Le geometrie critiche del filosofo
Deleuze
e lo spazio mimetico del pensiero. Oltre il post-moderno.
di Gianluca Giachery
«La metafisica formula la
domanda sull'essenza in questa forma: Che cos'è.? Forse ci siamo abituati
a ritenere scontata questa domanda; in realtà ne siamo debitori a
Socrate e Platone. Bisogna risalire a Platone per rendersi conto a
qual punto la domanda: "Che cos'è.?" presuppone una maniera particolare
di pensare.»
(G. Deleuze, Nietzsche e la filosofia, Firenze, Colportage,
1978, p. 118)
1. Una domanda compare sin dalle origini del pensiero occidentale: che cosa significa pensare? Essa racchiude in sé tutta l'enigmaticità di un transito, di un continuo traghettamento verso territori brulli, aridi o altri floridi, quasi estatici.
Non basta la semplice intelligenza per pensare, poiché l'intelligenza esige strappare unicamente una risposta, una soluzione possibile che tragga nell'immediato dal sottile inganno dell'apparenza. Essa sembra accontentarsi di un guitto, dei pochissimi passi percorsi per accedere alla risoluzione di una contingenza, di ciò che è nel qui e ora. E già Platone mette in guardia da coloro che sono gli «imitatori dei sapienti»[i][1], ai quali bisogna guardare con disprezzo, poiché essi gettano discredito sugli amanti della conoscenza, coloro che inarcano il Logos rendendolo continua attesa, la tensione estrema verso il divenire del pensiero.[ii][2]
Perché la domanda sul significato del pensare? Perché porsi ancora (in un ancora che è la simultanea traccia di un interrogare e di un lasciarsi interrogare) una simile domanda nell'epoca della tecnicizzazione dei saperi e dell'apparente tramonto dell'altra questione filosofica fondamentale, che attraversa tutta quanta l'ontologia, sul senso dell'essere?
La questione non si presenta affatto, a nostro avviso, come il reiterare stanco di un assillo che tanto si sa senza risposta, poiché ne va della genuina consapevolezza che, come esseri viventi, ci collochiamo in un mondo che è il Mondo-della-Vita, la Lebenswelt husserliana che pone il soggetto nel suo essere diveniente.
La domanda è di estrema attualità, intendendo con ciò un passaggio ineludibile della contemporaneità.
La dispersione di un pensiero originario (la filosofia greca a noi giunta come sintesi del pensiero che ascrive a sé la lacerazione di qualsiasi prospettiva, ponendo al tempo stesso l'elemento del divenire come ciò-che-avviene, come avvenimento) crea sempre il ri-pensare una novità che sia creativa, altrettanto generatrice quanto quella originaria. E' per questo che noi ancora oggi raccogliamo i frammenti del pensiero antico, cercando un'origine che non sia sistema ma, come ha affermato G. Deleuze, una sorta di «collage»[iii][3] collocato su un piano di consequenzialità.
La contemporaneità è reduce da questa dispersione, dalla frammentarietà del soggetto occidentale che si disgrega dinanzi alle enormi masse di individui che emigrano (contaminando); dalla lenta evanescenza che indica una frattura tanto grande quanto inavvertita è la necessità di un'anestetizzazione del pensiero.
Questa visione della fuga (per certi aspetti apocalittica se non fosse per l'assuefazione cui la nostra percettività è in parte condannata) minaccia un senso della permanenza che non esiste più, che è ormai dilatato assieme ai confini della Polis. Dilatazione determinata, a sua volta, dalla scomparsa di un centro riconoscibile, divenuto sempre meno visibile, sempre più latente.
Ascrivendosi alla dimensione della filosofia-del-divenire (o dei-divenire), Deleuze pone la domanda: che cos'è la filosofia? Tale domanda è legata indissolubilmente alla prima («che cosa significa pensare?»), poiché ermeneuticamente ne traduce il senso, rendendo il pensiero non qualcosa di astratto, ma di immanente. Una domanda, insomma, che nel suo svolgersi è farsi, indica cioè il fenomeno del pensare come filosofia, come la scienza che si assume la responsabilità di porre la domanda fondamentale su qualsiasi domanda.
