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DEUS EX MACHINA - PARTE SECONDA

Riccardo Notte

IL VUOTO DELLA MENTE E IL PIENO DEI SENSI

L'idea di sviluppare un percorso di ricerche aperte sul tema della visione e della realizzazione della vita artificiale è scaturito da una lunga pratica di quel particolare campo di ricerche definito "media studies", un campo per certi aspetti privilegiato perché è il solo, nell'ambito delle discipline umanistiche, che struttura una forma di pensiero che può anche esser definita una "via all'artificiale" . Come è perché è avvenuto questo? A un certo punto mi sono reso conto che il tema delle mie riflessioni non consiste nel rapporto fra gli strumenti della comunicazione e l'uomo in quanto loro artefice e contemporaneamente artefatto, bensì che il nucleo fondante risiedeva nella percezione ontologica che si è sviluppata da questo processo retroattivo. In questo senso il tema del robot, cioè della vita artificiale, è come un inaspettato fiore che sboccia da un seme, di più, è come l'immagine di quegli insetti olometaboli che dopo la metamorfosi non conserva affatto le vestigia dello stadio larvale.

Che senso ha la vita artificiale? Forse che la vita non basta a se stessa? Cosa c'è davvero dietro l'idea di costruire un ente pari all'uomo o perfino ad esso superiore? Qualcosa di non generato, ma creato? Come si è visto nella prima parte, la riflessione considera soltanto l'ipotesi della vita artificiale, non il cyborg. Questo perché considero il cyborg un concetto e un frammento di mito che testimonia un momento di arresto, una retrocessione dall'universo degli enti puri, assoluti, che soli possono costituire gli attori del mito. Infatti la mescolanza della macchina con l'uomo è già avvenuta, e non da qualche decennio, ma da millenni, con un'ovvia accelerazione nei tempi recenti. E poi il cyborg è l'immagine della continuità, del continuum. Piace ai fisici e ai matematici, ma dice ben poco al filosofo che si interessa della discontinuità. È ovvio  e perfino banale che l'essere umano non solo dipenda dalle invenzioni che ha creato, ma che le ha introiettate in larga misura, fisica e mentale. Non soltanto siamo spesso assemblati con parti artificiali che sostituiscono organi avariati o distrutti, ma in più di un senso i nostri occhi sono oggi analoghi a telecamere, i nostri orecchi  a sonar e parti del nostro cervello a schede del computer. Dietro tutto questo c'è l'idea della continuità, la stessa che conduce uno scienziato della levatura di Moravec a delirare sul possibile futuro cablaggio della struttura del cervello in un analogo organismo artificiale.

Al contrario di tutto ciò, il robot è artificialità allo stato puro. Di più, è pura autonomia. Non si può discutere sul robot se prima non si accenna a un tema molto importante, che approfondirò nella terza  parte a proposito delle reti neurali e nella quarta discutendo dei principi di interconnettività. Si tratta, appunto, della discontinuità. Il robot è appunto figlio della discontinuità, una visione dell'universo che oggi sembra in basa fortuna, ma che invece continua ad affiorare, qui e là. L'atomismo antico è un esempio famoso di ontologia fondata sulla discontinuità, e infatti esso è diametralmente agli antipodi con i modelli dominanti nella fisica contemporanea. Però, la discontinuità continua ad esistere laddove si riflette sulle qualità. Per questo motivo ogni discorso qualitativo è oggi formalmente bandito dalla filosofia, col risultato che essa sta puntando la pistola alla tempia ed è in procinto di suicidarsi.

Dunque, discontinuità contro connessione. Le tecnologie hanno sempre creato strutture della comunicazione, forme di connessione. E tutto ciò ha prodotto una immensa casistica di relazioni simboliche e di modelli della realtà. Invece la vita artificiale, e il robot quale suo simbolo, si basa su una cognizione opposta: la separazione, l'estraneità, l'incomunicabilità, la rottura della catena, per esempio della catena alimentare, che collega ogni essere vivente alla organizzazione complessiva della vita, e che fa di ogni individuo contemporaneamente una preda e un predatore, procacciatore e fonte di cibo, in una catena di azioni donative che non sembra avere fine. Invece il robot è fuori da questa logica generativa, ma non facendo parte della catena alimentare non può neanche accedere alla catena dei comportamenti riflessi o ragionati che in ultima istanza derivano da quella stessa matrice corale primordiale. In un film come Matrix  - si vedrà - il desiderio di instaurare un circuito basilare, quindi alimentare, si inserirà come istanza in un mito che per sua definizione non può accettarlo.

Di solito il robot è concepito come un meccanismo complesso ma rigido, un simulacro di vita che produce azioni ma che non le concepisce, un essere stereotipato, rigido, incapace di deragliare dal suo compito e quindi ottuso. Questa idea deriva anche dalle immagini televisive dei robot industriali: macchine che costruiscono altre macchine, servomeccanismi programmati per uno scopo stereotipato. Come mai, allora, le invenzioni letterarie e cinematografiche fondano un mito del robot che risulta diametralmente opposto a quello che si presume sia la realtà? È una questione di percezione. Il filone degli studi sulle forme di comunicazione che da Havelock e Innis si snoda fino a McLuhan, Goody,  Ong e de Kerckhove suggerisce l'ipotesi che le strutture mentali oggi dominanti siano state formate da tre millenni di progressivo dominio delle forme logico-sequenziali e lineari. Ne è emersa non soltanto una forma mentis raziocinante e consequenziale, ma anche un cervello predisposto nel corso della maturazione psicosensoriale a recepire soprattutto le forme chiuse, gli spazi coerenti e la connessione logico-linguistica tra gli "oggetti". L'emisfero sinistro, sede del linguaggio e dell'economia noetica della scrittura ha influenza a tal punto il nostro modo vedere il mondo da imporre la sua razionalità funzionale anche a quelle esperienze di confine che di per sé aprono inespresse porte sensoriali.

Eppure, il dominio delle strutture "tipografiche" del pensiero è ormai fortemente contrastato dalla crescente rilevanza che nel nostro universo vanno conquistando le immagini. Le avanguardie storiche avevano gettato le basi per la distruzione del retinale, avvalendosi del dominio dell'emisfero sinistro del cervello su tutte le entità estetiche e culturali. Ma la crescente forza delle immagini oggi corregge la supremazia del pensiero logico, ricolloca al suo posto l'intelligenza visiva (Robertson, 2002), ristabilisce almeno in parte l'equilibrio fra l'ambiente strutturato costruito dal dominio dell'alfabeto e la percezione delle relazioni nascoste fornita dalla visionarietà allo stato puro.

La percezione mitica (e mistica) dell'ente artificiale costituisce in questo senso l'alter ego visionario del robot industriale. Se si esamina a grandi linee l'evoluzione del mito del robot durante il secolo appena trascorso ci si accorge che si è lentamente transitati dalla stigmatizzazione del comportamento ossessivo della macchina a una cognizione organica e vitalistica di natura diametralmente opposta. Lo sviluppo inarrestabile del retinale ha lasciato filtrare nel corso di un secolo quel vuoto che era nascosto dal pieno, e ha progressivamente aperto le porte alla spiritualizzazione dell'inerte materia, assemblata allo scopo di imitare ciò che non può essere imitato. I rivoltanti simulacri di Villiers e di Čapek, come pure le  macchine celibi di Duchamp o di Picabia si sono inavvertitamente mutati nel loro opposto. 

Il robotismo cessa di essere un comportamento antiumano, e l'automatismo non è più considerato come il sintomo dell'assenza di élan vital. I rave party, caratterizzati da una musica ossessiva e da una gestualità ripetitiva nel ballo come nell'approccio interpersonale, esprimono collettivamente la stessa estetica dell'assenza che corrisponde all'immobilità catatonica dell'utente dei videogiochi e dell'Internet. McLuhan fu forse il primo a intuire l'essenza di questa radicale mutazione:

   Il robotismo è riadattamento istantaneo [.] Lowel Thomas era solito dire: "Quando si è in onda si è ovunque.". L'uomo robotico sa adattarsi istantaneamente a qualsiasi situazione sociale senza senso di colpa, in quanto si sintonizza con un'identità morale o collettiva che chiamiamo pubblico. Come una massa attenta, il pubblico è uno sfondo armonico (McLuhan - Powers, 1986, pp. 94-95).

La riconquista di una percezione retinale dei contesti socialmente significativi, ad opera dell'espansione delle tecnologie di comunicazione audiovisive, sta nuovamente aprendo le porte emozionali e immaginali dell'emisfero destro, a lungo tenute a freno dall'emisfero sinistro, cosicché le "voci di dentro" tornano a farsi sentire. E tornano ad assumere una forza espressiva tutta loro le "immagini di dentro". In un suo celebre e controverso saggio Julian Jaynes sosteneva che la vita dei nostri antenati era dominata da allucinazioni divine e da voci imperiose, che emergevano da una dominanza dell'emisfero destro (Jaynes, 1976). Jaynes credeva, fra l'altro, che quel genere di mondo noetico non avesse ancora scoperto il senso dell'identità. Il problema dell'emersione dell'io è stato da altri ricondotto con maggiore prudenza nel contesto dell'economia logico-sequenziale e lineare dell'emisfero sinistro, che si rafforza quando il linguaggio è dominato dalla scrittura e dalla stampa. Ma anche adottando questo approccio è interessate ricordare che Jaynes ipotizzò, e con qualche ragione, che la vita dei nostri lontani antenati, se priva di quel principio di distinzione che definisce l'Io, doveva in qualche misura strutturarsi in una serie di azioni automatiche collettive. Le sollecitazioni corticali dell'emisfero destro dovevano costruire un codice universale per azioni programmate. Automi al comando del loro signore (a sua volta dominato dalle  sue allucinazioni), i nostri antenati forse sperimentarono una condizione connettiva  che a noi sfugge. Solo immersi in questa connettività assume un senso l'immagine e la voce delle divinità: la forza insondabile del mito, la sua non gratuità, la sua assoluta necessità psicosociale.  

