Musica «nell'estinguersi della
musica» (Parol 8, 1992)
di Aldo
Clementi
Conversazione tenuta al DAMS dell'Università di Bologna, all'interno del Corso di Estetíca del Prof Luciano Nanni, il 18 aprile 1991 e trascritta da Benedetto Passannanti.
Clementi - Avrei bisogno di essere stimolato, perché non saprei da dove cominciare... intanto ho paura che molti non abbiano mai ascoltato un pezzo di musica mia... forse avrei dovuto portare un disco...
Nanni - Questo non è un problema, perché magari dal tuo discorso i presenti verranno stimolati a correre ad ascoltarlo... intanto potresti partire precisando alcune cose portate in campo da Passannanti, anche, oppure dimenticarlo completamente... insomma sei libero di fare ciò che ti pare ... Perché scrivi musica, perché hai cominciato, te lo sei mai chiesto?
Clementi - Questa è una domanda interessante, perché, anche se molto elementare, quasi ovvia, è la prima domanda che si fa ad un artista... non c'è un perché, perché dovrebbe esserci un perché? Fa parte della mia natura, è come chiedere perché si vive. Ricordo una frase molto interessante ed intelligente di Berio a proposito, il quale diceva che un musicista non si distingue da un artigiano, nel senso che un pezzo di musica riuscito è come un buon paio di scarpe fatto da un calzolaio: fatto bene, ha lo stesso diritto di sopravvivere, diciamo cosi. La poetica è quasi un a posteriori, una cosa che viene senza che lo vogliamo. Non so se in una classe di estetica ciò possa apparire una bestemmia dilettantistica, ma è cosi. Noi pensiamo molto prima e dopo, nel senso che quando si scrive un pezzo si dimenticano tutti gli assunti ed i sani propositi iniziali, e dopo si ricostruiscono le fila, in un senso molto "prosaico", hi vista cioè del pezzo successivo, quasi una forma di opportunismo. Questo è forse un po' triste, in un certo senso, perché io vedo sempre gli errori che faccio nel pezzo che scrivo. In altre parole: scrivo un pezzo, ho dei grandissimi propositi, poi mi accorgo che sono sempre un po' lontano, un po', diciamo, come se l'ostacolo l'avessi sfiorato ma non superato. Ecco, questa sensazione è molto melanconica, ti dà un senso di grande insoddisfazione. Ciò fa parte forse del gioco, ma è un aspetto quasi negativo del far musica, del fare arte.
Nanni - Hai detto che ti accorgi degli errori a posteriori. Mi interessava sapere, se riesci a dirlo e se ci hai riflettuto, come fai ad accorgerti degli errori? Errori rispetto a che cosa? Il parametro di valutazione dell'errore è mentale, è intuitivo o è di sensibilità ecc.?
Clementi - Ci sono vari aspetti di questa frase che ho detto cosi, un po' frettolosamente. Innanzitutto c'è un aspetto, anche questo opportunistico, materiale, il fatto cioè che il pezzo va consegnato. Poniamo che A pezzo debba essere, ad esempio, consegnato nel Dicembre '91: ho delle bellissime idee, delle ottiene soluzioni, ma in Dicembre devo finirlo malgrado nel frattempo mi possano sopravvenire nuovi spunti. Se fossimo nel Settecento, nel periodo dell'illuminismo, quando c'erano ancora dei codici ben precisi, una grammatica ed una sintassi ben precise, allora il problema non si porrebbe. Il fatto materiale della consegna impedisce eventuali, sempre eventuali, fra virgolette, perfezionamenti (perché si tende sempre a perfezionare il manufatto artigianale-musicale).
Nanni - lo ti ho chiesto una cosa forse un po' più complicata: ho chiesto come giungi a prender coscienza dell'idea di perfezione. Cioè: ci arrivi attraverso la sensibilità? Come dire, l'errore è un disagio della sensibilità?
Clementi - In effetti non si tratta soltanto del fatto banale della consegna che dicevo prima. Durante A lavoro nascono sempre delle nuove idee, quasi come se uno dovesse fare un altro pezzo. Ma il pezzo su cui si lavora va continuato, è un impegno anche estetico. In questo periodo sto, ad esempio, scrivendo un'opera per teatro: cominciata prima di Es (1980), ne sto adesso riprendendo le fila. Potrei fare una specie di variante, di grande variazione all'opera già composta ed eseguita, nessuno se ne accorgerebbe. Ecco, questo mi darebbe un altro tipo di insoddisfazione: l'estendere passivamente una cosa già fatta. Se pensiamo ad alcuni pittori, prendi ad esempio Monet: le cattedrali e le varianti di tutte le ninfee che egli ha fatto non sono altro che delle variazioni ad uno stesso soggetto, ma attive! Spesso si è tentati di optare per una variazione passiva, ma la variazione deve essere invece sempre attiva. In questo senso nascono continuamente nuovi problemi, e a un certo punto il tempo finisce. E' crudele: il tempo finisce...
Nanni - A questo punto io mi permetto di intervenire come professore, non in rapporto a te ma agli studenti, perché ciò che stai dicendo mi porta alla mente una convinzione di Roland Barthes, il quale ha sempre sostenuto, ripetuto in occasioni varie, che l'opera d'arte è un incidente commerciale. In realtà a Roland Barthes interessava la scrittura, come operazione senza fine, senza limite, una sorta di variazione continua di un gesto che si rinnova costantemente. L'opera d'arte è per lui un frammento, un ritaglio, un segmento di scrittura che viene bloccato non per esigenze artistiche ma per esigenze commerciali: c'è una scadenza, c'è un committente, tu devi dare l'opera e tagli un segmento. Ecco, mi sembra che il tuo discorso collimi con questo.
Clementi - Si, è più o meno questo.
Nanni - Ho citato Barthes perché in questi giorni sto parlando con loro di Roland Barthes.