M. Ferraris ha posto giustamente attenzione alla differenza tra il domandare di Deleuze e quello di Heidegger[iv][4]. Entrambi partono da una proposizione di metodo, fondante, simile nella possibilità di accedere ad una alterità non formale del pensare.
Tuttavia, mentre ciò che caratterizza il domandare di Heidegger è la ricerca dell'origine, dell'essenza ontologica prima che giustifichi il suo discorso metafisico (il pensiero dell'essere), Deleuze pone «una domanda essenzialmente giuridica su che cosa giustifichi il pensiero nel fare, attualmente e non ermeneuticamente, delle differenze, e, in modo più profondo e radicale, equivale a domandarsi se il pensiero stesso sia un'attività di per sè legittima.»[v][5]
Deleuze non dà per scontato nulla e quando pronuncia la domanda: «che cos'è la filosofia?», sembra contemporaneamente affermare: ciò-che-è la filosofia, ossia il farsi della filosofia.[vi][6]
Heidegger si chiede: cosa è da pensare (dieses zu-Denkende)? Il da-pensare diviene ciò che contemporaneamente si distoglie (abwendet) dall'uomo, ossia si sottrae, diviene mancanza, poiché, per Heidegger, l'uomo non domanda più circa il senso dell'essere, nonostante egli abbia in sé tale domanda.[vii][7] Deleuze si chiede: che cos'è la filosofia? A differenza di Heidegger, che si situa su un piano ontico, dinamico certo, ma sempre legato al tentativo di unire la dicotomia parmenidea essere/non essere, Deleuze risponde: la filosofia (il pensare) è un piano (infinito) di immanenza, sul quale i concetti si dispongono come delle isole, che definiscono (per differenze) i campi del sapere cui ineriscono. Deleuze introduce il tema della ripetizione come differente dalla rappresentazione.
In Hegel, la rappresentazione è Vorstellung, ciò che è possibile mostrare attraverso la concettualizzazione, le immagini che contengono un'alterità che rimanda all'ambiguità della metafora. «Le rappresentazioni in genere -afferma Hegel- possono essere pensate come metafore dei pensieri e concetti.»[viii][8]
La rappresentazione è ermeneutica, interpretazione che si fa nel mentre la parola (fonema), Logos, si accosta al languore dell'esplicazione, che è la necessità della relazione. Quindi, la rappresentazione diviene in quanto atto sociale. Al contrario, la ripetizione, attraverso la molteplicità del suo s-doppiarsi, del suo comparire nella medesimezza di ciò che è altro (senza mai essere simulacro), diviene il solco su cui il rizoma sovrappone le sue intersezioni, rendendo l'evento filosofico il nodo che si chiude e si apre alla comprensione.
2. «Il concetto dice l'evento, non l'essenza o la cosa.»[ix][9] L'evento è l'immediatamente altro che appare dinanzi a noi, cui la fenomenologia ha dedicato (a ragione) così ampio spazio. Se è vero che noi prendiamo le distanze dal già-accaduto nel momento in cui descriviamo l'evento (atto che indica una ripetizione) e lo comprendiamo, segniamo il non-afferrabile, l'essenza. Avvertiamo, in questo modo, la formazione di una differenza. Differenza tra il già-accaduto e l'essenza; differenza tra un atto originario (sottratto alla tentazione cartesiana del pensiero che tutto appercepisce) e una ripetizione che, proprio perché tale, è riproducibile. La ripetizione (non separabile dalla differenza) designa un movimento che è avvicinamento, ciò che dell'oggetto-evento giunge agli occhi dello spettatore.
Nietzsche scardina la rappresentazione della (di una qualsiasi) Storia della filosofia, affermando semplicemente (con la forza del suo essere nella storia e, tuttavia, profondamente fuori dalla storia) che ogni speculazione che noi compiamo è già stata pensata dai greci, poiché il nostro pensiero è una continua attribuzione di valori. Nietzsche definisce questo processo la décadence dei greci.
Egli si muove su un piano di discontinuità, crea cioè un'onda discendente tra l'esperienza del Logos e la subitaneità di un pensiero delle cose che si vorrebbe sempre nuovo, sempre originario. Noi reiteriamo, ripetiamo. E' questa la scandalosa sentenza di Nietzsche-Zarathustra, di Nietzsche-Dioniso.
