misura; racconti in cui piova per tutta la prima riga poi venga il sereno; racconti dove un critico fa la calza; racconti che subito non fanno impressione ma poi tornano in mente tutta la notte; politici esasperati dalla politica, ragionieri esasperati dalla ragione, gasisti esasperati dal gas, critici esasperati dalla letteratura; ricordi d'infanzia quando si diventa un po' appassiti; racconti in cui uno scoppia di salute; gente che parla sempre come se fosse al balcone; riunione in cui tira un vento freddo del nord che rende tutti muti e menefreghisti; parole dette contro le autorità comunali in cui compaia non si sa come la parola asino; discorso in cui si chiarisca finalmente perché in una popolazione ogni tanto qualcuno si proclama critico e qualcun altro ci crede.
Questo è un piccolo esempio di generi, ovviamente leggermente parodici. Ci sono autori più noti che hanno scritto su questo almanacco; cito i più noti perché forse li avete già letti; oltre Celati, Luigi Malerba (spero che abbiate letto o vi auguro di leggerlo qualche suo libro), Ginevra Bompiani, Stefano Benni ( che ho già citato), Paolo Ruffilli, Roberto Benigni, Aurelio Grimaldi ( che forse conoscete, ha scritto alcuni romanzi, ha fatto alcuni film, che a me piacciono), alcuni autori irlandesi Tony Cafferky, Flan O' Brian (morto alcuni anni fa e forse avete letto un suo meraviglioso libro intitolato Il terzo poliziotto, è uno dei più eccellenti autori del Novecento), Tabucchi (credo molto noto). Poi ci sono autori scomparsi di cui abbiamo pubblicato pezzetti sia editi che inediti o non più trovabili, ad esempio Antonio Delfini, di Modena, che io amo particolarmente perché è un autore (cosa tipica del Novecento) che per tutta la vita ha cercato di scrivere "il libro", ma non l'ha mai scritto; c'è una bellissima sua prefazione dove se la prende con tutta la città di Modena e con tutto il sistema letterario italiano che non gli ha permesso di scrivere nulla, e, con questo soliloquio pieno di lamentele di protesta scrive uno dei pezzi più belli che ho mai letto: l'introduzione ai Racconti della bassa. Poi abbiamo pubblicato cose di Giorgio Manganelli, un autore, mi accorgo, poco conosciuto, morto alcuni anni fa, che ha scritto libri straordinari che vi invito a leggere; alcuni dei libri di Manganelli quasi non sono leggibili tanto sono itricati, ma si resta lo stesso ammirati dopo alcune righe per quello che gli salta fuori dal cervello; ma leggete Improvvisi per macchina da scrivere,una raccolta di suoi brevi scritti usciti sui giornali, fa proprio ridere; leggete Centuria, cento, lui dice, brevi romanzi fiume. Di Henri Michaux abbiamo pubblicato alcune cose ancora inedite in Italia; poi abbiam pubblicato cose di Federico Fellini; di Ghizzardi, che aveva scritto un libro intitolato Mi richordo anchora, col "ch", una specie di maccheronico. Questo per darvi l'idea di un gusto, che la rivista indubbiamente segue. Ho nominato Giorgio Manganelli, vi leggo l'inizio di un suo scritto; ve lo leggo per fare propaganda a Manganelli affinché vi venga voglia di leggere i suoi libri. E' l'inizio di un suo romanzo, oggi, introvabile, intitolato Sconclusione, che abbiamo ristampato nell'ultimo numero della rivista.
Con calma, lentamente, rimisi mio padre nel cassetto. "Non mi lasci mai fuori la sera" si lamentò, con quel suo fare cruccioso e villano, che per un istante mi diede fantasia di stritolarlo pian piano nella mano, farmene colare il sangue di pipistrello per le mani. Gli risposi con calma; da piccolo, ho studiato con i Fratelli Cristiani.
" Lo sai che ti fa male". Tacqui. " Sei vecchio", aggiunsi affettuosamente, " presto sarai morto comunque; allora ti metteremo a putrefarti sugli alberi, tra le belle foglie dell'ippocastano".
" Sì, tel chi l'ippocastano!" disse mio padre con quella sua voce milanese, odiosa e codarda. "Anche l'altra volta me l'avevi promesso, poi me l'hai messo nel culo, l'ippocastano ".
