EVIDENZIATORI DEITTICI: BRYSON, Merleau-PONTY E OLTRE
(Parol on-line, giugno 2000)
di ALES ERJAVEC
L'iniziale ricerca filosofica di Maurice
Merleau-Ponty, specialmente il suo Philosophie de la perception
(1945), unisce i risultati degli studi empirici della psicologia e
della fisiologia con la fenomenologia di Husserl. Il suo ultimo lavoro
incompiuto Le visible et l'invisible curato da Claude Lefort
(oggi più conosciuto come filosofo della politica) e pubblicato nel
1964, tre anni dopo la morte di Merleau-Ponty - mette in luce un'argomentazione
molto diversa, con una differenza tra i due simile alla distanza tra
l'opera o piuttosto l'argomentazione del primo e dell'ultimo Heidegger.
Se nel libro del 1945, Merleau-Ponty aveva sostenuto con forza le
sue conclusioni filosofiche con i dati dell'esperienza scientifica,
negli ultimi lavori e tra essi - specialmente il testo citato - mirò
ad andare oltre quello che era stato detto, oltre ciò che può essere
enunciato dal discorso filosofico tradizionale.
Ai suoi tempi, il ruolo di Merleau-Ponty
nella filosofia e nell'estetica ha eguagliato quello dei maggiori
pensatori nel campo filosofico di quegli anni. Nelle opere dei suoi
contemporanei come Mikel Dufrenne o Jacques Lacan si trovano frequenti
citazioni delle opere e delle idee di Merleau-Ponty, come si trovano
nelle opere dei suoi allievi quali Jean-François Lyotard, Hubert Damisch
o del già ricordato Claude Lefort. Perfino in anni recenti la sua
continua presenza si è riscontrata a volte in contesti inattesi (1).
Negli primi anni sessanta, la Francia
sperimentò l'insorgere dello strutturalismo che si diffuse rapidamente
in altri paesi. All'interno della Francia ciò causò una lenta scomparsa
della fenomenologia, compresa quella di Merleau-Ponty. Chiaramente
nessuno dei suoi allievi fu capace di sviluppare una propria teoria
che fosse abbastanza forte da avversare, sullo specifico terreno di
Merleau-Ponty, la critica epistemologica e "scientifica" dell'ideologia
tipica di gran parte degli anni '60 e '70 in Francia. Questa controversia
presto divenne cosa quotidiana, trasformandosi in quel conflitto "così
caratteristico della filosofia francese, tra due campi, la fenomenologia
e l'epistemologia (quest'ultima è rappresentata in Francia da quella
filosofia che afferma che spetta alla scienza chiarirci ciò che è,
mentre il resto è "poesia", o, come si crede, espressione soggettiva)
(2).
Nel corso degli anni '70 e '80 la presenza
di Merleau-Ponty rimase importante nell'estetica, ma in un'estetica
che si stava distaccando essa stessa dagli argomenti sollevati dall'arte
contemporanea, per non parlare di quelli considerati dalla cosiddetta
filosofia continentale, sia essa legata alla scuola di Francoforte
o al post-strutturalismo. Mentre l'influenza di Merleau-Ponty tendeva
a ridursi nel continente, la sua filosofia diveniva negli stessi anni
particolarmente autorevole in Gran Bretagna e negli Stati Uniti.
Non è mio scopo seguire ulteriormente
la storia della ricezione di Merleau-Ponty. Basti dire che nella Francia
propriamente detta, ancora nel 1991, la ricezione riguardante Merleau-Ponty
era tale da far dire a un autore francese in tono di disapprovazione
che Merleau-Ponty rappresenta una parte del patrimonio culturale contemporaneo,
spesso citato, ma ciononostante assente. Nessuno lo ignora, tuttavia
soltanto pochi lo hanno letto (3).
Come ho mostrato altrove (4), l'influenza
di Merleau-Ponty emerse nell'area inaspettata della storia dell'arte
contemporanea, come nelle opere di Rosalind Krauss (5) e Norman Bryson
(sulla cui opera tornerò più avanti). Essa rimane anche presente in
modo evidente nella filosofia e nell'estetica della Gran Bretagna
(come nelle opere di Paul Crowther) (6) e negli USA (dove essa è per
lo più indicata come filosofia, o per essere più esatti, "fenomenologia
esistenziale").
Appare quindi che l'osservazione pessimistica
fatta dall'autore francese appena citato riguarda forse più la Francia,
mentre altrove Merleau-Ponty stava diventando sempre di più (o rimaneva)
un autore importante e rilevante, sebbene non legato esclusivamente
alle aree dell'estetica pura, ma a quelle della teoria artistica,
delle riflessioni filosofiche sull'arte e la cultura postmoderna e,
per quanto riguarda queste ultime due, specialmente in rapporto con
il rivalutato ruolo del corpo umano. Come possiamo rilevare, tali
applicazioni della fenomenologia di Merleau-Ponty (specialmente quella
della percezione) vanno al di là dei campi classici su cui lui stesso
si è intrattenuto (pittura, scultura, cinema e letteratura) per inoltrarsi
nei campi dei nuovi media e delle nuove ricerche teoretiche. E' ovvio
che l'estetica tradizionale non è stata capace di superare un' applicazione
tradizionale della teoria di Merleau-Ponty nei campi artistici tradizionali
per arrivare a una applicazione meno ortodossa o, comunque, essa non
è stata capace di estendere le osservazioni e le tesi di Merleau-Ponty
all'arte che è emersa dopo il modernismo. Chiarire le ragioni di un
tale stato di cose è anche lo scopo stesso dell'opera di Merleau-Ponty:
basta dare un'occhiata ai titoli dei capitoli e dei paragrafi in Le
visible et l'invisible per notare la discrepanza tra le argomentazioni
dei tardi anni '50 e dei primi anni '60 e quelle della filosofia coeva
in cui la nozione di ontologia, per esempio, una delle nozioni cruciali
della filosofia nell'ultimo Merleau- Ponty, si presenta a malapena.