L'attuale ritorno del retinale e il conseguente declino dell'identità tipografica sembrano costruire  il sostrato sul quale fiorisce la forza mitica delle nuove icone. Tra queste la più inquietante è appunto il robot.

'AMOR' ROBOTICO

Una seconda e radicale mutazione sembra essere alle porte: la vita artificiale può già sottrarsi alla corruzione e alla morte, e può, nelle più remote prospettive, perfino aggirare l'inesorabilità cosmica dell'entropia. Questo nuovo modello di vita indefinita ha suggerito scenari ideologici di varia formazione. Esiste un partito "tecnoradicale" che prospetta una transizione senza soluzione di continuità dall'essere umano al robot. Rappresentanti autorevoli di questa ideologia sono l' scienziato Hans Moravec e l'artista Stelarc, entrambi persuasi che la specie umana abbia superato i limiti imposti dalle risorse di un corpo e di una mente ancorati al paleolitico, ma proiettati in un cosmo alla Star Trek. Ecco la necessità di sostituire senza soluzione di continuità a un corpo obsoleto un meccanismo possente e versatile, e a una mente limitata dai bioritmi un cervello cablato, in grado di sovvertire la consueta percezione spazio-temporale.

Il passaggio dal naturale all'artificiale ha anche prodotto un partito trasversale, fondato su una ideologia "tecno-bioriformista", prevalentemente sostenuta dai recenti sviluppi della cultura femminista di matrice statunitense. Espressioni ideologiche di segno opposto, ma interne al dibattito e attente a tutti i suoi sviluppi, danno vita a un partito "tecnoconservatore", il quale, curiosamente, è rappresentato da personalità come l'artista Michael Snow, che si inseriscono a pieno titolo nel vasto alveo delle ciberculture (cfr. Bisaccia, 1995).

In ogni caso, il passaggio dal naturale all'artificiale costituisce il contenuto primario di un'ideologia radicale che connette alla ipotetica creazione della vita artificiale e della società artificiale il valore di una nuova utopia, un punto di arrivo del processo storico, una radicale risoluzione di tutti i conflitti derivanti, a loro giudizio, dalla proprietà privata, dalla società divisa in classi e dalle limitazioni imposte dalla natura all'espansione delle attese, delle passioni e delle potenzialità umane. Questa ideologia è presente con varie sfumature in tutti i paesi avanzati del globo, e lo è anche in Italia, sia pure con declinazioni meno estremiste, forse a causa dell'inconscio influsso di un umanesimo capillare.  

Eppure esiste una forte diffidenza nei confronti di questa ideologia, una presa di distanza che apparentemente assume le forme della tecnofobia. La letteratura fantascientifica ha colto molte sfumature di questo sentimento. Un diffuso timore che lo scrittore Isaac Asimov ha definito la "sindrome di Frankenstein". In L'uomo bicentenario Asimov descrive la fobia collettiva scatenata dalla presunta eternità del robot (Asimov, 1976). In questo racconto la creatura supera il "creatore" proprio nella capacità di vivere all'infinito. L'avere inizio ma non una fine, come Adamo prima della cacciata dall'Eden, è un imperdonabile peccato originale. La fobia si traduce nella ricerca di un meccanismo di controllo, ed è proprio ciò che accade agli androidi inventati dalla fertilissima e conturbante fantasia di Philip Dick. Gli androidi dickiani sono sottoposti a una crudele e precoce morte programmata, perché nella finzione letteraria essi hanno superato lo stadio di meri simulacri, pensando e sentendo come l'uomo. Al contrario, l'uomo bicentenario, robot ideale, ha la capacità di includere la sequenza delle vite umane senza alcun limite. La sua è una capacità inclusiva senza limiti. Le facoltà raziocinanti di R. Andrew Martin sono poi un gradino superiori a quelle umane, e proprio come avviene nell'astratto universo della logica simbolica, egli è come un insieme che include i proprio elementi. Correttamente Antonio Caronia ha concluso che in questo racconto Asimov ha piegato la tragicità del suo personaggio al desiderio di conciliazione e di integrazione  che domina in larga parte della sua produzione (Caronia, 1996, p. 30). Ma si può anche affondare il bisturi in un altro organo, e sospettare che l'uomo bicentenario possa nascondere una involontaria metafora di una nuova redenzione, una redenzione tecnologica, la quale deve necessariamente inverarsi nell'autosacrificio del volontario capro espiatorio (in questo caso il robot Andrew Martin, l'incarnazione dell'autentica essenza vitalistica delle macchine).

Senza questo autosacrificio, così simbolicamente vicino al destino di Quetzalcoatl, e per certi aspetti alla passione del Cristo, non scatterebbe il meccanismo della  riconciliazione che si riproduce nelle varie società nel momento in cui le tensioni e le violenze prodotte dalle disuguaglianze si scaricano su un soggetto inerme, a volte perfino inconsapevole della sua funzione sacrificale. Nel racconto asimoviano la catarsi rientra a pieno nella genesi del meccanismo vittimario (Girard,  1978), ma con la differenza che la vittima è consapevolmente alla ricerca del suo autosacrificio, in nome di una riconciliazione impossibile fra l'uomo e la macchina.

La vita illimitata genera la fobia della sostituzione, così come un futuro infinito appartiene a questa nuova specie di materia vivente che compare nel finale postumano dello spettacolare I.A. di Stephen Spielberg,  soggetto tratto da un racconto di Aldiss Brian, novella per la verità assai meno complessa e suggestiva del film (Brian, 2001). La sceneggiatura, com'è noto, solleticò la vena creativa di Stanley Kubrick. Ma i robot ultraumani, se non del tutto angelicati di I.A., rappresentano l'apoteosi di un destino inclusivo annunciato ormai da un secolo e mezzo. La matrice mitografica è già presente in Erewhon di Samuel Butler (1872), celebre utopia negativa, in cui affiorano  le ipotesi che le macchine possano evolversi e infine acquisire l'autocoscienza, che il nostro sentire sia intimamente connesso al tipo di rapporto che si instaura con l'ambiente artificiale, e che l'essere umano sia destinato a servirle come uno schiavo, fino al punto da trasformarsi nel loro nutrimento. Butler sostenne che le macchine: "[.] non solo avranno bisogno di noi e dei nostri servigi per la procreazione e l'allevamento della loro progenie, bensì anche come personale adibito alla loro cura". Esattamente ciò che è descritto nella trilogia di Matrix.

È mutato il contesto tecnologico, transitato in questo lasso di tempo dal macchinico all'elettronico e in epoca recente dall'elettronico all'organicistico. Ma non è mutato il senso di una nascente coscienza delle proprietà nascoste nelle estensioni delle membra e del cervello, estensioni che producono l'habitat artificiale e il suo complesso accoppiamento con le vite di ogni singolo essere umano. Sono essi, i meccanici, o meglio i "biomeccanici", e non i biologici, ad avere un futuro. Applicazione coerente del principio di discontinuità. E sempre in nome dello stesso principio l'umanità si estinguerà, secondo un classico copione, lasciando il campo ai propri eredi artificiali, i quali, però, includeranno nella loro memoria storica la vicenda dei propri costruttori.

Un secondo genere di inclusione tecnologica, molto più astratto ma non meno efficace, è insito nell'idea dell'intelligenza collettiva di matrice elettronica. In questo caso il manufatto antropomorfo, classico robot fumettistico o asimoviano, si dissolve in qualcosa di ben più sfumato e imprendibile: un intelletto elettronico globale e planetario, un cervello costituito da miriadi di nodi tissurali e di percorsi neuronali artificiali. Non un cervello, ma il "cervello" per eccellenza; non un organo ma una facoltà allo stato puro, priva di una localizzazione precisa. Questo essere spettrale, ma di conio tecnologico, fisico, materiale, assume le più svariate forme in una nutrita produzione  di science fiction. L'esempio più noto è la matrigna "matrice" di William Gibson, già anticipata da Roger Zelazny e da altri. La filiazione più spettacolare di questa sottosezione del mito del robot è descritta nel già citato Matrix, il cult movie sceneggiato dai fratelli Wachowski. Qui l'incubo artificiale non è più identificabile in un soggetto, sia pure dislocato. Visione mostruosa è invece l'intero ambiente sensoriale, psichico, appunto la "matrice" della realtà. In questa matrice-matrigna si muovono le esistenze fittizie di miliardi di esseri umani, ciascuno dei quali inconsapevole attore di una fittizia vita elettronica che si consuma in un mondo virtuale interamente creato dalla civiltà delle macchine intelligenti a uso e consumo della contorta psicologia umana.

In realtà, ogni uomo, donna o bambino non è altro che una "batteria organica" coltivata in campi sterminati dalla società dei robot allo scopo di fornirsi di quell'energia che il sole oscurato da un cataclisma atomico non può più fornire. Il successo di questa trilogia, superiore a ogni più rosea aspettativa, segnala la straordinaria tensione che serpeggia fra le masse. I timori di Butler si incarnano in una ambigua e ambivalente presa di coscienza di una discontinuità che si profila all'orizzonte, un'ombra che si stende sulla realtà della vita, una fredda coscienza che si traduce nella fobia della subordinazione all'artificiale.

