Douglas R. Hofstadter / Luciano Nanni
Dialogo: Dei luoghi e degli ambi-luoghi, dei segni e della conoscenza, del bello e dell’arte...
Nanni - Prego. Avanti!
Hofstadter - Scusa il ritardo. Ho fatto tardi e quando son passato tu non c’eri. Ti ho lasciato un messaggio in portineria.
Nanni - Ho visto. Sì grazie, ma non c’è problema: ora siamo qui.
Hofstadter - Si. Sì. Questo ufficio è vicino a quello del prof. Tega, il Preside?
Nanni - Sì, è a fianco.
Hofstadter - Allora, forse, anche da qui si vede la K.. Ah! Eccola!
Nanni - Quale K? Ah! Quella rossa grande dipinta sul silos in cortile? Dipinta o incollata, non so.
Hofstadter - Sì. Mi piace enormemente. Un giorno tornerò e la fotograferò: una vera poesia! Oppure posso, forse, disegnarla. Vedrò. Mi piace. Mi piace enormemente. Io penso che certe lettere…
Nanni - Magari te ne faccio una diapositiva e poi te la spedisco…
Hofstadter - Va bene. Va bene. Sai, per me, una piccola lettera così, come quella, ben concepita e ben realizzata, può essere una poesia.
Nanni - Potremmo provare ora a copiarla…
Hofstadter - No, no, dopo, dopo. E’ veramente una piccola, magnifica, poesia. Incredibile! Incredibile!
Nanni - E sì, per l’opinione che diffusamente si ha della poesia, quanto stai dicendo è veramente incredibile, ma non per me…
Hofstadter - Meno male…
Nanni. No. Non c’è proprio nulla di cui meravigliarsi. Anzi! Ciò che tu dici è del tutto in linea con quanto io vengo sostenendo e scrivendo da anni circa le modalità di costituzione dell’artisticità di un oggetto qualsiasi e quindi anche della poesia. Diciamo che ciò che sostengo al riguardo intenderebbe porsi proprio a sostegno scientifico di affermazioni come la tua.
Hofstadter - Cioè?
Nanni - Ritengo che l’artisticità di un’opera non sia funzione della sua natura. Non c’è arte per natura. C’è, semmai, per cultura. L’artisticità di un oggetto è una faccenda connessa alle modalità d’uso degli oggetti non all’ “in sé” degli oggetti stessi. Lo stesso oggetto lo puoi usare come arte (considerarlo arte) e allora ti autorizzi ad avere con esso un certo tipo di relazioni. Relazioni magari variabili da epoca a epoca. Oppure lo usi come oggetto pratico e allora ti autorizzi ad aver con esso un altro tipo di relazione, in genere una sola del tutto autosufficiente e in grado di esaurire per sé il significato dell’oggetto stesso.
Hofstadter - Mi riconosci allora il diritto di decidere che quella K è una poesia?
Nanni - Sì, io posso non riuscire a considerarla poesia, ma tu hai tutto il diritto di considerarla tale e se tale la consideri per te è giustamente poesia (arte), anche se nessuno fosse d’accordo con te. Non esiste la poesia (l’arte) in assoluto. Qualcosa è arte sempre e solo in base a un decisione di qualcuno (non importa se un individuo solo o una comunità) di considerarla tale. Una specie di battesimo. Naturalmente tale battesimo varrà per chi gliel’ha dato, non obbligatoriamente per altri. Anche il potere del battesimo è relativo.
Hofstadter - Sì, per me si tratta di una poesia bellissima…
Nanni - Ma questo è un meccanismo che presiede alla nascita di ogni identità, non solo di quella dell’arte. Qualcuno vorrebbe al riguardo fare una distinzione tra identità funzionale e identità procedurale, ma mi sembra una distinzione frutto di cecità analitica. Ogni procedura è posta in vista di un fine e quindi di una funzione e viceversa: ogni funzione implica delle procedure di realizzazione. Che cos’è questo (Nanni prende dal tavolo un oggetto e la mostra ad Hofstadter)?
Hofstadter - Non so. E’ un oggetto strano. Ci sono due beccucci…Mah! Potrebbe essere una caffettiera…
Nanni - E se io lo usassi, questo oggetto, per impedire al vento di scompigliarmi questi fogli?
Hofstadter -Beh! Allora sarebbe un ferma-carte.
Nanni - E se…
Hofstadter - Mi fa venire in mente… Conosci il marchio “Alessi”?
Nanni - Beh! Sì. Qualcosa so…
Hofstadter - Fanno oggetti d’uso, anche per cucina, ma stranissimi. C’è, per esempio, uno spremi-agrumi. L’oggetto implicito è un utensile classico: uno spremi-agrumi appunto, ma subito non lo vedi. Ci devi arrivare pian piano perché è fatto in modo stranissimo. La prima volta che lo vedi non sai proprio, così di primo acchito, che cosa possa essere. Ti può sembrare un oggetto di fantascienza. Potrebbe sembrarti adatto ad atterrare sulla luna. E poi ci arrivi. E’ un oggetto pratico, ma è anche qualcosa d’altro…
Nanni - Beh! Sì. E se io lo uso per difendermi da una tua aggressione (Nanni riprende in mano l’oggetto che ha appena mostrato ad Hofstadter) ?
Hofstadter - Oh! Sì. Vero! Allora è un’arma…
Nanni - La conclusione è che io mi sento allora in linea con tutti coloro che ritengono che il nostro linguaggio non nomini gli oggetti, ma le relazioni che noi intratteniamo con essi o che essi intrattengono tra di loro. Vedi? Molti di questi quadri alle pareti…
Hofstadter – Sì, quadri dello stesso artista (dice Hofstadter sorridendo) che ieri mi ha regalato un suo leggio-illeggibile, una “Stele di Rosetta ad anello”...
Nanni - Sì, di Nanni Menetti. Vedi (precisa Nanni ridacchiando): “Nanni Menetti” come la “caffettiera”: uno stesso corpo che, come professore, si chiama “Luciano Nanni” e come artista si chiama “Nanni Menetti”.
Hofstadter - “Menetti”, il cognome di tua madre, mi hai detto…
Nanni - Sì, sì, ma torniamo alla ragione per la quale ho citato questi quadri alle pareti. Vedi, molti fanno parte di una serie che si intitola “ In principio era il verbo”…
Hofstadter - Un inizio ben noto!
Nanni - Appunto. Ma con una precisazione: dovessi riscrivere la Bibbia non direi che Adamo diede il nome alle cose ma alle sue relazioni con le cose.
Hofstadter - Eh! Sì...
Nanni - Qui, in Italia, abbiamo avuto per anni come segretario di uno dei nostri partiti politici più importanti, un personaggio di nome Occhetto. Conosci?
Hofstadter - Sì. Ho sentito il nome...
Nanni - A un certo punto decise di cambiare nome al suo partito...
Hofstadter - C’era nel simbolo un albero...