Clementi - Però c'è anche un aspetto poetico, per usare questa parola un po' abusata. Il fatto che nel corso del lavoro ci si accorga di nuove soluzioni senza poterle realizzare subito non è dovuto soltanto al poco tempo a disposizione per la consegna, ma al fatto che occorre molto tempo per maturare tali soluzioni. L'artista, il musicista, intuisce, ha dei pallidi fantasmi, ma per potere realizzare questi fantasmi è necessaria una tecnica ben precisa. Questo è un aspetto crudele dell'artigianato musicale, nel senso che devi sudare per costruirti una tecnica, la quale non fa che realizzare l'idea come una specie di scatola musicale programmata. Oggi si parla tanto di programmazione, di computer ecc., ma la nostra è una programmazione fatta a tavolino nella propria stanza, con i propri quaderni. E necessario allora scoprire, crearsi una tecnica. La tecnica è una specie di interprete tra il pensiero e la realizzazione, è per cosi dire la "messa in moto" della partitura. Se la tecnica non è precisa, la traduzione di questi fantasmi diventa altrettanto imprecisa.
Nanni - In questo senso un estetologo potrebbe dire che Croce aveva completamente torto ... ! lo non vorrei continuare però da solo a parlare con Clementi; il normale canovaccio delle nostre conversazioni con gli ospiti viene qui rivoluzionato. Negli altri casi c'era una specie di conferenza dell'artista, che durava quarantacinque minuti, e poi 0 interventi degli studenti. Qui siamo partiti dalla seconda parte e direi di continuare cosi, ma a questo punto io riterrei senz'altro di dover smettere di far domande e di invitare tutta l'assemblea a interveníre.
Clementi - Volentieri, non so però se quello che ho detto sino ad ora sia uno stimolo sufficiente...
Nanni - Penso di si, ci saranno alcuni che ti conoscono già come musicista; sicuramente ci sono studenti che si occupano di musica, e quindi ci sono studenti che possono già aver qualche curiosità. E cosi altri, pur non occupandosi di musica. D'altra parte tu hai già fatto intendere che non consideri la pratica musicale come una pratica autonoma all'interno del campo delle arti. Passannanti presentandoti ha parlato dell'Informale, tu hai fatto riferimento a Pittori, adesso stai producendo un'opera teatrale, quindi avrai problemi anche di rapporto con il teatro ecc. C'è materia per tutti per intervenire.
Studente - Vorrei che approfondisse un po' il senso di quella frase che riassume in qualche modo la sua poetica e cioè che la musica "debba aver il compito di descrivere la propria fine o il proprio lento estinguersi".
Clementi - Questa è una frase che ho detto in un piccolo saggio di quasi vent'anni fa. Adesso se dovessi riscrivere quel saggio non so se la formulerei in questa maniera, quindi essa va vista cosi, nel tempo e per quello che è. Con questa espressione volevo dire soltanto che il pezzo, nel senso "acustico", deve descrivere coi suoni la filosofia di questa convinzione. Io sono convinto che la musica va verso la fine, ma questa non è una scoperta, nel senso che tutto va verso la fine ; cos'è che non va verso la fine? Soltanto che la musica non è un'entità biologica per la quale si può prevedere in quanti anni avverrà questa fine . Io ho precisato anzi che si tratta di un estinguersi, di una cosa cioè che potrebbe durare molti decenni come anche poche settimane. Non sono un profeta, quella è una frase che esprime più che altro uno stato d'animo, non è una filosofia precisa. E poi la descrizione è, come dicevo, una traduzione in suoni di questa convinzione. Non è una filosofia esatta.
Nanni - Quando dici "fine" intendi dire che scomparirà la musica?
Clementi - In quell'articolo io parlavo di lento estinguersi, non cli fine...
Nanni - Ti faccio adesso una domanda un po' ingenua, costruita ad hoc, nel senso che è provocatoria. In senso filosofico quando si parla di fine dell'arte si intende proprio dire morte dell'arte nel senso che l'arte non la si fa più, si producono concettualità, si passa alla filosofia. Ma tu credi che la fine della musica come la pensi tu preveda ancora musica? Questo è il paradosso. Come dire: è possibile una musica della fine della musica?
Clementi - Si, ma questo è un bisticcio di parole, perché io intanto non ho detto fine , la parola "fine" fa pensare ad una data esatta. Ho detto lento estinguersi nel senso di un diminuendo: un musicista capisce cos'è un diminuendo o un rallentando.
Studente - Volevo riprendere questo punto, constatando come stranamente in queste discussioni sulla poetica quando si parla di musica bisogna necessariamente essere degli esperti. Questo mi fa pensare che la musica viva in una dimensione autonomamente esclusiva rispetto alle altre arti. Se lei dice che la musica va verso la fine allora mi chiedo: e le altre arti? Il rapporto con le altre arti? il rapporto con la cultura stessa? Ecco, quello che voglio chiederle: ritiene che la musica, cosi come l'abbiamo intesa nell'arco di due-trecento anni, possa avere un suo sviluppo successivo, o pensa che dobbiamo eliminare lo stesso concetto di scrivere musica? Mi riferisco a quell'inquietudine tuttora presente nelle nuove generazioni. Ma io credo più precisamente che si tratti di una certa impotenza a dialogare con la cultura, ecco. Alcuni hanno parlato di questa mancanza di peso della musica nella cultura in cui viviamo. Mi viene in mente ad esempio il rapporto con altre arti come il cinema, la letteratura, la pittura.
Clementi - Si, ma su questo terreno io mi sento un dilettante. Siamo in una aula di estetica con un professore di estetica che non ha bisogno di réclame...
Nanni - Hai ragione, ti facciamo la domanda diversamente.
Clementi - No, io posso rispondere, ma più o meno direi sempre le stesse cose. Certo, la relazione con le altre arti c'è, questo è chiaro.
Studente - Intendevo dire che si ha l'impressione che la musica viva con maggiore angoscia questo elemento negativo. Si è parlato della musica del Novecento, una musica che nega la produzione precedente, che più delle altre arti si pone in antitesi con la propria tradizione. Per un profano non è la stessa cosa ascoltare - visto che prima si accennava al fatto che molti non conoscono la musica - un pezzo tonale o un pezzo del Novecento, della nostra epoca musicale. E mi viene anche in mente il fatto che alcuni compositori a un certo momento della loro vita decidono di non scrivere più, penso al caso di Sinopoli ad esempio.