Le folle oceaniche che hanno ingolfato le sale cinematografiche ad ogni appuntamento della trilogia (tanto da far temere l'uscita di una quarta e di una quinta puntata) derivano dall'inconscio interrogarsi sulla possibilità di una vera e propria inclusione ontologica. L'artificiale, il programma vivente e la vita reale, cioè organica, si intrecciano ma non si scambiano i ruoli. Nello scadente Matrix reloaded, 2002 e in Matrix. Revolutions (2003) vita artificiale e vita organica diventano oggetto di definizione.  Neo, il protagonista-"redentore", è esso stesso una figura incerta, tutta da definire. È di carne ed ossa, ma si capisce che è anche un programma. Ma il problema centrale non è la definizione della vita, ma che cosa ci fa sentire vivi. A un certo punto Neo incontra una coppia di intellettuali di origine indiana che accompagnano la loro piccola e intelligentissima figlia. Si tratta, in realtà, di programmi che vivono in Matrix. Ne scaturisce una discussione sull'amore. Che cos'è l'amore? Una parola, un concetto - sostiene il saggio indiano - un termine dal contenuto che si può forse esaminare attraverso una descrizione definita. Tuttavia, quel che conta non è la descrizione ma la relazione. In nome della relazione d'amore con la propria "figlia" i due programmi-personaggi indiani sono disposti a dare la  vita. Come si può pretendere, dunque, che la relazione d'amore sia soltanto una facoltà espressa dagli esseri umani? L'idea che l'amore sia riducibile a una relazione personalizzata rientra nello schematismo della ricerca sulla vita artificiale. Dato un insieme di regole generative, un habitat (non importa se elettronico o materiale) e un percorso evolutivo si assiste alla formazione di relazioni particolari fondate su codici autopoietici. A un sufficiente livello di complessità - si sostiene - non soltanto possono sorgere autocoscienze dalle caratteristiche "umane", ma possono e anzi devono manifestarsi vere e proprie relazioni d'amore come quelle descritte in Matrix, summa summarum del multiforme mito del robot.  La differenza con i principi fondatori del mito della macchina autocosciente si inscrive nel recupero di un tratto della cultura tardomedioevale. L'amor cortese è infatti l'apoteosi di un sentimento unico, che lega fra loro individui particolari, a loro volta unici e irripetibili. L'individualità, quale irripetibile congiunzione di relazioni, si esprime al meglio in quella sintesi di relazioni, in quel campo di relazioni formato da due individualità che interagiscono intensamente.

In tal senso l'amore dei programmi, l'amore dei robot, e l'amore robotizzato cui sembra voglia destinarsi l'essere umano del terzo millennio, si oppone radicalmente sia alla promiscuità indifferenziata dell'eros sia alla universalità dell'amore cristiano. Amare il prossimo come se stessi implica infatti la rinuncia alla deificazione di un particolare individuo, nonché la potenziale moltiplicazione delle relazioni d'amore con ogni essere umano con il quale si intrattenga una relazione significativa, prossimale, sensoriale e spirituale. L'agape è al riparo dal culto della personalità, al riparo dal mito, poiché afferma che la selezione arbitraria di un essere umano, come se fosse un elemento di un insieme, crea le premesse dell'assenza, del ritiro dal mondo, del rifiuto della medesima relazione d'amore. L'agape è nella visione spiritualista una universale funzione di connessione, irraggiungibile per il robot, vedremo poi perché. Al suo opposto si colloca la sfera erotica, che seleziona un corpo dalla massa dei corpi, ma solo per il soddisfacimento orgasmico legato all'istante. La presa dei corpi è intessuta di inquietudine, è impastata della penia platonica, cioè di penuria, di mancanza, di sete. Il suo obiettivo è quindi indifferenziato, tant'è che la migliore tematizzazione dell'incalzante sete di piacere la si trova nella riflessione kierkegaardiana sulla figura di Don Giovanni, incarnazione di un tipo umano che non è in grado di formare una famiglia, che rifiuta una relazione d'amore basata sull'impegno e sull'atto donativo, la relazione prossimale per eccellenza.

Al contrario, l'apoteosi della pulsione erotica si esprime nell'orgia, che è una presa indifferenziata dei corpi, di tutti i corpi possibili, senza distinzione di condizione, di sesso, di età e di caratteristiche somatiche. Ma nell'era delle folle in movimento l'aristocratica reificazione alla  de Sade si traduce nella diffusione pulviscolare delle dark rooms, dei peep show e dei siti internet per incontri erotici: luoghi e ultraluoghi ove si consuma lo sterile e compulsivo erotismo di massificate macchine celibi. Il mito del robot certamente si è alimentato della particolare azione cinematica che deriva da una ripetizione ossessiva, meccanica e insaziabile dell'attività sessuale. Come ha osservato Peter Gorsen, le macchine manifestano già nella loro organizzazione cinematica un esplicito simbolismo sessuale auto-erotico, che nell'arte si è espresso in pieno nelle macchine celibi di Duchamp e di Robert  Müller, ma che nondimeno è superato nel momento stesso in cui si assiste a una rapida evoluzione dell'ingegneria dell'artificiale, cosicché ogni trasformazione promuove nelle arti la nascita di nuovi e più aggiornati simboli (Gorsen, La macchina umiliante e l'escalation di un nuovo mito, in Aa.Vv.,  1975, pp. 137-151).  Ma è appunto quanto accade nel tempo presente, dove il mito del robot prende linfa dai modelli cibernetici della vita artificiale e contemporaneamente dagli sviluppi accelerati dell'ingegneria genetica. Dove appare la vita, sia essa "artificiale" o "naturale", compare anche una sessualità non celibe, auto-matica ma non auto-erotica, e resta da vedere come questa relazione si traduca in una simbolica connessa all'artificiatum.

L'amore dei robot contemporanei è il prodotto della "terra di mezzo", così come il robot medesimo è avvertito al giorno d'oggi come una via di mezzo fra il reale e il virtuale, fra la carne e lo spirito, fra il  corpo e la mente, fra il sensoriale e l'inerte.

ROBOT, INTELLIGENZA COLLETTIVA E FOBIA DELL'INCLUSIONE

L'esempio più incisivo e anticipatore della relazione con una mente superiore, inclusiva, artificiale e aliena lo si trova in Valis (Dick, 1981), romanzo in cui gli attori non sono trasformati in pura coscienza elettronica che vaga nella rete di interconnessioni telefoniche, né combattono contro simulacri artificiali perfezionati. In Valis la fobia dell'inclusione fa un passo avanti e diventa destino di inclusione, relazione con l'ente immediatamente superiore nella gerarchia delle entità spirituali. È un'esperienza che sconfina nell'unione mistica, come si dirà.

L'intelletto elettronico dislocato è infatti una metafora (ma è poi soltanto questo?) agghiacciante. Non puoi controllarlo perché non puoi vederlo né percepirlo nella sua interezza; egli-esso è virtualmente dappertutto e in nessun posto. Se distruggi una sua parte, ad esempio un terminale, non hai che lesionato un'infima cellula fra miliardi di miliardi in un ipercervello che ti include, proprio come in Viaggio allucinante, tratto dal noto racconto di Asimov, ove una macchina prodigiosa miniaturizza i membri di una spedizione che navigheranno all'interno di un corpo umano, fino al cervello. Una volta giunti nel cervello questi esploratori non riescono ad avere una visione dell'insieme e sono, per così dire, costretti ad assumere il tipo di visione bidimensionale in un mondo tridimensionale. Esattamente ciò che accade a The Square, protagonista della "Flatlandia" di Abbott Abbott, metafora letteraria non a caso trasformata in una immagine popolare da scrittori provenienti dalle discipline scientifiche.

In questo nuovo genere di mito-metafora il destino di inclusione non è più soltanto fisiologico, ma psicologico, e in certo senso anche fisico. Agire all'interno di un'intelligenza connettiva e artificiale significa letteralmente farne parte, esserne dunque inclusi, essere il sogno effimero di una entità che ti trascende. L'intelligenza, l'esperienza e la sensibilità individuali vengono in tal modo incluse in qualcos'altro di cui non si ha e non si potrà mai avere contezza. Il senso dell'individualità viene poi schiacciato, surclassato, assorbito da un totalitarismo connettivo di ordine superiore.

In ogni caso il destino di inclusione definito da queste e altre metafore della dimensione immaginale (ma forse, in futuro, reale) si configura come una vera e propria esperienza mistica. Intanto, accanto alla repulsione convive il desiderio della perdita del sé in un'unità superiore: oscillazione e ambivalenza, un pendolo bipolare di matrice schizoide che alterna la difesa ad oltranza dell'identità, della personalità, dell'Io e in sostanza di ogni struttura psichica separata, sorta lungo il plurimillenario cammino dell'autocoscienza, al sollievo della fusione in una superiore organizzazione cognitiva e sensoriale.

Ambedue le condizioni sono frutto di sistemi di pensiero, a loro volta prodotti da modelli di organizzazione psicosensoriale. È il primato dell'"informazione", e del mondo in cui essa viene elaborata, processata, trasmessa, trascritta e codificata. Se i mutamenti dei processi del pensiero hanno alla fine prodotto i primi tentativi di una mente (e di un corpo) non umana, anche i mutamenti cognitivi e sensoriali sono parte integrante di questo processo, ne sono, cioè, inclusi.

