La meraviglia delle parole normali
Intervista a Edoardo Erba
Di Maria Dolores Pesce
Edoardo,
tu ti diplomi alla scuola di drammaturgia del Piccolo Teatro di
Milano, quindi, ritengo, sei o ti senti soprattutto autore per il
teatro. Che rapporto vivi con la messa
in scena dei tuoi lavori?
Non è del tutto vero che volessi fare l'autore quando mi sono iscritto alla scuola di teatro. Era piuttosto un modo per uscire dall'isolamento. La mia idea iniziale era quella di scrivere narrativa ma mi sentivo debole sui dialoghi. Pensavo che una scuola di teatro mi avrebbe aiutato. Quindi ho scelto quella scuola pensando di sfruttarla per poi fare un'altra cosa. Invece ho scoperto che per i dialoghi avevo una certa predisposizione, contrariamente a quanto avevo pensato fino a quel momento. Addirittura mi venivano facili e potevo scrivere tutto per dialoghi. Così, un po' per caso, ho scoperto di essere portato a scrivere per il teatro. Poi ho fatto le prime cose e sentivo che funzionavano sul palcoscenico. E gli altri me lo riconoscevano. E' cominciata così. Nel tempo, mi è capitato più volte di mettere in scena i miei testi. Le prime regie le ho fatte volentieri, è stato un modo per conoscere la realtà del teatro. Addirittura in un lavoro ho fatto anche l'attore, parlo di "Curva cieca" con Pamela Villoresi. Era una parte piccola, ma l'ho fatta. Tutto questo mi è servito per entrare nel vivo del discorso teatrale, per capire il mondo teatrale, per avere rapporti diretti con gli attori, con gli altri registi, con gli operatori. Cioè per fare lo scrittore che non si limita a mandare un testo a un teatro a a una compagnia, ma diventa un vero operatore teatrale. A proposito delle regie, se oggi le faccio un po' meno volentieri è perché in prima istanza non mi sento un regista e, pensando che ce ne sono molti più bravi di me, mi piacerebbe sempre trovarne qualcuno che porti in scena un mio lavoro meglio di come potrei farlo io. Non sempre è così facile, e certamente il fatto di scendere in campo per mettere in scena i miei lavori significa, in qualche modo, difenderli. Perché, a volte, una prima messa in scena può essere fatta da un regista poco valido, che la sbaglia, e questo per un autore è un danno incalcolabile perché poi molto difficilmente tanto la critica che il pubblico riconoscono la differenza tra messa in scena e testo. Altre volte succede che un regista bravo voglia metterci troppo del suo, dare un segno troppo particolare, e finisca a snaturare il tuo testo. Questa è esperienza di molti miei colleghi, io fortunatamente non l'ho mai fatta. Tra l'altro fra poco metterò in scena un lavoro che si chiama "Buone Notizie" . Spero che, almeno per un po' di tempo, sia l'ultima regia.
A
questo riguardo, la divisione tradizionale dei ruoli nel teatro italiano
tra scrittore e regista è stata secondo te un limite o un elemento
positivo ?
Io
credo che questa divisione ci sia in Italia come in tutto il mondo.
Scrittore e regista hanno competenze diverse. Poi ci sono figure di
drammaturghi come Dario Fo o Berkoff che
sono registi e anche attori e saldano la frattura nella loro persona.
Più che di differenza, io parlerei di preminenza
di ruoli, nel senso che certamente nel dopoguerra in Italia il regista
si è affermato come figura centrale del mondo teatrale, grazie anche
ai grandi personaggi che abbiamo avuto, Sthreler prima di tutto.