Ciò che distingue particolarmente l'uso
tradizionale della teoria di Merleau-Ponty da quella più recente è
il problema del soggetto come viene affrontato da Freud e poi da Jacques
Lacan. Sebbene Merleau-Ponty critichi il soggetto di Cartesio e elogi
Freud, egli nondimeno rimane entro i confini del soggetto unificato.
E' Lacan che supera questa limitazione e che ci permette di andare
oltre, sviluppando teoreticamente e storicizzando la distinzione tra
l'Immaginario e il Simbolico. Noi non sappiamo quale direzione il
discorso di Merleau-Ponty avrebbe preso se fosse vissuto più a lungo,
anche se sappiamo che egli si trovò concorde con Lacan. Ciò che risulta
certo, piuttosto, è che fino a quel punto pochi tentativi vennero
fatti, sia per colmare il vuoto tra i due pensatori che per costruire
una teoria dell'Immaginario capace di andare oltre la devalorizzazione
dell'Immaginario che così spesso si incontra nell'analisi psicoanalitica
dell'arte (un aspetto implicito anche nell'osservazione precedentemente
ricordata riguardante la filosofia francese).
Una interpretazione tradizionale del soggetto
è al centro dell'indagine condotta da Merleau-Ponty sull'ontologia
e fondata sul presupposto di un soggetto unificato. In Merleau-Ponty
noi perciò incontriamo un certo paradosso: mentre egli rifiuta il
soggetto nella concezione di Cartesio, esso riappare in una forma
modificata nell'ambito della sua filosofia trascendentale - non così
distinto da un mondo oggettivo ma come un tutto olistico.
Nel discorso filosofico di Merleau-Ponty
possiamo scorgere tracce di Heidegger. Sarebbe comunque scorretto
dare un peso eccessivo a questa influenza. Heidegger e Merleau-Ponty
portarono a compimento un progetto simile che era tuttavia rivolto
verso risultati molto differenti. Se, nel caso di Heidegger, è la
letteratura, specialmente la poesia, ad essere il luogo del pensiero
non alienato (per usare una terminologia in qualche modo diversa da
quella di Heidegger); nel caso di Merleau-Ponty lo è la pittura (e
parzialmente la scultura). In Heidegger è il linguaggio ad essere
la casa dell'essere, in Merleau-Ponty è la visione o piuttosto la
vista ad avere un tale posto fondamentale). I suoi saggi sulla pittura
(Il Dubbio di Cézanne, Linguaggio indiretto, Voci del Silenzio,
L'occhio e la mente a partire dal 1960) offrono un'eccellente
introduzione allo sviluppo della filosofia di Merleau-Ponty, nel corso
di tutta la sua carriera (1945, 1952, 1960), dalla fenomenologia esistenziale
del Dubbio di Cézanne influenzato da E. Husserl fino allo strutturalismo
di Linguaggio Indiretto e le Voci del Silenzio, in polemica
con Sartre e Malraux, e poi alla formulazione di un'originale ontologia
con L'occhio e la mente in una sorta di dialogo implicito con
Heidegger (7).
Per quanto non ci sia da parte mia nessun
tentativo di procedere ad un'analisi o comparazione storica del pensiero
di Merleau-Ponty, vale la pena notare che entro questo spazio di almeno
quindici anni il forte interesse di Merleau-Ponty per la pittura,
particolarmente per quella di Cézanne, rimane costante. Le influenze
appena ricordate sono perciò d'importanza minore, se le paragoniamo
al continuo ruolo della pittura, o piuttosto di un genere speciale
di pittura; a quello che sostiene la sua fenomenologia della percezione
e che Martin Jay ha chiamato "una nuova ontologia della vista" (8).
E' probabilmente l'ultimo dei saggi sulla
pittura, L'occhio e la mente, scritto nell'agosto del 1960,
ad essere sia il trattato più conosciuto (o meglio noto), sia il saggio
più influente del filosofo. E' fortunatamente anche quello che appare
più legato connesso all'argomento su cui intendo soffermarmi.
L'altro autore di cui si vuole trattare
è Norman Bryson, i cui scritti dall'inizio degli anni '80 hanno causato
polemiche, critiche e una forte opposizione da parte dei suoi colleghi
di vari dipartimenti di storia dell'arte ma che alla fine è riuscito
a tirar fuori almeno una parte di storia dell'arte dal suo sicuro
rifugio chiamato "scienza". Fino ad allora gran parte della storia
dell'arte ha portato avanti la tradizione fondata dalla scuola viennese
di storia dell'arte che dava spazio al dissenso soltanto quando si
confrontava con le opere contemporanee. Invece di procedere per queste
vie già tracciate, Bryson ha applicato i metodi non ortodossi della
psicoanalisi e della linguistica strutturale nel campo più dichiaratamente
sicuro della scienza della storia dell'arte (9).
