DEUS EX MACHINA - PARTE TERZA
Reti sociali e reti naturali
Riccardo Notte
Uno dei luoghi più frequentati della fantascienza concerne il senso di isolamento che un soggetto deve affrontare durante il viaggio verso altri mondi o altre dimensioni. La macchina del tempo di Wells trasporta un solo crononauta, il Capitano Nemo è un solitario circondato da altri solitari, che mano a mano muoiono fino a lasciarlo nel più completo isolamento, in una inaccessibile isola deserta. La solitudine del protagonista può essere emotiva, fisica o psicotica, ma in ogni caso essa segnala l'avvenuta separazione dalla consueta relazione con l'altro, rimarcata dall'eccezionalità degli eventi che formano la storia.
È noto che privando una persona di tutti i contatti con gli altri esseri umani dopo qualche tempo essa inizia a manifestare comportamenti psicotici. Questa degenerazione funzionale pare colpisca tutti, ad eccezione forse dei mistici, degli anacoreti, la cui solitudine è però colmata da un'intensa attività spirituale che esprime una connessione profonda con gli elementi, con la vita vegetale e animale, con le stelle e con la terra, in una parola con il cosmo. Probabilmente i mistici sono in grado di riattivare connessioni dimenticate, percezioni che sono diventate estranee all'uomo collegato sempre più a una rete autogenerativa che coinvolge soprattutto altri esseri umani. Si deve perciò ritenere che la spinta alla estraniazione non sia dovuta all'essenza fisica di altri individui, quanto piuttosto alla povertà delle esperienze relazionali connesse a quei sistemi che generano vincoli semantici, emotivi ed estetici. Il contesto può essere ricco di presenze, perfino affollato, come accade nelle grandi metropoli, e tuttavia le persone possono sperimentare una profonda e irreparabile frantumazione, il cui corollario è la solitudine. In che misura la tecnologia è responsabile del collasso della connettività? Sembrerebbe una domanda insensata, poiché è sotto gli occhi di tutti il potere connettivo delle tecnologie, e non solo delle tecnologie di comunicazione.
La via verso l'artificiale sembra implicare due opposte tendenze. Da un lato essa realizza una progressiva estraneazione dell'uomo dalla natura, dalla connettività vivente. L'uomo inizia a vivere di e con se stesso, oltre che per se stesso. Ma dall'altra questa sua separatezza si trasforma in una potenzialità connettiva superiore a qualsiasi altra specie vivente conosciuta. Nella fondazione dei miti il primo aspetto della condizione umana si traduce nell'invenzione dei luoghi infernali, siti concentrazionari in cui si consuma un dialogo allucinato e sofferente col nulla, o con i fantasmi della propria psiche (le schiere dei diavoli). La fantascienza ha trattato con lucidità il tema dell'estraneazione dovuta alla via all'artificiale e lo ha fatto non a caso in stretta relazione col mito del robot. In Abissi d'acciaio, romanzo sui robot e gli uomini, Isaac Asimov ha individuato la condizione ambivalente e paradossale dell'uomo ipertecnologico. Egli affronta in primo luogo il tema dell'equilibrio instabile che si viene a creare quando si trasforma un agglomerato urbano in una struttura separata dal ben più ampio circuito di scambio che esiste in natura, e in definitiva nel cosmo intero:
Nelle età antiche i centri abitati erano autosufficienti e vivevano dei prodotti della campagna circostante. Solo un disastro immediato, come un'inondazione o una pestilenza o un raccolto insufficiente potevano danneggiarli. Quando i centri crebbero e la tecnologia migliorò, si cominciò a far fronte ai disastri importando le materie dai centri lontani, ma al prezzo di rendere strettamente interdipendenti zone sempre più vaste. Nell'età che noi chiamiamo medioevale le città dell'uomo, che sorgevano all'aria aperta, erano in grado di resistere anche a gravi calamità per almeno una settimana, perché il cibo e le materie prime erano disponibili in grandi quantità e quindi venivano immagazzinati; inoltre, esistevano risorse locali di vario tipo. Quando New York si trasformò in una città moderna, tuttavia, questo rapporto cambiò: il massimo che sarebbe riuscito a sopravvivere, basandosi solo sulle proprie forze, era un giorno. Adesso, forse, è un'area. Un disastro che diecimila anni fa avrebbe potuto creare qualche disagio, e che mille anni f avrebbe sfiorato il punto critico, oggi riuscirebbe senz'altro fatale (Asimov, 1954, p. 72).
Oltre mezzo secolo fa Asimov enunciava tutti i rischi derivanti dalla rottura di connessioni con l'ecosistema. Le città del futuro, trasformate in agglomerati separati da cupole e da massicce opere in cemento, ospitano milioni di abitanti. Le persone non conoscono privacy, soffrono di agorafobia, temono le escursioni termiche, la pioggia, il vento, come pure ogni forma di vita. In cambio di questa claustrofoba condizione essi ottengono una fittizia sicurezza, ma solo fintantoché queste astronavi ancorate alla terraferma sono in grado di sopravvivere. Nel ciclo delle "Fondazioni" Asimov, come è noto, forgiò il mito di Trantor, il pianeta-città, che in altri autori si trasformerà nella città-astronave o nel pianeta-cosmonave. Secondo Asimov, il prezzo di una tecnologia che chiude il cerchio su se stessa è una strisciante follia collettiva. Egli descrive una civiltà maniaco-depressiva, profondamente bipolare, soggetta a frequenti scariche di furore collettivo, ad azioni organizzate ma prive di scopo.
In queste situazioni estreme, forse ispirate dal regime concentrazionario dei lager nazisti, il capro espiatorio è sempre in agguato, ma prende corpo nella curiosa fobia nei confronti dei robot umanoidi: esseri innaturali che incarnano lo specchio deambulante di una condizione artificiale comune. Questa condizione, che Arthur C. Clarke descrive con altre sfumature in The City and the Stars, esasperazione dell'invenzione swiftiana dell'isola volante di Laputa (Clarke, 1973), deriva dalla progressiva frantumazione delle connessioni che legano ogni essere vivente a una rete di relazioni locale e globale.
Quando si parla di network e di connessioni è in gioco la teoria delle reti. Essa è utile anche nell'analisi dei miti di fondazione e dei materiali inconsci che essi esprimono. Poiché il mito della vita artificiale (e la sua ricaduta reale) pone in gioco una discontinuità, occorre capire in quale trama connettiva si è operata questa frattura e se essa può essere a tutti gli effetti considerata una vera lacerazione ontologica.
Negli anni Settanta il sociologo statunitense Mark Granovetter scoprì che qualsiasi rete sociale è tenuta in piedi da quelli che con felice espressione definì i "legami deboli", ovvero relazioni di scambio e di conoscenza non molto impegnative, "leggere", come quelle che ad esempio uniscono due persone che si conoscono ma che non si frequentano con l'intensità e l'assiduità tipica dei legami "forti". Questi ultimi, nel campo delle relazioni sociali, sono ad esempio il matrimonio, la profonda amicizia o le relazioni nel mondo del lavoro con un superiore gerarchico. Come è noto, Granovetter mostrò che se si dissolvono i legami forti la rete sociale continua a conservare la sua tenuta d'insieme. La coesione delle reti sociali sembra quindi dipendere dai collegamenti deboli. Dunque, i nessi cruciali, quelli che fanno da "ponte", sono i legami deboli, e per un motivo importante: soltanto questi ultimi consentono di mettere in relazione universi sociali fra loro molto distanti. I ponti producono scambi di informazioni, di energie, di idee, di merci, di persone; essi accorciano le distanze, diminuiscono gli intervalli, livellano le diversità (Granovetter, 1983).
In un mondo iperconnesso come il nostro gli effetti della moltiplicazione dei legami deboli appaiono evidenti. L'intero sistema-mondo sembra oggi immerso in un vortice di scambi frenetici che, tuttavia, sembra privare di senso i legami forti. Senza opportuni ponti realtà sociali distanti non entrerebbero mai in relazione. Ma se non esistessero rapporti deboli l'intera rete sociale tenderebbe a disgregarsi in insiemi di individui connessi soltanto da legami forti, gruppi fra loro mutuamente estranei o in lotta, come accadeva durante il medioevo.
L'importanza dei legami deboli emerse in studi apparentemente distanti dalla sociologia. Duncan Watts e Steve Strogatz, due matematici che si occupano tra l'altro dei fenomeni di sincronizzazione in natura, hanno scoperto che esiste una relazione fra la sincronia e le strutture di connessione basate sui legami deboli. Dai loro studi è emersa una visione sconcertante della natura delle reti.
In ogni rete complessa conta lo schema delle connessioni: la struttura incide sulla funzione (Strogatz, 2003, p. 302). Ma le reti enormemente complesse mostrano anche dinamiche che si collocano a metà strada fra l'ordine e la casualità. Internet (e il web) è un esempio interessante di questo tipo di realtà, poiché esso è uno spazio virtuale ordinato ma labirintico (Notte, 2002).