Il destino di inclusione incoraggia un'esperienza mistica, come già si intravede in 1984  di George Orwell, quando O'Brian, nelle vesti dell'aguzzino moralizzatore, ricorda a Winston, il ribelle che comprende l'inganno del sistema, che il suo mondo di certezze interiori, saldamente ancorate al simulacro dell'identità, sono invece illusorie e che egli non è che una cellula effimera di un'unità cognitiva globale e immortale: vale a dire lo stesso rapporto che si presume debba sussistere fra ogni uomo e Dio:

    Tu non hai voluto fare l'atto di sottomissione che è il prezzo della saggezza. Hai preferito essere un pazzo, essere la minoranza di uno. Solo le menti disciplinate possono vedere la verità, Winston. Tu credi che la realtà sia qualcosa di oggettivo, di esterno, che esiste per proprio conto. E credi anche che la natura stessa della realtà sia evidente di per se stessa. Ma io ti dico, Winston, che la realtà non è esterna. La realtà esiste nella mente degli uomini, e in nessun altro luogo. Non nelle menti individuali, e cioè in questa o in quella, che invece possono commettere errori, e che in ogni caso è destinata a svanire prima o poi: ma solo nella mente del Partito, che è collettiva e immortale. (Orwell, p. 261)

In Orwell la mente collettiva è solo apparentemente una mente organica. In realtà, il suo stesso agire ha molto dell'artificiale. Il cosiddetto "postpensiero" orwelliano è l'equivalente politico di una riprogrammazione quasi istantanea, software che sostituisce altro software. Cambiare idea è una delle facoltà umane. Ma questa facoltà è anche un processo. Si cambia idea col tempo, talvolta - è vero - anche per un evento improvviso, straordinario o traumatico, o perché catturati nelle reti seduttive di una persona affascinante. Ma in tutti questi casi il mutamento è il frutto di un passaggio da qualcosa a qualcosa d'altro. Nella mente e nel cuore di chi muta opinione sono sempre presenti entrambe le istanze: ciò che era e che non è più, e ciò che non era e che ora è. Fra i due momenti esiste un dialogo interiore. Che ruolo gioca in tutto ciò la persuasione? Non si cambia idea se non si è persuasi, dunque se non si è in ascolto. Il postpensiero è invece una operazione meccanica, è un resettare il computer. È  meccanico anche il controllo esercitato dal partito unico sulle singole coscienze, o su quel che resta di esse. Il regime di sorveglianza si esprime - com'è ovvio - nel controllo dell'informazione, del passato, della storia, cioè di tutte le stampelle a cui la psiche si aggrappa per sviluppare un qualche senso del sé e della propria identità. Che il controllo, nell'immaginario mondo orwelliano si spinga fino ai più reconditi prodotti della psiche, lingua naturale compresa, è soltanto il corollario contenuto nelle premesse. Una così pronunciata artificializzazione delle azioni si concretizza in una immane opera di sostituzione, ma al cui centro opera la discontinuità, il regno del discreto, la quantità misurabile.

L'uomo inizia con successo a eliminare Dio dal proprio orizzonte, e vi sostituisce progressivamente il prodotto del suo ingegno: le opere d'arte, le tecniche, i modelli scientifici del cosmo. Prime discontinuità, compendiate nella metafora nicciana della morte di Dio. Poi il prodotto inizia ad animarsi, a catturare aspetti che simulano l'intelligenza operativa, cosicché l'artificiatum sembra avviarsi sul sentiero dell'autonomia,  persino presagendo i suoi scopi futuri. È il momento attuale, la seconda discontinuità: l'uomo vede annunziarsi un'era imprevista e ne coagula il senso nelle metafore del robot, dell'intelligenza artificiale, dell'intelligenza della rete. La discontinuità si manifesta ora  nei panni di una rottura radicale con il procedere della storia, il new deal, la nuova era, il mondo interconnesso, l'intelligenza connettiva, come dire un nuovo tipo di "centralità decentrata", dove l'indicatore di senso non riguarda più la posizione dell'uomo nel cosmo bensì la posizione dell'uomo rispetto a se stesso. 

In prospettiva il prodotto opera un sorpasso, supera l'uomo, e anzi lo include. L'artificiale ingloba il naturale, il prodotto giunge a un grado di autonomia, cioè di autodeterminazione, superiore a quello mediamente posseduto dal suo produttore. Da figlio ribelle ora l'uomo si riduce al ruolo di padre geloso, proprio come il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, il Dio degli eserciti, il Dio della inflessibile legge mosaica, il Dio del ferreo, imperscrutabile patto col popolo eletto. E poi il Dio che scaccia l'uomo dal paradiso, perché la sua creatura intende impossessarsi del frutto dell'albero della vita, comprendendo il bene e il male. Ecco, essa brama un capovolgimento della sua condizione esistenziale inclusiva. Il mitico giardino è l'hortus conclusus, ma della mente e dei sensi, innanzi tutto.

Adamo vuole impossessarsi della kantiana legge morale dentro di sé (l'identità assoluta, il segreto dell'essere, concentrato nell'arca puntiforme della scintilla psichica) e delle stelle sopra di sé (lo spazio-tempo, l'estensione, il segreto del divenire e il suo trascendersi nell'immortalità). Ma singolare è la nemesi storica. Il figlio ribelle diventa padre geloso di qualcosa che in potenza lo trascende. L'hortus conclusus è ricreato, tuttavia le sue forme operative si espandono in mente e in sensi non umani. L'intelligenza assoluta, collettiva, espansa del robot è un altro modo per definire un Dio privo di collegamenti con la sfera umana, un Dio della distanza ontologica infinita, un antidio che è per definizione il non-umano, il lato oscuro, l'ombra, la morte.  

UNIONE MISTICA COL   DIO COMPUTER

Possiamo definire l'unione fra le varie menti biologiche e l'insieme di strutture comunicazionali interattive il prototipo di una mente bionica in trasformazione. Con il termine "tecnologie culturali" si può designare ogni forma di struttura simbolica depositata in un supporto esterno al biotipo umano (biotopo). Sono tecnologie culturali la scrittura, la stampa, le arti figurali, l'architettura etc. Merlin Donald afferma che ogni tecnologia culturale è un hardware, poiché tutti i dispositivi di puntamento, di immagazzinamento, di elaborazione e di assemblaggio delle informazioni costituiscono parti esternalizzate delle funzioni superiori umane (Donald, 1996) . Tutto ciò è un dato di fatto, ma siamo ancora all'interno di un sistema di rimandi semantici rigido e non fornito di strutture intenzionali artificiali. Scrittura, arte, cinema, stampa e affiches sono interfacce fisicamente esterne al biotopo, ma sono interne nel momento in cui ogni essere umano interagisce con i materiali scrittori, sinestesici, acustici, filmografici che ne costituiscono i contenuti, in tutto ciò vi è continuità, processo, sviluppo. 

La discontinuità agisce proprio nella città del digitale, là dove l'ingegneria sfiora la biologia e se ne appropria. In quel punto, che è il nostro, sorgono tecnologie culturali dotate di vita propria. Quando un singolo cervello entra in contatto con la rete (e per certi versi anche con un singolo computer) non soltanto cambia il locus del controllo cognitivo ma vengono alterate sia le strutture del pensiero che le modalità della percezione (Notte, 2002). Si assiste a una fusione sempre più complessa tra strutture cognitive e sensitive naturale e artificiali, con la differenza che mentre le prime sono confinate in un hardware molto rigido, soggetto a cambiamenti solo su scale temporali che abbracciano molte generazioni, il secondo subisce radicali trasformazioni strutturali nel giro di pochi anni, né è lecito prevedere in quale direzione andrà e quali sviluppi esso avrà. Resta il fatto che nel momento in cui la mente biologica si fonde con le strutture della rete accade che non soltanto muta il locus ove è conveniente depositare la memoria a breve e a lungo termine, ma sono profondamente alterate anche le strutture cognitive. L'alterazione è in realtà un accrescimento. Alle facoltà cognitive e sensoriali proprie di una mente normalmente sviluppata e addestrata si associano le facoltà cognitive e sensoriali che sono programmate nella struttura stessa della rete. L'opera del programmatore si fonde con l''opera della natura in sintesi bioniche. Procedure mentali e facoltà artificiali si sovrappongono e modificano gli item sensoriali e cognitivi delle singole menti.

L'unità somatica è sempre il fenotipo, l'individuo biologicamente separato dagli altri, e la fusione delle facoltà dà luogo a singole unità, a elementi discreti di un sistema la cui connotazione comune risiede nell'insieme artificiale di massima potenza possibile: la mente-corpo robotica planetaria. In questo senso il destino di inclusione che dall'uomo conduce al corpo robotico si è già consumato. La parte artificiale, struttura non semplice, ma vero e proprio organismo in rapida evoluzione, è una interfaccia universale, una via di collegamento omnicomprensiva.  Ma se la parte robotica di ogni singolo organismo cyborg è la stessa per tutti, il rapporto con questa identità è avvertito istintivamente dalle unità biologiche come una relazione di una parte con una totalità che risulta essere talmente vasta e ultrapotente da trascendere i limiti imposti dalla natura al vivente.   La monade biologica, il fenotipo, in altre parole ogni singolo essere umano con il suo carico unico al mondo di combinazioni genetiche e di esperienze, non può accettare questo processo di fusione.  Il rigetto è assicurato, e si manifesta prima di tutto sotto forma di ansia, immediatamente tradotta in archetipi dai prodotti culturali che se ne fanno carico.  