Nanni - No. L’albero è venuto dopo. Ora, non avendo ancora chiarissimo il programma politico a cui relazionarlo e non avendo quindi ancora chiaro che nome dargli, con quale nome insomma sostituire quello vecchio, lo chiamò, questo suo partito, la “cosa”...
Hofstadter - La cosa !?
Nanni - Sì. Penso che sarai d’accordo: noi siamo chiusi dentro al linguaggio come siamo chiusi dentro l’atmosfera e in modo inevitabile. Noi possiamo infatti uscire dall’atmosfera solo in grazia dell’atmosfera stessa. Che fanno infatti gli astronauti? Se la portano dietro come ossigeno. Noi possiamo al pari uscire dal linguaggio in grazia del linguaggio stesso. Ci sono infatti delle parole, nel linguaggio, a significato azzerato, parole-indici, parole come dei diti puntati verso l’esterno e basta. Una di queste parole è appunto “cosa”, ma ce ne sono altre, in italiano penso, per esempio, ad “aggeggio” e simili. Parole che servono a gettare le entità fuori dalle relazioni e quindi fuori dai loro nomi (fuori dal linguaggio) in attesa di inserirle in altre relazioni e quindi di recuperarle al linguaggio con altri nomi. Nel ready-made di Duchamp è precisamente nascosta questa verità. Prendiamo il famoso Scolabottiglie. Deve la sua artisticità semplicemente alla sua dislocazione, al fatto che ha cambiato posto e quindi funzione e quindi relazione, dal negozio del cantiniere alla galleria d’arte. Da “scolabottiglie” a “opera d’arte”, quindi da un nome a un altro passando per lo stato di “cosa”.
Hofstadter - Cosa, cosa ...
Nanni - Sì. E se come opera d’arte continuiamo a chiamarlo “scolabottiglie” lo facciamo in memoria di ciò che fu, della relazione da cui è stato prelevato e in cui non è più. Entrato nella galleria d’arte, in relazione con la galleria d’arte naturale, che venga chiamato arte, “arte”. Uscito dalla relazione con le bottiglie ha perso il proprio nome primigenio ed è divenuto “cosa”. Entrato in relazione con l’arte è diventato arte, ha cambiato nome, tant’è che se lo si vuole continuare a chiamare “scolabottiglie” ci sentiamo in obbligo di aggiungere “di Duchamp”, che è come dire che “scolabottiglie” proprio non è più. Lo scandalo di questa operazione è tale per chi è vittima di due forme di ipostatizzazione, di due indebite estensioni di verità parziali a verità totali. Il primo, l’idea di provenienza biblica appunto che il nome non nomini le relazioni, ma l’anima, l’essenza delle cose; il secondo, quello della indebita trasformazione di una verità valida in linea di principio (dove c’è già un’anima, un’essenza, non ci può essere posto per un’altra) in una verità valida in linea di fatto. Il che è falso, perché, abbiamo visto, che di fatto il nostro linguaggio – e quindi il nostro pensiero – ha , a partire da sé, rapporto solo con verità livellari e quindi parziali. Da qui l’idea, diffusa anche in persone colte della nostra contemporaneità, che nell’arte del Novecento ci sia molta mistificazione e , come dire, presa per fondelli del pubblico. Ma è un’idea dovuta ad un’ignoranza teoretica preoccupante, tanto più in persone che per il loro ruolo e la loro visibilità fanno spesso opinione. Certo, si può non amare questa o quella forma d’arte, ma da qui a tacciarle di mistificazione ce ne corre. La mistificazione implica un rapporto violato con l’idea di una verità uguale per tutti di nessun supporto scientifico. C’è una carenza di sapere teoretico in giro spaventosa. Credo che fin dalle elementari bisognerebbe provare ad ovviare a questo disastro. Disastro in tutti i sensi, giacché ritengo questa ignoranza fonte prima di tutti i nostri mali, anche e soprattutto politici e morali.
Hofstadter - Beh! Tra gli studiosi dell’evoluzione ci sono persone.... E’ interessante! E’ interessante il riferimento a Duchamp, perché Stephen J. Gould era un grande ammiratore di Duchamp. St.J. Gould parlava spesso di quest’idea di qualcosa che si sviluppa nel corso dell’evoluzione, di qualcosa che ha una certa funzione per una certa bestia o pianta o che so io e poi di un suo mutare uso, e quindi funzione, per la stessa bestia o la stessa pianta, ma in una situazione diversa. Supponiamo. La cosa nasce braccio, ma come un braccio più lungo del normale. Bene, è un braccio, ma in quanto braccio lungo può aiutare la bestia che lo possiede non a volare, certo, ma a fare salti più lunghi, salti che durano un po’ di tempo, un po’ di più del normale. Se si vuole siamo al cominciamento del volo e il braccio assume quasi una funzione di ala. E poi ovviamente ci saranno mutazioni, se ci saranno, che realizzeranno, se la realizzeranno, questa idea dell’ala...Sì, una cosa più svolgere più funzioni e quindi avere identità diverse. La bocca! La bocca, per esempio, serve a mangiare, a baciare, a parlare, a migliaia di cose.
Nanni - Non si può dire che abbia un’identità unica.
Hifstadter - Non si può dire. Non si può dire in assoluto. Questa (Hofstadter si tocca la bocca) è, che so, il “mangia-cibo”...
Nanni - Sulla stessa linea la si potrebbe definire il “caccia-parola”.
Hostadter - Esatto! (ridacchia) Esatto!
Nanni - Si potrebbe recuperare la distinzione kantiana tra noumeno e fenomeno. Potrebbe essere qualcosa di simile...
Hofstadter - Volevo dire, Volevo ribadire che Stephen, che ha parlato moltissimo di questo nei suoi scritti sull’evoluzione, ammirava enormemente Duchamp.
Nanni - Forse per questo parallelismo?
Hofstadter - Chissà!
Nanni - Magari intuitivamente.
Hofstadter - Magari intuitivamente! Sì, magari intuitivamente.
Nanni - Ma dopo questo lungo preambolo scatenato dalla tua affermazione, dal tuo riconoscimento di questa bella lettera rossa, che sta al nostro fianco, fuori dalla finestra, potrebbe, dovrebbe cominciare la vera e propria intervista...
Hofstadter - ma ci siamo già in mezzo.
Nanni - Sì,ma intendo l’intervista che mi ero in senso stretto ripromesso di farti.
Hofstadter - Eh! Sì, con i discorsi si comincia poi non si può mai sapere dove si va a finire.
Nanni - Appunto, ma vorrei provare a dominarli un poco, senza reprimerne forza e suggestione. Lo posso fare continuando ad usare la nozione di “arte”, anche se in funzione diversa. Chiederti, in particolare, l’importanza che essa ha avuto nel tuo lavoro. Muovendoci a 360° nella selva delle tue ricerche, quale la spinta e i suggerimenti che ti sono venuti dall’arte?
Hofstadter - L’arte?
Nanni - Sì.
Hofstadter - E’ un mistero per me. Ma quando tu dici arte, intendi anche la musica...