Questa frattura depone nella contemporaneità il barlume di una consapevolezza. Un dissidio, lo chiamerebbe Lyotard.[x][10] Un paradosso che non è contraddizione ma lega la tensione generata da opposti in un dissidio che non cerca soluzione, quindi sintesi. In questo dissidio si compie la differenza, il portale che apre all'essere (nella sua dimensione soggettuale) il carattere di alterità in sé insito.
Soggettuale e non soggettivo. La distinzione non è casuale, poiché mentre la soggettività conduce al percorso cartesiano della riducibilità del soggetto alla ragione (Descartes pronuncia le parole «Cogito ergo sum», presupponendo il pronome Ego nella sua indissolubile unicità trascendentale), la soggettualità apre alla possibilità dell'essere-soggetto nella diversità di un proporsi non solo pronominale ma di genere, che è quell'essenza della verità cui costantemente richiama Heidegger.
Deleuze (ma si potrebbero citare Foucault, lo stesso Lyotard, Guattari), con la domanda iniziale «che cos'è la filoofia?», indaga -non sentenziando alcunché- la mutevole condizione di tale soggettualità. Se, infatti, il soggetto si pone nell'epoca post-moderna come frammentazione del senso dell'essere, il soggettuale recupera la dimensione della presenza non stratificandola nelle mille tautologiche domande della metafisica, poiché la soggettualità s'inserisce nella piega del «pensiero del fuori» di cui parla Foucault e M. Blanchot.[xi][11]
Il «fuori» è il pensiero dell'Altro ma anche dell'altro da sé, che il piano della schizo-analisi deleuziana ha messo in evidenza come l'antilinearità della ragione che determina un'altra funzione, lo sdoppiamento della coscienza. Se la soggettualità, allora, è divenire, essa si pone in un ambito d'immanenza particolare, poiché è coesistenza co-estensiva, si dilata cioè ai limiti (ancora il con-fine-limen) dell'Altro, determinando (ma andando oltre) quel mondo delle intersoggettività[xii][12] che in Husserl è piano d'immanenza preferenziale vissuta attraverso l'esperienza (Erlebnis), su cui il Mondo della vita (Lebenswelt) si adempie.[xiii][13]
La soggettualità apre l'Essere alla possibilità dello straniero come figura concettuale, i «personaggi concettuali» cui richiama Deleuze, come mimesi attraverso cui il soggetto individua nell'altro la coestensività nomadica del proprio divenire alterità. Lo straniero è il doppio (Der Doppelgänger) o il perturbante freudiano (Das Unheimliche) che rimanda a quella condizione dell'Esserci che Heidegger chiama spaesamento [xiv][14] e che conduce ad una delle caratteristiche della contemporaneità come epoca di transizione.
Nel volume deidcato a Foucault, Deleuze scrive: «.il doppio non è mai una proiezione dell'interiore, è al contrario un'interiorizzazione del fuori. Non uno sdoppiamento dell'Uno, ma un raddoppiamento dell'Altro. Non una riproduzione dello Stesso, ma una ripetizione del Differente. Non l'emanazione di un Io, ma la immanentizzazione di un sempre altro e di un Non-io.»[xv][15]
Tale immanentizzazione è sì la condizione dello spaesamento (Unheimlich), generato dall'Essere gettato nel mondo (sua originaria e ultima condizione), ma rappresenta anche la dimensione fuori/dentro con cui continuamente si confronta l'uomo occidentale: il suo essere è una immanentizzazione dell'inevitabile rapporto con l'altro e con ciò che perturba, che inquieta.
La soggettualità sta nel rapporto «immanente» con l'essere-presente, che è co-esistenza, si avvicina (dimensionalmente) al piano del con-esserci heideggeriano e dell'intersoggettività husserliana. In quanto temporalità, l'essere della soggettualità si manifesta nella contemporaneità, che è il tempo co-estensivo del presente (dei valori immanenti dell'età della tecnica), dove il presente si reitera in una sorta di ripetizione senza presupposti e, soprattutto, senza domande. Come ha scritto M. Perniola: «Il tempo è colmo di presente, così come lo spazio è colmo di presenze: non c'è più tempo per il passato e per il futuro, così come non c'è più posto per l'assenza.»[xvi][16]
Il presente della contemporaneità è ciò che rende simulacro la presenza. La contemporaneità eredita questa dimensione del presente come tutto cui fare riferimento, il qui e ora che soddisfa qualsiasi pulsione, qualsiasi desiderio purché sia mercificato, purché reso oggetto appetibile-godibile, nonché immediatamente fruibile. E' il tratto schizofrenico collettivo, che situa il soggetto nella sua dimensione patologica quotidiana, rendendolo perfettamente idoneo alla trasparenza di una presenza (la propria) che ricerca disperatamente una originarietà, negandola.