In questo modello, la drammaturgia è stata schiacciata perché il regista
si è posto, in qualche modo, come riscrittore di testi, soprattutto
di testi classici. Nel momento in cui il regista diventa
drammaturgo attraverso la riscittura dei classici, i testi
contemporanei lo interessano meno, anzi in qualche caso non lo interessano
affatto. Abbiamo pochissime messe in scena di testi contemporanei
italiani da parte dei grandi registi e anche solamente questo dato
statistico è significativo. Da una quindicina d'anni a questa parte è
iniziata la rimonta dell'autore. Io francamente mi aspettavo che questa
rimonta avvenisse in tempi molto più brevi,
invece capisco che il distacco era tale che per completarla occorrono
tempi lunghi. Però è in atto, e irreversibilmente: tra le giovani generazioni,
e metto tra le giovani generazioni anche me stesso, benché giovanissimo
non sia più, vi sono molti talenti di scrittori e pochissimi nuovi
talenti di registi. Quindi anche per un semplice fatto numerico possiamo
pensare che in futuro questa differenza di potere verrà
riequilibrata. Io ne sono certo.
Tu
scrivi non solo per il teatro, ma anche per la televisione e per il
cinema. Come pensi si debba configurare oggi lo specifico rapporto
tra lo scrittore e il teatro ?
Per
il cinema ho scritto pochissimo, mentre per la televisione e la radio
ho scritto tanto. Qualcosa anche per
la pubblicità, e molto per le aziende, per la comunicazione aziendale,
che è cosa un po' diversa dalla pubblicità. Sono tutte esperienze
che ho messo a frutto per il teatro. Mi
hanno dato la giusta misura del rapporto tra scrittura teatrale e
comunicazione. E' come se io avessi acquisito una voce dentro che
mi ripete sempre: non rinuciare allo stile ma non esagerare nel virtuosismo,
non compiacerti mai nella scrittura e sii concreto nella comunicazione.
Io credo di dovere la mia concretezza proprio a tanto lavoro fatto
in altri campi. Per cui sono grato a questi altri
lavori. Senza contare che sono state fonti
di finanziamento importanti per i periodi in cui mi ritiravo a scrivere
teatro.
Comunque
ti sembra che queste esperienze possano aver contribuito a elaborare
nuovi linguaggi da utilizzare nel teatro, oppure no?
In
questo senso è stato il lavoro con le aziende il più prezioso. Intanto
perché mi ha fatto conoscere il mondo industriale e poi perché ho
fatto pratica di linguaggi specifici, da quello dei venditori di medicinali
a quello dei prodotti per la pulizia della casa, alle automobili,
agli orologi... E' stato come condurre una specie di lavoro di
iper-documentazione, una sorta di forte esperienza di linguaggi
specifici. E' un potenziale che non ho ancora usato del tutto. Per
esempio non ho mai scritto testi sul mondo della pubblicità. Però
dal punto di vista della padronanza di quel linguaggio potrei farlo.
Una riunione di pubblicitari che devono inventare uno spot è un buon
punto di partenza per un lavoro teatrale. Può darsi che prima
o poi mi ci metta.
Non
temi al contrario che tutto questo eclettismo possa influire negativamente sul tuo teatro,
al di là della fluidità e facilità di scrittura che sembra venirtene?
Non sei preoccupato di giocarti la tua identità di drammaturgo?
Direi
di no, anche se credo che a questa domanda si debba una risposta articolata.
Io vengo da una famiglia in cui tutti erano scrittori dilettanti.
La prima cosa che ho pensato, quando ho capito che mi piaceva scrivere
è stata: voglio essere uno professionista.
Quindi per me l'aspetto del professionismo,
del vivere del lavoro di scrittura, è stato un obiettivo fondamentale
che mi sono posto quando ho cominciato a lavorare e che sono riuscito
a realizzare. Questa è la risposta al perché ho scritto tante cose
differenti. La seconda risposta riguarda il fatto
che attualmente è difficile vivere di solo teatro. Quindi c'è anche un aspetto di necessità. Poi uno fa di necessità
virtù e capisce che questa esperienza è
anche interessante. Comunque non ho mai
percepito invasioni di campo, perché è come se facessi sport differenti.