Ma ciò non era tutto: il libro in cui
Bryson ha elaborato le sue principali tesi Vision and Painting.
The Logic of the Gaze (Logica dello sguardo) (1983) comincia con
una acuta critica di ciò che l'autore chiama "l'atteggiamento naturale",
atteggiamento che gli storici dell'arte - Erust Gombrich è quello
più spesso menzionato - attribuiscono alla pittura e perciò allo sviluppo
della storia dell'arte.
Da questa posizione favorevole, Bryson
dichiara che la storia dell'arte non è niente altro che storia di
"un contrasto tra tecnici per la produzione di una copia così perfetta
secondo la quale l'arte supererà la natura. Le difficoltà che il pittore
deve affrontare sono di carattere esecutivo e riguardano la fedeltà
della sua registrazione del mondo che gli sta davanti (10).
Bryson segue questa inclinazione a trattare
l'evoluzione della pittura come uno sviluppo di tecniche rappresentative
il cui obiettivo è la creazione di una copia perfetta
(essential), un'inclinazione che egli scopre nelle idee che
procedono da Plinio e che, attraverso Dante, arrivano fino a Gombrich.
In tale itinerario egli rovescia la tradizionale opposizione tra pittura
classica e moderna (modernist) e la sostituisce con una piuttosto
inaspettata, cioè quella tra pittura classica basata sulla rappresentazione
prospettica da un lato e sulla pittura cinese a pennello dall'altra.
Tuttavia, cos'è la pittura rappresentativa,
cos'è un'immagine? Già nel nono secolo Giovanni Damasceno dice che
un'immagine è un carattere simile al suo prototipo, ma con una certa
differenza. In ogni caso non è come l'archetipo (11). Un'immagine
rappresentativa assomiglia sempre all'originale ma nello stesso tempo
si differenzia da esso: differisce da esso per un certo grado
che è nello stesso tempo essenziale; se non lo fosse, non sarebbe
niente altro che una copia dell'originale. In altre parole, deve sempre
esistere una differenza tra la rappresentazione e il suo referente,
quella differenza che è all'origine della soddisfazione estetica e
visiva del riconoscimento. Tale riconoscimento tradizionalmente basato
sulla mimesis è lo scopo perseguito da ogni pittura e da ogni
rappresentazione visiva che miri a essere chiamata artistica. A questo
riguardo Gombrich sostiene la stessa poetica di Aristotele: per Aristotele
la mimesis è uno degli aspetti che distingue l'uomo dagli animali,
noi impariamo con attività mimetiche, e "un oggetto riprodotto produce
piacere in tutti" (12). E Gombrich esprime lo stesso concetto :
"Il piacere consiste nel riconoscimento" (13).
Ciò che Bryson ha inteso offrire quale
alternativa all'arte della storia occidentale nel segno di una storia
dello sviluppo della "copia perfetta", cioè di una riproduzione perfetta,
è stata una storia dell'arte come "una storia della pittura quale
pratica materiale" (14). Come ha affermato Bryson, la storia
dell'arte, o comunque qualsiasi teoria possa raggiungere questo scopo,
dovrebbe anche prendere in considerazione il ruolo del corpo umano
nell'eseguire un dipinto: non è più sufficiente, ha detto Bryson,
percepire un quadro come un risultato, ignorando al tempo stesso
il procedimento (la "pratica materiale") che ha condotto ad esso.
Al contrario, noi dovremmo fare attenzione a questa pratica, così
come alla struttura corporea entro la quale e con il concreto aiuto
della quale si è compiuta questa impresa. Bryson ha indicato la pittura
classica cinese come un positivo esempio del modo in cui la qualità
corporea di un dipinto deve venir percepita: il modo riconoscibile
in cui i colpi di pennello erano stati eseguiti e il fatto che i colpi
non erano da considerarsi soltanto strumenti di una tecnica, ma nello
stesso tempo anche direttamente il mezzo espressivo della pittura
come tale. La pittura occidentale invece è, nella sua sostanza, offerta
al nostro sguardo come una scena statica. La pittura classica, eseguita
in accordo con le regole della prospettiva, offre inoltre ciò che
Kaja Silverman ascrive alla fotografia: "Mentre l'immagine in movimento
consegna all'oblio ciò che rappresenta, la fotografia ci fa entrare
in una stabile e duratura immagine dell'io" (15). Questa caratteristica
della pittura, cioè la stabilità rappresentativa, può offrire al soggetto,
nella pittura classica occidentale, un'alternativa alla strada percorsa
da quella cinese. Bryson ha affermato che la pittura europea nega
la deixis o ciò che egli ha chiamato "indicatori deittici"
(16) - i segni di una iscrizione corporea nella rappresentazione:
"La pittura occidentale è fondata sul disconoscimento del referente
deittico, sulla scomparsa del corpo come luogo dell'immagine, e ciò
doppiamente: per il pittore e per il soggetto che guarda. Se Cina
e Europa possiedono le due più antiche tradizioni di pittura rappresentativa,
le tradizioni nondimeno si biforcano, dall'inizio, nel punto della
deixis" (17).