Dobbiamo continuare a rimanere in guardia circa il monito lanciato alcuni anni fa da J. Baudrillard? Egli dice: «Nell'indeterminazione il soggetto non è né l'uno né l'altro, resta semplicemente lo Stesso.»[xvii][17] Ecco nuovamente la ripetizione. Ecco il Simulacro.
3. Una domanda è un'istanza che richiede attenzione. Su questo territorio (che designa un campo di afferenza, una filosofia della Terra che ci precede sempre nell'incedere della questione attorno alla cosa) non è banale o scontato sostenere che Deleuze ha attraversato, come Zenone, la cifra di un numero per giungere al nodo della plurivocità.
Zenone di Elea è colui che viaggia, instancabilmente, cercando un passaggio, una zona d'ombra che lasci intravedere l'enormità di un orizzonte asimmetrico, disegnato non solo dall'incontro di due linee di confine: la Terra e lo spazio aereo.[xviii][18]
Con il tratto spezzato della discontinuità (atto peculiare della contemporaneità) ci situiamo in un territorio del pensiero che piega continuamente le proprie forme, arretrando dinanzi all'infantile tentativo di universalizzare il sapere, di renderlo campo precipuo di specialisti che settorializzano e si spartiscono il (vuoto) serbatoio della scienza.
Ciò che chiamiamo contemporaneità designa l'istanza epocale che dalla modernità (che pone ancora la domanda sul senso dell'essere) giunge alla postmodernità (che frammenta il pensiero sul senso dell'essere) per rinnovare l'ulteriore passaggio che apre i confini dei divenire-pensiero, dei divenire-filosofia,[xix][19] lacerando e ricomponendo continuamente il Logos occidentale nella sua vanesia certezza.
La riflessione di Deleuze-Guattari invita a manifestare costantemente una criticità capace di vedere-attraverso l'apparenza per andare, con un'espressione di Husserl, «alle cose stesse», recuperando così un tramite di verità.
Nella sottile piega della differenza si fa spazio nel «Theatrum Philosophicum» (espressione notoriamente foucaultiana[xx][20]) occidentale una didascalia che sconvolge la linearità, il continuum, la pro-gressione del pensiero-Logos (d'origine platonica ma abbondantemente saccheggiato dagli illusi sofisticatori dell'Uno che comprende in sé il Tutto[xxi][21]).
Tale didascalia è la discontinuità che preannuncia la complessità, il non-previsto che si porta oltre il già-accaduto (passato, tra(n)s-corso) e si realizza sul piano d'immanenza infinito, che Deleuze distende sotto i concetti. Il piano d'immanenza è l'anomalia selvaggia costituente il «perché?» di ogni interrogarsi, di ogni domandare che abbia un fondamento.
Deleuze, nella contemporaneità, ritaglia uno spazio al senso del pensare, tracciando una mappa, una cartografia che si confronti con la complessità dei saperi, zone confinanti che si misurano con quella che egli stesso ha definito Geofilosofia, capace di rendere creativamente instabile qualsiasi sistema che abbia la pretesa di essere «globale.». La Geofilosofia inevitabilmente richiama la multidimensionalità del concetto che si rapporta alla figura della Terra-Pensiero come piano del molteplice divenire filosofico),
Dove si attesta il confine, se è vero, come sostiene M. Cacciari[xxii][22], che il con-fine lega inevitabilmente ad un altro luogo (topos) che è esso stesso immanenza, poiché si situa sulla medesima Terra?