La struttura ordinata è fornita dalle connessioni che uniscono gli uni agli altri gli elementi di una rete, secondo una progressione di legami "prossimali". Questi sono appunto i cosiddetti "legami forti". Se si torna al paragone delle strutture sociali, i legami forti corrispondono a forme di interazione molto intense e costanti, come quelle che ad esempio legano i membri di una famiglia o di una cellula di un'organizzazione politica. Queste precise geometrie sono però scompaginate dalle connessioni casuali, appunto dai cosiddetti "legami deboli", che hanno il potere di abbreviare e talvolta perfino di annullare i gradi di separazione che esistono fra una parte del reticolo e un'altra.
I legami deboli creano cambiamenti strutturali perché fanno interagire realtà distanti, e ciò produce un enorme scambio di informazioni, ricombinando l'assetto della rete. Eppure, il lavoro svolto dai legami deboli sembra prodursi nell'invisibilità. Reti siffatte sono sufficientemente "piccole", pur conservando un valore di "addensamento locale", o clustering, molto alto. Il clustering è definito come la probabilità che "[.] due nodi connessi a un nodo comune siano anche connessi l'uno all'altro" (Ibidem, p. 306). È importante notare ai nostri fini che le connessioni sono sempre definite in modo biunivoco. Le connessioni si verificano in modo lineare, fra due punti, nodi, molecole o soggetti sociali. Ogni punto, nodo, molecola o soggetto sociale può intrattenere legami con una pluralità pressoché illimitata di altri punti, nodi, molecole o soggetti sociali, ma sempre in modo lineare e biunivoco, proprio come un angolo di una figura geometrica è connesso agli altri angoli da linee immaginarie che uniscono i vertici due alla volta.
Questa visione lineare-geometrica dei legami è evidentemente necessaria ai matematici e ai sociologi, ma essa, forse, potrebbe essere arricchita da un'osservazione importante nel contesto del tema affrontato in questo libro, e cioè che le reti possono anche essere concepite come forme dinamiche che creano campi di relazioni. Le proprietà di un campo energetico formano un insieme compatto, continuo, anche se i valori del campo variano da luogo a luogo. Le proprietà del campo restano ovunque le stesse, anche se i valori mutano.
Questo principio può essere di una qualche utilità se riferito alla nozione di clustering. In pratica, mentre il clustering ci informa sulla struttura locale, ovvero sul grado di addensamento locale dei legami circoscritti, al contrario i legami deboli mostrano lo stato della struttura globale, mostrano dunque la "forma" delle reti di "piccolo mondo". Ma i due stili di connessione in apparenza funzionano l'uno indipendentemente dall'altro. Si tratta insomma di due campi energetici che agiscono in proprio, anche se gli effetti dell'uno finiscono col riversarsi sugli assetti dell'altro. Infatti, quando il numero di legami deboli supera una certa soglia critica la rete globale collassa in una rete di piccolo mondo, e ciò provoca conseguenze anche nelle connessioni locali, basate sui legami forti.
In questo modello sembrerebbe che i legami deboli possano essere equivalenti. Ma non tutte le strutture connettive sono reti di piccolo mondo di tipo democratico. Buchanan ha illustrato questo concetto in modo efficace riassumendo gli studi dei fisici Albert-László Barabási e di Réka Albert (Barabási, 2003). Nelle loro ricerche risulta che le reti in espansione mostrano sempre la tendenza a formare una struttura in cui esistono hub che capitalizzano un numero sempre crescente di connessioni.
L'hub è un "nodo". Nella teoria delle reti si dice hub un nodo che capitalizza un grande numero di legami deboli. Col tempo i nodi dotati di maggiori connessioni "catturano" altre connessioni; quando ciò accade è all'opera un invisibile principio di economia, un "rasoio di Ockham" che spinge i grandi connettori a capitalizzare ulteriori connessioni. "Piove sul bagnato", afferma un saggio proverbio, e infatti questa particolare dinamica cumulativa crea reti di piccoli mondi formate in modo gerarchico (Buchanan, 2003, p. 129 e sgg.). Esistono innumerevoli reti strutturate in senso gerarchico, tante quante sono le realtà dove emergono dei "connettori". Questo vale anche in quei casi in cui la struttura emergente è di tipo autopoietico e casuale, come accade per la rete di Internet e per il World Wide Web, o anche nel caso della rete di interconnessione degli scambi alimentari in un ecosistema complesso, o ancora nelle reazioni implicate nella formazione delle proteine. In questi e innumerevoli altri esempi la tenuta dell'insieme è favorita dalla presenza di connessioni più robuste delle altre, che garantiscono un efficiente scambio nel sistema. Queste connessioni di tipo particolare sono appunto gli hub, i nodi iperconnessi.
Ogni hub è come una via, un punto privilegiato, che tiene insieme parti rilevanti della rete globale di connessioni. Ad esempio, negli ecosistemi sono considerati hub quelle specie viventi che sono alla base di moltissimi scambi, spesso a lunga distanza. Perciò sono hub alcuni grandi predatori, ma anche diverse specie di batteri o di funghi. Dipende dall'ecosistema.
Tutto ciò sembra molto chiaro, ma è invero arduo rapportare la teoria delle reti all'uomo. La forma autoriflessiva e autogenerativa dell'intelligenza umana pone notevoli problemi logici, come del resto mostra l'esistenza di una teoria delle reti. Che tipo di relazione intrattiene l'uomo con il resto della rete di cui fa parte? Il numero di connessioni che collega ogni essere umano alla rete globale è una realtà che sfugge al nostro attuale potenziale computazionale, anche perché la visione dell'insieme non è riducibile a eventi discreti; ma è anche dubbio che esista la concreta possibilità di cogliere in forme razionalizzate l'insieme nel suo complesso, adottando una visione olistica. Infatti, la rete globale di connessione si estende di livello in livello, fino in teoria a comprendere la totalità del cosmo. Non è possibile sancire una linea di divisione fra il genere umano e la natura circostante, e fra questa e il sistema solare, e così via. Non è possibile sancire questa divisione né in linea di principio né in senso pragmatico.
Le reti di connessione umane sembrano esigere una struttura di mutue compensazioni, dove la forza e la densità della trama di connessioni forti con ogni evidenza diminuisce con l'aumentare della distanza fisica e strutturale fra i domini considerati. La distanza è dunque importante, ma lo è altrettanto la relazione con il luogo. Se si pensa all'espansione extraplanetaria della specie, evento che muove appena i primi passi, si comprende al volo perché i concetti di legame debole e forte tendono a subire oscillazioni e a trascolorare l'uno nell'altro, a seconda del contesto. Anche in assenza di legami forti la trama sottile, nascosta alla vista, è tenuta insieme dai legami deboli.
Nella teoria delle reti l'uso degli aggettivi "forte" e "debole" per designare due tipi di relazioni implica che la differenza fra legami forti e deboli si riduce in definitiva a una questione di intensità. E qui entra nuovamente in gioco la nozione di campo. Si può immaginare un hub anche come un "intorno", in cui l'intensità del campo raggiunge livelli altissimi. Le sue proprietà connettive, studiate sul piano matematico, sarebbero dunque l'equivalente logico-lineare, digitale, di forme olistiche di aggregazione e di dispersione energetica. A una visione digitale, numerica, discreta e quantitativa si può affiancare una cognizione analogica, sfumata e continua degli identici fenomeni; le due rappresentazioni non si escludono a vicenda, ma anzi possono integrarsi in una sintesi più ricca, più completa. Le strutture schematiche di una rete rappresentano lo stato di un sistema o l'organizzazione di un fenomeno, ma non esauriscono le sue proprietà (Capra, 1997, p. 96 e sgg.).
Così, la somma di molti legami deboli crea un campo energetico forte, proprio come la somma di molti frammenti di materia può creare un corpo celeste dotato di un forte campo gravitazionale. Se si pensa a un hub come a un campo energetico, esso deve anche manifestare una direzione di moto. Quindi, un hub è tale perché in sé è un centro di attrazione, o anche di repulsione. Inoltre, le sue caratteristiche energetiche sono correlate alla struttura d'insieme, cioè allo schema di ciascun hub. Perciò non si può mai ritenere un punto della rete, per quanto iperconnesso, un "punto d'essere" autonomo e indipendente. E tuttavia le sue caratteristiche strutturali non sono indifferenti.
In termini sociodinamici un hub umano inserito in una rete sociale è tale perché egli è quella persona, in grado di canalizzare in quella direzione quei flussi di informazioni, di energie, di progetti o di sostanze, e non altri. E naturalmente quel determinato hub è tale perché è il prodotto di un insieme di circostanze, è esso stesso un punto in cui la rete ha scelto di concentrarsi. Nella dialettica fra "punti d'essere" e "campi" non è mai possibile rintracciare confini definiti, né disegnare connessioni lineari, poiché la visione d'insieme dei processi che governano i flussi e le concentrazioni trascende ogni riduzione atomizzata dei fenomeni medesimi. Ovunque sembra regnare incontrastata una invisibile legge di continuità che salva i fenomeni nella loro diversità.