Se, dunque, una delle caratteristiche
salienti della pittura cinese è la traccia visibile dell'esistenza
del corpo dell'artista all'interno della pittura stessa, da dove dunque
si genera questa caratteristica? Perché "il lavoro di produzione è
costantemente messo in mostra al seguito delle sue tracce? Perché
in questa tradizione la corporeità esecutiva è in mostra costante,
e può venir giudicata nei termini che, in occidente, si applicherebbero
soltanto a una performing art?" (18).
Senza alcuna intenzione di affrontare
una discussione riguardante l'arte cinese, vorrei nondimeno dire che
la tradizione europea della pittura e della scultura, o almeno la
sua parte più recente, non è necessariamente così lontana dal genere
di pittura che Bryson qui oppone allo stesso tipo di pittura occidentale.
Svilupperò questo argomento tra poco.
Nell'arte cinese un dipinto è un microcosmo
connesso al macrocosmo ed è simultaneamente sua parte integrante.
Il vuoto all'interno di un dipinto "non è una presenza inerte, ma
è attraversato da respiri che uniscono il mondo visibile (lo spazio
dipinto) con quello invisibile" (19).
Come François Cheng spiega, lo spazio
vuoto della pittura media tra i suoi vari elementi - tra la Montagna
e l'Acqua per esempio - la cui relazione apparirebbe altrimenti rigida
e statica. Il mondo è un tutto: il vuoto nel dipinto, che rappresenta
una parte frammentaria di questo tutto, rappresenta perciò l'invisibile
che struttura relazioni all'interno del visibile stesso, ed è perciò
altrettanto importante delle superfici dipinte. In questo modo la
pittura porta testimonianza alla unità cosmologica; quindi non c'è
da stupirsi se "in Cina, di tutte le arti, la pittura occupa il posto
più elevato" (20).
Leggendo il libro di Bryson Vision
and Painting di cui ho citato prima alcuni passi, come Tradition
and Desire (1984), e quindi la sua critica della storia dell'arte
e di alcune delle sue regole, testi in cui si prende posizione a favore
di una pittura e di una teoria che non solo prenderebbero in considerazione
lo sguardo dell'osservatore, l'ottica insufficiente ma anche i segni
corporei del pittore (illustrando i due temi con la pittura europea
da un lato, e cinese dall'altro), continuamente ci vengono suggeriti
un filosofo e un pittore che hanno perseguito uno scopo simile. Naturalmente
questa coppia è data da Merleau-Ponty e Cézanne. Come nel caso di
Bryson, anche Merleau-Ponty riprova "l'atteggiamento naturale" criticato
da Husserl e porta avanti ciò non solo nell'ambito della scienza,
ma particolarmente nel campo della pittura (21) che egli vede non
soltanto in relazione al primo, ma in relazione alla sua verità interna,
distorta dalla tradizione artistica del Rinascimento. Lo scopo di
Merleau-Ponty era ed è rimasto l'aspirazione di Husserl per il "ritorno
alle cose stesse". "Ritornare alle cose stesse è ritornare a quel
mondo che precede la conoscenza, del quale la conoscenza sempre parla,
e in rapporto al quale ogni schematizzazione scientifica è un linguaggio-segno
astratto e derivato, come la geografia lo è in relazione al territorio
in cui noi abbiamo imparato per prima cosa cos'è una foresta, una
prateria o un fiume" (22).
Per Merleau-Ponty è in primo luogo la
pittura a offrire un accesso privilegiato a ciò che egli più tardi
comincerà a chiamare Essere. Sebbene la filosofia sia, come "l'arte
il fatto di portare la verità nell' "essere" (23), "l'arte, particolarmente
la pittura, attinge a questa struttura di significato elementare che
l'operazionismo preferirebbe ignorare. L'arte e solo l'arte agisce
così in piena innocenza (24)".
Ciò che la filosofia può fare è aprire
i nostri occhi al mondo e renderci consci delle sue limitazioni. "Una
filosofia diventa trascendentale, o radicale, non prendendo il suo
posto nella coscienza assoluta senza ricordare i modi con i quali
ciò avviene, ma considerando se stessa come un problema; non postulando
una conoscenza resa totalmente esplicita ma riconoscendo come problema
filosofico fondamentale questa presunzione da parte della ragione
(25)".
Una parte di questa "presunzione da parte
della ragione" è anche la credenza in ciò che Bryson chiamerà più
tardi la "Copia Perfetta", la credenza che una resa autentica e universalmente
valida del mondo percepito sia possibile attraverso lo sviluppo di
una tecnica di rappresentazione pittorica.
La filosofia, per forzare i tentativi della ragione di distanziarsi, come coscienza assoluta, dal mondo percepito circostante di cui è essa stessa parte integrante, deve partire dal più vicino punto di partenza possibile che è il proprio corpo.