Clementi - Mi perdoni, ma il caso di Sinopoli non credo sia un fatto filosofico; il fatto è che lui ha una grande attività come direttore d'orchestra e non ha più tempo e voglia di scrivere... non credo che Sinopoli abbia motivi filosofici, non credo perché lo conosco, come amico e come persona...
Studente - Lui ha dichiarato che oggi non è più possibile scrivere musica.
Clementi - Io, per esempio, che ho detto questa famigerata frase, scrivo a rotta di collo. La convinzione di quell'estinguersi non vuol dire che io debba buttare la matita nel cestino!
Passannanti - Mi sembra opportuno fare una precisazione. Se intendiamo muoverci sul terreno di una estetica comprensiva non dobbiamo affatto riguardare come una contraddizione la possibilità di una musica che descriva il lento estinguersi di sé stessa. All'arte è sempre necessaria una poetica che sorregga la formazione dell'opera, a prescindere dal mondo dei valori che essa rappresenta. 19 Prof. Nanni aveva prima stimolato, con la sua domanda, Clementi a chiarire l'apparente paradosso di una musica della "fine della musica". Apparente perché, se ho ben capito, esso va visto anzitutto come una semplice idea di poetica che stimola e sorregge un certo tipo di discorso musicale, un certo tipo di linguaggio.
Clementi - Io rispondo volentieri, ma ho paura di non essere all'altezza. Se fossi in un'aula di zoologia, ma sono in un'aula di estetica!
Nanni - Non sapevo che l'estetica fosse cosi terrorizzante..!
Clementí - Terrorizzante, perché io non la coltivo più... una volta te lo dissi; da quando frequentavo l'università non ho più letto un libro di estetica..
Nanni - Ma 'm questo momento l'estetica si fa cava, cioè si apre, si cancella per fare spazio al tuo discorso. t un'estetica d'ascolto quella che qui si sta sviluppando, non un'estetica dogmatica che vuole imporre a chi parla delle griglie. E in negativo il nostro discorso. Come dire, il viaggio mio si risolve nel tentativo di lasciare vuota la casella della verità, perché venga riempita dalla realtà. Quindi questi tuoi timori vanno tolti di mezzo, perché non ci aspettiamo da te un discorso rigoroso. In fondo e alla fin fine direi che non ci aspettiamo nemmeno un discorso! Ci aspettiamo che venga fuori la tua umoralità, anche. E' chiaro che ognuno di noi formula le domande secondo se stesso. E' difficile che io riesca a formularle a partire da un altro Nanni che non sono, e cosi gli studenti.
Studente - Volevo fare una domanda da non esperto in musica: lei parlava prima di una tecnica attraverso cui esprimere una certa sensibilità di partenza.
Secondo lei esiste una tecnica cosi perfetta che possa esprimere in modo altrettanto perfetto questa sensibilità iniziale, o è impossibile raggiungere una tecnica cosi perfetta?
Clementi - Più che perfezione, precisione. Spesso, andando avanti nel lavoro, si dimentica l'assunto iniziale e si fanno cose che non c'entrano. E punto è proprio questo; certe volte parlando si esce fuori dal seminato, senza accorrersene. Quando parlavo prima di insoddisfazione intendevo riferirmi proprio a questo: tante volte non si riesce artigianalmente a rendere l'idea iniziale, allora bisogna "perfezionare" la tecnica prima di "iniziare" il pezzo. Ci vuole molto tempo per costruire una tecnica precisa; come Passannanti sa benissimo; io a certi problemi lavoro ormai da trent'anni: eppure non sono soddisfatto, nonostante in questi trent'anni abbia scritto circa sessanta o settanta lavori. Si potrebbe quasi dire che ognuno è nella propria professione un dilettante. t quasi una contraddizione; non si è mai abbastanza professionisti, penso, nel senso che la tecnica si desidera sempre più perfetta. Ad esempio, continuo a fare degli studi prima di scrivere un pezzo, continuo a "scoprire" dei sistemi, si può dire quasi come al totocalcio. Malgrado i sistemi siano ben precisi, si scopre però sempre qualcosa di nuovo. Allora, se durante la stesura di un pezzo ci si dovesse aggiornare (a prescindere dalla destinazione o dalla scadenza) continuamente, ad ogni scoperta ("scoperta" è una parola che si prende a prestito dalla scienza, ma è cosi in fondo), non si finirebbe mai... 'resta comunque il fatto che la tecnica, secondo me (orinai ho questa convinzione) è sempre imprecisa, non è mai perfetta. Una tecnica perfetta forse, se la si raggiungesse, permetterebbe di scrivere un solo pezzo di musica! E sarebbe tutto.
Studente - Mi sembra che qui si stia parlando sempre di più di una tecnica in relazione ad una sensibilità. Prima Nanni insisteva per cercare di capire se è la sensibilità o meno il nodo del problema. Vorrei spostarmi un poco di più sul problema della poetica in relazione ad una tecnica, perché non è detto che la poetica coincida con la sensibilità e basta. Cioè: la poetica può comprendere la sensibilità di un artista, però può anche comprendere altre cose accanto alla sensibilità. In relazione a tale punto vorrei allora capire: si è mai posto l'autore il problema della diffusione o della percezione della sua musica? Di fatto la musica contemporanea colta ha un circuito molto elitario. Tale fatto viene in qualche maniera avvertito come un problema. Un problema legato anche alle strutture stesse di questa musica. Allora: c'è l'elaborazione di una tecnica in relazione ad una volontà poetica di diffusione di questa musica oppure no? Gli esperimenti multimediali di musica legata al teatro, ad esempio, o di musica in relazione alla pittura, sono tentativi di uscire da una musica pura che è molto difficilmente ascoltabile ?
Clementi - E' una domanda-piovra, perché ha tante angolazioni. E' difficile rispondere... lei ha detto delle cose giuste, ha fatto delle domande che ammettono anche delle risposte.. c'è molta roba in gioco: l'aspetto sociale, la diffusione, il solito fatto che il pubblico capisca o non capisca, la questione della tecnica di cui abbiamo parlato all'inizio ecc.