Rabbrividii. Quando avevamo circa la stessa età, ma io ero insieme più forte e più incauto perché ero morto un minor numero di volte, spesso mi accadeva di percuotere selvaggiamente mio padre per ore, con cinghie, bastoni, grossi chiodi, vetri rotti, specialmente sulle gengive e sui genitali, che egli ha grandissimi, e che ama dipingersi in modo esibizionistico. Lo picchiavo perché bestemmiava, facendo soffrire mia madre e, in breve, tutto il suo discorso non era che un turpiloquio immondo, tanto che districare il senso da quel suo orrendo vaniloquio era impresa angosciosa. Feci, sperma, Dio, orina, empietà da suburra accerchiavano qualunque sua frase, anche povera e inetta.
Ecco la meraviglia della parola; apprezzo Manganelli proprio per la meraviglia ad ogni riga, quando lo si legge; resto sempre stupefatto di come gli escano queste contaminazioni, veri e propri deliri, che gli prendono la mano e lo portano non sa neanche lui dove. Cos'altro possiamo fare?
Nanni- Vorrei sentir qualcosa di tuo: tu hai letto delle tue cose in giro e puoi farlo anche qui. Per gli studenti sarà un dono e credo che saranno contenti.
Cavazzoni- Posso leggere alcuni brevi pezzetti intitolati Gli scrittori inutili:
Due scrittori in riva al mare giocavano con la sabbia e il secchiello.C'era un terzo scrittore nei pressi che scavava con una paletta, e un quarto stava nell'acqua fino ai ginocchi contemplando le increspature del mare. Lontano, dove finiva la sabbia, un quinto scrittore succhiava un gelato.
"E' ora di scrivere!" gridava a un certo punto l'assistente sociale suonando allegramente una campanella. Al che tutti si alzavan festosi. Alcuni che erano in mare con il salvagente tornavano a riva; e così pure chi era tra gli scogli a guardare le alghe. " Avete fatto le osservazioni ? " chiedava l'assistente sociale. "Sì" rispondevano gli scrittori in coro.
"Anch'io le ho fatte " diceva in ritardo uno scrittore più basso ancora tutto bagnato. Al che ridevano tutti e anche lo scrittore più basso rideva.
Poi entravano dentro la casa. " I vestiti" diceva l'assistente sociale, " non si scrive senza i vestiti". Qualcuno si metteva la giacca, qualcuno restava in camicia o in maniche corte, secondo la provenienza e l'età. Poi tutti scrivevano. Non si sentiva volare una mosca. L'assistente sociale poteva lasciarli da soli. Ognuno aveva il suo angolo prediletto: vicino alla luce, o in piedi, o su una sedia in cucina, o con dei tappi alle orecchie, o alla fibnestra, o gomito a gomito con qualcun altro. Verso sera gli scritti venivan raccolti. " Metteteci i nomi!", diceva l'assistente sociale, " e la data !" Venivano messi in una cartellina di plastica e lasciati lì, ammonticchiati sopra un armadio. Nessuno il giorno dopo ci pensava più; tornavano al mare, e non risulta che ci abbia mai più pensato nessuno.
Ve ne posso leggere un secondo, sulle scuole di scrittura:
Uno scrittore diventato famoso e tradotto anche all'estero aveva aperto una scuola. " Se non si soffre", diceva agli allievi, "non si diventa scrittori.". Perciò, d'accordo con loro, li malmenava. Distribuiva schiaffi continuamente o noci in testa, poi diceva: " Va' a scriverlo!" Gli allievi lo andavano a scrivere: " Oggi ho preso due noci; oggi ho preso uno schiaffo, mi rintrona ancora la testa". Poi glielo facevano leggere. "Non basta!" diceva e si metteva a distribuirne degli altri. "Scrivete" diceva "scrivete!" e li inseguiva su per le scale con una bacchetta. Se ne prendeva uno lo trascinava per un orecchio dicendo: "Hai scritto?" e gli bacchettava le dita, finché l'allievo gridava: " ho scritto, ho scritto !"; e gli faceva vedere un misero foglio che lui non guardava neanche. "E questo sarebbe uno scritto ?", diceva, e gli continuava a tirare l'orecchio o il naso perché gli altri sentissero e vivessero nella sofferenza e nella paura, che per uno scrittore è indispensabile.