Nanni - Sì, l’arte in generale.
Hofstadter - Anche la poesia, giacché tanto la poesia che la musica hanno a che fare con la forma...
Nanni - Direi più semplicemente, e per via di opposizione, un settore autonomo della cultura distinto dalla politica, dall’economia, dall’etica, ma anche dalla filosofia, dalla biologia ecc..
Hofstadter - Bene. Fin da bambino....Ma hai ascoltato le mie conferenze nell’Aula Magna di Santa Lucia?
Nanni - purtroppo ne ho potuto ascoltare solo una.
Hofstadter - Non fa niente. E’ stato dato a quella serie un titolo (un qualche titolo bisogna pur darlo) e poi mi son detto che quel titolo non era il titolo perfetto. Il titolo a cui io avevo pensato era: “Percettività, scopritività, creatività”. Un titolo che ritenevo interessante, perché vi comparivano due parole non familiari e una che nemmeno esiste. Eco però ( eco, l’organizzatore del ciclo) ha voluto che io, questa parola inventata, la virgolettassi per far capire al pubblico che chi proponeva questo titolo non era stupido. Non mi pareva necessario. Ma pareva evidente, ma Eco così ha voluto. O.K. non importa. Torniamo a noi. Alla fine delle sei conferenze ho detto al pubblico che se lo avessi formulato in quel momento il titolo generale l’avrei ancora cambiato con il seguente: “ sempre spinto dalla bellezza!”
Nanni - Si!?
Hofstadter - Per descrivere me, naturalmente.
Nanni - per descrivere il tuo lavoro...
Hofstadter - Per descrivere la mia personalità, la mia essenza...
Nanni - L’essenza !?
Hofstadter - Sì. Anche se io sono uno scienziato, un matematico ecc. ecc. cerco sempre la bellezza. Sono attratto, sono assolutamente ossessionato dal bello. Ciò che può distinguermi da tante altre persone è che tale sentimento lo perseguo in tanti campi diversi. Lo perseguo in poesia; lo perseguo nelle arti visive oltre che in matematica e nelle scienze ovviamente.
Nanni - Questo lo capisco. Si tratta di un tuo rapporto personale, esperienziale, con ciò che tu senti bello. Ora, dentro questa tua dimensione, non dico in generale, ma dentro questo tuo modo di sentire la spinta del bello, il bello stesso come potrebbe essere definito? Forse come qualcosa che soddisfa, che crea, che ci pone in una sorta di armonia con noi stessi? Quando tu dici “guidato dal bello...
Hofstadter - No: “spinto”. Ovviamente la parola “bello” è una parola così complicata che non potrei dirlo. Non potrei definirlo...
Nanni - Sì.
Hofstadter - potrei dare degli esempi per indicare il tipo di cose che mi attira. Per esempio, in poesia, una cosa che mi attira molto sono i vincoli sulla forma. Mi piace moltissimo la rima, la metrica ecc. ecc.. Non nello schema semplice “A – B; A – B” ecc. “C – D; C – D” ecc.. Non questi vincoli semplici, ma altri più complessi, anche molto irregolari, ma pieni d’incanto. Certo, anche “incanto” è una parola totalmente indefinibile. Ma anche questo connesso comunque a qualche vincolo. Tu senti che c’è ordine. Non è un ordine totalmente prevedibile, ma senti che c’è ordine. Senti che ci sono molte forze che magari hanno a che vedere con il ritmo, con i suoni ecc. ecc.. A volte mi piace moltissimo l’allitterazione. Non ci sono regole nell’uso dell’allitterazione. Nessuno ti dice che tutte le parole devono cominciare con la stessa lettera. Tu in una poesia puoi reiterare, che so?, una “F”. In una parola c’è; in un’altra non c’è. In altre ancora ritorna. Non è prevedibile, ma c’è. Diciamo che si percepisce una sua necessità. Si tratta di un tipo di regolarità, come dire, irregolare e questo a volte soddisfa insieme il bisogno della regolarità e quello della sorpresa. Bello!
Nanni - Ciò mi fa pensare a R. Roussel (conosci?) oppure all’o.u.l.i.p.o..
Hofstadter - No. Nell’ o.u.l.i.p.o. il processo è troppo vincolato. La loro idea prevede un sacrificio del contenuto.
Nanni - Imbrigliare il contenuto.
Hofstadter - Imbrigliare!
Nanni - Sì. Non tanto sacrificare il contenuto quanto costringerlo a prendere determinate forme.
Hofstadter - No. Se fosse così sarei anche d’accordo. Cioè, se tu hai un’idea, in anticipo, che vorresti esprimere e tu scegli una forma poetica e ti servi dei suoi vincoli per esprimerla, beh!, questo andrebbe bene. Ma quando non hai veramente un’idea e sfrutti i vincoli semplicemente per farti portare dove essi ti portano, ecco, questo uso della forma per me non è interessante. Mi spiego meglio. Ho un’amica, a Boston, che ha scritto una poesia su un’esperienza buffa avuta ad Alessandria d’Egitto. Lei e suo marito erano seduti in un bar e un signore sconosciuto li ha avvicinati, s’è intromesso nei loro discorsi, li ha importunati ecc.. La vicenda ha due momenti. In un primo momento la mia amica mi ha informato di questa storia oralmente; poi, in un secondo momento, ha deciso di tradurla in poesia. Ora, a causa della forma scelta, certe cose ben presenti alla sua mente sono state tralasciate e altre, pur reali ma che lei non aveva ben sottolineato, sono state menzionate.
Nanni - La forma l’ha aiutata....
Hofstadter - Sì, ma le ha causato anche dei problemi. Quando suo marito ha letto la poesia le ha detto: ”ma hai veramente compresso il tutto e molti degli aspetti più interessanti del signore in questione sono spariti o rimasti sullo sfondo e io stesso, che appunto già conoscevo la storia, ho riconosciuto che le cose più interessanti le aveva tralasciate. L’ho invitata così ad aggiungere un’altra strofa e poi ancora un’altra. Il risultato è stata una poesia in equilibrio tanto tra le esigenze del contenuto che quelle della forma. Gli autori dell’o.u.l.i.p.o., certo non voglio dire tutti ma in genere, giocano solo con la forma e non si interessano veramente al contenuto. Alla fin fine non hanno niente da dire. Non sono persone serie, in genere. Non sono come uno scrittore, per me vero, che si interessa all’animo umano e ai problemi della vita. Forse Perec. Perec era diverso. Ritengo che Perec fosse proprio fatto di altra pasta. E forse anche Quenau, a volte. In genere però ho l’impressione che si tratti di gente...
Nanni - Che non ha potenza interiore, che rischia di rimanere vittima di questi meccanismi formali...
Hofstadter - Esatto! Esatto!