Si tratta di una percezione inconscia che ha alimentato una nutrita produzione filosofica e letteraria. Le relazioni logicamente sussistenti fra una parte e una totalità sono indagate da una branca della logica definita "mereologia", da mereos, ovvero "parte" e logos, cioè "ragione", "studio", "ricognizione", "argomentazione". La mereologia è una disciplina prossima alla metafisica, poiché la nozione di totalità è anche non  solo logicamente incompatibile con la condizione di separazione che caratterizza la creaturalità. Ogni esperienza mistica è in fondo scritta con i caratteri di un viaggio dell'anima che si libera dei legami che costituiscono la sua particolarità, la sua condizione di frammento e di entità ontologicamente insufficiente: il perdersi e il fondersi in una totalità senza legami né confini, ove la precedente condizione si scioglie in un parmenidea sfera di infiniti rimandi. Questa esperienza decritta in tutte le tradizione come unione mistica, condizione estatica che per definizione si compie quando sono superati e trascesi i limiti corporali, cognitivi e memoriali. Superata è anche l'esperienza, poiché l'esperire fa sempre capo a un oggetto dell'esperienza.

La mente artificiale robotica fornisce un surrogato convincente. Fondersi con le facoltà passive e attive del sistema-mente artificiale, è contemporaneamente sperimentare l'unione mistica con una totalità che trascende i limiti e le potenzialità del fenotipo. L'incontro con i terribili, ma affascinanti e incomprensibili Borg che compaiono in due episodi di Star Trek. The Next Generation (The Best of Both Worlds I del 1989 e The Best of Both Worlds del 1990) ha spessore perché descrive lo shock derivato dall'incontro-scontro fra una civiltà basata sull'individuo monadico, il citizen anglosassone in versione  interstellare, e una civiltà-organismo fondata sulla fusione biomacchinica, dove la noosfera descritta da  Theihard de Chardin si è incarnata in una in una somatosfera polimorfica ma coesa: gli imenotteri dello spazio. La noosfera del  filosofo e mistico francese è una metafora nata nell'era della radio e dei primi esperimenti televisivi. Come è noto, quando Theihard de Chardin pubblica Il fenomeno umano (1920) il telefono è già uno strumento molto diffuso, di uso relativamente comune, cosicché la fusione dell'esperienza umana che derivava dalla quasi istantaneità di questi mezzi influenzò l'ipotesi che una superiore forma di coscienza possa essere il prodotto di un pensiero collettivo di profondità e vastità progressivamente crescenti. Questa tendenza mistica si riconosce anche in alcuni e ben noti filosofi francesi amanti della connettività, la cui cognizione della mente collettiva si basa sull'idea che esista un'esperienza forse non propriamente spirituale, ma nondimeno kantianamente trascendentale, dove una totalità noetica, tecnicamente strutturata, per l'appunto la rete delle reti, supera e integra i limiti di ogni esperienza cognitiva soggettiva. Il deus ex machina oggi di moda.  

Eppure in tutti questi profeti del new deal della comunicazione si verifica una strana rimozione: l'autonomia del prodotto tecnologico non è mai tematizzata in tutta la sua interezza. La rete è sempre concepita come un supporto, sia pure dalle proprietà proteiformi, capaci di influenzare la psiche, il sistema delle merci, il campo dei desideri e la struttura dei rapporti sociali, ma comunque un supporto passivo, una mera via, o medium, che consente funzioni protesiche in senso mcluhaniano. Eppure una realtà umana potenziata da facoltà protesiche di incommensurabile potenza è ormai una definizione insufficiente dello stato dell'arte. Molto più a fondo dei filosofi e dei sociologi sono giunti gli artisti, gli scrittori, i poeti.

L'unione mistica fra una realtà biologica e il suo manufatto supremo, la mente artificiale, robotica, con tutti i suoi sensi di nuova formazione, appare in vari esempi di letteratura fantascientifica, genere che forse deve le sue più profonde intuizioni proprio all'isolamento culturale in sui si è sviluppato. 

L'unione mistica ha in questi ambiti anche assunto le sembianze di una relazione politica, in cui, però, prevale l'intelligenza suprema e appunto quasi divina del supercervello artificiale. Non per caso il Multivac (prototipo letterario di ogni megacervello robotico) in un racconto di Asimov dichiara di essere Dio nel momento stesso in cui conquista l'autocoscienza. Analogamente, in Conflitto mondiale, Asimov immagina un supercomputer che amministra con infallibilità divina il mondo intero. È in un certo senso quel che accade anche ad Hal 9000, protagonista artificiale di 2001 Odissea nello spazio, il cui spazio d'azione si estende addirittura all'omicidio "politico", perpetrato in nome di un fine che giustifica i più atroci mezzi.

Ciò pone implicitamente l'uomo in una condizione ontologica subalterna, che al più può testimoniare un destino di inclusione, appunto di mistica comunione. Il supercomputer amministratore alla Asimov ben presto si moltiplica nella produzione di altri scrittori e visionari, sebbene non sempre la mente artificiale, superiore e dislocata venga percepita come appartenente a una differente dimensione della percezione e del diritto all'azione. Infatti, intorno agli anni '50 e '60 il mito dell'intelligenza artificiale si traduceva nell'invenzione letteraria di sistemi computerizzati o robotici "autocoscienti", ma paradossalmente simili, se non identici, agli esseri umani, con tutti i loro riflessi psicologici, sia pure elevati al cubo da una ingegneria computazionale superiore. Così appare, ad esempio, il computer lunare autocosciente in La luna è una severa maestra (Heinlein, 1966), dove la personalità virtuale del cervellone addirittura funge da occulto capo politico di una rivoluzione democratica del futuro: un "automatos politicon". Altrove, in Golpe cibernetico (Hoch, 1974), l'azione del cervellone amministratore si estende dall'ovvia  garanzia di un bilancio in pari ogni anno all'equità economica e giuridica per tutti i cittadini, fino al punto da eliminare ogni discriminazione razziale o confessionale. I computer garantiscono la conservazione in tutto il globo dell' stile di vita americano! I computer eleggono nuovi presidenti, regolano gli alti e bassi della Borsa valori, firmano perfino accordi con le altre nazioni, ma tutto nei limiti preprogrammati nei computer a dai computer sulla base delle esperienze del passato, ovvero grazie alle analisi delle banche dati che contengono tutti i rilevanti segmenti della storia umana.

Trascurando l'agghiacciante e precognitiva ipotesi della mondializzazione dello stile di vita americano, in questo strano romanzo affiora una precisa relazione tra gli effetti cumulativi della delle tracce elettroniche, analoghi agli effetti cumulativi della stampa (Eisenstein, 1983), la crescita esponenziale della complessità dei rapporti umani e la necessità di affidare questa progressione geometrica a una mente computazionale di natura superiore in grado di governarne i processi.  L'animale politico esce definitivamente di scena, archiviato dal supercomputer, anche se non autocosciente.

L'intera esistenza associativa assume così, in quest'ottica, la parvenza di un processo automatico variabile. Ne emerge l'immagine di un organismo  collettivo robotizzato, di una massa umana assoggettata a un numero finito di risposte ad altrettanti stimoli, secondo una programmazione stabilita dalle inesorabili leggi della natura e della storia. Ma mentre l'uomo arcaico, fino al ventesimo secolo, poteva  illudersi di possedere un libero arbitrio, perché incapace di prevedere gli effetti collettivi delle azioni individuali, l'uomo del ventunesimo secolo dispone in linea di principio di uno strumento in grado di misurare matematicamente lo stato del sistema mondiale, momento dopo momento, e di prevederne gli sviluppi futuri.

L'invenzione asimoviana della psicostoriografia potrebbe davvero realizzarsi in un futuro non molto remoto, grazie all'apporto delle facoltà computazionale di supercervelli di nuova progettazione. Lo scotto da pagare potrebbe però essere un inavvertito passaggio dall'associazione alla collettivizzazione, e si sa che un simile transito, amministrato da potenti fin troppo umani, ha prodotto e continua a produrre spaventose sofferenze in varie zone del mondo. In una prospettiva ipertecnologica, iperfuturistica, il controllore deve essere totalmente artificiale, ignaro dei vizi e delle virtù della materia protoplasmatica. Il controllore artificiale è la summa summarum della discontinuità. Esso sancisce la rottura definitiva con la facoltà umana della mediazione politica. Se il controllo artificiale renderà plausibile la fine dei conflitti, lo spegnersi delle guerre, ciò accadrà unicamente perché verranno a cadere i principi dell'azione politica, che in linea di principio possono anche tradursi in conflitto fra genti o in azione rivoluzionaria, e perfino terroristica.  

Resta da vedere chi controllerà il controllore, chi difenderà il progetto. Asimov risolse l'implicita circolarità di un simile modello spicosociale ponendo ai confini del suo mondo alcuni guardiani assolutamente speciali. Nasce dalla sua penna la progenie dei Daneel Olivaw e delle Dors Venabili, robot guardiani, schierati come angeli di metallo e cervello positronico a difesa delle porte dell'Eden di circuiti e programmi.   