Nanni - Prendiamole una per una queste domande. Partiamo dalla prima: il tuo rapporto col pubblico. Cioè: il tuo, come musicista, e il rapporto del pubblico con la tua musica. Sono due cose diverse...
Clementi - La parola che ha detto questo ragazzo ("elitario") rende l'idea; il mio tipo di musica non contiene effettismi: Berio, per esempio, ha un tipo di estroversione che fa presa sul pubblico. Sciarrino, pur nelle sue trasparenze raffinate, ha sempre un'enorme sensibilità. La mia musica è invece quasi sempre schiva... Certe volte ci sono riuscito (forse in ES?). Quando le cose si uniscono (esteriorità ed interiorità) sono ben felice di far presa sul pubblico...
Nanni - Mi pare che dentro la domanda ci fosse anche qualcos'altro...
Clementi - Si, se non sbaglio c'era la questione della poetica.
Nanni - In genere quando noi usiamo il termine poetica intendiamo tutta quella predisposizione che porta, che spinge l'artista a produrre l'opera. Allora è chiaro che in alcuni il livello predominante potrà essere una specie di pensiero operativo, puramente inconscio, puramente oggettivato, puramente sensibile in ultima analisi, perché esiste anche un pensiero sensibile, insomma. In quel caso, la poetica è guidata in modo prioritario verso l'opera dalla sensibilità. In altri, magari la forza trainante è più la razionalità. Comunque, quando parlo di poetica (almeno io), ne parlo in genere come di una disposizione in senso lato, a più livelli, che ogni artista attiva secondo sé stesso nella produzione dell'opera d'arte. Mentre quando parliamo di estetica, tanto per chiarire, intendiamo riferirci al livello che riflette su questa predisposizione che chiamiamo poetica.
Quindi noi stiamo qui facendo estetica, perché parliamo della tua poetica, ma in realtà ciò che dovrebbe vivere qua dentro è la poetica tua, e all'interno di questa poetica si sono visti alcuni concetti fondamentali come, ad esempio, quello del rapporto tra tecnica e perfezione: è un concetto sul quale io vorrei spingerti. Te l'ho chiesto in principio e vorrei insistere ancora su questo punto. La perfezione: riusciresti poi a dire (con le parole è cosa difficile) come arrivi a sentire o a capire che non sei giunto alla perfezione e quindi in qualche modo a chiarire non tanto il concetto di perfezione quanto la sua assenza?
Clementi - Questo si fa presto a dirlo. IL uno stato d'animo che si verifica quando il pezzo è finito, soprattutto quando lo ascolti, ma non voglio nobilitare questo stato d'animo...
Nanni - Si potrebbe abbassarlo però, anziché mobilitarlo...
Clementi - Il fatto è che si è tentati di nobilitare le cose, di cercare spiegazioni filosofiche, parafilosofiche o estetiche... ma quello che voglio dire è questo: il pezzo io l'ascolto, l'ho scritto vedo la partitura, lo discuto con musicisti miei colleghi ecc., ma lo stato d'animo corrisponde sempre alla sensazione cosciente che si sarebbe potuto fare meglio, diverso... non ti scandalizzare!
Nanni - Tanto poi io insisto..
Clementi - Cioè: io ho finito un pezzo, che magari ha successo, che è stato già inciso su disco, e dico: "ma che stupido, potevo farlo in un'altra maniera". Allora questo miglioramento lo faccio nel pezzo successivo, e cosi è come un cane che insegue la sua coda...
Nanni - Si, ma resta il problema sul perché tu dici "lo potevo fare in un'altra maniera". Voglio dire: il tuo respiro cambia quando sei di fronte ad un'esperienza di "perfezione"?
Clementi - Più che perfezione, precisione. Spesso andando avanti nel lavoro si dimentica l'assunto iniziale, creando una tecnica non più adeguata.
Nanni - Si, ma nel momento in cui tu sei in sintonia con un certo viaggio nella musica o non sei in sintonia, hai delle reazioni corporee? In fondo anche lo stato d'animo è una percezione del corpo prima che una percezione dell'anima, perché cambiano il respiro, le pulsazioni, ecc.
Clementi - Quello che dici tu è giusto...
Nanni - Volevo semplicemente sapere se ciò ti accadeva.
Clementi - Mi pare di averti già descritto quello che mi accade, questa insoddisfazione dovuta alla sensazione che avrei potuto fare una cosa migliore...
Nanni - Posso dire una cosa a te, rivolta anche agli studenti, su questa linea?
Clementi - Certo.
Nanni - Io so di aver scritto una poesia che mi va bene quando a un certo punto mi torna fame. Sento il corpo che vive, cioè percepisco fisicamente un'armonia. Altrimenti l'insoddisfazione non so come coglierla, non so da che parte partire, diventa un discorso astratto, capisci? Volevo portarti ancora oltre ciò che hai detto per dire: riesci tu a capire esattamente da dove parti per capire che il pezzo non funziona? Parti da un esperienza corporea...
Clementi - Adesso non esageriamo con il pezzo che non funziona...
Nanni - Non volevo dire questo...
Clementi - Si, in un certo senso non funziona, ma non al cento per cento, nel senso che io voglio rendere il cento per cento di un idea col cento per cento di una tecnica, invece poi mi accorgo che ho raggiunto solo il settanta-ottanta per cento.
Nanni - Io me ne accorgo perché mi viene o non mi viene fame; non so tu.
Clementi - Si, ma la questione della fame non l'ho capita..!
Nanni - Voglio dire che il significato del mio produrre poesia è biologico. C'è un rapporto stretto tra biologia e scrittura. Nel senso che io non parto con ideali preconfenzionati... è un bisogno. Tu hai detto a te stesso: io sono un egoista. Tutti gli artisti hanno questa dimensione. Allora nel mio caso il bisogno è puramente biologico. Nel senso che, a un certo punto il corpo si intoppa da qualche parte e io per sbloccarlo ho bisogno di far certi gesti. Che poi questo abbia tutta una significazione sovracorporale può essere, perché poi son parole e per un altro significano altre cose; non è mai bene assolutizzare. Ti ho portato questo esempio come un modo per arrivare a spiegare da dove io parto per sentire che la cosa fatta funziona. Ti chiedevo se, per caso, tu hai una porta per entrare nella lettura della composizione, dell'accettabilità della composizione se hai una porta, una porta precisa, che non sia questa della semplice affermazione dell'insoddisfazione, perché l'insoddisfazione può esser mentale, può essere corporea, può essere sentimentale, può aver vari aspetti...