Al contrario di Cartesio, che aveva stabilito
una distanza infinita tra res extensa e res cogitans,
Merleau-Ponty è tra i primi filosofi a sottolineare la necessità
di teorizzare la coscienza come una parte del nostro essere corporeo
(tali considerazioni abbondano già nell'Ottocento, in Marx tra gli
altri) - presentando sempre questo argomento nel corso di gran parte
della sua opera - ma, procedono "incorporando" i punti di vista all'interno
delle sue interpretazioni delle opere di pittori (e occasionalmente
scultori); prendendo posizione da qui per un'iscrizione percettiva
e corporea di un pittore all'interno della sua pittura e anche del
suo osservatore con cui il pittore divide espressamente il campo visivo.
Come nella cultura cinese, anche nella
filosofia di Merleau-Ponty la pittura è una forma d'arte privilegiata.
Merleau-Ponty sostiene, nella Prefazione alla Phénoménologie de
la perception " che cercare l'essenza della percezione è dichiarare
che la percezione è, non presunta vera, ma definita come accesso alla
verità ... Noi non dobbiamo chiederci se realmente percepiamo un mondo,
noi dobbiamo invece dire : il mondo è ciò che noi percepiamo"
(26).
Sia nel caso della pittura cinese che
in quello di Cézanne il pittore è qualcuno che si sforza di presentare
e rappresentare l'unità olistica dell'invisibile e del visibile, la
presenza di un'assenza temporale o spaziale in ciò che è percepito
come presenza (27). Quando Bryson scopre in un dipinto cinese di paesaggio
che il paesaggio è il soggetto e che il soggetto è sia "il lavoro
del pennello" nel tempo reale, che "... un'estensione del corpo del
pittore" (28), allora noi non possiamo dire che qualcosa di simile
è vero nella giustapposizione dei singoli colpi di pennello in Cézanne
(29), o nel modo in cui Rodin rende visibili le saldature di collegamento
sulle sue sculture? Oppure, per andare oltre, non potremmo dire che
il bricolage surrealista nella poesia automatica o nella fotografia
"rende visibile" il mondo, nel quale è costituita la membrana omogenea
del Simbolico?
La presentazione da parte di Merleau-Ponty
dei dipinti di Cézanne (come delle sculture di Rodin o Giacometti)
mostra fondamentali somiglianze con ciò che Bryson offre in rapporto
alla pittura cinese e che egli nello stesso tempo presenta come una
concreta alternativa all'atteggiamento della storia dell'arte tradizionale
e della pittura classica europea basata sulla prospettiva, un'alternativa
che egli prova a completare con un diverso punto di riflessione, un
punto che accentuerà il "riferimento deittico", e perciò il corpo,
come un soggetto teorico ineludibile. Parrebbe di conseguenza che
(almeno nel libro del 1983) ciò che Bryson cerca di proporre o difendere
sia in larga misura già presente nel lavoro iniziale di Merleau-Ponty.
Nel Marzo 1945 Merleau-Ponty tenne una
conferenza sul "Cinema e la Nuova Psicologia". Terminò osservando
che se "la filosofia e il cinema sono in accordo, se la riflessione
e il lavoro tecnico vanno nella stessa direzione, ciò accade perché
il filosofo e il cineasta condividono una certa maniera d'essere,
una certa visione del mondo che è quella della stessa generazione"
(30).
Ciò che l'arte di Cézanne, Matisse, Paul
Klee o Rodin, le cui opere esemplificano al massimo i punti di vista
di Merleau-Ponty sulla percezione, ha in comune con il cinema è che
ora esse rappresentano forme d'arte tradizionali. Il cinema
oggi è una delle pochissime forme d'arte che conserva il suo status
distinto, sia tecnico che ontologico, proprio come fanno la scultura
classica e la pittura da cavalletto. Oggi molta arte o cultura visiva
disgrega senza posa le nostre convenzionali nozioni di arte, limitando
l'attribuzione senza riserve dello status di "arte" in primo luogo
all'arte del periodo pre-modernista e modernista. In tale arte
non è difficile scoprire gli attributi esistenziali percepiti e descritti
da Merleau-Ponty in dipinti, sculture o anche nelle opere cinematografiche.
Nel modernismo, al culmine di esso, ciò che viene visto - sebbene
in certi casi criticato o contrastato come in Duchamp e nell'arte
concettuale - non è ancora problematico. Il discorso "anti - oculare"
affiora soltanto e la "celebrazione nella visione" di Merleau- Ponty,
sostenuta da concrete analisi psicologiche e da esperimenti, è una
teoria utile che attrae e influenza estetici e filosofi come pittori
e scultori. La sua teoria, a questo riguardo, condivide il posto speciale
che la fenomenologia in generale e la fenomenologia esistenziale in
particolare occupa fino all'avvento dello strutturalismo; poiché la
fenomenologia esistenziale in particolare non soltantovede l'arte
come un'esplosione di autenticità esemplare, ma anche di autenticità
privilegiata nel moderno mondo tecnologico (31). Essa risponde quindi
a un più profondo bisogno degli artisti e del loro pubblico di un
discorso che faccia attenzione a ciò che potrebbe essere chiamato
"la specificità dell'arte": si assegna alle opere d'arte sia una posizione
ontologica centrale che uno status ontologico indipendente -
una denominazione d'importanza capitale in un secolo di grandi narrazioni
ideologiche. La fenomenologia inoltre riconosce il ruolo scambievole
dell'esperienza e della capacità, l'azione reciproca tra conscio e
subconscio (o inconscio) e gli spostamenti della mente tra futuro,
passato, presente e fantasia.