Nanni -Tu, nel tuo libro Goedel, Escher e Bach ( Adelphi, ), non ti sei occupato solo di questo tipo particolare di arte, di questa poetica, per dirla nei nostri termini, ma anche di meccanismi che riguardano l’arte, e torniamo un po’ a qualcosa cui abbiamo già accennato, in generale. La tua distinzione, per esempio, tra “messaggio quadro”, “messaggio interno” e “messaggio esterno” tocca questioni generali.
Hofstadter - Sì, tanto generali che non riguardano solo l’arte. Lì dicevo cose che possono riguardare anche messaggi pratici, quotidiani; che so?, giornalistici o d’altro genere...
Nanni - Sì. Bene. Bene. Ci sono infatti condizioni comuni alla significazione e alla comunicazione in genere.
Hofstadter - Cioè?
Nanni - potrei spiegarmi recuperando un esempio di cui mi sono servito nelle mie ormai più che ventennali discussioni con Eco. Anzi ne approfitterei per farti dono di questo, ormai raro, mio libretto in cui viene imbastito proprio un dialogo serrato tra me e Eco su questi propblemi.
Hofstadter - Oh! Grazie: Tesi di estetica ( Hofstadter legge il titolo del libro). Ah! Perché questi spazi bianchi ( Hofstadter sta sfogliando il libro)?
Nanni - Mi spiego...
Hofstadter - Ho capito: si tratta di un dialogo a distanza. Tu intervieni su qualcosa che Eco ha scritto in precedenza. Non ho mai visto un libro così fatto: bello! bello!
Nanni - Ho voluto evitare le furbizie della citazione. Estrapolando frasi si può far dire al nostro interlocutore qualsiasi cosa, tutto e il contrario di tutto. Così, per evitare che qualcuno potesse accusarmi di far dire a Eco ciò che Eco non dice, ho stampato a sinistra l’intero scritto di eco che mi riguarda ( di fatto si tratta di un capitolo contro le mie posizioni contenuto nel suo libro I limiti dell’interpretazione – Bompiani, 1990 -)...
Hofstadter - interrotto e spaziato quando tu poni, a destra, le tue risposte.
Nanni - Sì e i bianchi sottolineano, alternativamente, i silenzi dei due dialoganti...
Hofstadter - bello! Bello! Ma, tornando più strettamente in argomento, quale sarebbe l’esempio?
Nanni - E’ la questione del “fico”: questione che sul giornale “L’Unità” è comparsa, come titolo alla recensione che Carlo Sini fece a questo mio libretto. Titolo in cui appariva “il nome del fico”.
Hofstadter - “Il nome del fico!”. Perché: allude forse a Il nome della rosa?
Nanni - Beh! Devo dire che non ci avevo pensato. Preso direttamente dalle questioni significate dall’esempio, non avevo colto questo gioco ironico che invece tu hai notato...
Hofstadter - Beh! Ma mi sembra normale. Non ti sembra forse che, leggendo un titolo come questo Eco, Nanni e il nome del fico, non possa venire spontaneo a chiunque pensare ironicamente appunto a Il nome della rosa? Mi sembra naturale.
Nanni - può darsi, ma preso, ripeto, dalla cogenza delle questioni teoriche connesse all’esempio del fico, non ci avevo pensato. Me ne accorgo ora. Sorprendente! Forte, anche! Se voluta, ma...
Hofstadter - Ma in che senso “il fico” è un esempio delle questioni connesse alla significazione e alla comunicazione in generale?
Nanni - In questo senso. Eco, trattando in quel libro il problema dell’interpretazione, arriva a dire: se riceviamo una lettera in c’è scritto che ci si dona un certo cesto di fichi ( naturalmente sto semplificando il suo colorito esempio al massimo), prima, tutti, siamo tenuti a sapere che si sta parlando di un certo tipo di frutti e non d’altro (decodifica allora obbligatoria per tutti e in tutti i settori della comunicazione) e poi solo dopo aver capito questo possiamo permetterci di fare le nostre libere connotazioni (interpretazioni).
Hofstadter - Capisco...
Nanni - Bene. Se ciò è vero nella comunicazione pratica, non è vero, a me pare, nell’arte e ciò che succede nell’arte illumina di ritorno e diversamente anche quanto succede nella comunicazione pratica. E’ lo scontro con il diverso che ci rende coscienti del fatto che ciò che ci costituisce non è naturale ma, appunto, storico, costruito. Mi viene in mente una bella pagina in proposito di B. Lee Whorf. In essa Whorf dice a un pressappoco così: se una regola non ha assolutamente eccezioni tende a non essere riconosciuta come tale; entra in quella parte dell’esperienza di cui non siamo per nulla consapevoli; ce ne accorgiamo soltanto quando incontriamo un’interruzione della sua regolarità. Allora la vediamo e ci accorgiamo sia della sua esistenza che della sua parzialità; egli si spiega ancora meglio con l’esempio del colore “blu”. Se un tipo di persone avesse il difetto fisiologico di potere vedere soltanto il “blu” non sarebbe in grado di sapere che vede solo il “blu”; il termine “blu” non avrebbe significato per loro; la loro lingua non avrebbe termini per i colori. Solo incontrando e vedendo, a un certo punto, diciamo per un miracolo, gli altri colori essi vedrebbero per la prima volta il “blu” e sarebbero insieme portati a inventarne il nome e ad accorgersi della sua parzialità. E questa è, dico io, la consapevolezza che l’incontro con l’uso dei segni nell’arte può regalare all’auto-coscienza della lingua pratica. La differenza con l’arte ci fa vedere anche le regole della lingua pratica come diverse e ci aiuta a toglierle dalla naturalità con cui tendiamo a viverle come se, ovunque ci sono segni, dovessero esserci sempre e solo quelle proprie della lingua pratica e basta. Ci fa vedere insomma che le regole d’uso dei segni sono al fondo due, una per il loro uso come segni partici e una per il loro uso come arte. Per Eco invece questa distinzione non esiste, nel senso che lui non pensa che la nostra cultura, questa distinzione netta di due modalità d’uso diverse dei segni, la faccia e quindi vuole l’obbligo da lui posto valido ovunque, tanto nell’arte che fuori dall’arte. Ora, l’errore suo dove sta? Sta nel dare per scontato che il segno sia una cosa fatta dall’emittente e non rifatta invece costantemente dal destinatario in base a convenzioni comuni, significate dai luoghi dove lo scambio semiosico o semiotico, che dir si voglia, avviene. E i luoghi dell’arte (il luogo “arte”) significano (significa) diversamente da quelli pratici. Il segno, sappiamo, è un’entità a due facce: significato (concetto) e significante, per dirla con Saussure.
Hofstadter - Sì.