La scuola continuava così per dei mesi. Alcuni allievi pensavano di non essere adatti e si ritiravano. Gli altri, che volevano veramente diventare scrittori, erano pieni di lividi e tumefatti, con le orecchie gonfie e bernoccoli per via delle noci e anche perennemente affamati ( questa è un'altra fondamentale esperienza ). A questo punto cominciavano a circolare dei foglietti pieni di insulti allo scritttore. Lui non li leggeva, ma glieli faceva mangiare, perché diceva che di sicuro erano indegne sciocchezze in quanto non avevano sofferto abbastanza.
Nel secondo semestre gli allievi che erano rimasti pensavano di uccidere lo scrittore maestro, tanto era l'odio; e si sfogavano con dei biglietti anonimi che lasciavano in giro. " Tu sei peggio di Satana", scrivevano. Oppure: "Tu sei Satana e questo è l'inferno" oltre che epiteti diffamatori, come " Carogna, impotente, cornuto". Scrivevano anche degli indovinelli: " Chi è il re delle carogne ? Chi è il castrato qui dentro ?". E scrivevano anche ritratti dequalificanti dello scrittore, del quale notavano tutto: la puzza, i denti, l'occhio di vetro, e ne deducevano la vita grama, e l'infanzia di rana velenosa. Lo scrittore non leggeva o faceva finta di niente, ma quando poteva prendere qualcuno gli schiacciava le dita in un uscio.
Ogni tanto si presentavano i genitori a riprendersi un figlio. "Non è obbligato a diventare scrittore" rispondeva alle lamentele. Non sempre restava qualcno fino alla fine dell'anno. Anzi la scuola quasi sempre doveva chiudere molto in anticipo. Se restava qualcuno era perché era orfano, ad esempio. O perché a casa la madre era prostituta e il patrigno alcolizzato e violento, o perché i razzisti lo perseguitavano o perché era un apolide indesiderato e senza fissa dimora.
Questi rari casi di individui a-sociali, angariati dalla vita, dallo stato e poi dalla scuola, scrivevano a volte in segreto qualcosa che era una maledizione così spavetosa contro lo scrittore, contro la sua scuola, contro la vita e contro lo scrivere, che quando cadeva in mano dopo una perquisizione allo stesso maestro scrittore l'allievo veniva subito promosso e molto onorato. Erano casi fortunati, ma assai rari. Ne era capitato uno. Lo scrittore diceva che statisticamente era moltissimo.
Dibattito
Studente- Visto che si notano affinità tra lei e altri collaboratori della rivista, quali sono le divergenze tra i vari tipi di scrittura, tra lei e Benni per esempio?
Cavazzoni- Benni è un amico ed è un autore molto apprezzabile nel panorama italiano, se non altro è comico, cosa molto rara; generalmente ci si prende molto sul serio nel campo delle cose letterarie; quanto alla divergenza, Benni è come se avesse un pubblico abbastanza individuato ( questa è la mia impressione); è come se parlasse e scrivesse per una fascia d'età tra i quindici e i venti anni, come se coltivasse un pubblico che a me verrebbe da dire adolescenziale. Questo non è un dato né negativo né positivo, è una sua caratteristica. Questo non è esattamente il pubblico a cui si rivolge la rivista, anche se è difficile parlare di un pubblico a cui ci si rivolge. Benni ha scritto cose per questa rivista che mi piacciono.
Studente- Io mi sono accorto di una cosa, e cioè che quello che vi accomuna è un senso d'assurdo quasi.
Cavazzoni- Certo, perché lo scontato, il non assurdo è poco sorprendente; anche Frassineti, e altri autori che vi ho citato, sono autori vicini (sì, si può dire) all'assurdo, ma l'assurdo verosimile (in questo momento non so meglio definirlo), il gusto per l'eccesso, per la situazione impossibile, ma che diventa narrabile. Per questo io dico che siamo parenti e Benni ha collaborato a questo almanacco, proprio perché anche lui riconosce una sorta di parentela, di amicizia letteraria.
Studente- In questo c'è una certa visione della realtà, in questo voler creare delle situazioni paranormali, quasi; cosa che alcune volte in Benni c'è; alcune volte ci sono in Benni situazioni vicine alla realtà, ma ssurde; c'è una visione della realtà che vi accomuna?