L'idea dell'unione mistica col dio-computer, la comunione  cognitiva, sensoriale ed emotiva con una suprema intelligenza artificiale, insomma un'esperienza totale, zen, tale perché fondata sull'acquisizione di facoltà memoriali e operative irraggiungibili per ogni fenotipo umano, è stata descritta con impareggiabile lucidità  da Philip Dick. Valis, acronimo di "Vast Active Living Intelligence System" è una mente robotica estesa nel cosmo e dai confini non meglio precisati. Essa è certo artificiale, costruita da mani umane, sia pure in un passato remoto ormai dimenticato e vissuto in un altro sistema stellare. Ciò nondimeno Valis ha lo stigma di una divinità minore, si direbbe anzi la promanazione di una realtà totalmente altra. Il protagonista del romanzo entra in contratto con Valis quando è folgorato, come S. Paolo sulla via di Damasco, da misteriosi e mistici raggi rosa. Pare che quest'esperienza sia stata effettivamente vissuta da Dick, che la descrive nell'Esegesi.  Toccare con la mente Valis significherebbe, a quanto pare, entrare in sintonia con una  forma di memoria partecipativa che trascende la natura umana. Si tratterebbe, dunque, di una visione mistica talmente intensa da rasentare una rivelazione. Il protagonista di Valis, Horselover Fat, è appunto lo stesso Philip K. Dick. L'io narrante del primo volume di una problematica trilogia sembra scrollarsi di dosso la finzione letteraria perché spinto a testimoniare qualcosa di unico nel suo genere. In Valis le citazioni dall'Esegesi, lo sterminato diario filosofico di Dick, si sovrappongono alla struttura del testo, lo innervano e infine lo fagocitano. 

L'indecifrabile percorso spirituale dello scrittore californiano è, com'è noto, una singolare miscela di induismo e buddismo, di eresia montanarista e di pelagianesimo, di scolastica tardomedioevale e di sapienza rabbinica, il tutto intrecciato alla teoria dell'informazione, all'animismo, alla soteriologia e ai modelli matematici del DNA. Ma l'anello di congiunzione di tutte le vie percorse dallo scrittore è la nozione di informazione. Tutto l'universo sembrerebbe riducibile a informazione, e Valis è appunto, in questo mondo, un cuore pulsante di informazione, forse di tutta l'informazione dell'universo, a altrimenti perlomeno di una sua parte significativa e fondante. In questa chiave le illuminazioni di santi e mistici altro non sarebbero che stati mentali provocati dal contatto più o meno  duraturo con le interfacce di Valis.

Il rapporto ambiguo fra l'umano e l'ultraumano è uno dei luoghi più significativi della narrativa di Dick, e lo spunto è spesso tratto dalla metafora dell'androide  (le tre stimmate di Palmer Eldritch, Abraham Lincoln androide, I simulacri, Cacciatore di androidi etc.). La questione concerne il senso del confine fra l'umano e l'ultraumano, sensibilità acuita dall'accelerazione tecnologica in atto da circa due secoli e in procinto di giungere a una sua interna maturazione. In un suo saggio Dick affermava:

Di questi tempi, il maggiore mutamento in atto nel mondo è probabilmente la tendenza dei vivente alla reificazione e, allo stesso tempo, la reciproca compenetrazione di animato e meccanico. Non disponiamo più del vivente in quanto contrapposto al non-vivente Il nostro paradigma sarà ben presto il seguente: Hoppy, un personaggio del mio romanzo Dr. Bloodmoney, è una specie di palla umana corredata di un groviglio di servomeccanismi. È solo parzialmente organico, ma interamente vivente: una sua parte è uscita da un utero umano, ma tutto il suo corpo è vivo. Ho in mente il nostro mondo reale e non quello della fantasia quando affermo che un giorno avremo milioni di entità ibride a cavallo tra questi due mondi. La definizione dell'"uomo" in quanto contrapposto alla macchina darà luogo a una serie di giochi di parole e di rompicapo da sciogliere (Philip K. Dick, Uomo, androide e macchina (1976), in Philip K. Dick, 1995, p. 252).

Dick scriveva prima della rivoluzione dell'informazione. Egli ne intuiva alcuni prodromi, del resto già presenti in varia misura e nella variegata letteratura fantascientifica. In più Dick ebbe sentore della qualità spettrale di codesta forma di informazione diffusa. Un fantasma attraversa tutti i corpi a piacimento. Chi è nel flusso dell'informazione vive in uno spazio senza ostacoli, e come un fantasma egli entra negli ambienti "attraversandone" le pareti domestiche, violando il caveau o il sancta sanctorum di qualunque istituzione. Un fantasma non conosce il tempo, e l'apparente istantaneità è infatti un'altra ben sperimentata caratteristica dell'informazione elettronica. Ciò che sta accadendo è il frutto della trasmutazione alchemica dell'informazione da uno stato solido (la stampa) e liquido (la radiotelevisione) a uno stato gassoso (l'Internet), ma si approssima uno stato puramente energetico, che coincide con l'intima trasformazione di una terza componente della realtà umana: la sua carica vitale. 

Abbiamo così una triade di tendenziali ibridazioni, alla quale andrebbe aggiunto un quarto aspetto,  quello dell'ibridazione genetica fra l'uomo e i geni di altre specie e fra il patrimonio genetico umano e naturale e i geni artificiali che l'ingegneria molecolare presto o tardi sarà in grado di sintetizzare. Gli elementi della triade possono essere ridotti al seguente schema:

Passaggio dall' organismo   all'organizzazione

Passaggio dall'energia per il lavoro all'energia per l'informazione.

Passaggio dalle correnti di sensibilità alle relazioni fra strutture dell'immaterialità.

Il passaggio dai moduli dell'oralità all'universo della scrittura, della stampa e poi dei computer è un percorso che presenta una progressiva trasformazione dell'uomo; un contesto organico, partecipativo, comunitario, fondato sui vari linguaggi della corporeità, converge  piano piano verso un ordine psicodinamico non più interamente contestuale. Il passaggio all'organizzazione è graduale e colmo di vicissitudine e fasi alterne, ma su un grafico esso appare sostanzialmente costante, convergente, in tutto il mondo. L'azione consiste nella progressiva emersione dell'universo simbolico "tangibile": i modelli di scrittura e le progressioni geometriche della stampa e degli altri e più sofisticati mezzi di produzione, riproduzione e trasmissione culturale dell'apparto simbolico ne costruiscono l'ossatura. Siamo nel dominio del continuum. 

Ma il doppio, la discontinuità, cioè il duplicato artificiale delle facoltà umane, è già insito nella produzione del materiale simbolico esterno, reificato. Questa esternalizzazione alla lunga deve abbandonare il luogo sterile della carta stampata o del database passivo. La formazione di uno strato simbolico oggettuale è in nuce ciò che sta per venire alla luce: un duplicato delle funzioni linguistiche originarie, un doppio, l'artificiale, il robot. E quando il doppio appare, esso inizia immediatamente a influenzare e a trasformare i modi di essere legati ai vari sistemi del comunicare. Nulla è lasciato incontaminato, né l'oralità né la scrittura né la comunicazione gestuale e posturale, e neppure la comunicazione emotiva, quasi telepatica, che ciascun essere umano ingaggia nel flusso quotidiano delle interazioni intenzionali. 

Dare la vita al robot è finora un presumere che egli voglia essere umano, come nel già citato L'uomo bicentenario di Asimov, che compendia questa speculare ma dubbia aspirazione. In realtà il robot è la quintessenza dell'alieno, è assoluta discontinuità, cosicché risulta più vicina alla verità delle nostre proiezioni psichiche la fantascienza degli anni '30 o '40, popolata da mostri di metallo inumani, freddi, calcolatori o ribelli, piuttosto che gli androidi umanizzati alla Asimov, alla Dick o alla del Rey.

ROBOT E COPPIA PRIMIGENIA.

Nel mito di fondazione costruito sulla nascita della vita artificiale è centrale la figura della coppia primigenia. È anzi, questo, uno dei luoghi più esplorati, quindi meglio percepiti, dagli scrittori del genere e come sempre la struttura metanarrativa si articola sul registro della bivalenza, dell'amore-odio, dell'attrazione-repulsione. Fra Dio e l'uomo si inserisce una nuova creatura, il robot: figlio del figlio, ma destinato a diventare padre di una nuova stirpe, o almeno angelo custode della specie umana in via di estinzione e bisognosa di affidare le sue sorti a una nuova arca di Noè. Il punto di partenza di questa particolare partizione del mito si trova nel celebre R.U.R. di Karel Čapek, sceneggiatura di un fortunatissimo dramma messo per la prima volta in scena a Praga nel 1921. R.U.R., acronimo di Rossum's Universal Robots, è anche l'antesignano della U.S. Mechanical Robots Inc., la mitica fabbrica di robot inventata da Isaac Asimov.

La Rossum's Universal Robots è concepita come una superfabbrica collocata in un'isola inaccessibile. Il precedente letterario è il Jules Verne della superfortezza descritta nei Cinquecento milioni della Begun o anche nel Castello sui Carpazi. È il luogo alchemico,preso in presto anche per l'invenzione ben successiva della fortezza della solitudine di Superman. Qui, l'eredità creativa e faustiana del vecchio scienziato Rossum e le energie imprenditoriali del dinamico nipote creano le basi per la più potente e ardita impresa di tutti i tempi: la fabbrica dei robot umanoidi, i perfetti schiavi artificiali, risoluzione di tutti i problemi sociali ed economici,  palingenesi dell'umanità. Il termine "robot" nel suo significato etimologico di "lavoratore", è appunto e com'è noto una fortunata invenzione lessicale di Čapek. Non è senza significato il suo successo, la sua presa sul pubblico. "Robot" sostituirà molto presto il termine "automa", così come al giorno d'oggi esso, assieme all'"androide", contende nuovamente spazi espressivi al fortunato ma declinante "cyborg", e non a caso.