Possiamo quindi studiare gli effetti e le peculiarità dei legami forti usando l'analogia delle interazioni forti della fisica atomica. Queste ultime, come si sa, tengono insieme l'atomo con un potenziale energetico immenso, ma posseggono un campo d'azione limitato, cosicché la forza del campo energetico sulle lunghe distanze si trasforma in debolezza. Anche in questo caso le proprietà dell'insieme formano un continuum, una realtà olistica, e questo ci porta a riconsiderare la questione della natura delle relazioni in rapporto alla frattura introdotta dalla via all'artificiale.
Frammenti in "libertà".
La rete di connessioni mediata dall'essere umano si è formata nel corso di centinaia di migliaia di anni, e in misura rilevante negli ultimi cinquemila anni. E continua a crescere. Tuttavia questa rete di connessioni possiede anche una seconda peculiarità: il suo esser nel mondo non soggiace alla legge di scambio a somma zero. La rete umana tende a non rimettere nel circuito ciò che prende, è apparentemente accaparratrice, e come tale può sembrare distruttiva, come tale è considerata da una ideologia e da una pubblicistica che non annettono alcun valore alle peculiarità della specie umana.
In effetti le reti di connessione umane derivano dal potere di separazione insito nelle facoltà che si definiscono umane per definizione: l'intelligenza costruttiva e l'intelligenza teoretica. Può sembrare una tautologia, ma non lo è, poiché la differenza fra reti naturali e reti umane è di natura ontologica e non logica. Le reti umane sono pertanto espressioni coerenti del principio di discontinuità emerso già in epoche preistoriche, ma giunto a maturazione con l'acquisizione del pensiero scientifico, come notò fra gli altri Hannah Arendt in un suo celebre saggio sui rapporti fra scienza, potere e tecnologia. Questa riflessione muove non a caso dal principi indeterminazione di Heisenberg, in base al quale "[.] noi decidiamo, con la nostra selezione del tipo di osservazione adottato, quali aspetti della natura vanno determinati e quali lasciati nell'ombra" (Heisenberg, 1952, p. 73). Poiché l'esame dei fenomeni naturali soggiace alla scelta del sistema di leggi adottato di volta in volta dagli scienziati, l'oggettività del mondo naturale si trasforma sempre più in una cognizione del cosmo orientata da strutture cognitive antropocentriche. Ma è sul piano delle ricadute tecnologiche che si consuma il nuovo vincolo:
Nel corso degli ultimi decenni, ogni progresso della scienza, dal momento in cui è stato assorbito dalla tecnologia e, in questo modo, introdotto nel mondo fattuale in cui viviamo la nostra vita quotidiana, ha portato con sé una vera e propria valanga di strumenti favolosi e di macchinari sempre più ingegnosi. Tutto ciò rende ogni giorno più improbabile che l'uomo incontri qualcosa nel mondo che lo circonda che non sia stato fatto dall'uomo e che dunque non sia, in ultima analisi, egli stesso sotto diverse maschere. L'astronauta lanciato nello spazio extraterrestre e imprigionato nella sua capsula piena di strumenti dove ogni incontro fisico reale con lo spazio circostante significherebbe una morte immediata, potrebbe benissimo esser considerato l'incarnazione simbolica dell'uomo di Heisenberg, l'uomo per il quale quanto più diventa ardente il desiderio di eliminare tutte le considerazioni antropocentriche dal suo contatto con il mondo non umano che lo circonda tanto più diventa improbabile l'incontro con qualcosa di diverso da se stesso e dalle cose fatte dall'uomo. (Arendt, 1954-1968, pp. 94-95.
L'azione teoretica fonda dunque una linea di demarcazione che si incarna nell'habitat artificiale, ma questo non si traduce in un campo d'azione, bensì in un campo di relazioni, al cui vertice troviamo i linguaggi astratti delle scienze, il loro essere intrinsecamente "artificiali". Se la conquista dello spazio è la parte visibile, anzi totalmente spettacolare, del perenne processo acquisitivo derivante dall'agire teoretico, il suo lato invisibile è lo sviluppo cumulativo della rete connettiva. In entrambi i casi il principio di discontinuità agisce "concentrando" energie e "disgiungendo" mondi.
Fin dagli anni '60 William Ross Ashby, neuroscienziato pioniere negli studi sui sistemi auto-organizzanti, aveva sostenuto che un singolo sistema può auto-organizzarsi solo se è in relazione con altri sistemi. La sua complessità riflette la complessità ambientale, nozione che si ritrova nel concetto di embodiement sviluppato da Andy Clark per spiegare la stretta e naturale interrelazione fra gli esseri umani e le loro tecnologie (Clark, 2003). Utilizzando varie simulazioni al computer Ashby ipotizzò che la stabilità dei sistemi dinamici complessi dipende dal grado di interconnessione. Se le connessioni aumentano rapidamente, superata una certa soglia critica i sistemi diventano improvvisamente instabili (Dyson, 1997, p. 304). Ciò forse implica che deve esistere un equilibrio dinamico fra i sistemi auto-organizzanti e il loro ambiente, cosicché il grado di complessità dei primi deve riflettere il grado di complessità dei secondi. La semplice esistenza delle nostre civiltà ipertecnologiche sembra a tutta prima smentire questo asserto, poiché in tal caso il grado di complessità ambientale è con ogni evidenza "interno" alla sfera umana. Come interpretare questo dato?
Torniamo alla teoria delle reti. Quando viene distrutto un hub l'intera rete ne risente, nel senso che il suo patrimonio totale di connessioni si impoverisce. Ma quando ciò accade le connessioni rimanenti si rafforzano, i legami deboli tendono a scomparire per trasformarsi in legami forti e l'intera rete originaria, prima di collassate, diventa più vulnerabile. Sono infatti i legami deboli, non i forti, a garantire flessibilità ai sistemi complessi. Buchanan coglie efficacemente il concetto riassumendo gli studi degli ecologi Kevin McCann, Alan Hastings e Gary Huxel:
Le specie interagiscono mangiandosi a vicenda o lottando tra loro per conquistare la stessa preda o lo stesso habitat. Se un predatore mangia un'unica preda, dovrà giocoforza mangiarla di frequente e l'interazione fra le due specie sarà forte. Viceversa, se il predatore di nutre di quindici diverse prede, è probabile che le attacchi solo occasionalmente, nel qual caso avrà con esse interazioni relativamente deboli. [.] Se, per qualsivoglia motivo, la popolazione di una di esse diminuisse molto, la reazione naturale del predatore non sarebbe di ridurla ulteriormente cacciandola senza posa, ma di concentrare l'attenzione su un'altra specie [.]. Spostando dunque il centro del suo interesse, il predatore rinverrebbe cibo altrove e la preda in pericolo di estinzione potrebbe riprendersi. Ecco dunque in che modo legami deboli tra specie contrastano fluttuazioni pericolose (Ibidem, p. 176).
I predatori non specializzati sono appunto esempi eccellenti di hub. Nella rete di connessioni ipercomplesse che definiamo nel suo insieme "vita" esistono dunque vari hub, e si incontrano hub ai vari livelli e alle varie dimensioni, dal microscopico al macroscopico, dalla molecola al cosmo. Sorge dunque spontaneo domandarsi se nell'economia planetaria più che un componete tra i tanti, come nella visione "gaiana" di Lovelock, l'uomo non sia invece niente altro che un hub, anzi un super-hub. La storia della specie umana denuncia una progressiva e inarrestabile espansione territoriale, una fame di luoghi che non si arresta di fronte ad alcuna variazione ambientale, fino al punto da spingersi oggi con inaudita energia verso la colonizzazione dello spazio esterno, e un giorno perfino di altri pianeti, di altre stelle.
Nel corso delle ere l'uomo ha dunque sviluppato legami con le più svariate specie viventi, fino al punto che oggi si può dire che l'intera biosfera sia in qualche modo connessa alla nostra specie. La semplice osservazione scientifica produce questo effetto di connessione, ma ancor più ogni attività economica, cosicché alle prime luci del terzo millennio l'uomo senza dubbio tiene intenzionalmente le fila del maggior numero di connessioni consentite ai suoi mezzi artificiali in progressiva espansione. L'uomo si è trasformato per sua stessa volontà nell'hub degli hub, nella funzione di connessione di tutte le possibili funzioni di connessione. Questo processo non si è mai arrestato e prosegue tuttora, ma con un singolare effetto speculare. Infatti, la rete di connessioni che la nostra specie ha instaurato con l'habitat naturale è cresciuta con una progressione analoga all'incremento delle connessioni interne alla specie medesima. I sistemi di comunicazione, le tecnologie per il trasporto di persone e di merci e le tecniche per l'elaborazione delle informazioni hanno conosciuto un incremento di complessità che si è accompagnato a un incremento di pervasività, fino al punto in cui le connessione ha raggiunto la quasi ubiquità e la quasi istantaneità. Un mondo così connesso è però scarsamente coeso. Anzi, più la grana delle connessioni si raffina più il cemento della coesione si sfalda. In altri termini, in un contesto dominato da legami deboli le relazioni forti tendono a disfarsi.