Nanni - Bene. Il termine “fico” è una traccia d’inchiostro, se scritto, o una traccia sonora, se pronunciato a voce, una traccia fisica insomma e basta. Può diventare un “segno”, associarsi insomma a un concetto, ma di per sé non è un “segno”, dico un segno comunicativo: non è nemmeno un significante, è solo una traccia fisica; diventerà un significante soltanto quando si legherà a un significato, non prima. Diventerà ma può anche non diventarlo. Dipende dalle istruzioni che ne accompagnano l’uso e queste sono appunto date dai luoghi in cui appare. Luoghi in carne e ossa o vicariati in qualche modo dal linguaggio, linguaggio in uso performativo e meta-testuale. Le stesse istruzioni significate dal Bar, inteso in senso fisico, possono essere significate dalla parola “Bar” e, del pari, la parola “arte” può vicariare le istruzioni di una galleria d’arte e così via. Insomma, nella comunicazione, il segno è prima una costruzione dell’emittente e poi, ma inevitabilmente, una ricostruzione o meno del ricevente in base alle istruzioni meta-testuali indicate. Non una codifica dalla parte dell’emittente e una decodifica dalla parte del ricevente, ma due codifiche misteriosamente parallele quanto la comunicazione riesce. Compito della scienza è semmai, portare luce in questo mistero, che è ciò che nei libri ho tentato di fare. Se ricevo la parola “fico” dentro una busta, una busta intesa come lettera, capisco che devo pensare al frutto passando per il recupero dalla mia mente, se ce l’ho, del concetto di fico. Se non ho nella mia mente il concetto di “fico” non c’è trasmissione che me lo faccia trovare. Il mio interlocutore può tentare di farmelo immaginare per via di analogia, con concetti di cose simili, per sapore, per colore, per forma ecc., ma non è detto che il tentativo riesca e soprattutto pure i concetti di tali cose devono già essere nelle mia mente. Il principio della non trasmissione non cambia. Non c’è scampo. Bene: supponendo che io conosca già il fico ne recuperò dalla mia mente il concetto. Questo, perché così vogliono le istruzioni d’uso dei segni convenzionalmente legate al luogo busta da lettere ( la busta è un luogo, tant’è che contiene i segni della lettera! Che altro, se no?) e tutti i luoghi pratici in generale, bar compreso, funzionano come la busta per la lettera. Insomma l’obbligo per il ricevente di passare, nell’interpretazione, per il concetto di fico e quindi per la ricostruzione di un segno comunicativamente monosemico, referenziale, non è assoluto. Nell’arte, nel luogo (nei luoghi) dell’arte quest’obbligo non c’è e possiamo passare subito direttamente alla sua interpretazione senza prima passare per la sue decodifica come segno comunicativo in senso pratico. Pensa. Supponiamo che io incornici la grafia “fico” e poi la esponga come quadro in una galleria d’arte. Chi si sentirebbe in obbligo prima di procedere a una qualche fruizione (interpretazione) di passare per la sua decodifica come discorso pratico e referenziale, di passare insomma obbligatoriamente come vorrebbe Eco per il reperimento del concetto di “fico”? Questo lo vuole solo il suo uso come “lettere”, ma se io la uso come “arte” questo obbligo non c’è più. Se qualcuno lo desidera può seguire questa strada, ma non è più obbligatoria. Posso benissimo apprezzare le valenze estesiche della grafia in sé, in totale autonomia da ogni altro riferimento appunto e apprezzarla per i colori, per la forma, per le suggestioni simboliche ecc.. E con ciò sono già nell’interpretazione, indipendentemente dal fatto che conosca o meno la lingua italiana e quindi che io sappia che può anche riferirsi a un “fico”. Sono già nell’interpretazione insomma e senza essere passato per la sua decodifica monosemica obbligatoria voluta da Eco. Sarebbe come impedire a chi non sa l’arabo di fruire del piacere visivo che la calligrafia araba ci può dare. Ridicolo. Ora, questa verità quale luce porta a feed-back (non dimentichiamoci di quanto ci ha detto Whorf) sulla comunicazione pratica. Appunto che anche nella comunicazione pratica non c’è passaggio di un segno già fatto dall’emittente al ricevente, e quindi una codifica dell’emittente a cui corrisponderebbe una decodifica del ricevente, ma che anche lì c’è subito un’interpretazione del ricevente ( una costruzione del segno da parte del ricevente) tesa nel caso, questo sì perché così vogliono le istruzioni della comunicazione pratica, a recuperare la costruzione ( il segno costruito) dall’emittente. No codifica, allora, e decodifica, ripeto, ma due codifiche, quando la comunicazione pratica avesse a riuscire, del tutto idenmtiche.
Hofstadter – Capisco...
Nanni - Bene. Queste convenzioni d’uso rappresentate fisicamente dai luoghi o contesti eterogenei, come io a volte li chiamo, non sono forse l’equivalente dei tuoi “messaggi quadro”, esterni al testo?
Hofstadter - Sì, ma potrebbero essere vicariate da un semplice testo un po’ più lungo. Non so: tua madre ti dice: “Mi vai a comperare un fico dal fruttivendolo?”...
Nanni - No, non è sufficiente...
Hofstadter - Voglio dire: se ci fosse, anziché una sola parola dentro la busta una intera frase, la costrinzione del testo ad essere interpretato refenzialmente sarebbe molto più forte.
Nanni - No. Naturale che quando dico ”fico” intendo non messaggi di una sola parola, ma messaggi in genere. Chiaro che essa sta per un intero discorso. Il problema non è questo: parola sola o frase lunga poco conta. Il problema, come usualmente si dice, è un altro. Il problema è che non c’è linguaggio senza “luogo”. Ed è un problema che la riflessione scientifica sull’identità del linguaggio, per esempio del Novecento, ha sostanzialmente dimenticato. Si parla in genere di tre intenzioni: quella del parlante, quella del ricevente e quella del messaggio stesso, ma non di quella dei luoghi dove le prime tre intenzioni vengono messe in moto. Le uniche, quelle dei luoghi, veramente fondamentali e rispetto alle quali le tre intenzioni citate si rivelano semplici stracci di superficie. In genere a chi pensa di spiegare l’identità dei discorsi ricorrendo alle sole tre intenzioni indicate io rispondo con l’esempio della barca: che senso avrebbe interrogarsi sull’intenzione del costruttore di barche, su quella del barcaiolo che la usa e su quella della barca stessa se non ci fosse il luogo “mare”? Nessuno: senza il mare (senza l’acqua) non ci sarebbe né barca, né costruttore di barche, né barcaiolo...
Hofstadter - Sì. Certo...
Nanni - Questa intenzione dei luoghi, non quarta rispetto alle altre tre ma loro reggitrice e regina, io ho proposta di chiamarla “intentio loci” o “intentio culturae”. Luoghi tanto cognitivi che semiotici...
Hofstadter - Luoghi semiotici...
Nanni - Sì. I luoghi fisici che significano le regole d’uso dei concetti (dei segni) posti dai luoghi epistemici, dalle culture insomma di riferimento. Poni, per esempio, il nostro Medioevo sotto le tre intenzioni indicate e verranno legalizzati certi tipi di rapporto tra loro, del tutto diversi da quelli che legalizzati dalla nostra cultura d’oggi.
Hofstadter - Chiaro.