E' come se qualcuno mi chiedesse: corri in bicicletta, perché vai
anche a nuotare? Risponderei: perché sono due sport completamente
differenti e quando corro in bicicletta so che corro in bicicletta,
mentre quando vado a nuotare, nuoto. Sono movimenti diversi e, uscendo
di metafora, rispondono a modi differenti di rapportarsi con la scrittura.
Quindi non ho mai avuto paura dell'eclettismo,
semmai, a volte, l'ho sofferto ma soprattutto per il tempo che mi
toglieva rispetto alla possibilità di occuparmi della scrittura teatrale.
Certo, scrivere per la televisione vuol dire scrivere con l'angoscia
di un consegna in tempi stretti, con grande
velocità e con l'impossibilità di accampare scuse per una mancata
o ritardata consegna. Anche in questo senso, è un tipo di scrittura che fa soffrire.
E'
dunque così difficile essere autore in Italia ?
Io ho tenuto duro a fare tante cose quando ho visto schiantarsi chi pretendeva di vivere solo di scrittura teatrale. Tra gli scrittori che ho conosciuto (con l'esclusione di Vincenzo Salemme, che però metto più appropriatamente nella categoria degli attori/autori/registi) non ha smesso di scrivere teatro solo chi ha allargato l'attività facendo anche sceneggiature, regie, pubblicità, convention. Io questo l'ho fatto sin dall'inizio, quindi non ho sofferto, o ho sofferto meno questa diversificazione evidentemente inevitabile. Semmai mi sono posto interrogativi di tipo etico, circa la natura dell'azienda con cui stavo collaborando o il tipo di pubblicità che stavo facendo. Senza fare troppo lo schizzinoso, qualche posizione l'ho presa rifiutando certi lavori perché non volevo entrare in situazioni che non condividevo. Allo stesso modo ho cercato di rifiutare, in televisione, tutti i lavori che mi sembravano qualitativamente beceri, tranne forse uno, un talk show a inizio tappa al giro di Italia: un programma certamente brutto che però mi dava l'occasione di incontrare il grande mondo del ciclismo su strada.
Si
è sentito dire al convegno "Scrivere per il teatro", organizzato a
Bologna dal Professor Gozzi, che all'estero, dove tu hai lavorato,
le cose per gli autori vanno un po' diversamente. E' così?
Credo
che in Francia ed Inghilterra ci sia un maggiore sostegno pubblico
alla drammaturgia, intesa come attività di scrittura di testi. In
particolare in Inghilterra, ma ci sono buone istituzioni anche in
Francia. Mancano, invece, totalmente da noi. Io peraltro, estremizzando,
dico spesso: non lamentiamoci perché un autore del Burkina Faso sta
sicuramente peggio. Là ci sono problemi più assillanti. Non è
quindi il caso di lamentarci troppo.
E' il caso invece di lavorare per migliorare questa situazione.
Per restare in questo ambito, alcuni in Italia sono convinti della opportunità di introdurre e di valorizzare una figura come quella, con definizione presa dalla Germania, del "Dramaturg", che sceglie, elabora e predispone i testi, suoi o di altri, in funzione specifica della loro messa in scena. Ciò, secondo questi studiosi e uomini di teatro, consentirebbe di superare antiche e paralizzanti contrapposizioni e, insieme, di dare nuovo impulso alla produzione di opere per il teatro, quindi maggiori opportunità agli scrittori. Tu sei d'accordo ?
Sono
assolutamente d'accordo, ma siamo molto lontani, in Italia, dalla
considerazione dello scrittore di teatro come - direbbe Gramsci -
un intellettuale organico che riesce a proporre testi, a scriverne
di propri, ad arrangiare quelli degli altri e a tradurre. Le traduzioni
ad esempio sono in mano a una mafia, per
cui pochissimi scrittori di Teatro riescono a farle. Io credo
di essere un buon traduttore dall'inglese, all'inizio della mia carriera
ho tradotto quattro romanzi per Mondadori. Eppure
ho ricevuto pochissime proposte di teatro. Comunque,
a parte le traduzioni, è difficile che un teatro italiano, soprattuto
un teatro stabile, accetti l'iniziativa e l'autonomia dell'autore.