Clementi - lo mi appiglio a quello che diceva un pò Kandinskij della musica, che è la più astratta delle arti, quella che ha meno relazioni con la realtà.
Nanni - Dipende...
Clementi - Almeno, per noi è cosi: non ci sono in natura oggetti musicali, nell'aria non ci sono delle parole musicali che circolano come io posso vedere, che so, una cassetta o altri aggeggi...
Nanni - Si, però ci sei tu come fatto...
Clementi - ... ma il suono in natura, i suoni in natura non esistono come le parole, come nel mondo sensibile esistono le frasi, i giornali, le conferenze...
Nanni - Beh! esiste la musica degli altri però...
Clementi - Vorrei fare un esempio alla lavagna per rendere l'idea di questa sensazione, di questa corsa alla tecnica giusta. Diceva Klee di mettere il colore giusto nel punto giusto, una frase ormai sfruttata da tutti, nei caroselli, nella pubblicità; però quando io l'ho conosciuta, quarant'anni fa (quella mostra di 1Cee cui si riferiva Passannanti fu nel '48) non l'avevo mai sentita e mi colpi...
Studente - lo avrei una domanda collegata alle ultime cose che sono state appena dette. Lei ha parlato di una peculiarità della musica come arte astratta, più astratta delle altre. Prima si era fatto un discorso sulle sensazioni, nel senso di soddisfazione o di insoddisfazione. La musica è si un'arte astratta, però viene comunque veicolata dalla fisicità. Questa fisicità l'abbiamo accettata come punto di partenza per scrivere un pezzo. Lei ha anche detto che, una volta finito, ascoltando il pezzo, spesso le capita di pensare che lo avrebbe potuto fare in altro modo. Ecco, mi sembra che abbia dato per scontato un concetto che secondo me sarebbe invece interessante esaminare: come fa lei a dire che un pezzo è finito? Il professor Nanni ha esemplificato con un sintomo fisico il suo stato d'animo, nel senso che la soddisfazione o l'insoddisfazione, pur essendo uno stato mentale, si riconducono al fisico, allo star bene anche fisicamente. Allora: lei incomincia a scrivere un pezzo perché sente quest'esigenza, come fa ad un certo punto a dire "è finito"?.
Clementi - Finito nel senso fisico, ma anche sociale del termine, perché esso va consegnato, ad esempio, per un'esecuzione che avverrà fra due settimane... posso soltanto aggiungere: datemi ancora due mesi e lo farò meglio. Ma questo è l'aspetto banale, pratico, quello che Nanni indicava quando parlava di Roland Barthes, dell'opera d'arte come "incidente commerciale". D'altra parte questo non è un aspetto caratteristico solo della mia musica. Anche un pittore, se deve consegnare a un museo una tela, a un certo punto deve finire.
Studente - Le è mai capitato di scrivere un pezzo non su commissione?
Clementi - Si, m'è capitato. Per esempio l'opera a cui sto lavorando da 12 anni. A quest'opera lavoravo infatti dal '79, cioè da due anni prima di ES, eseguita al teatro La Fenice nel 1981. Questo lavoro, non ancora ultimato, può dare a lei l'idea della mia soddisfazione, o non insoddisfazione: quando l'avrò finito se ci sarà un colpevole quello sarò io: non potrò accusare né la scadenza, né il tempo.
Studente - Volevo accertarmi se ho capito o no il suo discorso. Mi pare che per ogni pezzo che scrive lei sviluppi quasi una nuova tecnica. M chiedevo allora se forse il disagio non deriva anche dal grado di comprensione collettiva, dato che non è sempre stato cosi, perché una volta la tecnica era qualcosa di comune, almeno fino agli inizi del Novecento, quando essa si è appunto disgregata. Non crede che il disagio, che si ritrova oggi, possa derivare dal fatto che per ogni pezzo da scrivere bisogna sviluppare una nuova tecnica, come se le parole non fossero il presupposto della poesia, ma bisognasse inventare di poesia in poesia nuovi sistemi per farla?
Clementi - Non è esattamente cosi, forse mi sono spiegato male. lo non s ero o tento di inventare una nuova tecnica; alla tecnica che è più o meno la stessa da trent'anni a questa parte, aggiungo sempre qualche cosa, un pezzettino, un tassello... la stessa tecnica che, se mi consentite di usare questa parola, si perfeziona. Non si tratta di una tecnica nuova per ogni pezzo, sarebbe terribile, oppure affascinante, ma richiederebbe un cervello
che forse io non ho...
Studente - Certamente però è una tecnica che caratterizza solo lei, voglio dire che è diversa probabilmente da quella di tutti gli altri suoi colleghi. E a proposito della fine della musica, non pensa che ciò possa essere una causa del suo estinguersi, del fatto che si pensi che la musica finisca?
Clementi - E' quello che lei fornisce come una spiegazione della mia insoddisfazione a trovare la tecnica giusta?
Studente - E' una domanda che le faccio..
Clementi - Non credo sia cosi, perché come dicevo prima lavoro a questa tecnica facendo degli studi, degli schizzi. Ho una montagna di quaderni a casa, a prescindere dal lavoro che mi chiedono. Se ad esempio mi chiedono un lavoro, io quasi per ricreazione, quasi per fare riposare il cervello, lavoro ad altre cose. Se scrivo un quartetto d'archi, lavoro solo al quartetto d'archi, ma contemporaneamente faccio degli schemi, degli schizzi tecnici, delle cose che poi mi serviranno per altri lavori. Non si tratta di un lavoro assolutamente parallelo, ma di una convivenza.
Nanni - Quali sono i musicisti contemporanei più vicini a te?