Questo effetto di connessione intraspecifica si riflette sulla biosfera, ma è opportuno guardarsi dall'aderire acriticamente a una ideologia e a una pubblicistica che adopera l'argomento ecologista in chiave antiumanistica. Le reti intraspecifiche intrecciano complesse interazioni che abbracciano il mondo intero, e certamente il punto di arrivo di tutte queste connessioni è sempre l'habitat naturale, ma non è detto che esse siano necessariamente catastrofiche (Bjørn, 2001, p. 302 e sgg.).
Discontinuità non è sinonimo di catastrofe. La specie umana si è lentamente trasformata nell'hub degli hub, in un meta-hub, ma inserendo nei processi di scambio strutture che modificano equilibri naturali autopoietici per l'azione di equilibri artificiali non meno autopoietici. La rete di connessioni intraspecifiche pare dunque all'origine di una frattura radicale con la rete alimentare nello stesso tempo all'origine di una nuova rete di connessioni di ordine superiore.
Separando se stesso dalle procedure di scambio a somma zero presenti in natura, l'uomo canalizza ogni connessione verso se stesso. L'idea dell'uomo misura di tutte le cose, centro dell'universo, ragione del creato, rifletteva in formulazioni mitiche, religiose o arcaiche l'inconscia presa d'atto di un potenziale d'azione. Il centro è un luogo di attrazione, verso il quale i flussi energetici sono obbligati a convergere. Ma ogni centro è anche un punto separato, che idealmente si colloca "al di fuori" di ogni figura geometrica di cui un punto è il centro. L'antropocentrismo non è che la proiezione e poi anche la presa di coscienza di questa condizione di separazione, e il prometeismo ne costituisce il riflesso pratico. Non a caso Paolo Rossi ha notato che la percezione del mito di Prometeo inizia a mutare radicalmente a partire da Bacone, ovvero da quando la ricerca della conoscenza perde ogni residuo sapienziale, basato sull'ideale contemplativo, e su una relazione ancora forte, di matrice arcaica, con la natura. Tutto ciò che connetteva l'uomo al creato a un certo punto viene disconnesso, almeno in linea di principio; del pari, il mito di Prometeo si trasforma in un ideale attivo, sperimentale, ormai avviato sulla via all'artificiale (Rossi, 1962, p. 182 e sgg.). Infatti, in quel tempo emergono le prime forme di produzione seriali (Eisenstein, 1983) i cui effetti a catena iniziano a costruire quella trama intraspecifica che si insinua fra l'uomo e la natura.
L'uomo meta-hub riassume questa condizione di separazione, ma nello stesso tempo prepara una scissione ancor più radicale con tutti i fattori endogeni che ancora connettono l'essere umano al cosmo, attraverso la sua stessa corporeità. Questa nozione attraversa trasversalmente la letteratura fantascientifica della seconda metà del secolo scorso. Asimov narra delle città del futuro, completamente separate dalla natura, James Ballard riprende questo concetto nell'inquietante Condominium, romanzo in cui l'edificio virtualmente "autosufficiente" assume il valore di una metafora della condizione umana sempre più separata dalla natura, e per converso dalle altre comunità umane e infine da ogni essere umano. Infatti, la condizione antropologica descritta da Ballard si struttura su legami fortissimi, mentre i legami deboli sono del tutto inesistenti. Una simile eventualità porterebbe effettivamente l'umanità al collasso e all'autoestinzione. Eppure, è evidente il contrario. La condizione connettiva si basa sulla moltiplicazione dei legami deboli e sulla inarrestabile destrutturazione dei vincoli forti.
La via all'artificiale si realizza compiutamente quando tutti i legami forti sono trasformati in legami deboli, cioè in funzioni, e questo concetto è stato sviluppato da Arthur Clarke su uno sfondo cosmico e intergalattico in Rendezvous whit Rama (Clarke, 1973), dove la città automatica è concepita come una gigantesca astronave aliena; altra metafora, in cui, però, si rappresenta la concreta possibilità di un salto della specie umana in un'altra specie che ha tutte le caratteristiche della vita artificiale, pur conservando una base apparentemente protoplasmatica. Rama è infatti una sorta di alveare ipertecnologico, dove non sono in alcun modo definibili i confini o le differenze fra le strutture artificiali dell'astronave e gli esseri viventi che la progettarono (Notte, 2002, p. 160 e sgg.). Eppure Rama non è una città di cyborg: l'elemento umano non si fonde con l'artificiale, né questo si limita a ristrutturare l'habitat naturale. Il tema di fondo è sempre la collocazione dell'uomo rispetto al resto dell'universo. Ma è osservando la struttura delle connessioni che si intuisce il tipo di relazione. Affermando che la specie umana è un meta-hub si intende sostenere che nel momento in cui l'uomo di connette a una qualsiasi realtà territoriale, vivente o perfino temporale egli si serve del suo punto di vista come di un locus privilegiato, come di una sede del controllo. In linea di principio, l'intero universo è per l'uomo un campo sul quale stendere le sue reti di relazioni, che sono sempre reti aristocratiche, fondate su legami deboli ma vincolate nella loro ragion d'essere al principio d'accumulazione.
Ciò si manifesta negli effetti sull'habitat. Ogni contatto della specie umana con un determinato habitat si traduce nel tempo nella costruzione di connessioni di tipo cumulativo, in cui la direzione del flusso di risorse è sempre a senso unico, dalle specie viventi all'uomo, dal territorio all'uomo, dalle materie prime all'uomo, dal mondo all'uomo, dal sistema solare all'uomo, dal cosmo all'uomo. Del pari, laddove si sviluppano le reti di relazioni governate dall'uomo, la rete autopoietica naturale progressivamente si trasforma, per trasformarsi in locus artificiale, proprio come accade alle ipercomplesse città asimoviane. Quando si giunge a uno sviluppo segnato da un punto critico i processi di scambio sono ridotti a tropismi, cosicché tutta la rete di connessioni assume (anche fisicamente ed esteticamente) l'aspetto di una gigantesca macchina autopoietica, il cui unico scopo non può che essere la sua ulteriore espansione. I tropismi generano altri tropismi, i meta-hub altri meta-hub. Ma c'è un ostacolo: la matrice corporea della stirpe umana è in sé vincolata al circuito vivente, essa conserva nei suoi meandri protoplasmatici i principi di coesione, fondati sullo scambio a somma zero, che governano tutti i flussi naturali. Questa constatazione spiega perché il roboticista Hans Moravec o il filosofo Nick Bostrom considerino i robot di un futuro non tanto remoto i veri successori di una specie umana votata all'obsolescenza e all'estinzione. Tuttavia, le visioni di questi ideologi ignora le relazioni insite nella teoria delle reti.
Ideologie robotiche
Nella struttura delle reti umane si manifesta da un lato una volontà di connettersi a tutti gli altri enti, dall'altra l'affermarsi di una separazione ontologica radicale. Queste due spinte lavorano nella stessa direzione. Più la rete si connette, annettendo nuovi territori, più essa è manifestamente una creatura artificiale, capace di includere nei propri domini anche le facoltà umane, trasformandole in procedure standardizzate. Al termine di questo processo si intravede un vero salto quantico. Nelle visione di un Moravec l'uomo artificiale ha eliminato la sua matrice corporea, sola chiave di coesione con la rete della vita e della materia (Moravec, 1988; Moravec, 1998). Al suo posto, in linea di principio, c'è un ente separato, un punto d'essere assoluto, i cui scopi si proiettano in un divenire cosmico e non più soltanto terrestre.
La matrice ideologica e mitica di queste esplorazioni dei futuri contingenti matura ancora una volta negli anni '60. Com'è noto, già McLuhan aveva sostenuto che il processo di separazione dalla natura (l'auto-amputazione) viene superato grazie all'inserimento delle tecnologie nella fisiologia, al punto che l'uomo può trasformarsi in un: "[.] organo sessuale del mondo della macchina" (McLuhan, 1964), in grado di impollinare specie indipendenti di fiori-macchina che non posseggono propri organi riproduttivi. In McLuhan riaffioravano echi dei semi mitologici sviluppati da Samuel Butler un secolo prima. In quegli stessi anni Isaac Asimov scriveva un illuminante racconto che anticipa interamente l'ideologia transumanista di Moravec e affini. In Il segregazionista gli esseri umani di un futuro imprecisato anelano a trasformasi in dei "Metallo", cioè in esseri che posseggono parti del corpo costituite da incorruttibili, perfetti e immortali elementi artificiali, robotici. Il fine ultimo è ovviamente il corpo interamente robotizzato (Isaac Asimov, Segregazionist, 1967, in Asimov, 1985). Un "downloading" che Moravec considera l'unica chance per ottenere l'immortalità della coscienza e il superamento della penosa condizione umana legata a una fisiologia obsoleta.
Il senso della frammentazione e della separazione ontologica è in realtà frutto di una visione che non mira alla sintesi. Le contrapposizioni fra artificiale/naturale, spontaneo/calcolato, computer (o rete neurale)/cervello organico provengono da fonti ideologiche che annettono valore assoluto a una e una sola delle componenti in gioco. Anche l'ideologia cyberpunk, apparentemente aperta ai mutamenti, risente del gioco degli opposti, dal momento che l'ibridazione è per definizione fusione di elementi differenti, fra loro incompatibili o al più integrabili. Per questo motivo essa è stata negli Usa rivisitata anche da universi culturali di matrice femminista, apparentemente estranei all'hi-tech.