Cavazzoni- La realtà non so bene cosa è, le cose letterarie sono cose che producono delle realtà e quindi la realtà viene dopo la cosa letteraria (generalmente mi viene da pensare così). Benni produce dei mondi fittizi, che hanno le caratteristiche che lei diceva, cioè l'assurdo, e il comico, perché il comico accompagna sempre Benni, un comico caratterizzato dal modo di ridere adolescenziale, che può essere anche molto bello.
Nanni- Si potrebbe forse dire che Benni ha una valenza, una tendenza più marcata politicamente, mentre forse Cavazzoni lavora più su una sorpresa di carattere cognitivo e antropologico; mentre, infatti, faceva l'elogio della meraviglia, pensavo che se andiamo a cercare la ragione per la quale la scienza è nata e continua da Aristotele a Rubbia, troviamo che la sua la molla è la sorpresa; la sorpresa non è, allora, solo dominio della pratica ( un'esperienza che soddisfa solo a livello primario), nel nostro caso dell'arte, ma è ciò che gratifica anche a livello secondario cioè della ricerca scientifica. Quando Rubbia ha vinto il premio Nobel e gli hanno chiesto perché fa quelle ricerche che fa, ha risosto " perché sono curioso e quindi ho bisogno di alimentare la mia sorpresa, la mia curiosità"; concetto già aristotelico: alla base della ricerca scientifica c'è la curiosità. Ecco ho l'impressione che il fine del narrare in Cavazzoni abbia più questo back-ground, questo sfondo di carattere antropologico, al di là delle singole ideologie, mentre ho l'impressione che Benni abbia una vis ideologico-politica più marcata.
Cavazzoni- Benni è molto caratterizzato dalla satira, particolarmente la satira verso la politica o il costume; la satira ha prodotto cose bellissime, pensate ai Viaggi di Gulliver di Swift, che è pura satira; ma se ci pensate la satira è spesso qualcosa di molto fugace, transitorio; se uno legge i Viaggi di Gulliver (l'avrete letto forse da bambini, ci sono delle riduzioni ai primi due libri, questo è stato il destino disgraziato dei Viaggi di Gulliver e la sua fortuna, perché diventando un libro per bambini, cosa che assolutamente non era, ha assunto una notorietà grazie alla quale lo conosce anche chi non l'ha mai letto), ecco, dicevo, c'è tutta una parte di satira nei Viaggi di Gulliver: il paese di Lilliput, la corte inglese, dove Swift come cortigiano aveva vissuto;e chiunque, al suo tempo, sapeva riconoscere i personaggi del governo, che venivano satireggiati. Oggi i Viaggi di Gulliver, a meno di non leggere le note, perdono in larga parte l'aspetto di satira legata al suo tempo. Resta però questa meraviglia di libro, cioè la proposta di questi mondi inventati: Lilliput, il paese dei cavalli, l'isola volante; resta questa meraviglia che è l'invenzione; la satira spesso può muorire dopo alcuni giorni, perché si lega alla transitorietà dei personaggi. Oggi una delle satire dominanti in Italia è la satira alla televisione o ai personaggi televisivi, proprio perché il novanta per cento degli italiani guarda la televisione e un politico è noto se passa per la televisione; però questi personaggi che passano per la televisione tra tre o quattro anni non esisteranno più nella memoria. Dunque la satira che va contro costoro muore, se ne perde il senso, a meno che l'autore sappia costruire una sorta di mondo alternativo che vale sempre. Augusto Frassinetti, nel suo libro intitolato Misteri dei ministeri, ha scritto una satira contro la burocrazia ministeriale, indubbiamente con riferimenti anche molto specifici (nel senso che si poteva specificare a chi era rivolta questa satira). Adesso è irrilevante sapere a chi si riferiva; resta questa invenzione di un universo burocratico che fa ridere, che sarà vero fino a che ci sarà la burocrazia, cioè circa fino al giudizio universale.
Studente- Lei ha detto che questa rivista nasce da un'esigenza di evitare di scrivere in maniera letteraria, con uno stile più diretto diciamo.Vorrei sapere se per lei ha ancora significato l'espressione "stile letterario".
Cavazzoni- Indubbiamente, uno stile è inevitabile, come sono inevitabili le parole; quando io parlo non posso fare a meno delle parole, come non posso fare a meno della sintassi, della grammatica e non posso fare a meno di uno stile; le nostre scienze del linguaggio descrivono così la lingua; è sempre possibile quindi descrivere lo stile che caratterizza un discorso. Credo che di fatto, per chi inventa ( ma anche quando si scrive una lettera all'amica o all'amico ), le cose dette sono inscindibili da come le si dice; io posso scindere, ma allora produco comicità e sarebbe facile fare esempi. Comunque lo stile è un fenomeno che fa parte, come un tutt'uno, del discorso, che nasce assieme ai contenuti.