La posizione di questo scambio "originario"
è ciò che di solito viene descritto come campo dell'Immaginario, una
distinzione che ha confinato del tutto in questo campo l'intera sfera
dell'arte. Un esempio di percezione che Merleau-Ponty ha in mente
e su cui egli basa lo status privilegiato della pittura è quello che
è stato molto più spesso un tema dominante della fotografia che non
della pittura. Ne offre un esempio nel saggio L'occhio e lo spirito
del 1961: "Quando attraverso lo spessore dell'acqua io vedo il fondo
piastrellato della piscina, non è che lo veda nonostante l'acqua e
i riflessi, io lo vedo attraverso di essi e a causa di essi. Se non
ci fossero distorsioni, riverberi della luce del sole, se fosse che
senza quel riflesso ho visto la geometria delle piastrelle, allora
io cesserei di vederlo come è e dove è - il che significa al di là
di qualunque luogo identico e specifico" (32).
Sono queste le scene che il pittore dipinge
e che intuisce nelle parole profondità, spazio, colore, continua
Merleau-Ponty. Come cogliere una presentazione così vivace con delle
nozioni teoriche? E' naturale che la sola possibilità che ci è data
è quella di emulare la natura stessa di tale immagine, renderla cioè
poeticamente, non teoreticamente, in breve provando proprio con questo
gesto la tesi di Merleau-Ponty sulla natura totalizzante della nostra
esperienza e mostrando che il cogito non può mai esistere all'interno
della stessa struttura riflessiva, come l'esperienza percettiva appena
indicata da Merleau-Ponty. L'opposizione ad una descrizione puramente
scientifica di questo punto di vista lo spinge ad una difesa dell'arte
e a un attacco alla tradizione cartesiana che vedrebbe, nella scena
di cui sopra, la rifrazione della luce come il solo aspetto teoreticamente
rilevante.
In pratica la fenomenologia di Merleau-Ponty
non ha mai disconosciuto la tradizionale credenza in un soggetto unificato;
sebbene non fosse cogito, esso rimaneva concepito in modo trascendentale.
Il problema in quanto tale non potrebbe veramente sorgere all'interno
di una tale struttura filosofica, poiché nella fenomenologia di Merleau-Ponty
la riflessione noematica di Husserl, che il primo ha accettato, "rimane
all'interno dell'oggetto e, invece di generarlo, porta alla luce la
sua fondamentale unità (33)". Il problema del soggetto è perciò dissolto
nella eterna unità trascendentale di soggetto e oggetto, un'unità
nella visione di Merleau-Ponty, così ben realizzata dalla pittura.
Sta alla filosofia svelare ciò, portare alla luce questa unità e tenere
i nostri occhi continuamente aperti su di essa. Nondimeno, la persona
che percepisce è un soggetto empirico e corporeo che conserva in sé
la sua (di lui o di lei) unità psicologica della Gestalt.
E' qui che la psicoanalisi è intervenuta
e ha decostruito l'effettivo io trascendentale della fenomenologia
di Merleau-Ponty: anche se Merleau-Ponty nel saggio L'occhio e
lo spirito aveva citato entusiasticamente Cézanne o Klee dicendo:
"Certi giorni ho avvertito che gli alberi mi guardavano e mi parlavano
(34)". Jacques Lacan ha interpretato la relazione tra lo sguardo e
il mondo percepito in modo molto diverso, affermando in Quattro
concetti fondamentali di Psicoanalisi (Seminario XI), che
lo sguardo e l'occhiata sono in un incessante scambio, rendendo il
soggetto un'entità instabile e continuamente decostruita e ricostruita
e che il ruolo di mediazione del linguaggio, del Simbolico che determina
sia il visibile e che lo sguardo.
L'interpretazione di Lacan dello sguardo
e dell'occhiata, da questo seminario del 1964, è soggetto a innumerevoli
e divergenti interpretazioni. Lacan riconosce i meriti di Merleau-Ponty
e la sua insistenza sugli oggetti capaci di restituire lo sguardo;
ma egli ascrive all'oggetto la funzione dell'occhiata che in modo
immaginario ci guarda dalla posizione dell'Altro. Lacan, inoltre,
richiama l'attenzione su ciò che anche Merleau- Ponty ha tanto dibattuto:
lo spazio geometrico della nostra percezione - non necessariamente
uno spazio visivo - differisce da quello del nostro sguardo che concepisce
il suo specifico campo visivo sulla base del fatto che noi percepiamo
il mondo e gli oggetti ad esso connessi. Per questa ragione, come
Merleau-Ponty mostra in innumerevoli occasioni, il campo visivo costringe
Cézanne a estendere o a curvare i tavoli, oppure è sempre per questo
motivo che il pittore ci mostra l'interno di un portacenere, anche
se normalmente sarebbe per noi invisibile, ecc. Il quadro, per rappresentare
qualcosa in modo tale che la nostra percezione visiva si conformi
alla percezione offerta dal linguaggio, deve mostrare la presenza
attraverso l'assenza e deve rappresentarla o renderla visibile indirettamente.