Nanni - Ora non dico che gli studiosi che che si fermano alle prime tre intenzioni nel tracciare il modello eplicativo della vita dei se4gni non sappiano che esiste anche un’intenzione dei luoghi. Non dico questo, dico soltanto e semplicemente che non sente evidentemente il dovere di problematizzarla, di trovarle un luogo nel modello. E dico che non sente questo dovere perché evidentemente non la sente come variabile, ma come costante immobile di ogni tipo di comunicazione. Una specie di rumore di fondo sotteso a ogni tipo di discorso, pratico o artistico che sia, e in quanto tale dato a mo’ di fondamento: un po’ come la velocità della luce per Einstein.
Hofstadter - Evidentemente...
Nanni - Se io telefono a mia moglie dall’Università, mi guardo bene dal precisare: “ guarda cara che ti telefono dalla terra”...
Hofstadter - Eh! Eh!
Nanni - non lo faccio perché si da per scontato che io non possa essere in un luogo diverso, ma se mi fosse data la possibilità di scelta tra essere sia sulla terra che su marte, non credi che quella precisazione verrebbe non solo spontanea ma si cponfigurerebbe anche come opportuna?
Hofstadter - certo.
Nanni - Bene. Il fatto che i teorici delle tre intenzioni citate (Eco compreso) non sentano il bisogno di introdurre l’intentio loci nel loro modello è la prova che essi pensano che sotto l’uso dei segni, ovunque esso avvenga, c’è sempre la stessa logica, nel caso, quella pratica, da Bar. Solo un po’ più complicata, nell’arte, ma non sostanzialmente diversa.
Hofstadter- lo stesso mare. Interessante! Come sai, alla domanda “ dove sei”, fatta per esempio da un telefonino, si risponde in genere, che so, “ Sono sull’autobus” o, che so - nel caso in cui il telefonino sia stato dimenticato acceso, “ a far lezione” ecc....
Nanni - ma mai: “dalla terra”...
Hofstadter - esatto. E questo è interessante. Veramente interessante. Ogni volta, se mi è concesso ricordare qualcosa di personale, che io, al telefonino, chiedo a mio figlio dove si trova, lui mi risponde così ( Hofstadter mostra a Nanni il displey del suo telefonino dove compare la risposta del figlio ): “dalla luna”.
Nanni - Molto ironico tuo figlio!
Hofstadter - Sì, veramente.
Nanni - ad evitare che il mio discorso sia falsificato dalla risposta di tuo figlio, converrà precisare che si tratta di una risposta metaforica, ovviamente.
Hofstadter - Ogni volta, ogni volta, veramente.
Nanni - Allora anche tuo figlio, come i semiologi in questione, ha trovato un luogo fisso unico e costante...
Hofstadter - Esatto. Esatto. Bello! Non devo quindi più chiederglielo.
Nanni. Sì, giacché ormai sai che è sempre sulla luna.
Hofstadter - Sì. Sì, non devo più fargli domande al riguardo...
Nanni - Ecco! Ma, tornando a noi, ti voglio raccontare l’esperimento a cui sottopongo i miei studenti a fine corso. Un esperimento cruciale teso a dar prova di verità circa quanto penso intorno alle nostre regole d’uso dei segni. Detto ancora in metafora, si sarà capito che io ritengo che oggi i mari, per noi, siano di due tipi e che perciò non si possa costruire un modello esplicativo corretto del linguaggio senza prevedere un posto anche per questa variabile. Le langue d’uso dei segni sono insomma due: una per il discorso pratico e una per quello artistico.
Hofstadter - Sono curioso: quale allora questo esperimento.
Nanni - Bene. Li invito (i miei studenti) a entrare in un Bar. A guardare il barista in faccia e, seri, a pronunciare quanto segue: “Poesia” e poi, dopo una breve pausa, “ad aggiungere: “per favore, mi da un caffè?”
Hofstadter - La prima parola è “poesia”?
Nanni - Sì. Mettiti nei panni di un Barista: io entro, ti guardo in faccia, e ti dico “Poesia” poi, dopo una breve pausa, aggiungo ”per favore mi dà un caffè”? Che cosa faresti? Ammetterai che avresti un attimo di incertezza sul da farsi.
Hofstadter - Eh! Certo.
Nanni - Non è possibile che al Barman non succeda niente...
Hofstadter - Eh! Certo, certo.
Nanni - Dal punto di vista scientifico è importante capire da che cosa viene bloccato. Non importa che si tratti di una piccola cosa. Per la scienza tutto è significativo. Anzi, a volte è proprio dalle sfumature che non quadrano che si origina la scoperta di una verità. Ricordo un’osservazione di Edipo nell’“Edipo re” di Sofocle. Anche da un minuscolo fatto possono scaturire, egli sottolinea, grandi verità. Quindi niente paura a caricare di importanza il nostro minuscolo esperimento. L’immobilità del barman, anche se brevissima, è una piccola cosa, ma molto significativa se da essa si sanno (e si vogliono) trarre tutte le conseguenze.
Hofstadter - Immobilità!? Intendi il suo non sapere che fare?
Nanni - Esatto! Questa sua incertezza è una voragine dal punto di vista epistemologico. Si pratica al tuo paese il tiro alla fune?
Hofstadter - Sì, nell’Indiana sì; ma, a dir il vero, dappertutto negli Stati Uniti. Intendi il gioco, immagino?
Nanni - Sì. Bene. E’ un gioco che mi sembra riprodurre alla perfezione quanto accade al nostro Barista. Ci sono due squadre che tirano in direzione opposta una corda alla quale, in mezzo, è legato un fazzoletto bianco. In terra, a metà della distanza tra le due squadre, è tracciata una linea divisoria. Si parte con il fazzoletto a piombo sulla linea di visoria e vince la squadra che riesce a trascinare l’altra dalla propria parte, costringendola a superare tale linea. Ma, a gioco iniziato, il fazzoletto a volte resta immobile e ciò accade quando le due squadre hanno sviluppano uguali e contrarie...
Hofstadter - Oh! Noi non lo facciamo così. Da noi vince la squadre che trascina per terra l’altra, ma capisco l’immobilità del fazzoletto: il gioco può essere fatto anche così.
Nanni - Bene: non credi che il Barman che non sa che cosa fare possa essere, anche lui come il fazzoletto, pensato sottoposto a due forze uguali e contrarie, a due sistemi (nel caso del Barman) di permessi e di divieti opposti?
Hofstadter - Eh! Sì. Nei miei termini direi che non sa se si tratta di “uso” o “menzione”.
Nanni - Conosco l’utilizzo che di questa distinzione tu fai ancora in Gödel, Escher, Bach: un’eterna ghirlanda brillante e penso che non sia in contrasto con ciò che io chiamo due diverse e opposte modalità d’uso della stessa frase...
Hofstadter - Beh! “Uso” nei miei termini vuol dire senza virgolette e “menzione” tra virgolette. Così, quando dici: poesia e poi fai la pausa è come che tu scrivere: poesia + due punti e Tra virgolette la frase “per favore mi da un caffè?”. Che è come dire: ascolta questa frase non come una richiesta reale di un caffè, ma solo come una poesia.