Nanni- Il grande problema è poi quello! " Il Semplice" tenderebbe a rifiutare un certo tipo di scrittura, ma gli stili son tanti.
Cavazzoni- Esistono delle parlate irruenti, che uno butta fuori, naturalmente, quando si incontra una persona amica o quando incontra un nemico, quasi fosse il corpo direttamente a parlare; e così esistono scritture irruenti, le quali non si pongono il problema dello stile. Adottano conseguentemente lo stile necessario in quel caso. Questi sono bei modelli, quando non ci si pone il problema dello stile. Quando, invece, ci si pone il problema dello stile, nello scrivere succede qualcosa che inibisce profondamente ( a meno che uno sappia trovare altre vie ). Succede come quando si vuole scrivere la lettera di condoglianze ad una persona di cui non ci importa in realtà proprio nulla; allora salta fuori il problema dello stile, cioè qualcosa di un po' arrugginito e falso: quale stile adottare? Quello "lacrimevole". Avrete avuto l'esperienza molto comune di scrivere bigliettini di ringraziamento per Natale (cosa che si faceva da bambini, per esempio, per la lontana zia che ci aveva mandato il regalo), ebbene io la ricordo come una sofferenza tale che avrei preferito non ricevere alcun regalo; si scrivono cose false, profondamente false, non nei contenuti, perché un regalo sicuramente fa piacere, ma nello stile che si deve adottare, lo stile della "gioia natalizia"che salta fuori come cosa isolata e terribile. Lo stile deve appartenere alla natura del parlare. Allora c'è una sorta di felicità del parlare; anche se io parlo al mio più grande nemico, c'è una sorta di felicità se lo aggredisco con le parole che mi escono spontaneamente, perché il discorso mi esce come un tutt'uno naturale e compatto. Poi ci può assere, lì accanto, un analizzatore di discorsi che riesce a distinguere le forme stilistiche adottate, perché si può analizzare qualunque cosa. Ma nel momento della produzione se è presente l'analisi è un bel guaio; non è più un parlare felice. Proprio no.
Nanni- È come quando si guida un'auto; la guida è felice se uno guida automaticamente senza analisi cosciente del meccanismo della guida.
Cavazzoni- Se non ci sono altre domande faccio una breve lettura per mostrare le cose dette. Anni fa ho condotto una ricerca negli archivi manicomiali; ogni tanto trovavo degli scritti che erano delle meraviglie; spesso questi scritti sono come geniali sementi che buttano fuori rami sbagliati, e allora bisogna correggerli un po'. (Secondo me è legittimo prendere uno scritto di un altro e metterlo a posto proprio come lui lo avrebbe voluto scrivere ). Dunque tra questi scritti di ricoverati, appena un po' aggiustati, c'è un signore che si chiama Giuseppe Rettighieri, che scrive al cognato una lettera ( è un esempio di scrittura spontanea ) così:
Mio carissimo cognato, con tutto il cuore io vi prego di venirmi a trovare, al più presto possibile, perché ho grandissimo bisogno di vedervi, estrema necessità di parlarvi e somma urgenza di sapere da voi per quale motivo, per quale ragione giusta, logica, plausibile. ecc. ecc. insomma perché la mamma mia carissima, quantunque bruttissima vecchia, grinzosa, coi capelli bianchi, malaticcia, antipatica, nevrotica, ottuagenaria.ecc. ch'è sempre stata onestissima, virtuosissima, castissima.ecc. ecc. con tutte le persone, con tutti gli onesti. ecc. voglia ora comparire agli occhi di tutti vacca, troia, puttana. ecc. perché vuole fare la vacca, la bestia con me stesso. ecc.ecc. per fare piacere alla puttana Molinari, vacca, bestia, maiala. ecc. ecc. di Carpi ?!
E perché voi altri ( cognato, sorella, padrino.) invece di correggerla e guarirla da questa gravissima disgrazia, da tale grandissima malattia patologica. ecc.ecc.. ecc.., bruttissimi ignoranti, tenete bordello, tenete mano a lei ???!