Negli anni '60 la somma logica fra la vita "naturale" e l'artificiale trovò consensi anche fra gli antropologi. Lévi-Strauss vedeva nella futuribile affermazione di una cultura C/fe (Carbonio/ferro) il superamento della storia, la fine del conflitto fra uomini per l'accaparramento delle risorse. Tuttavia, nei suoi timidi distinguo si intuisce una valutazione della vita artificiale, robotica, che risale a una delle varie visioni asimoviane, in cui il robot è uno strumento problematico e dove le macchine-automi sono al servizio degli uomini, ma sono anche delle alterità irriducibili:
Se, Dio non voglia, fosse chiesto all'antropologo di presagire il futuro dell'umanità, certo egli non lo concepirebbe come un prolungamento o un superamento delle forme attuali [.]. La sua riflessione si collegherebbe al vecchio sogno cartesiano di mettere le macchine come automi al servizio degli uomini (Lévi-Strauss, 1960, p. 66)..
Una consimile civiltà ideale:
[.] riuscirebbe a trasformare le macchine in uomini. Allora, essendosi la cultura integralmente assunto il compito di fabbricare il progresso, la società sarebbe liberata da una maledizione millenaria, che la costringe ad asservire gli uomini perché progresso ci sia. Allora, inoltre, la storia si farebbe da sola, e potrebbe, ancora una volta, assumere quella struttura regolare e quasi cristallina di cui le società primitive meglio conservate ci insegnano che non è contraddittoria con l'umanità (Ibidem).
Fra gli antropologi le più tenui tracce di ideologia robotica esprimono sempre una preoccupazione di fondo. In Lévi-Strauss la sfera artificiale, tecnologicamente avanzata e l'umana sono accuratamente separate, e l'ipotesi di una cultura C/fe è subordinata alla riconquista su nuove basi di un paradiso perduto.
Sulla medesima lunghezza d'onda, Edgar Morin anticipava negli anni '70 la corrente antirobotica ecologista e organicista alla Bruce Sterling (Sterling, 2002). In quegli anni Morin attingeva alla nascente teoria della complessità; appellandosi agli scritti di von Neumann, di Maturana e di Trincher egli sosteneva che la differenza fondamentale fra gli organismi viventi e gli organismi artificiali consiste nel fatto che soltanto i primi, concepiti come macchine naturali, sono capaci per loro stessa natura e conformazione di assorbire le perturbazioni ambientali, adattandosi ad esse:
Per quanto riguarda la macchina artificiale, tutto ciò che è rumore, disordine, accresce l'entropia del sistema, cioè comporta la sua degradazione, la sua degenerazione e la sua disorganizzazione. [.] L'organismo vivente, invece, funziona malgrado e con la presenza del disordine, del rumore, dell'errore, i quali, non comportando necessariamente un aumento di entropia del sistema, non risultano necessariamente degenerativi e possono perfino fungere da rigeneratori. [.] Ma questo paradosso si chiarisce se si considera l'organizzazione del sistema vivente come un processo di autoproduzione permanente [.] la quale riassorbe e espelle l'entropia che si produce continuamente all'interno del sistema e rintuzza i tentativi disorganizzatori provenienti dall'ambiente. I principi di organizzazione della vita sono quelli della complessità. È questo fenomeno di riorganizzazione permanente che dà ai sistemi viventi la flessibilità e la libertà in confronto alle macchine. Mentre la macchina artificiale deve essere perfettamente determinata e funzionalizzata, il sistema auto-organizzatore è tanto più complesso quanto meno strettamente è determinato, in quanto gli elementi che lo costituiscono sono dotati di una relativa autonomia, e le loro complementarietà non si possono empiricamente e logicamente dissociare da concorrenze o antagonismi, cioè di nuovo da un certo "rumore" (Morin, 1973, p. 116).
In queste righe salta agli occhi una sorta di petizione di principio in favore della materia "vivente" che costituisce la struttura di ogni "macchina naturale". Questa presunta superiorità proviene dall'innesto della teoria della complessità nella teoria darwiniana dell'evoluzione naturale:
Il rumore è legato non soltanto al funzionamento, ma più ancora all'evoluzione del sistema vivente. La mutazione è una perturbazione che si può assimilare al "rumore" al momento della trasmissione del messaggio genetico in duplex, il quale provoca un "errore" in rapporto all'informazione emessa, il quale errore dovrebbe comportare una degenerazione del nuovo sistema vivente. Ora, in certi casi, il "rumore" provoca il manifestarsi di una innovazione e di una complessità più ricca. [.] Dunque, ogni sistema vivente è minacciato dal disordine ma nello stesso tempo se ne nutre (Ibidem, pp. 116-17).
Ritroveremo gli stessi principi analizzando l'attuale concezione "biologista" del rapporto fra "macchine naturali", ovvero i cervelli biologici, o "macchine interattive artificiali", i robot. Ai difensori e debitori della teoria della complessità in quei tempi non era chiaro il fatto che i concetti cibernetici di "disordine", "rumore" e "informazione" sono sempre annessi a un sistema di riferimento, cioè a una rete. In qualsiasi modello reticolare le discontinuità appaiono soltanto come strutture di ordine logico differente. Più aumentano i gradi di separazione fra un ordine logico e un altro più i due ordini risultano mutuamente non connessi. In realtà, la trama connettiva si estende da un grado altro seguendo l'architettura delle reti di piccolo mondo, ma tutto ciò ai teorici degli anni '60 e '70 e ai loro attuali epigoni non era evidente. Anche Leroi-Gourhan si inseriva nel solco di una riflessione ad ampio raggio sulla frattura ontologica, e sulla discontinuità immaginando una futuribile cultura C/fe come il frutto probabile di una fondamentale insufficienza dell'essere umano di fronte alle sue stesse creazioni.
In quegli anni inizia dunque a prendere piede il concetto di obsolescenza del corpo umano, ripreso da McLuhan e abbondantemente saccheggiato dagli ideologi cyberpunk o da artisti post-human come Stelarc (Stelarc, Da strategie psicologiche a cyberstrategie, in Cappucci, 1994). Sono i primi passi di un'ideologia del transfert strutturale dall'umano all'artificiale, che costituirà la base teorica di tutto il pensiero transumanista degli anni '90:
Il complesso delle macchine del XIX secolo è ancora ben lontano dal realizzare la mutazione ideale, quella in sui l'uomo avrebbe fuori di sé un altro uomo, interamente artificiale, in grado di agire con una rapidità, una precisione e una forza illimitate; lontano ancora dal momento in cui tutto, utensile, gesto, forza e pensiero, verrebbero riversati e trasposti in un doppione, immagine perfetta dell'ideale sociale [.]. La continua ricerca di mezzi più potenti e precisi avrebbe inevitabilmente portato al paradosso biologico del robot che, attraverso gli automi, ossessiona da secoli lo spirito umano (Leroi-Gourhan, 1965, pp. 291-92, sottolineature mie, N.d.a).
Leroi-Gourhan, in anticipo di un quarto di secolo rispetto al pensiero transumanista di Moravec e di Sussman (Moravec, 1994; Moravec, 1998), intuì che il transfert strutturale deve comprendere anche le più fini facoltà umane, che abbracciano la sfera dell'affettività e delle relazioni sociali, capacità mediate parzialmente da specifiche aree dei centri corticali superiori (la corteccia orbitofrontale, il giro del cingolo e parti del lobo temporale), dal sistema libico e da parti dell'ipotalamo (Inving Kupfermann, Localizzazione delle funzioni cognitive ed affettive superiori: le cortecce associative, in Kandel-Schwartz-Jessell, 2001, pp. 841-858); strutture che si sono progressivamente evolute come aree funzionali altamente sofisticate, necessarie per esprimere la gamma di sentimenti di una specie altamente sociale come la nostra:
La liberazione delle zone della corteccia cerebrale motrice, acquisita definitivamente con la stazione verticale, è completa dal momento il cui l'uomo esteriorizza il suo cervello motore. Al di là di quello si può immaginare solo l'esteriorizzazione del pensiero intellettuale, la costruzione di macchine in grado non solo di giudicare (questa tappa è già raggiunta) ma di intridere il loro giudizio di affettività, di prendere partito, di entusiasmarsi o disperare di fronte all'immensità del loro compito. Dopo aver dato a questi apparecchi la possibilità di riprodursi in modo meccanico, non resterebbe allora all'homo sapiens che ritirarsi definitivamente nella penombra paleontologica (Ibidem, p. 293, sottolineature mie, N.d.a.).
All'epoca in cui furono scritte queste note le cognizioni sul cervello erano rispetto ai nostri tempi molto limitate. Non si sapeva, ad esempio, che i circuiti cerebrali sono organizzati in parallelo e che deficit funzionali localizzati possono talvolta essere parzialmente corretti dalle facoltà di riorganizzazione insite nel cervello, facoltà che dipendono dall'organizzazione reticolare del sistema nervoso centrale. Perciò, una concezione tributaria dell'ingegneria induceva Leroi-Gourhan a scrivere osservazioni che ripropongono echi butleriani di una fagocitante civiltà delle macchine intelligenti.