Semmai gli chiedono un lavoretto marginale, commissionato.
Ma il "Dramaturg" non può e non deve essere
un servo di scena, deve essere un protagonista nella direzione del
teatro.
In
effetti, in Germania, è l'unica figura, pagata, fissa del teatro,
mentre il cast viene scelto a seconda del
lavoro che si intende mettere in scena. Legge moltissimo, esamina
il maggior numero di lavori possibile e, all'interno di questi, fa
delle scelte e su questa base predispone il cast e il
registi.
Ecco
noi siamo lontani da una situazione del genere. Credo che sia giusto
lavorare per arrivarci nel futuro. Quando dico che siamo lontani,
intendo dire che se anche per legge fosse
introdotto il "Dramaturg" in Italia, non sarebbe sufficiente perché,
insieme, dovrebbe, deve cambiare la mentalità di quelli che lavorano
dentro il teatro. In qualche modo deve cambiare una generazione.
Tornando
però al presente della tua esperienza come autore, tu preferisci il
teatro dell'attore mattatore o quello del regista ?
Quello dell'attore mattatore, perché mi piacciono gli attori
e perché mi diverto a vederli.
In genere, poi, si associa il teatro di regia ad un teatro terribilmente
palloso, dove l'unico senso ad essere solleticato è il senso estetico,
inteso oltretutto in termini un po' riduttivi. Nel teatro del mattatore
invece si è coinvolti su più piani. Posso citare lo spettacolo dell'anno
scorso di Anna Marchesini, che ho visto molto volentieri. E' stato
un signor spettacolo, sia perché la Marchesini
ha preso due testi inglesi molto belli, di Bennet, sia perché è una
grande attrice, lavora molto bene ed era una delizia vederla. Non
sempre, al contrario, i grandi registi sono contornati da grandi attori.
Magari hanno attori così così, alcuni bravi, altri bravini, molti
mediocri. La collaborazione fra grandi registi e grandi attori in
Italia è problematica. C'è qualche eccezione,
come quella di Umberto Orsini per esempio.
Ma la regola è un altra.
Tu,
a mio parere, mostri di avere molta cura per il testo, la pagina scritta
che spesso pare avere una sua autonomia rispetto alla stessa messa
in scena, nel senso che il testo appare completo, nella sua comprensione,
alla sola lettura indipendentemente dalla sua visione e realizzazione
sulla scena. In questo
il tuo teatro ha caratteristiche che mi appaiono molto legate alla
tradizione, alla tradizionale definizione che in Italia si
da del drammaturgo, pensando a Pirandello o a Bontempelli. Una figura
cioè che, all'ombra del pregiudizio crociano, vede prevalere
l'importanza estetica dello scrivere rispetto al mettere in scena.
Devo confessare che ne sono rimasta colpita. Sei d'accordo con questa
definizione generale e ti identifichi in
essa?
Sì.
Io credo che ciò che scrivo sia innanzitutto un'opera letteraria,
un testo letterario e "poi", nello stesso tempo, un mezzo che funziona
in scena. E' un lavoro a sé ma è anche un'altra cosa, perché diventa
uno spettacolo, si trasforma. Questo è uno dei motivi per
cui ho sempre scritto malvolentieri le sceneggiature cinematografiche.
Perché non sono un testo letterario, sono
un puro strumento di messa in scena, raramente una sceneggiatura riesce
ad essere un testo letterario, e solo lavorandoci sopra, modificandola
e ritoccandola molto. Invece un testo teatrale
è letteratura. Se per tradizione
intendi questo, sono, ripeto, molto d'accordo.