Merleau-Ponty cita con approvazione Cézanne che spiega come si deve
dipingere un motivo da un romanzo di Balzac: non mostrando l'elemento
che cattura maggiormente l'occhio e i suoi tratti, ma quelli che lo
circondano. L'invisibilità così restituita metterà in risalto la tovaglia
bianca come fosse uno strato di neve fresca appena caduta (35). Questo
può essere lo stesso tipo di visibilità capace di mediare a cui si
riferiva François Cheng (36). In altre parole e come già si è osservato,
i lavori di Cézanne o di Rodin (o quelli di Francis Bacon, per esempio)
rivelano "indicatori deittici" simili a quelli messi in luce da Bryson
nel caso della pittura di pennello cinese. Questa somiglianza punta
alla percezione modificata della relazione tra il mondo e l'io trascendentale
nel modernismo, in quanto paragonata a quella che esiste nella struttura
cartesiana. In altre parole la somiglianza precedentemente ricordata
tra il lavoro di Cézanne e la fenomenologia di Merleau- Ponty rivela
una più profonda somiglianza tra il lavoro di alcune figure chiave
dell'arte europea moderna e la fenomenologia a cui Bryson attribuisce
"la massima maturità" (37); quando arriva a ciò che egli chiama "la
dimensione umana della visione". La ragione della descrizione
di Merleau-Ponty dell'opera di Cézanne, nei termini che tanto assomigliano
a quelli della pittura cinese, è la sua interpretazione del rapporto
esistente tra l'io trascendentale e il mondo; entrambi rappresentano
un tutto che è, almeno a questo riguardo, molto simile alla percezione
cinese del mondo e del nostro posto all'interno di esso. Appare perciò
che Bryson potrebbe ben scoprire esempi d'arte come "pratica materiale"
già entro la tradizione moderna e modernista della pittura e della
scultura europea.
Ciò che Bryson trova mancante in Merleau-Ponty
è ciò che Lacan ha introdotto nella sua analisi dello sguardo, vale
a dire la dimensione sociale del vedere, il cui veicolo è il linguaggio.
"Noi non possiamo mai sperimentare direttamente il campo visivo di
un altro essere umano - questo è sicuro : la sola conoscenza
di un altro campo visivo, che possiamo acquisire, è quello che ci
viene attraverso la descrizione. Tale descrizione prova che
anche altri vedono ciò che noi vediamo, ma la definizione di ciò che
è visto si origina perciò non nel campo visivo stesso, ma nel linguaggio:
si origina al di fuori della vista, nei segni della descrizione" (38).
"L'esperienza cosciente ha un carattere
strettamente individuale, nel duplice senso che è l'esperienza
di un individuo situato e datato, e che è essa stessa un'esperienza
che non può essere riprodotta" (39).
L'incapacità di "sperimentare direttamente
il campo visivo di un altro essere umano" non preclude l'identificazione
e un'esperienza sostanzialmente simile o "condivisa". Ciò che vedo
con i miei occhi è anche all'interno della mia esperienza, un evento
passeggero, ma tale da poter nondimeno esistere entro questa esperienza
individuale o (perfino) collettiva, immediatamente ed eternamente
riconoscibile. Il mio sguardo o il mio colpo d'occhio è determinato
dalle caratteristiche specifiche della vista e della nostra comune
storia visiva. E' all'interno di queste che la nostra comune esperienza
- della pittura per esempio, quando parliamo dell'arte più recente
- non è dissimile da quella offerta dall'arte cinese. Se questo è
vero, ciò comporta qualche più ampio denominatore comune che va al
di là di limiti culturalmente prefissati.
Mentre Merleau-Ponty avverte con forza
che la tesi della prospettiva classica sia la più giusta (40), egli
nondimeno dichiara che "è comunque possibile che Cézanne abbia concepito
una forma d'arte la quale, pur determinata dalla sua condizione nervosa,
resta valida per tutti" (41).
Come prima ho suggerito, quale peso questa
dichiarazione comporti e in quali modi ciò possa essere universalizzato,
rimane una questione aperta, ma rivela comunque che Merleau-Ponty
aveva in mente un soggetto unificato come prototipo dell'io trascendentale
che percepisce. La psicoanalisi lacaniana decostruisce completamente
la nozione di un tale soggetto unificato. O, come ha commentato Jean
Hyppolite nel seminario di Lacan del 1954-55 sulla Gestalt
discutendo su Merleau- Ponty, la sua è fondamentalmente "una fenomenologia
dell'immaginario nel senso in cui comunemente impieghiamo il termine"
(42). Nessuno stupore quindi che l'interpretazione fenomenologica
di Merleau-Ponty dell'io trascendentale, nonostante il suo essere
fuso col mondo nelle sue differenti fogge, abbia avuto lo stesso destino
della nozione stessa di arte, cioè quello di essere dichiarata un
resto di un modo di pensare umanistico (e fondamentalmente ideologico
o "idealista").