Clementi - Fra i musicisti che adoro vi sono sempre stati Stravinsky e agli antipodi Webern. Diciamo che sono i due poli opposti di una stessa faccia, una specie di Giano bifronte: Stravinsky esprime una cosa, Anton Webern ne esprime un'altra. Ma non sono tanto lontani tra loro come apparentemente sembra.
Nanni - Di Webem cos'è che non ti torna?
Clementi - ... non mi torna?! Sto dicendo che questi due autori sono secondo me le vette di due posizioni apparentemente contraddittorie: posso anche spiegare il perché.
Nanni - Si.
Clementi - Lo voglio spiegare subito, se no arriva magari un'altra domanda... non si finisce mai: come le ciliegie, una tira l'altra...
Nanni - Come nella musica...
Clementi - Premetto che a me piace l'immobilità. C'è una frase meravigliosa di Argan (che a suo tempo mi colpi molto) che suona pressapoco cosi: la pittura di Picasso è una pittura di attacco, la pittura di Klee è una pittura di stacco. Si potrebbe dire allo stesso modo che Stravinsky è di attacco (non per niente è stato paragonato a Picasso) mentre Webern è di stacco. Però tutt'e due sono ugualmente sospesi e tutt'e due adorano l'immobilità, la stasi: anche se i primi pezzi di Stravinsky erano quasi meccanici, tellurici (pensiamo alla Sagra della Primavera), dopo seguirono Oedipus Rex, Persephone e tanti altri capolavori all'insegna di questa immobilità. Un'immobilità che riscontriamo anche in Webern. Cos'è che li apparente? Le note materialmente non sono tutto nella musica. Importante è il mondo che sta dietro questa fisicità apparente. La fisicità inganna, è una specie di...
Nanni - Velo di Maya...
Clementi - Si, che inganna. L'aspetto fisico dei suoni, di un quadro, di una poesia secondo me inganna molto. Dietro le poetiche apparentemente contraddittorie, qui è il caso di dirlo, si scoprono dei mondi comuni.
Nanni (rivolto allo studente) - Lei ha qualcos'altro da chiedere? Si ritiene soddisfatto?
Studente - Un tempo il musicista scriveva una Sonata, e per tutti era una Sonata, una struttura formale chiara su cui tutti si potevano confrontare. Oggi questo non avviene più, è cambiata la strutturazione formale della musica e il confronto non è più possibile...
Nanni - A questa domanda vorrei anche aggiungere una cosa, se mi consentite. Mi pare che avesse associata in sé questa constatazione anche il concetto di fine della musica. C'è un rapporto fra la percezione della frantumazione dei linguaggi e il tuo percepire o intuire questa fine o lento estinguersi?
Clementi - Questa è una cosa che prescinde da me, io sono soltanto uno dei tanti mattoni dell'edificio.
Nanni - Si, ma siccome non puoi parlare per 0 altri, allora ovviamente...
Clementi - Voglio dire: questa vecchia storia, a cui tutti giustissimamente si rifanno: che non c'è più un codice comune, una grammatica e una sintassi comune, è una cosa che risale già alla fine dell'Ottocento. Non è una cosa che riguarda solo quelli della mia generazione. Man mano che i principi si sono disgregati, s'è perduta la grammatica comune, il perché si sia perduta è un problema molto grosso. Perché non si fa più, che so, un nudo di donna? Si, ma ari ci sarà qualcuno che ancora lo fa, anche nella musica ci sono dei ritorni. Però, a prescindere dai ritorni, diciamo che non esiste più l'idea diretta per cui, data una certa sintassi, "ecco il quadro". Questa specie di assioma suona anche stupido, poiché non c'è più appunto una sintassi comune. Quando faccio lezione dico sempre che gli schemi non vanno assolutizzati. Vi sono, ad esempio, quasi tre secoli di Sonate: Settecento' Ottocento, Novecento (quasi tutti nel Novecento hanno scritto delle Sonate: Debussy, Stravinsky ecc.); eppure ci sono delle differenze enormi, perché dato un contenitore (la forma è solo un contenitore) il contenuto è sempre diverso, e il contenitore è sempre di più un semplice pretesto. In fondo quello che vale è il contenuto. Contenuto non nel senso sentimentale, ma nel senso di un liquido che riempie il contenitore. Ho parlato di questo liquido quando feci, una volta, un articolo sul teatro musicale, perché non credo nella vicenda, non credo nella musica diretta, nella vicenda in senso episodico. Sono convinto che il canto sia oggi solo un liquido che riempie le note e basta. Non mi interessa dire "io ti amo, io non ti amo". E' solo un fatto fonetico, puramente astratto, ciò che rivela alla luce della temperatura questo liquido: per me il teatro è solo temperatura e meccanismo.
Nanni - Ho letto da qualche parte che hai avuto rapporti anche con la poesia. Volevo sapere, se vuoi, la funzione che la parola ha in rapporto alla tua musica. Qualcosa hai già detto, ma vorrei che affrontassi meglio questo punto.
Clementi - Per quanto riguarda il teatro (e anche i componimenti poetici musicati), io credo più nello stato d'animo che nella parola fisicamente fonetica... credo più nello stato d'animo che il fonetismo rappresenta coi suoni. La chiamo temperatura perché in teatro è quello che conta.
Nanni - Si, ma delle parole cosa ne fai? Ne hai bisogno, non ne hai bisogno? Se lavori su una poesia vai a cercare certi testi particolari o puoi lavorare su qualsiasi poesia?
Clementi - Ho scritto pochissimo per la voce. Se posso farti la cronistoria, dato che siamo in tema di rapporti fra testo e musica, scrissi da ragazzo (avevo vent'anni) due liriche, una su testo di Victor Hugo e una su testo di Rilke, ma ero tutto intriso di Impressionismo-Espressionismo. La poesia francese mi faceva andare a Debussy, la poesia tedesca a Schönberg ecc. Più tardi scrissi, come saggio al Conservatorio, un pezzo su testo di Calderòn de la Barca. Lì ero intriso di esistenzialismo, ero pazzo per Camus, per Kafka: la solitudine di Sigismondo, (l'eroe di La vita è sogno), mi prese con molta passione. Passarono tanti anni e Mario Bortolotto volle un giorno organizzare una specie di Concours de Blois, come fu fatto ai tempi di Charles d'Orleans, invitando quattro musicisti. Scelsi il tema de l'Homme armè che era servito da base durante il Rinascimento a varie composizioni. Poi ho scritto Silbenmerz, che è un omaggio a Schwitters. Qui ho lavorato su delle sillabe, questo può forse dimostrare come a me non interessi molto il testo. Avevo scritto anche un pezzo su delle sillabe che si chiama Silben (per il Goethe Institut, usando sillabe tedesche); feci anche un progetto non realizzato dal titolo Silbenfluss (fiume di sillabe): doveva essere un pezzo elettronico.