In tempi recenti gli studiosi di logiche polivalenti sono stati fra i primi a interpretare reconditi desideri, timori, ansie scaturenti dall'avanzamento della via all'artificiale. Non è un caso. Il loro impegno contribuisce forse più di altri settori della ricerca allo sviluppo della robotica e dell'intelligenza artificiale. Poiché gran parte delle loro ricerche verte sulla matematica non lineare, essi sono in una condizione speciale quando si trovano ad affrontare dal punto di vista filosofico il dogma del continuum. Fin dai tempi di Claude Shannon serpeggia l'idea che l'universo altro non sia che informazione, che ogni struttura si riduca a informazione. In un'ottica informazionale non esiste schema che non possa essere interpretato come un punto locale in cui si esprime la massima informazione, un punto di minima entropia rispetto a un sistema più esteso.
Questo principio è arricchito dallo sviluppo delle logiche polivalenti, poiché esse inseriscono gli strumenti di misurazione del continuum nella struttura della logica classica, irrigidita su valori binari. Per questo motivo le logiche polivalenti, "sfumate", fuzzy, prestano le proprie risorse concettuali all'ideologia della vita artificiale come forma coerente dello sviluppo ontogenetico. Se il concetto di vita è un insieme sfumato, fuzzy, anche il concetto di non-vita è tale. Tra la vita e la non vita è dunque lecito inserire una infinita serie di valori intermedi, salvando la coerenza e la compattezza dell'insieme. Ma è illuminante osservare come la salvezza del continuum si trasformi in una ideologia quando applicata all'insieme della vita "naturale" e all'insieme della "vita artificiale". Essa, per definizione, differisce dalla vita organica per effetto della sua costellazione informazionale. Ma la sua esistenza deve contemporaneamente inserirsi nel dogma del continuum, salvandone lo statuto ontologico. Eppure, è proprio qui che iniziano i problemi.
Il dogma del continuum è applicabile a differenti, se non apparentemente incompatibili strutture relazionali? E che dire dei rapporti fra vita e vita artificiale? Bart Kosko, allievo e prosecutore dell'opera di Lofti Zadeh, l'inventore della logica fuzzy, ritiene che l'innalzamento del quoziente intellettivo delle macchine ci renderà sani in virtù delle macchine, intelligenti, ricchi in virtù delle macchine, saggi grazie alle macchine:
Come andranno le cose quando qualunque cosa uno possa fare, pensare o creare potrà essere fatta meglio, e di gran lunga, da una macchina intelligente? [.] È possibile che l'uomo, l'animale razionale, finisca come un inerte vegetale tecnologico? (Kosko, 1993, p. 324)
Kosko crede che un destino di schiavitù, di subordinazione alle macchine intelligenti, sia scongiurato da fatto che disporremo di esse gradualmente. Secondo il dogma del continuum (poiché il continuum sembra scongiurare le lacerazioni violente) l'acquisizione progressiva di gradi di intelligenza e di capacità operative si coniuga con i progressivi gradi di dipendenza dall'universo delle macchine intelligenti. Una società con un più alto QI non ci piomberà addosso all'improvviso, ma si evolverà gradualmente - afferma Kosko (Ibidem, p. 326) - ma si tratta di rassicurazioni che celano la preoccupazione di una scissione radicale. Infatti, questa concezione utopistica è spiegata ricorrendo alla metafora del conflitto, poiché una siffatta accresciuta intelligenza artificiale si incarnerà principalmente nelle armi superintelligenti e in sistemi sociali superconflittuali:
[.] Da un giorno all'altro l'innalzamento del QI di macchina è divenuto la nuova posta in gioco della corsa agli armamenti. Le armi superintelligenti tenderanno a neutralizzarsi a vicenda quando saranno possedute da tutti [.] Ogni paese avrà qualcosa di simile al suo Scudo Spaziale (Ib., p. 326).
In queste righe si prefigura un futuro composto da blocchi separati, in aperta lotta reciproca, sull'orlo della distruzione. Senza dire delle risorse sempre crescenti che saranno spese per aumentare il QI delle macchine, la cui progressiva separazione dal contesto umano si baserà sull'incremento della conflittualità della nostra specie. Nelle parole di Kosko troviamo gli elementi di un altro frammento del mito del robot, così ben espresso in Terminator, non a caso divenuto un luogo privilegiato dell'immaginario fantascientifico per quasi un quarto di secolo, e dove Sky-Net rappresenta il passaggio dallo scudo spaziale all'intelligenza artificiale vivente e operante.
In quello stesso istante - si ricorderà - la rete di connessione (rete aristocratica, un super-hub che struttura il sistema di difesa statunitense) collassa in un punto critico, secondo il modello scoperto poi da László e Barabàsi. In questo caso il punto critico è quello in cui si produce la massima concentrazione di intelligenza artificiale, il primo robot autocosciente.
Eppure scienziati come Kosko non soltanto non hanno alcun orecchio per le profondità del simbolico, ma addirittura ribaltano i suggerimenti che provengono da una diffusa e invisibile consapevolezza dello stato di fatto:
L'innalzamento graduale del QIM (Quoziente Intellettivo delle Macchine, N.d.a.) delle armi intelligenti contribuirà probabilmente trasformare il nostro mondo in un luogo migliore. Potrebbe infatti rendere obsoleta la guerra di massa. Comunque vadano le cose credo che una grande disponibilità di macchine non potrà che avere un effetto fondamentale: l'abbondanza delle macchine contribuirà a eliminare la violenza dalle nostre vite (Ib., p. 326).
L'eliminazione della violenza dalla nostre vite non sarebbe, dunque, il risultato di una evoluzione della coscienza ma il frutto di un controllo occulto delle macchine intelligenti. Se si concepisce il rapporto fra natura e realtà artificiale in questi termini si abbraccia una ideologia che accetta l'autoestinzione come un dato ineluttabile:
Anche la brevità della vita media è una violenza, forse la violenza estrema. Il tic-tac dell'orologio limita tutto ciò che facciamo. Non ci comporteremmo nello stesso modo se sapessimo di poter vivere mille o un milione di anni. Saremmo meno solleciti a mettere al mondo figli, se pure ne metteremmo. Saremmo più circospetti nello spendere e più attenti a risparmiare (sottolineature mie, N.d.a.) (loc. cit., p. 326-27).
Segue un lungo elenco di benèfici effetti dell'espansione delle tecnologie intelligenti sull'ambiente, sull'ecosistema e perfino sul sistema solare. Ora, anche trascurando l'ovvia constatazione che l'impatto ambientale è tanto maggiore quanto più sviluppate sono le civiltà tecnologiche, e gli Stati Uniti d'America ne sono l'esempio vivente, è chiaro che in queste righe (riecheggianti un'opinione maggioritaria nella comunità degli scienziati) la vita stessa è considerata una realtà discontinua. La generazione è un insulto alla perfetta, inviolabile individualità di ogni monade umana. Si ha il diritto di voler vivere per mille, per un milione di anni, e perché no, in eterno, se possibile, eliminando dall'orizzonte l'idea stessa della generazione, della trasmissione della vita. La vita non è dunque una rete che si estende nel futuro e nel passato, ma una sezione di un eterno presente. Inoltre, il progresso dell'intelligenza artificiale deve di necessità portare all'estinzione della vita umana, poiché dove non c'è generazione c'è morte. Resterebbero in "vita" le macchine intelligenti, quali nostre legittime eredi.
Anche la sessualità è minacciata:
I progressi futuri della robotica, dei materiali, dei cosmetici renderanno disponibili dei sostituti sessuali, come potrebbero essere dei cyborg fatti a immagine e somiglianza delle stelle dello spettacolo del giorno [.] un mondo più erotico potrà essere un mondo migliore. Di sicuro sarà più divertente. Ma che sarà dell'amore romantico quando ogni uomo e ogni donna possiederà o potrà noleggiare un harem di robot? [.] Forse resta il vero amore che può raggiungere nuovi culmini e in nuove forme che oggi non riusciamo neppure a immaginare (Ib., p. 328).
L'ideologia robotica, fondata sul principio di discontinuità, si rivela una forma di imbalsamazione e dimostra una forte coerenza inconscia con i simboli di morte, quindi di rottura radicale con la genesi del fenomeno umano che si cela nei miti della vita artificiale. Come è possibile percepire il respiro della condizione umana in stato di sospensione delle relazioni umane? Dov'è la rete che presiede allo scambio di flussi, all'armonia e alla sincronia, generatrice di vita?
La discontinuità, la frattura, la rescissione dei legami traspare in tutte le forme di ideologia robotica, e non a caso nelle frasi conclusive di un libro che difende il principio del continuum emerge l'immagine erewhoniana del doppio vincolo che lega nuovi e vecchi padroni:
Il futuro dell'uomo insieme con le macchine intelligenti svilupperà nuove variazioni del vecchio tema del padrone e dello schiavo. Controlleremo i nostri superiori dotati di intelligenza meccanica. Vivremo con loro, creeremo con loro, cambieremo con loro, e forse ci riprodurremo anche con loro. Terremo i loro fili mentre loro terranno i nostri. Entrambi padroni ed entrambi schiavi (Ib., p. 328).