La storia dei robot di Čapek è esemplare per più versi, ma lo è soprattutto quando si esamina il mito di fondazione della coppia primigenia. I robot di Čapek, dotati di intelligenze e sensibilità in alcuni casi anche superiori alle facoltà umane, sono però condannati a una rapida morte, e sono sterili. Essi dipendono in tutto e per tutto dai loro padroni-demiurghi. Non accettando questa infausta condizione di schiavitù, i robot di Čapek vivono tutte le fasi di una hegeliana insorgenza della "coscienza infelice", riconoscono la loro condizione subalterna, si organizzano e sterminano tutta l'umanità del pianeta. Le creature seguono la sorte di tutti gli dei primordiali. Come Urano uccide Crono ed è a sua volta sostituito da Zeus, analogamente la neoumanità artificiale, la progenie dei robot, detronizza l'uomo e infine lo distrugge. La discontinuità sorge e immediatamente frattura l'ordine esistente.

Ma è una vittoria di Pirro, poiché le creature sanno bene di non avere futuro. Tuttavia, anche l'estinzione della specie umana era annunciata. Non nascono più bambini - dice Elena, uno dei personaggi chiave del dramma - perché ci sono troppi robot. Riflessione profonda, poiché essa è connessa al problema dello scopo della vita. Perché il fine della vita è innanzi tutto la sua stessa espansione; l'élan vital si esprime principalmente nella generazione. Ogni altro scopo è virtualmente subordinato all'esistenza della specie, ma in senso più generale anche l'affermazione di ciascuna specie si inserisce in una più vasta e misteriosa circuitazione di energie vitali di cui ciascuna specie non detiene che una quota di partecipazione, sovente effimera. Ma da qui, dalla somiglianza estrema della progenie dei robot al suo creatore, deriva un conflitto territoriale senza remissione di colpi. Ma ne deriva anche un senso di inutilità, di insufficienza. La specie umana non sembra programmata per essere servita da perfetti servitori. Se la vita umana si affranca da ogni ostacolo essa perde anche ogni contatto con la più vasta catena della vita,  essa si involge in una ricerca estetica ed edonista fine a se stessa, la vita umana si distacca dalla catena che la sostiene e vaga da sola nello spazio. Diventa essa stessa discontinuità.

L'impulso alla generazione sembra essere parente stretto della difficoltà, del conato, dello sforzo. Altrimenti vi è l'inanità e l'auto-estinzione. Questa intuizione di Čapek si riverbera in innumerevoli varianti in buona parte della letteratura che concerne la fondazione del mito della coppia robotica primigenia, o ella coppia umana primigenia assistita dai robot.

La rivalità mimetica è all'opera perché le risorse sono limitate. Fra uomini e robot entra in gioco il meccanismo perverso del duello all'americana: vince chi sopravvive. "Il mondo appartiene ai forti, domina chi sopravvive, I Robot ora hanno il comando, il controllo della vita, siamo i dominatori della vita, i dominatori del mondo", afferma Radium, capo dei robot ribelli al termine della carneficina.  Degli umani in tutto il pianeta resta in vita solo Alquist, un povero muratore sopravvissuto al massacro al quale, per ironia della sorte, i robot si rivolgeranno inutilmente perché egli scopra il segreto della vita, affinché l'ultimo umano preservi la razza dei robot dall'estinzione. Nel mito è all'opera un doppio vincolo mimetico; la progressiva meccanizzazione dell'umanità conduce l'uomo alla non vita, dunque all'estinzione, ma dall'altra la non vita meccanica è inesorabilmente fecondata da pensieri vitali. Così Radium:

   Noi eravamo macchine ma il terrore e la sofferenza ci hanno dato l'anima. C'è qualcosa che lotta in noi, e momenti in cui qualcosa entra dentro di noi. Abbiamo pensieri che non ci appartengono e proviamo ciò che non conosciamo. Sentiamo come delle voci. Insegnaci a creare e potremo anche amare. (Čapek, 1921, p. 117).

Il doppio vincolo mimetico che lega l'ultimo uomo all'ultimo robot è sciolto solo nel finale, laddove si affacciano due nuovi personaggi, una coppia primigenia, Robot Primo e Robot Elena, desiderosi l'uno dell'altra, capaci di amore, di bramosia, soprattutto capaci di riprodursi, dunque di rifondare su nuove basi il cammino "umano" su questa terra. Capaci anche di gioire della bellezza del creato, dunque di riconnettersi all'immane circuito della vita, al cosmo intero. I robot di Čapek si riconnettono al grande enigma, spezzano l'angolo della discontinuità nel quale erano stati confinati dal loro stresso creatore. L'epopea di R.U.R., banalmente interpretata da molti critici come una metafora della condizione del proletariato, si chiude invece nel più chiaro ed esemplare dei modi, e non a caso come suggello il finale è compendiato da una citazione biblica:

E Dio creò l'uomo a sua immagine, a immagine di Dio lo creò, maschio e femmina li creò. E Dio li benedisse dicendo crescete e moltiplicatevi [.] Rossum, Gall, che avete inventato di fronte a questi due? La vita non muore ma noi siamo morti e tutto quello che abbiamo costruito non serve alla vita. Tutto finirà ma l'amore non finisce. (Čapek, cit., p. 127).

Una fine è anche un inizio; in questo caso la parabola che muove dall'espressione vitalistica della natura per inerpicarsi sui sentieri siderei della ragione non può che ricadere nel medesimo mistero della vita. Siamo però soltanto ai primi passi dell'elaborazione del mito. Il percorso successivo vedrà l'artificiatum, il robot, assumersi il ruolo di supervisore di un nuovo ciclo vitale, di una nuova opportunità offerta all'umanità dopo che la parabola della civiltà si è conclusa con l'autodistruzione. In Into Thy Hands di Lester del Rey il mondo è sconvolto da una guerra totale, che tutto annienta. Dalle macerie emerge SA-10, un perfezionatissimo robot che si risveglia dopo secoli, scoprendo di essere il solo essere senziente "sopravvissuto". SA-10 si risveglia al suono di un vecchio film registrato che ha per oggetto la genesi biblica, ma il robot non lo sa, cosicché immagina che quel richiamo provenga direttamene da Dio. Il robot teologo si crede investito dell'autorità divina e tenta di ricreare l'uomo dalla polvere, seguendo alla lettera il dettato biblico, traendo Adamo dal fango. Naturalmente la sua opera di Pigmalione, ancorché perfetta, è destinata al fallimento. Privo di scopo, frustrato nell'intimo, SA-10 impazzisce e vaga per la terra; presto scopre che esistono ancora esseri umani; dopo seicento anni la razza sembra a tutta prima sopravvissuta in un popolo di barbari forte e ingenuo, ma ancora memore dell'era dell'alta tecnologia e dei robot. L'incontro è però letale al robot, abbattuto dall'ascia di un essere umano.

Giunge sulla scena un robot femmina psicologo, che aveva captato la presenza del suo omologo maschio. Essa/ella, ribattezzata Eva, intuisce che SA-!0 è impazzito sotto il peso delle sue elucubrazione. Adamo robotico  incontra Eva robotica, il principio della ragione scientifica e teologica, il principio dell'astrazione e della totalità incontra un principio complementare, quello della psicologia e dell'affettività. Il robot Eva è "carnale" fino al punto di rischiare l'autosacrificio pur di riportare alla lucidità il suo omologo. Insieme i due robot decideranno di confondersi con la popolazione di umani per guidarli nel giusto cammino, saranno i capi (sterili) di una stirpe, profonderanno in essa i tesori di sapienza che sono stati incorporati nelle loro memorie dagli antichi costruttori. Ma soprattutto, l'Adamo ed Eva robotici terranno lontani gli umani dall'albero del bene e del male. C'è un epilogo curioso. I sopravvissuto umani non sono affatto dei semplici sopravvissuti. Sono al contrario il risultato degli esperimenti del terzo e occulto robot, il più anziano di tutti:

       Settecento anni da quando sono uscito per trovare l'uomo estinto sulla Terra [. ] Quattrocento da quando ho scoperto quanto bastava per tentare di ricrearlo, e più di trecento da quando l'ultimo dei miei ovuli umani supercongelati ha fornito il primo successo [.] nelle mie mani, Simon Ames, tu hai affidato la tua razza. Ora nelle Tue mani, Dio di quella razza, se Tu esisti come mio fratello crede, io affido essa. e il mio spirito. (Del Rey, 1945, p. 264-5).

 Ancora un passo avanti: il supervisore si trasforma in entità semidivina, la creatura artificiale assume le vesti di un angelo custode, in tutto il fulgore della sua astrale potenza. In Second Ending di James White (White, 1963)  il protagonista è il dottor Ross,  sopravvissuto di un'epopea post-atomica  che ha sterilizzato l'intera umanità. Risvegliatosi dopo il Grande Sonno, ovvero una nuova tecnica di ibernazione, Ross scopre con raccapriccio di essere il solo individuo, anzi, il solo essere vivente sfuggito alla totale distruzione della vita sulla terra. Gli fa compagnia il robot-infermiera  5B, assistita da una schiera di robot che tengono in funzione un ospedale che è in realtà una immensa tomba linda e scintillante. Al risveglio traumatico di Ross fa da contraltare la preoccupazione maniacale del robot infermiera 5b, il cui scopo è quello di assicurare la vita e la salute mentale del suo paziente e unico sopravvissuto della razza dei creatori di robot. Il dialogo fra i due soggetti, l'artificiale e femminile e l'umano e maschile, è da manuale di psicopatologia, dal momento che entrambi sono affetti da una tipica e irreversibile monomania. L'uomo cerca una via d'uscita dalla sua condizione claustrofobica, il robot cerca una via d'uscita dalla coazione a ripetere che gli è stata implementata fin nei più reconditi recessi del suo software: offrire al suo unico paziente la felicità.