Nella contemporaneità il confine è l'immediatamente altro, il luogo della relazione e della prossimità, luogo, infine, che unisce il concetto tra l'uno e l'altro interstizio del pensiero. Eppure la contemporaneità si disillude della necessità di un pensiero dell'altro, delimita la terra come proprio con-fine, temenos da difendere strenuamente a costo di massacri e genocidi. (Noi sappiamo che la reale mossa del con-fine è la propria non-trasparenza, ossia il proprio sottrarsi nel momento in cui la linea è stata tracciata. la filosofia è questo estremo superamento, il passare-oltre la traccia designata). La contemporaneità delimita il pensiero ad essere-simulacro (tema caro a Deleuze-Klossowski), ossia eterna ripetizione di un medesimo che non è simulazione ma oggetto-pensiero, qualcosa che tende continuamente ad altro, una tecnica del pensiero che si compiace e che crea in sé il proprio carattere di differenza.
Tracciare un piano d'immanenza significa individuare un oltre-confine; significa rendere possibile il percorso della filosofia nella contemporaneità, passando (senza lasciarsi fascinare) tra i simulacri ostentati dell'eccedenza che l'estrema mercificazione degli oggetti-pensieri presuppone.[xxiii][23]
La teoria della complessità assottiglia la linea di confine, spostando continuamente il margine tra due territori, due o più regioni che si toccano. Essa cerca di risalire all'evento, fiancheggiandolo e installandosi in esso come un divenire.[xxiv][24] Il complesso evoca i mille piani, l'eterogeneità di un pensiero che rimane nella tensione creativa dei concetti e rifiuta di rifugiarsi sul palco ad osservare; il complesso vive il/del paradosso inconciliabile tra ciò che è possibile comprendere e ciò che invece rimane in uno stato di latenza a generare nuovi rizomi, nuove diramazioni frattaliche.
Il caos spaventa perché è l'informe, l'irrappresentabile. Esso rientra in ciò che è perturbante, nella dimensione dello spaesamento, della mancanza di un territorio originario, poiché nell'informe il territorio non caratterizza in modo stabile i propri confini. Cosa fa il filosofo dinanzi al caos? Qual è la domanda che egli pone? Esiste qualcosa, in questa epoca di transizione che è la contemporaneità, che non sia estremamente seduttivo e, quindi, inconfessabile perché irrappresentabile?
Se Deleuze si richiama (e col suo richiamare muta la propria voce proiettandosi verso l'altro) a Klossowski, a Blanchot è per chiarire il passaggio dell'inconfessabilità, dell'incommensurabilità come eccedenza possibile unicamente in un'epoca dove il segno è simbolo mercificato: il segno che eccede se stesso, infatti, si porta sempre in un altrimenti che è costantemente da indagare, perché dischiude un passaggio, il «pensare altrimenti» insito nell'abbraccio dell'«infinito intrattenimento.»
«.nell'esperienza dell'impossibilità -afferma Blanchot- non predomina il raccoglimento immobile dell'unico, ma l'infinito capovolgimento della dispersione, processo non dialettico in cui la contrarietà è estranea all'opposizione e alla conciliazione e in cui l'altro non equivale mai allo stesso: dovremmo chiamarlo il divenire, il segreto del divenire?»[xxv][25] Su questo segreto gioco d'accostamenti, funzioni di ripetibilità che si disperdono sul piano di una vita (che è quella di Deleuze), il filosofo costruisce le proprie geometrie, un alternarsi di spazi che richiamano sempre al «fuori», all'essente-altro.
4. «Il filosofo riporta dal caos delle "variazioni" che restano infinite, ma diventate inseparabili su superfici o in volumi assoluti che tracciano un piano d'immanenza secante: non sono più delle associazioni di idee, ma dei riconcatenamenti per zona di indistinzione di un concetto.»[xxvi][26]
Rintracciare lì, nel caos, una qualsiasi «logica del senso» può significare solo non indietreggiare, attestarsi tra le pieghe di una linea che silenziosamente smuove il riterritorializzarsi delle regioni epistemologiche, camminare come nomadi sui terreni instabili della (s)ragione che può tagliare in qualsiasi direzione il piano. In realtà, tale taglio è un attraversamento.
Il pensiero fa da tramite, attraversa e unisce i solchi continui che coprono il piano filosofico, struttura che si designa come sovversiva, poiché metamorfizza il piatto procedere della continuità con il passato, che si vorrebbe esclusiva certezza dell'esatta predizione delle cose.