Si dice per proverbio che diventando vecchi si diventa ragazzi ( ciò ch'è falsissimo ), ma voi altri, invece, nel diventare vecchi diventate brutti asini, bestioni, ignoranti, stupidi, troie, imbecilli, vacche, puttane, bestie, animalacce. ecc. ecc. come la Molinari vacca, troia, bestia. ecc.ecc.!
Dunque arrivate prestissimo ! Venite al più presto possibile ! Addio!
Allora, quando dicevo "è come un seme che germoglia", intendevo questo mantenimento di verità senza esibizione secondaria di scrittura; c'è una sorta di rubinetto aperto della parola, dove lo stile è la stessa cosa di ciò che si dice. C'è il puro fenomeno del parlare, cosa che peraltro si può osservare ovunque, per la strada, nei caffè ecc..
Studente- Volevo sapere se la spontaneità di cui ha parlato ha come obiettivo quello di eliminare la finzione dell'autore oppure di ammiccare al linguaggio parlato nella scrittura.
Cavazzoni- Questi sono esempi di come la volontà di scrivere non venga prima dello scrivere, mentre spesso accade che le scritture letterarie siano divise tra una volontà di esibirsi e una esecuzione.
Studente- Volevo sapere quale è stata la genesi del Poema dei lunatici.
Cavazzoni- Quando mi hanno dato il premio Arcangeli, ho dovuto parlare di questo romanzo e la cosa più vera che mi è venuta da dire è questa: è stata un'epoca molto felice, che ricordo con enorme piacere, quando mi dedicavo a questa invenzione. Ero un po' nella condizione, sempre per tornare all'uomo diviso, tipica delle scuole medie (non so se è un'esperienza generale, ma è comunque abbastanza diffusa ): si fa finta di fare i compiti e invece si leggono certe cose amate di nascosto; quando scrivevo dei lunatici, mi accadeva qualcosa di analogo, cioè studiavo ( ero già ricercatore all'università ), e studiavo cose, come dire, serie; ho studiato per diversi anni la storia della retorica, cosa che mi appassiona tuttora e che mi piace, anche se è noiosissima; i manuali, i trattati di retorica prima dell'Ottocento sono snervanti; mi piaceva questo mondo della retorica, però contemporaneamente mi veniva una specie di esaurimento nervoso e mi veniva ogni tanto da scappare via, o da scrivere le cose più balzane che mi venivano in mente e che andavano per conto loro, proprio come se le scrivessi di nascosto. Questa è un po' la genesi dei lunatici; poi ho constatato che anche altre persone hanno esperienze in qualche modo analoghe: scrivere non perché si è uno con i galloni da ufficiale, lo scrittore in servizio, ma perché si ha voglia di scrivere di nascosto, sotto banco.
Nanni- È stato difficile trasferire in sceneggiatura questo libro; i rapporti con Fellini erano facili?
Cavazzoni- Ho dei bellissimi ricordi, è come se avessi fatto la vera università (finalmente) lavorando con Fellini; il libro che io avevo scritto è stato una sorta di punto di partenza, da cui è scaturito poi il film di Fellini ( La voce della luna ); il film è partito dal libro e poi è andato per conto suo.
Studente- Parlare è già un'azione quindi la sceneggiatura è quasi un esito obbligato del libro.
Cavazzoni- Certo, però c'è modo e modo di fare sceneggiature; se voi fate caso, una soap opera o una telenovela televisiva, hanno dialoghi che non esistono in tutto l'universo; i protagonisti parlano quel loro linguaggio apodittico, senza quegli "Ehm. ah." e tutti quegli intercalari, quelle piccole esitazioni di cui è fatto il discorso, anche il mio (io parlo in un maniera già leggermente artificiosa, proprio perché c'è il microfono). Quando uno scrive e parla, pensa che si debba (proprio perché lo insegna la scuola e la tradizione) avere le idee, poi disporle e poi dare alle parole uno stile, dopo di che si può scrivere e parlare; nel mondo quotidiano che viviamo, caso mai nasce prima l'interiezione, o tutte quelle parti del discorso che sembrano le più inutili. Per esempio, se io comincio con "Poffarbacco!", parola assolutamente destituita di un senso, il seguito è già profodamente condizinato, vedo già una faccia con i baffi a manubrio, la relativa mentalità e la relativa pomposa parlata.