In realtà, una concezione "organicista" dei sistemi, che si estende dai sistemi stellari agli organismi, e dal cervello alla mente, pone agli studiosi della vita organica un evidente dilemma ontologico.
Per questi ultimi le facoltà razionali ed emozionali animali, e in particolare umane, sono il frutto dell'unicità di ogni singolo essere vivente, a sua volta frutto di una linea evolutiva che comprende in vario modo l'intera rete della vita. La differenza, la matrice della discontinuità fra le macchine intelligenti e l'uomo, è pertanto insita nella differenza fra le procedure e le strutture:
Abbiamo dato per scontato che il cervello, dopo essersi originato per selezione naturale che ha stabilito i vincoli dei valori e le strutture principali, operi per selezione somatica. Invece di essere governato da un insieme di procedure efficaci, è governato da gruppi di strutture efficaci, le cui dinamiche consentono alle sue attività correlate di originarsi per selezione, piuttosto che mediante le regole della logica. Chiaramente, se il cervello si è evoluto in questo modo, e se questa evoluzione ha dato vita al fondamento biologico della scoperta formale e del perfezionamento dei sistemi logici della cultura umana, allora possiamo concludere che, in senso generativo, la selezione è più potente della logica. È la selezione naturale e somatica che ha dato origine al linguaggio e alla metafora [.] il pensiero cosciente dell'uomo può creare nuovi assiomi, creazione impossibile per un computer. Questa consapevolezza non implica, naturalmente, che la selezione possa sostituirsi alla logica (Edelman - Tononi, 2000, p. 257).
Se la selezione naturale, data la matrice biologica, è un processo che occupa un livello fondamentale rispetto a ogni creazione ingegneristica, ci si trova nella difficile situazione di chi deve portare a una necessaria convergenza la modalità del selezioniamo e quella della logica delle macchine. La ricerca di una terza via che salvi le condizioni di entrambe le sfere appare come una sorta di nuovo Graal cha abbia il potere di salvare il principio del continuum:
Dovremo anche creare artefatti che somiglino a cervelli collegati a funzioni corporee se vorremo comprendere appieno questi processi. Anche se è remoto il giorno in cui sapremo creare tali artefatti coscienti, dovremo costruirli - vale a dire usare dei mezzi sintetici - prima di comprendere a fondo i processi del pensiero stesso. Per quanto il momento sia di là da venire, tali artefatti saranno costruiti. In fondo, l'evoluzione l'ha già fatto almeno una volta (sottolineature mia, N.d.a.) (Ibidem, p. 265).
Quel "saranno costruiti" ha tutto l'aspetto di una meta sostenuta dalla fede, quasi un'escatologia che si presenta sotto la duplice veste di una necessità storica e di un inevitabile percorso ontogenetico. La "terza via" è la saldatura archimedea che le scienze possono operare tra il biòs e l'artifex. La scienza è anzi quel punto cruciale, al cui interno si scatenano forze che stringono un nuovo patto alchemico fra biòs e artifex.
Per dare effetto alle proprie proiezioni l'ideologia robotica si è inoltrata in territori che un tempo le erano estranei: l'universo degli stati mentali ed emozionali. E la neurofisiologia è il ponte.
Affermare che i vari stati della coscienza sono espressioni dirette delle strutture fisiologiche e anatomiche del sistema nervoso centrale implica infatti la possibilità teorica di riprodurre sia le strutture che gli stati che esse dovrebbero produrre. Tuttavia, l'insieme di azioni e reazioni che contribuiscono a definire gli stati di coscienza comprende disposizioni mentali completamente differenti le une dalle altre.
La matassa "mente-corpo" si dimostra tanto più labirintica quanto maggiori sono i chiarimenti che la scienza produce sulle singole funzioni. Se è vero che alcune disposizioni mentali sembrano assomigliare a meccanismi autonomi, altre sfuggono a ogni tentativo riduzionista. Tutte le "funzioni" che mostrano un locus del controllo non interamente dislocato nelle strutture neuroanatomiche soggiacciono a questa particolare condizione. Se il locus del loro controllo è in parte un prodotto ambientale, qual è la matrice di quella funzione? In quale struttura identificarla? Ogni lingua naturale rientra già in questa categoria di insiemi fuzzy. Dunque, le rappresentazioni mentali che derivano dall'habitat interagiscono profondamente con i processi cognitivi dei singoli individui (Marraffa, 2002), in altre parole, sono materiale per la loro stessa esistenza. Le espressioni emotive, forse più delle facoltà cognitive, sembrano vincolate all'esistenza di un cosmo di rappresentazioni ambientali, vale a dire a un'economia percettiva reticolare. Si può ancora usare il concetto di informazione?
Il mito del robot ha invece assunto le espressioni emotive come un particolare tipo di funzione cognitiva, implementabile in linea di principio in un circuito elettronico. Viene in mente il chip "emozionale" che Data (l'uomo artificiale nella serie Star Trek. The Next Generation) ogni tanto inserisce fra i circuiti del suo cervello positronico per sperimentare le eccitanti sensazioni "umane". All'epoca in cui fu ideato il personaggio di Data, androide asimoviano, si considerava l'autocoscienza il prodotto di un'architettura neurale in grado di risolvere problemi semantici e matematici. L'intelligenza (autocosciente) era ancora la risultante di una macchina di Turing universale, visione aristotelica che separava la facoltà dell'astrazione (l'anima razionale) dalla formazione ed espressione dei sentimenti (l'anima sensitiva). I sentimenti possono in tal modo affiancare, e forse arricchire l'esperienza di un androide, ma non intervengono sull'autocoscienza, unica vera facoltà "umana". Nonostante ciò, il personaggio di Data, nel corso delle sue avventure a bordo dell'astronave Enterprise riesce a manifestare, con o senza l'ausilio dei chip emozionali, una gamma di sentimenti che pochi elevati spiriti possono vantare.
Il luogo comune che oppone la freddezza macchinica al calore umano non è banale. I robot reali che "esprimono emozioni", come il We4r (Waseda eye number 4 revised) o come l'automa parlante realizzato da Atsuo Takanishi, rispondono con segnali più o meno appropriati a pattern che denotano sul volto o sul corpo umano stati emotivi reali. Tuttavia, si tratta di tropismi molto sofisticati, che rivelano più di quanto non nascondano l'assoluta assenza di empatia, la totale "freddezza" di queste macchine. Il punto cruciale concerne invece la definizione della diversità. Il robot è un'entità in fieri essenzialmente "aliena"; andrebbe trattata entro i confini di una filosofia e di un'etologia che studino il rapporto con l'estraneo, col diverso, e ora anche con l'incompatibile.
L'ipotesi di una sostanziale "discontinuità" tra l'organico e l'artificiale sembra lentamente sostituire l'ipotesi che la vita, con tutte le sue caratteristiche, possa albergare in qualsiasi sostrato. Gli esperimenti che miravano a costruire la vita artificiale mediante artifizi algoritmici si sono rivelati preziosi ausili euristici, ma dai risultati si capisce oggi meglio di un tempo quali siano le differenze, e dunque la discontinuità, tra gli automi e altre strutture evolutive di tipo matematico e le molecole organiche (Emmeche, 1994, p. 146 e sgg.). La distinzione parte proprio dal fatto che l'habitat appare sempre più la vera sede di processi fondati su flussi in rete. I flussi di informazioni fanno parte di questi insiemi fuzzy e diffusi, ma i flussi non sono solo pura informazione digitale. Una parte rilevante del processo che produce espressioni o comportamenti coerenti con l'ambiente deriva dalla forma organizzata che assume il processo medesimo. Le strutture reticolari rappresentano queste unità gestaltiche, ed è significativo che esse si presentino ai vari piani dell'organizzazione del vivente, partendo dal livello organizzativo fondamentale, quello del DNA, per arrivare alle macrostrutture reticolari che costituiscono le società umane.
Questa idea si allaccia alle osservazioni teoriche sviluppate da Gregory Bateson a proposito della continuità e della discontinuità evolutiva, e introduce una importante distinzione fra il ruolo svolto dai singoli individui e quello delle popolazioni e dei gruppi. Bateson, in anticipo sui tempi, notava che i processi genetici che determinano l'embriologia devono essere concepiti come insiemi di relazioni. Conta molto più la configurazione che l'insieme. La struttura della rete è in un certo senso più importante che non l'informazione contenuta in ogni singolo codone (Bateson, 1979, p. 210).