Nanni - Concordi allora che la frase “per favore mi da un caffé?” diviene preda di una lotta terrificante tra due luoghi (due sistemi di regole) diversi, come si dice succeda tra i santi e i demoni per il possesso di certe anime subito dopo la morte...
Hofstadter - Certo. Lotta che non ci sarebbe se al posto della frase “Per favore ecc. Ecc.” Qualcuno dicesse “ Nel mezzo del cammin di nostra vita ecc. Ecc.”.
Nanni - Beh! Sicuro. “nel mezzo del cammin ecc.” È già codificata come poesia, da un lato, e, dall’altro, non si intravede un suo utilizzo come frase da bar.
Hofstadter - La frase del caffè invece lo presuppone.
Nanni - E’ questa possibilità (questa ambiguità?) che scatena la lotta per il suo possesso tra i due luoghi. Il bar dice al barman: ”non far caso al termine ‘poesia’, fa finta che non ci sia e dagli il caffè”. Il termine “Poesia” dice invece al barman: ”Di questa frase ciò che vuoi: interpretala come meglio credi, secondo i paradigmi culturali che più ti aggradano, storico, antropologico, simbolico ecc., dì anche che come poesia non ti piace, ma non dargli assolutamente il caffè”. Si tratta proprio di due lingue opposte, significate da due luoghi appartenenti a classi diverse. La prima quella di tutti i luoghi pratici e l’altra quella di tutti i luoghi dell’arte.
Hofstadter - Sì. Certo.
Nanni - Il segno allora non è un dato dell’emittente. E’ una costruzione dell’interprete sotto la guida di una o dell’altra di queste due classi di luoghi, così, tornando a ciò da cui siamo partiti, agli strani oggetti...
Hofstadter - Del marchio Alessi...
Nanni - Sì. Bene. Tornando a quegli oggetti, possiamo dire che per avere una loro diversa identità non è necessario farli in modo strano e, in qualche modo fisicamente modificarli. La deformazione può servire da spinta verso una loro diversa identità, ma non è né necessaria né sufficiente. Anche un oggetto usuale, costruito in modo normale come la nostra frase o il già citato scolabottiglie, può acquisire una identità diversa se lo si inserisce in un modello d’uso diverso, mentre un oggetto deformato rimasto dentro al suo modello d’uso tradizionale non la cambierà la sua identità: la renderà solo più difficile da riconoscere.
Hofstadter - Il famoso mare sarebbe in questo caso il contesto.
Nanni - Sì e no. Parlando di contesto farei infatti una distinzione tra contesto omogeneo e contesto eterogeneo. I luoghi sono contesti eterogenei e ubbidiscono e logiche diverse da quelle dei contesti omogenei. In fondo sono i contesti eterogenei che ci dicono che uso dobbiamo farne dei contesti omogenei. In una sala da concerto, per esempio, possono intervenire, accanto al suo prodotto da chi suona, anche suoni prodotti dagli ascoltatori (colpi di tosse, movimenti delle sedie ecc.). Bene. Se il suono prodotto dai suonatori è il testo, i suoni prodotti dal pubblico indicati sono inevitabilmente prensenti con il testo e quindi sono con-testo, ma di natura diversa dalla sala che pure sta (lo contiene) con il testo e quindi è con-testo. E’ questo luogo, questo contenitore, che ho proposto di chiamare contesto-eterogeneo.
Hofstadter - Si capisce.
Nanni - Penso che anche tu convenga che è importante distinguerli, giacché è evidente che ubbidiscono a logiche diverse. In fondo il contesto omogeneo, nell’arte, è destinato a sparire. Deve essere tolto di mezzo, o perché inglobato dall’intenzione dell’artista nell’opera stessa e quindi fatto diventare testo (penso a certe opere di J. Cage), o perché appunto fatto tacere dalle regole del contesto etero-geneo, della sala stessa insomma (chi non riesce a smettere di tossire finisce per uscire dalla sala, chi parla viene zittito ecc.). Il luogo non è neutro: il significante del meta-codice, diciamo così, che detta le regole d’uso dei segni che vi si producono dentro.
Hofstadter - ma anche il luogo può avere a sua volta un contesto.
Nanni - Un meta-luogo che lo regola?
Hofstadter - Diciamo che certe sale hanno delle convenzioni. Altre ne hanno altre...
Nanni - Certo, manche i luoghi possono essere raggruppati in classi e al momento e al fondo penso che nella nostra cultura alla fin fine, queste classi, siano solo due. La classe di tutti i luoghi pratici indicati, caratterizzati dalla regola che stabilisce l’uso pratico, monosemico, dei discorsi e, di contro, quella diversa raggruppante i luoghi dell’arte, che ne stabiliscono invece un uso in linea di principio polisemico.
Hofstadter - Le due langue diverse di cui dicevi...
Nanni - Appunto.
Hofstadter - Ma. Varie sono le situazioni. Ci sono luoghi, per esempio, che cambiano funzione a seconda dei giorni. C’è una chiesa dalle nostre parti che, da venerdì a sabato, è un tempio ebreo e da sabato sera a domenica sera è una chiesa cristiana e poi, per cinque giorni, è un luogo ambiguo.
Nanni - Abbiamo un’unica entità fisica che riempie significazioni diverse, ma non, e questo è importante, in contemporanea.
Hofstadter - E’ un ambi-gramma o un ambi-chiesa.
Nanni - E’ un ambi-chiesa.
Hofstadter - No, non chiesa, perché...
Nanni - E’ un ambi-luogo.
Hofstadter - Un ambi-luogo sacro.
Nanni - No, forse non ambi-luogo, giacché, ripeto, le due funzioni non sono in contemporanea...
Hofstadter - Un ambi-santuario, forse...
Nanni - Forse, ma forse no. Le due funzioni non sono infatti, come ho detto, contemporanee, ma una dopo l’altra, cronologicamente sfasate. Prendiamo ciò che chiamiamo ”chiesa” da noi. Rigorosamente parlando è chiesa soltanto se qualcuno vi entra come fedele e l’attiva come (clicca, per dirla in termini avanzati, la sua funzione di) chiesa. Se vi entra invece come studioso d’arte la chiesa non è più chiesa ma diventa un museo. Nel primo caso una crocifissione è monosemica, significa solo la passione di Cristo; nel secondo caso, invece, il suo significato si pluralizza e può essere vista secondo diversi parametri. In sé, questo luogo, non ha nome. E’ solo un luogo in attesa di sognificazione...
Hofstadter - Un ambi-luogo...
Nanni - Un ambi-luogo problematizzato nel suo ruolo, ma non senza ruolo. In atto una delle due funzioni c’è sempre...
Hofstadter - I semiologi di cui dicevi non vedono allora, nell’uso dei segni, un ambi-mare.