Studente - Vorrei tornare un attimo sul tema che aveva evidenziato lo studente di prima, quello della multimedialità. t una domanda che rivolgo ad entrambi i professori: è possibile oggi per l'arte rinnovarsi attraverso l'uso della multimedialità? Penso alla musica applicata alla pittura, o all'interazione simultanea di pittura, danza, inumana, poesia ecc. In particolare, ha mai cercato lei nuova linfa in queste cose, anche per evitare di arrivare alla fine ?
Clementi - Rinnovarsi è possibile, certo. Se non sbaglio lei pensa al teatro totale, un'aspirazione ormai vecchia dell'artista, quella cioè di riunire tutte le direzioni dell'arte in un'unica direzione. L'aspirazione di tutti i musicisti, poi uno ci arriva o non ci arriva... Se scrivo un quartetto d'archi non ho problemi di testo, di regia ecc.; se scrivo un'opera per teatro, avendo tutti questi problemi, tendo invece a fare una cosa organica. Un tratto essenziale dell'arte moderna è infatti l'organicità, il fatto cioè di fare delle variazioni caleidoscopiche con pochissimi mezzi di partenza. Si tende a fare le cose più complesse partendo da pochi mezzi, da una matrice unica. Questo spesso non riesce, o perlomeno non riesce del tutto.
Nanni - Io oggi eviterei di risponderti perché vorrei approfittare della presenza di Clementi: sono anni che lo inseguo, e finalmente sono riuscito a trovarlo ... !
Studente - Spostando l'asse del discorso sul piano morale, vorrei sapere un po' come lei vede il rapporto fra arte e commercio, se crede che vi possa essere una felice convivenza o se vede il commercio come un vortice distruttivo che è meglio evitare.
Clementi - Non mi sembra cosi catastrofica la vicenda del commercio. Penso che si potrebbero sposare le due cose. Io ad esempio, a proposito di inseguimento, ho inseguito tante volte delle persone del cinema, registi, produttori ecc. per fare un commento, perché mi faceva comodo avere dei soldi. Mi piacerebbe anche adesso avere una bella Ferrari, facendo un commento azzeccato che girasse, senza per questo diventare Onassis... ma c'è una specie di circolo chiuso in cui non ti fanno entrare. Ho dei carissimi amici che fanno musica per film, tra cui il bravissimo Morricone, mio compagno di classe; tanti altri invece sono degli analfabeti, dei dilettanti ... però hanno trovato quel "vortice" e fanno un sacco di soldi. Io vorrei farne meno di soldi, ottenendo però degli oggetti musicali forse migliori... difficile, impossibile, ma mi piacerebbe...
Studente - Vorrei chiederle due cose: se fosse riuscito a procurarsi un canale per fare della musica a qualche film, quale genere di film le sarebbe piaciuto musicare? Avrebbe mantenuto la sua linea musicale, senza cedimenti?
Clementi - Mah! Il cedimento non è da vedere come cinismo, corrispondente all'atteggiamento di chi dice "io mi vendo, perché voglio fare dei soldi". Il cedimento in alta percentuale fa parte del gioco. Feci nel '60 un lavoro con Perilli, ognuno dei due ha dovuto cedere qualcosa, fa parte del gioco. Nel caso del film lei probabilmente intende un'altra cosa, cioè vendersi nel senso di fare della musicaccia, della musica brutta. Questo sarebbe l'estremo: non credo che lo farei, se dovessi vendermi mi venderei salvando la qualità...!
Nanni - Ma i film che sceglieresti quali sarebbero?
Clementi - Un volta un mio amico, aiuto-regista di Visconti ne Lo straniero, mi propose di lavorare con lui, ma poi non se ne fece più niente. Altre occasioni: ho collaborato ad un film d'avanguardia del pittore romano Nato Frascà: non guadagnai una lira e mi vendetti nel senso che mi adeguai al suo film: il film era già girato ed io mi limitai a modulare suoni, parole e rumori già esistenti, una specie di regia sonora... Se dovessi scegliere, l'ultima grande stagione del cinema per me è stata l'ècole du regard (Godard ecc.).
Passannanti - Abbiamo sentito spesso parlare nel corso della conversazione di musica "cattiva" e di musica "buona", di musica che può vantare un livello di professionalità "alto" e di musica che ne può vantare viceversa uno "basso". Clementi ha spesso evidenziato nei suoi scritti una sostanziale differenza fra musica "polidirezionale" e musica "unidirezionale". Vorrei chiedere al maestro, qual è il termine di riferimento della musica "alta" e di quella "bassa"? in che modo la propria tecnica compositiva, cioè il contrappunto canonico, riesce a rendere l'idea di una musica polidirezionale?
Clementi - Questo discorso investe anche la parte tecnica. Farò dei grafici alla lavagna per far capire meglio cosa voglio dire:
Ammettiamo che questo sia il diagramma di un pezzo molto caotico che dura ad esempio venti. trenta minuti. All'interno c'è una specie di forza vettoriale unidirezíonale per cui la proiezione del diagramma, del caos si risolve semplicemente in un'unica freccia: in sostanza l'ascoltatore percepisce una specie di racconto, di narrazione. Ecco: questo io intendo per musica unidirezionale. Al contrario polidirezionale è la musica basata su una sorta di polivolontà dei suoni, per cui il caos deriva da varie forze vettoriali la cui risultante non è un unica freccia ma una specie di polifreccia. Si tratta di due tendenze musicali diverse. Ma ve n'è anche una terza che bisogna analizzare, la presenza del caso, la musica casuale. Quest'altra posizione musicale implica una rivalutazione del fatto accidentale, anzi incidentale, non previsto all'inizio dall'artista. In questo senso tutti dobbiamo qualcosa a John Cage, anche se si tratta di un caso controllato attraverso un codice di partenza che ammette i più svariati incidenti sonori, e dove l'autore diventa quasi una vittima di ciò che succede. Ho scritto un articolo sulla gestazione di Dies Irae, un collage elettronico fatto su quattro frammenti dei Beatles, dove descrissi questo modo di lavorare.