In
questo ultimo decennio si sono al contrario
sviluppate esperienze teatrali che hanno teso a concentrare sulla
scena la narrazione, subordinando a questo anche lo stesso testo,
se non addirittura la parola. Mi riferisco a tutta una serie di vicende,
etichettabili come avanguardie, a partire dal
Gruppo 63, passando per Barba o Grotowski, per arrivare, soprattutto,
alle ultime sperimentazioni, quelle della Societas Raffaello Sanzio,
o delle Albe, del Lemming oppure della Compagnia Pippo Delbono. Qual
è il tuo giudizio e in che rapporto ti vedi con queste esperienze
?
Credo,
tanto per riprendere il paragone sportivo, che facciamo
uno sport differente. Non completamente differente,
perché tutti alla fine si va sul palcoscenico e c'è un pubblico dall'altra
parte. Però diciamo che le parentele
finiscono più o meno qui. A volte vado a vedere questi spettacoli
e spesso mi piacciono molto, mi lascio andare al puro percepire, non
me ne frega niente di capire cosa e come. Ad esempio ho visto uno
spettacolo di Barberio Corsetti di cui, è significativo, non ricordo neanche l'argomento, perché in
realtà non era importante come, invece, erano importanti le immagini,
le energie degli attori. L'ho trovato molto bello e ho trovato anche
che facesse un lavoro diverso dal mio e che, in realtà, nel teatro
possono benissimo starci tanti modi di fare teatro. Non c'è
nessun bisogno che una linea vinca
sull'altra.
Spesso
tra l'altro mettono in scena testi della tradizione che riscrivono
e destrutturano.
Esattamente,
però io non sarei contento che un mio testo fosse messo in scena così.
Ma credo che, specularmente, neanche loro sarebbero
interessati a farlo. Sarebbe un'operazione insensata. Molte
volte loro usano testi narrativi, poemi cavallereschi. Paradossalmente
anche l'elenco del telefono andrebbe bene perché, credo, alla fine
per loro il testo è solo uno stimolo per creare immagini rutilanti
e dare energia agli attori.
Non
trovi che, in un riferirsi anche alle esperienze
del teatro surrealista, ad un lasciare andare le idee attraverso un parlato che
segue le tracce artaudiane, ci sia un nuovo spazio per il testo? Che
cioè non sia sempre vero che il testo,
in queste esperienze, è superfluo ?
Quando ancora non
sapevo che avrei fatto lo scrittore di teatro, io ero affascinato
dalle esperienze sperimentali. Adesso forse lo sono un po' meno, ma
comunque, quando capita, le seguo sempre volentieri. Certo,
ripeto, applico un registro diverso rispetto al teatro di parola,
come se vedessi l'atletica e non la pallacanestro. Sono due sport
differenti e, per ciascuno uso dei registri diversi, anche come spettatore.
Il teatro sperimentale mi rilassa molto, quando ci sono spettacoli
buoni, è come ascoltare della buona musica. Mi lascio andare alle
immagini e non ho il problema di andar dietro a quello che dicono.
Lascio che le immagini parlino direttamente all'inconscio, e talvolta
lo fanno. Trovo invece che, quando i due sport sono contaminati, il risultato
è una terrificante e sconcertante rottura di scatole.
Forse
queste ultime esperienze sono meno autentiche ?
Certo,
perché se vogliamo andare, come dicevi tu, sul territorio della spontaneità,
dell'immagine, dell'inconscio, andiamoci fino in fondo e io ti vengo
dietro, da spettatore, con molto interesse, ma soprattutto con molto
cuore. Se invece metti insieme le due cose e pretendi di fare entrambe
le esplorazioni allora, sempre come spettatore, mi annoio.
E io sono uno che quando si annoia esce
dal teatro, quatto quatto, senza fischiare o gridare perché non si
usa più. E poi, anche se si usasse non
lo farei. Sono distante da uno stato d'animo da tifoso, proprio caratterialmente.