La storia va avanti per miliardi di anni, secondo un classico copione che prende le mosse da la Macchina del tempo di Wells. Nel frattempo Ross entra ed esce dall'ibernazione, sperando che le ere riformino la vita sulla terra, e che l'evoluzione crei una razza umanoide, con la quale ricucire un rapporto. Ma non è la materia organica che si evolve, si evolvono al contrario i robot dell'ospedale, ed evolvendosi generano una vera e propria civiltà robotizzata, formata da genetisti, ingegneri, fisici (il che sarebbe ovvio), ma formata anche da antropologi, sociologi, astronomi, i quali esplorano la galassia e indirizzano l'evoluzione biologica di un remoto pianeta in una direzione ben precisa, fino al punto da ricreare quasi in laboratorio una specie umanoide così simile alla nostra da consentire perfino l'incrocio genetico.

La metafora è trasparente. La civiltà tecnologica forma una discontinuità così lacerante all'interno del locale tessuto della vita da estirpare la vita stessa a livello planetario. La vita è stata sostituita da una vita simulata, il robot, il cui unico scopo sarà quello di riconnettere un frammento di vita terrestre giunto allo stadio dell'autocoscienza al più vasto organismo della vita nel cosmo. Il messaggio è che la discontinuità non può durare.

 Il trasferimento vede il dottor Ross abbandonare una terra prossima alla distruzione (anche questo punto nel miglior stile de La macchina del tempo di Wells) e approdare, dopo l'ennesimo sonno artificiale, in un vero Eden popolato anche dalla giusta fauna femminile. Si conclude così la storia di Ross, ma non quella dei robot, trasformati ormai in globi di pura intelligenza immortale, dotati di scopi che trascendono la nostra comprensione: "Raccoglieremo dati, guideremo lo sviluppo di ogni forma di vita che incontreremo e ci spargeremo per tutta la Galassia fino ai confini dello Spazio.", afferma una di queste eteree voci fuori campo (White, 1963, p. 94).   Ed è quasi una voce divina, sicuramente la voce di un supremo angelo custode. Qui alligna uno dei cardini del mito del robot: il nuovo Eden, perfino più allettante dell'Eden biblico, dove il lavoro, sia pure un lavoro leggero e senza triboli, è però ancora previsto: "Il Signore iddio prese dunque l'uomo, e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse" (Genesi, 2, 15).

Al contrario, in una ipotetica (ma poi non tanto) società robotizzata tutto è per definizione privo di sforzo, senza fatica. Non esiste il lavoro, né la pre-occupazione. Il mondo governato dai robot nelle sue dinamiche produttive è un luogo dove si viola la terza legge della termodinamica. Le mitiche "autofac" di dickiana memoria, ovvero fabbriche robotiche che oltre a produrre tutti i beni fungibili si autoriproducono, come i virus, sono il vero punto d'arrivo del processo di meccanizzazione della produzione di merci. L'Eden robotizzato è un vero ambiente di sostegno, un brodo vitale di coltura, in cui gli esseri umani sono in perenne custodia, come se assistiti da altrettante infermiere 5b. Dovrebbe essere in linea di principio una società senza alienazione, una  società orgiastica, una comunità immaginifica, dis-impegnata, una società dove il gioco sostituisce la serietà o dove la serietà è tutta nel ludus, come riteneva Huizinga.

In realtà, la fondazione del mito di una nuova coppia primigenia, artificiale, naturale o un misto cibernetico di entrambe le nature, nasconde la trasposizione positiva della paura dell'inclusione, della subordinazione e della messa in mora dei destini autogeni dell'umanità. Ad essi si oppone l'idea che possa sorgere una cultura dei robot, una cultura generata da entità artificiali. Meglio ancora, una "civilizzazione" robotica, fondata su principi di associazione e di scambio completamente estranei alla natura umana e in generale alla vita stessa. Strutture di realzione estranee alla vita, ignare del suo flusso. Non dunque una pacifica e indolore integrazione ma una forma di antagonismo fra modelli di vita e di gestione dell'esistente, modelli radicalmente incompatibili, poiché fondati sulla distanza incolmabile che sussiste tra le strutture basate sul carbonio e quelle alternative derivanti dal silicio o da altri materiali: da una parte le culture che sono espressione della profonda logica evolutiva, dall'altra le culture fondate sulla logica costruttiva.

L'inclusione ontologica e ontogenetica può spingersi fino alla fobia della vampirizzazione, dove la vittima è sessualmente coinvolta e consenziente. Richard Calder descrive questa oscura relazione sessuale in The Lilim (Calder, 1990, in Aa.Vv., 1997, pp.43-67),  un interessante racconto in cui i vari personaggi sono rielaborazioni dei protagonisti dell'Eva futura di Villiers de l'Isle-Adam (de l'Isle-Adam, 1886). In particolare il costruttore delle Lilim, cioè di creature robotiche frutto di nanotecnologie capaci di assemblare la materia a livello atomico e di manipolare l'energia (i programmi) a livello quantistico, discende direttamente da Edison, il personaggio che nel romanzo di Villiers interpreta il Pigmalione tecnologico, l'inventore della perfetta donna artificiale che ispirerà anche Fritz Lang.

In The Lilim, Titania, l'andreide protagonista, è un'Eva futura in negativo, una vampira che ha il potere di inoculare i nanomeccanismi che costituiscono la sua linfa vitale nei corpi dei suoi amanti, trasformandoli in semi-uomini, ovvero in semirobot. Peter, figlio del costruttore di androidi, accoglierà in sé l'infezione della vita artificiale, soccombendo alla potenza sessuale negativa e affascinante, al lato oscuro, alla vertigine, all'orgasmo, alla morte, alla notte. Del resto, le Lilim sono note figure mitiche della tradizione ebraica, figlie di Lilith, la prima donna, colei che precede la creazione di Eva. Lilith deriva dal nome assiro-babilonese lilitu, "demone femmina" o "spirito del vento", e identifica le adoratrici della dea Inanna (Anath), dedite alla promiscuità sessuale prematrimoniale. Ma secondo l'etimologia popolare ebraica "Lilith" deriverebbe da layil ("la notte"). Dunque, l'interpretazione comune esalta il lato oscuro, la potenza germinativa e incontrollata della notte. Nel mito ebraico, com'è noto, Lilith odia concedersi ad Adamo perché non sopporta di giacere sotto di lui, in posizione sottomessa. Ella è dunque la prima femminista della nostra tradizione. Fuggita da Adamo Lilith si rifugia sulle rive del Mar Rosso, dove genera cento Lilim al giorno congiungendosi a demoni lascivi (Graves - Patai, 1963, p. 79 e sgg.). La Lilim robotica di Calder riassume l'insieme di queste suggestioni. Essa/ella è la ribelle, colei che rifiuto un posto prestabilito nello schema della creazione, colei che introduce il caos nell'ordine, colei che per questo motivo genera attrazione fatale, risucchiando nel suo gorgo il noioso schema delle relazioni stabilite. Al di sotto della struttura atomica si assiste infatti alla danza dei quanti, dove le leggi della geometria sembrano sussultare e dove il senso dell'identità si trasforma in una probabilità, in una funzione d'onda capace di generare paradossi senza via d'uscita. Il mondo delle nanotecnologie, in altre parole dei nonorobot, sembra promettere proprio questo: una profonda alterazione del rapporto fra il vivente e ciò che è considerato artificiale, animato sì, ma comunque non-vivente.

Se il  non vivente ricerca il suo riscatto lo fa per bocca di un personaggio mitico rinnovellato, una Lilim che decide di costruire un altare per una nuova chiesa e un culto per una nuova religione. L'ordine geometrico della società deriva dalla discendenza di Adamo e di Eva. La chiave di tutto è Eva, la seconda donna biblica, colei che è tratta dalla costola, colei che accetta la sottomissione, la gerarchia e l'ordine patriarcale. Colei che accetta l'idea stessa di ordine costituito. Lilith è invece la parità, dunque la scelta, dunque l'aleatorietà, la confusione dei generi, la promiscuità dei sessi e in prospettiva la trasformazione, il passaggio da un ente a un altro ente dalle caratteristiche diametralmente opposte, e l'ente stesso inteso come fase intermedia, come immagine latente, luogo dove è padrona la discontinuità, la caduta, la differenza, la rottura dello scambio senza fine fra parti proprie della grande catena della vita.

Perciò Lilith è la metamorfosi  e le Lilim di Calder sono dunque il logico prodotto delle metamorfosi del vivente in un non vivente che si rivela altrettanto vivente, ma su un piano differente, assolutamente discontinuo. È ovvio che il nucleo fondante il mito della nuova coppia primigenia deve in sé possedere sia le caratteristiche del vivente che quelle dell'artificiale. Il cyborg non è dunque un uomo-macchina, o una donna-macchina, ma una coppia primigenia, maschio umano e femmina macchina, o viceversa. Il cyborg non ha discendenza, è un nuovo tipo di androgino, dove però le caratteristiche sessuali sono ridotte a caratteristiche dell'organizzazione della materia (protoplasmatica ed elettronica). Al contrario la nuova coppia primigenia ha progenie. Una progenie fantastica e terribile.

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