Studente - Ma nella poetica di Cage non c'è questa idea di vittimismo di cui lei parla.
Clementi - Si parlava infatti di caso controllato; quella di John Cage è tutt'altra posizione; John Cage accetta qualsiasi incidente sonoro, anche ad esempio un colpo di tosse è per lui un fenomeno musicale degno di nota. Ho parlato di caso controllato da un codice proprio per sottolineare la differenza. E fatto di esser vittima naturalmente anche quello è una metafora, è un'immagine: l'autore diventa vittima nel senso che con molta sorpresa, quasi compiaciuto, si accorge di certe cose che succedono. E difficile da spiegare...
Studente - Se non ho capito male, lei ha detto: un codice per cui il pezzo diventa casuale.
Clementi - Si, un codice. Io, per esempio, posso dire come può nascere un pezzo, ma forse diventa noioso come discorso in un'aula di estetica.
Nanni - No, penso di no, e poi non ti preoccupare, l'estetica la faccio io, tu non devi fare estetica, tu devi fare te stesso.
Clementi - Devo fare un paragone molto banale per spiegare A concetto di codice.
Nanni - Ma tu non ti preoccupare, loro sono abituati con me ai paragoni banali: il bar, il caffè, la barca...
Clementi - Ho fatto un pezzo, che ha avuto un certo successo: si chiama Triplum, per flauto, oboe e clarinetto. Spiegandovi come è nato questo pezzo forse posso darvi l'idea del concetto di codice. Costruii un catalogo, quindi già un'idea molto burocratica, quasi amministrativa: l'idea di partire da un catalogo. Questo catalogo comprendeva poche figure musicali, se non sbaglio sette: trilli, note tenute, note staccate, figurazioni sonore, abbellimenti, e cosi via. In relazione alla questione del caso controllato e all'imprevedibilità del risultato (il coronario del caso controfiato è di accettare che un pezzo alla fine risulti imprevisto), decisi che ognuna di queste figure sonore avesse varie grandezze, breve, media, lunga ecc.. Ogni sequenza di avvenimenti sonori poteva essere interpolata a caso, e allo scopo buttavo sul tavolino delle pallottole che mi dicevano l'ordine delle sequenze. La proiezione di tutte le sequenze di ogni figura mi dava cosi alla fine una partitura assolutamente imprevista. Non so se questo può servire a darvi l'idea del codice, nel quale deve esserci in ogni caso un'inventiva. Ricordo un pezzo di John Cage in cui l'inventiva era ridotta per esempio al fatto che il pezzo poteva essere eseguito per sette cavalletti di pittori come per sette violoncelli e cosi via di seguito. Anche in Triplum c'è una inventiva, ma di altro genere perché qui è pur sempre il musicista tradizionale che fa un catalogo di figure, di oggetti musicali tradizionali. Egli però si "vende" al caso, a questa specie di feticcio che fa ormai parte della cultura contemporanea, con una sorta di irriverenza verso i principi della tradizione, creando dei codici iconoclastici, dissacratori.
Nanní - Credo che si sia capito. Bene, ci avviciniamo alla fine , c'è qualcun altro che ha delle domande?
Studente - A proposito di partitura imprevista: se un giorno venisse qualcuno ad eseguire questa sua partitura, ammetterebbe degli scarti tra la partitura imprevista e la sua esecuzione, o riterrebbe rigido tale rapporto?
Clementi - Questo esige una spiegazione: sono stato un poco frettoloso. La domanda è giusta. La differenza con John Cage è che A suo è un mondo irripetibile. John Cage fa un pezzo che può avere milioni di versioni, lui accetta questi milioni di versioni per il pubblico, e ogni volta le sue partiture diventano diverse. Anch'io potevo prevedere milioni di versioni di questo pezzo, soltanto che io fisso la versione, la congelo in un pezzo che poi faccio stampare. E come se ogni mio pezzo fosse una delle migliaia di versioni possibili. Ma il pezzo, una volta stampato, è quello li. Anche questo può essere giudicato contraddittorio.
Studente - Allora non è previsto neanche un esecutore, di questo codice.
Clementi - Forse lei vuol dire che per ogni esecuzione ci possono essere vari livelli di qualità e di precisione?
Studente - Intendevo chiedere se il codice è suo e solo suo, o se prevede anche delle variazioni...
Clementi - Il codice per la mia musica è un retroscena che voglio però fissato, convogliato in una partitura definita, perfettamente definita.
Nanni - Che poi può essere eseguita...
Clementi - Si, una volta definita, la partitura viene eseguita sempre nello stesso modo. Potrebbe sembrare una contraddizione questa, ma non lo è, perché io il caso l'accetto solo per controllarlo con un codice.
Nanni - Ma è possibile che la partitura venga sempre eseguita nello stesso modo? Ci saran degli scarti...
Clementi - Ma questo succede anche per Bach e Mozart!
Nanni - Ma ci sono delle cose che accetti malgrado te? Cioè, passata la partitura al suono, c'è uno scarto fra la scrittura e il risultato fisico che proprio non toreri?
Clementi - Bisogna distinguere tra l'imprecisione dovuta alla superficialità degli interpreti e l'imprecisione dovuta a una eventuale frettolosità mia nello stendere la partitura.
Nanni - E non potrebbe esserci tra l'imprecisione dovuta alla frettolosità tua e l'imprecisione dovuta alla superficialità degli interpreti una libertà?
Clementi - Allora dovrebbe essere un altro tipo di musica. Ho anche scritto della musica in questo modo, qualche pezzo che prevede una certa libertà dell'interprete, ma non è la mia costante preferita...