Avresti
molto offeso un futurista. Volevano essere fischiati e non applauditi.
Hai
ragione.
Ora,
per concludere, vuoi farti tu una domanda
? C'è qualcosa che avresti voluto che ti
chiedessi e non ti ho chiesto ? Hai detto che hai in preparazione
qualcosa di nuovo?
Sì,
adesso preparo "Buone Notizie", un testo che ho
scritto diversi anni fa. Si tratta di due testimoni di Geova che vanno
nella casa di un ospite sconosciuto e parlano. Ma dopo un po' ci si
accorge che non stanno parlando con un essere umano e forse la fine
del mondo che vanno predicando è già avvenuta senza che loro se ne rendessero
conto. La domanda che mi farei è questa: quali sono le idee su cui
lavori? Risposta: ho molto rispetto per il mio lavoro di scrittura
teatrale, a tal punto che questa estate
avevo tempo per scrivere un nuovo testo, ma non l'ho fatto perché
non ero convinto, avevo un'idea ma non era buona abbastanza. Mi boccio
tante idee. Credo che un'idea debba passare solo quando non ha più
zone d'ombra. Questo probabilmente è anche un mio limite, perché non
mi metto mai lavorare su soggetti deboli o appena abbozzati. Ho bisogno
di soggetti forti, molto "risolti". Ho bisogno di una forte carica
di originalità, altrimenti non mi ci appassiono.
Cosa
intendi per forte impronta di originalità ?
Intendo qualcosa che sorprende anche me quando la scopro.
Originale
anche e innanzitutto per te stesso ?
Se
è originale per me immagino che sia originale
anche per gli altri. Deve essere, ripeto,
una cosa originale, sorprendente, in qualche modo non costruita. Quindi
idee che rispondano in pieno a queste caratteristiche
me ne vengono in mente abbastanza poche. Pertanto se riesco a scrivere
un testo all'anno o un testo ogni due anni
già sono contento.
Ci
auguriamo buona fortuna reciproca e ci salutiamo. E' sorprendente
come la conoscenza di questo scrittore si sia modificata nel corso
e attraverso il dialogo, perché di dialogo mi sembra essersi trattato
più che di intervista.
Si
è partiti da una precisa, quasi orgogliosa, rivendicazione del "mestiere",
del professionismo che vuole caratterizzare l'attività di
Edoardo Erba, con esso rappresentando, mi sembra, quasi una
esigenza di costruzione razionale, di progettualità che il testo deve
contenere, come evoluzione e come fine, scopo.
Ma
dentro questa progettualità ho scoperto,
dalle parole di Erba e dai suoi testi, navigare una inaspettata spontaneità
che forza le conclusioni verso esiti sorprendenti e inattesi. Quasi
un inconfessato legame con modalità surrealiste:
si scrive ciò che si crede e pensa e così si conosce e si descrive
ciò di cui non si era consapevoli.
Lo
stesso uso delle modalità dell'ironico,
quando non del comico, rafforza questa mia ipotesi perché il comico
può essere una delle strade attraverso le quali l'inconscio emerge,
uno dei suoi veicoli preferiti per venire alla nostra coscienza.
Lo
confessa lo stesso Erba quando, un po'
a sorpresa, dichiara in una delle ultime sue risposte che sviluppa
solo idee originali, nel senso di idee che lo sorprendono e, aggiungo
io, "lo meravigliano".
E'
uno strano minimalismo quello della drammaturgia di
Erba, un minimalismo che libera quasi una artaudiana crudeltà,
portando consapevolezza e liberando verità attraverso situazioni surreali
descritte e costruite con una ordinata, professionale direbbe Erba,
progettualità.
La
concentrazione sul testo fa si, credo, che questo apra
la strada ad altro di più profondo che su questa curata architettura
si arrampica verso lo spettatore, a volte anche al di là della volontà
del drammaturgo ma sempre con la sua consapevolezza.