Il futuro filosofico (che presuppone sempre la domanda «che cosa è il pensiero-filosofia?») agisce dentro di sé le discontinuità del divenire soggettuale come il continuamente altro dei concetti che si creano, si formano e trans-formano, smussati dal martello nietzscheano che lentamente erode i margini della fissità, della staticità, di chi vorrebbe a ogni piè sospinto decretare la morte del pensiero critico.
«Il piano d'immanenza -notano Deleuze-Guattari- prende in prestito dal caos le determinazioni con cui compone i suoi movimenti infiniti, i suoi tratti diagrammatici. Si può, si deve quindi supporre una molteplicità di piani, poiché nessuno di essi potrebbe da solo abbracciare tutto il caos senza ricadervi; oltretutto, ciascuno ritiene i movimenti che si lasciano piegare insieme.»[xxvii][27]
Il pensiero-oggetto-merce, che nella contemporaneità è il pensiero che non riconosce il suo passato né si vede come pro-gettante, tende il suo sguardo unicamente al fare della tecnica che si compie da sé e che degenera a tal punto la propria vocazione a creare strumenti sì da trasformarsi esso stesso in un pensiero-della-tecnica onnicomprensivo.
In questo contesto la domanda di Deleuze-Guattari «che cos'è la filosofia?» crea uno spazio di definizione e di territorializzazione, nel momento stesso in cui gli autori deterritorializzano l'agire filosofico, collocandolo in un territorio che è tramite esso stesso, una metaxy che unisce diverse afferenze che mai potrebbero richiamarsi ad un pensiero unico o della globalità. «La filosofia -affermano Deleuze-Guattari- si riterritorializza sul concetto. Il concetto non è oggetto ma territori.»[xxviii][28]
Deleuze accoglie in pieno e fa proprio il suggerimento che con forza Nietzsche lancia dalle pagine de La volontà di potenza: bisogna costruire concetti, inventarli, poiché essi non nascono a caso ma dalla minuscola piega che fa intravedere un'apertura, ancora una possibilità. «Ecco -afferma Nietzsche- cosa finisce per spuntare nel cervello dei filosofi: non devono più soltanto lasciarsi regalare i concetti, non devono solo purificarli e chiarirli, ma devono anzitutto farli, crearli, costruirli e renderli persuasivi.»[xxix][29]
Il pensiero si fa piano di immanenza poieutica, creatrice, poiché diviene la contingenza che pone come imprescindibile la pratica critica dell'intenzione concettuale. In questo luogo altro (contingente perché umano), i solchi, i sentieri, le radure, i deserti e i fiumi divengono il paesaggio costruttivo della posizione del soggetto che si rapporta con altri soggetti, che intesse relazioni e si confronta costantemente con quella complessità frattalica che congiunge i diversi tasselli della polisemicità del pensiero, strappando al fantasma della realtà la negazione al proprio divenire.
«Che cos'è la filosofia?» diviene, allora, il farsi della filosofia, che reclama a pieno titolo nella contemporaneità la necessità di una serrata critica dei saperi, ponendosi su quel piano di immanenza che non è astrazione, bensì contingenza.
5. Tecniche del Soggetto/Tecniche dell'Essere? La contemporaneità sembra portare in sé l'eredità post-moderna dell'estrema frammentazione della domanda sul senso dell'essere (si dice che Heidegger sia stato l'ultimo filosofo a porre tale domanda in senso metafisico, battendo ogni possibile via speculativa). La cifra del senso non sta più nella domanda "fondamentale", ma nella possibilità di ritenere il non-senso non un errore di percorso, bensì un passaggio che apre nuove e inedite prospettive.