Bateson notava inoltre che salendo di livello logico nella gerarchia dei sistemi organizzati le strategie evolutive possono spesso essere disastrose, proprio a causa degli elementi di discontinuità e di imprevedibilità che esse tendono a introdurre nei sistemi. L'esempio della specie umana sembra confermare questa ipotesi (Ibidem, p. 227). Il più fondamentale dei sistemi dinamici, il DNA, è anche quello soggetto ai vincoli maggiori. Mano a mano che si sale nella gerarchia dei sistemi dinamici le interazioni fra strutture e insiemi di ordine superiore si fanno sempre più imprevedibili. Si può anche dire che si sviluppa il loro gradiente di discontinuità. Dunque, se le interazioni fra un organismo e l'ambiente sono già altamente imprevedibili le interazioni fra un gruppo di organismi, cioè una specie, e l'ambiente sono ancora meno prevedibili, poiché secondo Bateson i due sistemi, l'organismo e l'ambiente, non posseggono informazioni l'uno dell'altro in misura sufficiente. Questa concezione può essere oggi rivista alla luce della teoria delle reti, dove i connettori svolgono il compito fondamentale di assicurare uno scambio di informazioni fra sistemi altrimenti fra loro divergenti, fornendo le basi di un equilibrio condizionato.
La specie umana introduce un fattore imprevisto. Fra gli organismi e l'ambiente si deve collocare il particolare habitat tecnologico, semantico e psicodinamico costituito dall'insieme delle attività specie-specifiche. Questo livello, di fatto, costituisce un filtro sempre più solido fra i singoli organismi umani (o i loro insiemi) e l'ambiente. Poiché l'habitat tecnologico costruisce sue proprie strutture reticolari altamente autoreferenziali, le interazioni fra l'habitat e gli organismi umani diventano sempre più onerose, difficili e, seguendo Bateson, altamente imprevedibili, cioè stocastiche. Se i flussi di scambio sono interrotti da reti artificiali che si insinuano nelle reti che organizzano le specie viventi, anche le forme di adattamento selezionate nell'insieme del pool genico della popolazione umana saranno condizionate dall'habitat artificiale. Questo principio spiegherebbe uno dei motivi profondi che determinano l'assuefazione all'artificiale.
Il biochimico Jesper Hoffmeyer sostiene che la vita si basa su una autodescrizione digitale, strutturata dai geni che interagiscono con l'ambiente fisico, secondo modalità analogiche (Emmeche, 1994, p. 149). Ma se le modalità analogiche emergono da un ambiente artificiale, altamente tecnologico e sempre meno connesso con le reti ambientali naturali, anche le autodescrizioni digitali strutturate dai geni reagiranno a questo tipo di ambiente. Ciò potrebbe forse chiarire la genesi di un forte investimento psichico nella creazione della coscienza artificiale. Bisogna tener presente che il punto di partenza è sempre il fenotipo umano, con tutte le sue peculiarità, ivi comprese le facoltà emozionali in quanto funzioni adattive intraspecifiche.
Un'interazione emotiva deve essere descritta come un evento relazionale, una struttura di connessione, una rete caratterizzata da dinamiche di flusso che determinano configurazioni in sé significative, indipendentemente dal contesto in cui esse si svolgono; configurazioni che non possono essere a semplici flussi informazionali e a protocolli di scambio.
L'ideologia robotica non ammette questo scarto, ma si trova a fare i conti con una serie di ricerche che pongono in modo nuovo il tema della specificità dei contenuti emotivi e cognitivi e coscienziali umani (Damasio, 1994), e per estensione dei sistemi viventi ai loro vari livelli di organizzazione e complessità. Le fondamentali ricerche di Antonio Damasio sulle relazioni fra espressioni emotive e contenuti di coscienza tendono a riformulare il concetto di coscienza robotica in fieri secondo una radicale discontinuità:
Quali che siano le risposte che si daranno in futuro, l'idea che la coscienza umana dipenda dai sentimenti ci aiuta ad affrontare il problema della creazione di artefatti coscienti. Riusciremo, assistiti dalla tecnologia avanzata e dai fatti della neurobiologia, a creare un artefatto dotato di coscienza? Per parte mia mi trovo a rispondere in entrambi i modi e forse, data la natura della domanda, non è sorprendente. La mia prima risposta è "no":abbiamo poche probabilità di riuscire a creare un artefatto dotato di qualcosa che somigli alla coscienza umana, che possa cioè corrispondere a una prospettiva di senso interiore. La mia seconda risposta è "sì"; possiamo creare artefatti con i meccanismi formali della coscienza e forse si potrà dire che questi artefatti hanno un qualche tipo di coscienza (Damasio, 1999, p. 377).
Damasio nota che non basta superare un test di Turing per dimostrare che un artefatto possegga una mente capace di introspezione:
[.] Gli stati interni dell'artefatto potrebbero persino imitare alcune delle strutture neurali e mentali che propongo in questo libro come base della coscienza. Riuscirebbero a generare conoscenza del secondo ordine, ma, senza l'aiuto del vocabolario non verbale del sentimento, tale conoscenza non sarebbe espressa nella forma che si rileva negli esseri umani e che probabilmente è comune a molte altre specie viventi (Damasio, 1999, p. 378)
Anche in queste righe si accenna a una differenza non riducibile, quasi che in seno alla comunità scientifica fosse in atto un dissimulato dibattito sul significato filosofico che si deve attribuire alla nozione di "coscienza" applicata alle macchine. L'obiettivo Hal9000, il computer intelligente, sensibile e cattivo del capolavoro di Kubrick, resta infatti un punto di riferimento ideale per la maggioranza degli studiosi di I.A., primo fra tutto Marwin Minsky (Minsky, 1985; Williams, 2001, p. 102). L'idea di "punto di riferimento ideale" è un altro modo soffuso per dire "articolo di fede". La convergenza dell'artificiale e del vivente è infatti un articolo di fede di quasi tutti gli studiosi di robotica e di intelligenza artificiale, come mostrano le seguenti osservazioni di Nilsson, uno fra i massimi ricercatori in robotica avanzata:
L'intelligenza artificiale di "livello umano" richiederà senza dubbio capacità di percezione e di azione molto più raffinate di quelle dei robot e degli agenti odierni. La carenza più manifesta è la coscienza comune che dovrebbe riempire i livelli più alti della torre dei modelli. La maggior parte di ricercatori di IA conviene sul fatto che questa conoscenza debba in qualche modo essere codificata dai nostri agenti prima che questi possano svolgere perfino i compiti di routine che gli uomini trovano facili. Il progetto CYC è un tentativo di un gruppo di ricercatori di codificare quella conoscenza che essi ritengono sia richiesta. Sin dagli inizi dell'IA alcuni ricercatori hanno pensato che questa conoscenza poteva essere ottenuta in "modo facile" con programmi automatici di apprendimento, con sistemi auto-organizzanti, con l'evoluzione simulata e con opportune scorciatoie. Anche i ricercatori che stanno organizzando CYC sperano che dopo che CYC abbia raggiunto un certo stadio critico, il sistema sarà in grado da solo di apprendere maggiori conoscenze - leggendo testi, conversando con gli uomini e venendo istruito. Gli uomini apprendono molto della conoscenza che usano con il processo di "bootstrapping" dalla conoscenza ottenuta in precedenza, prima, come i bambini, da tendenze innate, in seguito, man mano che attraversano i vari stadi piagetiani, da abilità e concetti acquisiti in precedenza, e poi, da adulti, attraverso la pratica, la lettura e la comunicazione. Sembra, per adesso, che la quantità di conoscenza che sarà richiesta dagli agenti di IA per esibire un'intelligenza di livello umano sia così grande, che sarà necessario un simile processo di bootstrapping ancora da scoprire. Probabilmente questo processo comprenderà tecniche molto simile ad alcune delle procedure automatiche di apprendimento descritte in diverse parti del libro. La mia opinione è che dobbiamo trovare una modalità per avere un agente che aggiunga esso stesso ulteriori piani alle tre torri, dopo che i progettisti avranno progettato in modo appropriato i piani più bassi [Nilsson, p. 468-469 (sottolineature mie (N.d.a.)].
È chiaro che nei laboratori di robotica prevale l'idea che l'autocoscienza artificiale dovrà sorgere dal connubio fra i sistemi modulari automatici di apprendimento e di decodifica e le strutture di rete generate dalle connessioni. Ogni stadio di coscienza dovrebbe in quel caso corrispondere alla geometria che emerge da un bootstrapping innescato dal superamento di una determinata soglia critica. Tali "stadi" di coscienza robotica sarebbero affini agli "stati" di coscienza dei vari esseri umani. Il "silenzio" che i robot finora realizzati oppongono ai desideri dei loro stessi costruttori, l'assenza di una loro empatia, pur così insistentemente evocata, non sembrano capaci di sollecitare dubbi sulla possibilità stessa che il sogni si avveri. Ma è proprio la pervicacia di queste idee che solleva il quesito della loro persistenza. Il nucleo mitografico dell'Eva futura, aggiornato dallo scrittore Richard Powers in Galatea 2.2, esprime in versione moderna la profonda relazione emotiva e simbolica che guida le concezioni filosofiche dei attuali costruttori di robot. Partendo da queste basi, nel prossimo capitolo esamineremo in che modo una applicazione alternativa della teoria delle reti può essere proposta come un modello ermeneutico alternativo sia al dogma del continuum fra naturale e artificiale che all'opposta concezione della discontinuità radicale.
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