Nanni - Sì. E per questo, nel loro caso, si può parlare anche di imperialismo con cui spesso è connessa l’idea dell’importanza del significato interno ai discorsi.
Hofstadter - Ti riferisci ancora ad una delle due categorie che hai citato prima?
Nanni - Sì. E vorrei un poco in relazione a quello che tu chiami “messaggio quadro” e che mi pare possiamo convenire essere ormai l’equivalente di quelli che io chiamo istruzioni del luogo o dei contesti eterogenei.
Hostadter - E’ indubbio, però, che qualcosa di interno ci sia.
Nanni - Sì. Non dico di no, ma va messo al posto giusto. Prendiamo per esempio questo quadro (Nanni indica un suo quadro appesa alla parete), utilizzando il parametro dei colori nessuno potrà dire che è verde. Si potrà dire che è azzurro, bianco, rosso, ma non verde.
Hofstadter - Grigio.
Nanni - Grigio, sì, ma anche marron.
Hostadter - Anche marron.
Nanni - Utilizzando invece il parametro della scrittura si vedranno tutte le forme grafiche, ma non i colori. Altro ancora si vedrà utilizzando un parametro antropologico: si vedranno leggende storie ecc..
Hofstadter - Posso usare anche la geometria e allora vi vedrò tutto il suo livello geometrico: quadrati. cerchi, semicerchi ecc..
Nanni - Certo. Tutto questo con qualcosa considerato arte lo posso fare. Non lo posso fare con una normale segnale stradale inteso come tale. Come tale ha un livello solo di siognificato e quindi nemmeno un livello: è monosemico e basta. Significa ciò che significa. Ora, che cosa vuole dire dire che il significato è dentro al testo? Se vuole dire che nel testo non può essere immesso qualcosa che non c’è sono d’accordo; ma se vuole dire che è ciò che in esso è a decidere la sua identità, su questo, non sono d’accordo. Una immaggine può essere vista come segnale monosemico di svolta a destra o come groviglio di significati cromatici, geometrici, grafici, linguistici, antropologici. Bene, ma non sono questi significati potenzialmente presenti in essa a decidere della sua identità e soprattutto non sono essi a decidere che dobbiamo reperirli. Le modalità del loro reperimento sono conseguenza di una decisione esterna: Se decido che è un segnale stradale (se ad esso viene data l’identità di segnale stradale), allora in esso metterò a fuoco solo il suo significato linguistico di svolta a destra. Se invece decido che è arte, allora posso mettere a fuoco anche tutti gli altri suoi livelli di realtà. E’ l’esterno allora (il messaggio esterno nei tuoi termini, le istruzioni connesse alle convezioni d’uso nei miei), che decide (che decidono) del suo significato, non altro.
Hofstadter - Mah! Vorrei riflettere un po’ su questo riferendomi a una mia esperienza musicale. Ci sono dei compositori che io credo di capire perfettamente e ci sono dei compositori che non credo di capire affatto, per lo meno pochissimo. Mi ricordo, per esempio, di essere andato a un concerto due o tre anni or sono. In esso un pianista ha suonato prima qualcosa di Beethoven (una delle sue ultime sonate per pianoforte, non importa quale) e poi ha suonato, per finire, una ballata di Chopin. Per me la cosa era incredibile: la differenza tra i due compositori e i loro linguaggi era una cosa stupefacente. Ascoltando il brano di Beethoven avevo per brevi attimi la sensazione che ci fosse qualche barlume di logica. Sensazione poi regolarmente smentita dal prosieguo dell’esecuzione. Lo percepivo a frammenti significativi intercalati da altri pezzi totalmente ad essi irrapportabili. E sempre così, fino alla fine. Era come se prendessi righe a caso da uno scritto: ognuna aveva un suo senso, ma il senso dello scritto nel suo insieme non c’era: l’insieme mi appariva come totalmente privo appunto di senso, di logica. Una cosa totalmente incomprensibile per me. Chopin al contrario mi appariva totalmente logico, totalmente comprensibile.
Nanni - Come spiegheresti questo diverso rapporto?
Hofstadter - probabilmente ha a che fare con le nostre “anime”. Io capisco l’animo di Chopin. Non capisco quello di Beethoven. Vorrei quindi dire che certe opere, e non tanto in rapporto ad oggi quanto al passato, nascono in comunità d’anime e l’ambiguità e l’incomprensibilità non è una loro caratteristica.
Nanni - Beh! Culture meno pluralizzate al loro interno, certo, hanno “anime” più omogenee. O quando dici “anima” intendi qualcosa di indipendente dalla cultura?
Hofstadter - Beh! No. Certo, la cultura conta.
Nanni - E allora forse ti sembra ti sembra di capire Chopin, dico capire in assoluto, perché forse vi lega lo stesso gusto, voglio dire siete stati coltivati dagli stessi paradigmi culturali.
Hofstadter - Forse.
Nanni - Non credi che anche Chopin potrebbe presentarsi a qualcuno di cultura diversa dalla tua con la stessa frantumazione di senso con cui Beethoven è arrivato a te, o comunque, anche se a livello linguistico diciamo comprensibile, con lo stesso non senso?
Hofstadter - Difficile! Difficile pensarlo. Può essere, ma mi è difficile pensarlo.
Nanni - Saremmo di nuovo al significato interno in modo cogente.
Hofstadter - Beh! Devo dire che, in certi casi, il significato interno, il messaggio interno, potrebbe avere la stessa potenza del messaggio-quadro: non so, un reperto del passato...
Nanni - Una Stele di Rosetta, per stare a un tuo esempio?
Hofstadter - Sì. Perché no?
Nanni - No. Direi di no. Il suo messaggio interno non è prioritario. Voglio dire che non è in grado di imporsi da solo come messaggio. Perché da noi venga interpretato come messaggio bisogna che noi già presupponiamo che sia un messaggio, e questa decisoone precede la sua lettura come a priori ad esso esterno. Siamo ancora al prevalere, nella comunicazione, del messaggio-quadro sul messaggio-interno. Ho sintetizzato tutto questo in una sorta di motto, che suona così: “ le cose suonano secondo se stesse, ma è la cultura che dà il ‘la’”.
Hofstadter - Beh! Sì, convengo. Anche se dal passato ci arrivasse un testo di centinaia di pagine dovremmo sempre sospettare, tu dici, di non averne né l’inizio né la fine e che inizio e fine potrebbe coincidere con il suo inserimento tra virgolette e quindi non significare ciò che apparentemente significa.
Nanni - Sì, le virgolette sono il messaggio-quadro, nel caso; quindi il sospetto è sempre d’obbligo o, comunque, prima di interpretare il testo questo sospetto va sciolto. Se si procede all’interpretazione, volenti o nolenti, s’è precisa una decisione circa questo sospetto, ma non lo si è ignorato. E la decisione presa (esterna) diventa la regola per cercare all’interno del testo la sua materia significativa.
Hofstadter - Eh! Sì. Sospettiamo, sospettiamo...
Nanni - sempre.
Univeristà di Bologna , primavera del 2002