Il non-senso, come il senso, è legato alla parola, all'evento che dischiude una prospettiva di alterità. Non-senso, come ricorda Parmenide, può avere il non-essere, tanto terribile nella sua pronuncia quanto profonda è, invece, la polisemicità racchiusa nell'essere. Platone ribalta la struttura concettuale parmenidea, poiché apre un senso al non-senso dell'essere. Apertura. Sembra essere questa la chiave di lettura. Deleuze (ammirevole critico, decostruttore e lettore di Platone) propone l'ampliamento del tratto caratteristico che, linguisticamente, viene assegnato al senso: un gioco, direbbe Wittgenstein. Deleuze suggerisce, appunto, un'apertura.[xxx][30]
«La logica del senso -afferma Deleuze- è necessariamente determinata a porre tra il senso e il non senso un tipo originale di rapporto intrinseco, un modo di compresenza, che possiamo per il momento soltanto suggerire, trattando il non senso come una parola che dice il proprio senso.»[xxxi][31]
Esiste una distanza formale tra senso e non-senso che delimita la percezione dell'evento: ciò che è immediatamente comprensibile ha senso, ciò che non lo è si inscrive nel campo del non-senso. Deleuze scardina il taglio netto creato dalla ragione occidentale (il "famigerato" cogito cartesiano) che tutto vuole ascrivere a sé, sostenendo che «il senso è sempre un effetto»; parimenti anche il non-senso si pone come una gradazione del fenomeno, una possibilità che è differenza concettuale.
Nel teatro di Differenza e ripetizione i concetti estendono il significato della rappresentazione, distinguendola dalla ripetizione. Nelle pagine profonde dedicate a Freud[xxxii][32], Deleuze ammette la ripetizione a patto che non la si confonda con la rappresentazione e quindi la si sublimi attraverso la metaforizzazione del vissuto. La ripetizione è un meccanismo di difesa, una resistenza (inconscia) che impedisce il lineare svolgersi della terapia. Essa permette la dimenticanza che, a sua volta, permette la ripetizione. (Qui sta il gioco del transfert: qual è il luogo del vissuto per l'amore del terapeuta? Esso è nel setting che, come locus-spazio tangibile, contiene la ripetizione).
Ancora, la ripetizione, secondo Freud, turba. «Vi è poi un'altra serie di esperienze che ci permettono anch'esse di riconoscere senza fatica che soltanto il fattore della ripetizione involontaria rende perturbante ciò che di per sé sarebbe innocuo, insinuandoci l'idea della fatalità e dell'ineluttabilità laddove normalmente avremmo parlato soltanto di "caso".»[xxxiii][33]
Il gesto, che (per un lapsus?) Freud definisce involontario e non, invece, inconscio, fa da tramite: la ripetizione porta ad una reiterazione del qui ed ora che in psicoanalisi circoscrive la relazione alla dualità. In essa s'inserisce, sempre, un altro tramite, il perturbante appunto.
Il passaggio che si vuole qui includere risiede nel ritenere la contemporaneità il luogo privilegiato del compimento pieno del pensiero della tecnica o, meglio, delle tecnologie. La società occidentale, che crede di espandere ad libitum i propri confini, rende trasparenza qualsiasi pensiero dell'Essere, del Soggetto, del Corpo: l'identità non coincide più con l'essere un soggetto ma si confonde, si dilata sino a perdere i tratti caratteristici che la filosofia tra Otto e Novecento ha suffragato.
Le tecniche modificano sensibilmente il nostro approccio al soggetto che è/e non è più l'Altro, che sono e non sono più Io. La Cura (die Sorge), che sorregge l'impianto teoretico di Essere e Tempo di Heidegger, non è più la naturale propensione dell'Uomo (Esserci, Dasein) che intende sfuggire al proprio carattere di deiezione (Verfallen); non è più l'aver cura (Fürsorge) e il prendersi cura (Besorgen) nella dimensione dell'alterità che fenomenicamente rende significativa la presenza dell'Uomo.[xxxiv][34]
La Cura si è trasformata in «tecniche di cura» che trattano, modificano e ricompattano un «corpo senza organi», senza semen, senza significato: il senso non sta più nel corpo che si muove, che vive, che soffre, che prova intensamente l'emozione della Lebenswelt (il Mondo della Vita in cui è racchiuso l'esperire del Lieb-Corpo e della Leib-emozione), ma nella tecnica che seduce il corpo, modificandolo in "sostrato" che deve provare qualsiasi eccedenza gli proponga il Mondo dei Simulacri.
Se il tempo del fuori concede un ulteriore spazio al soggetto, esso si distende nella contemporaneità attraverso le mille intersezioni dei piani, che determinano a loro volta il continuo scambio dei divenire-filosofia. Da qui, la domanda deleuziana «Che cos'è la filosofia? » ci osserva col suo interrogare sospettoso.[xxxv][35]