Il fatto che Merleau-Ponty non abbia mai
cercato di stabilire all'interno dell'arte alcuna gerarchia normativa
capace di superare ciò che è comune alla fenomenologia esistenziale
nel suo insieme, rappresenta un difetto della sua filosofia o, al
contrario, una coscienza dell'impossibilità o dell'obsolescenza di
un tale tentativo? Oppure questa incessante connessione del percettivo
e dell'artistico (il visualmente percepito e la pittura) mostra semplicemente
che l'arte è soltanto aspetto speciale o privilegiato del mondo vissuto
come tale? Il fatto che Lyotard nel suo libro del 1971 Discours,
figure (43) abbia cercato di portare avanti la presentazione fenomenologica
di Merleau-Ponty sull'arte e sul visibile, così da contrastare il
privilegio attribuito al Simbolico a spese dell'Immaginario proprio
di Lacan ed abbia però rinunciato a un tale tentativo, non testimonia
forse che il tentativo è impossibile?
Tutte queste domande richiedono complesse
risposte, sono tutte cruciali non solo per una teoria della percezione,
ma specialmente per qualsiasi dibattito attuale sull'arte. Studiosi
di altre aree sono giunti alla conclusione che alcune delle nozioni
tradizionalmente "non scientifiche" e trascurate, simili a quelle
riguardanti l'arte, non solo meritano, ma è giusto che siano oggetto
di un esame minuzioso. Una tale nozione è quella di "amore", che Kaja
Silverman ha recentemente avanzato come nozione degna d'essere rivista
a partire da una nuova prospettiva, quella di idealizzazione. Sebbene
l'arte cada entro una categoria molto diversa da quella dell'amore,
tutte e due sono legate sia all'Immaginario che all'idealizzazione.
L'amore in diversi momenti storici, è
stato dichiarato categoria morta o transeùnte.
Esso inoltre "è sempre parso privo di
rispettabilità come oggetto di ricerca intellettuale - per rappresentare
la vera e propria quintessenza del Kitsch" (44).
Dalla nostra prospettiva attuale può essere
teoreticamente valido e praticamente rilevante riesaminare le nozioni
di esperienza estetica e artistica e rivalutare la nozione di arte
- non come entità ontologica, ma come parte dell'incessante pratica
e del bisogno dell'uomo. Partendo da una posizione a favore della
reintroduzione di un concetto piuttosto tradizionale, non intendo
negare distinzioni e nozioni poste soprattutto dalla psicoanalisi
(e poi applicate o trasposte in altri campi principalmente da varie
teorie ideologiche), ma vorrei al contrario mettere in luce che l'arte
e l'esperienza che essa offre hanno un posto importante nel nostro
mondo vissuto. Mentre il loro continuo emergere può essere contingente,
questa contingenza non diminuisce in alcun modo la loro importanza,
come mostrano i paragoni prima ricordati tra l'arte cinese e quella
sostenuta da Merleau-Ponty. Da questa prospettiva (prospettiva determinata
anche dalla svolta "postomoderna" nell'arte, che esclude il credo
premodernista come pure quello modernista in un soggetto unificato)
la necessità di rivalutare l'Immaginario e rivalutare l'arte come
fondamentale attività e valore umano appare sempre più legittimata.
Come si adatta in questo quadro il tema
degli "evidenziatori deittici?" Bryson ha giustamente richiamato l'attenzione
sul fatto che in gran parte della pittura occidentale gli evidenziatori
deittici erano assenti, sebbene, come nella pittura classica, non
fossero tanto assenti come egli ha sostenuto. Tuttavia la sua critica
non coglie nel segno in quanto ignora quel segmento della pittura
modernista che rende visibili le pennellate, sia nelle opere di Cézanne
o in quelle di Francis Bacon o Richard Serra, per indicare due più
recenti esempi.
Ma perché gli evidenziatori deittici dovrebbero
essere legati a una tale questione cruciale e perché la loro presenza
dovrebbe essere una svolta tanto importante nella storia dell'arte?
Le ragioni dell'insistenza di Bryson su tale punto sono duplici: 1)
essi rompono con la tradizione secolare della pittura occidentale
piegata a puro veicolo rappresentativo, e 2) essi tengono conto di
ciò che Bryson chiama "iscrizione corporea" del pittore; essi rivelano
il precedente isolamento del pittore - in quanto autore, soggetto
- entro lo stesso universo cartesiano che Merleau-Ponty così fortemente
aveva criticato. Sarebbe tuttavia errato dire che Merleau-Ponty offre
la soluzione filosofica al problema sollevato da Bryson, poiché la
sua filosofia rimane prigioniera dell'io trascendentale. Quindi anche
se Merleau-Ponty mostra i principi generali che Bryson cerca nella
pittura occidentale e li scopre in quella cinese, la filosofia di
Merleau-Ponty a questo proposito non colpisce nel segno rispetto all'obiettivo
di Bryson. Tuttavia le analisi che Merleau- Ponty fa e gli esempi
che propone, mostrano il fatto che ciò che Bryson cerca e pensa di
poter scoprire soltanto nella pittura classica cinese è già qui, tra
noi, nella nostra pittura moderna.
Giungendo alla conclusione azzardo l'ipotesi
che nella pittura occidentale contemporanea gli evidenziatori deittici
possono diventare pienamente visibili solo quando s'incontrano
due condizioni: 1) quando la coscienza della natura provvisoria del
soggetto diventa onnipervasiva, facendo cessare l'aspirazione a vedere
il soggetto e l'oggetto come entità omogenee anche quando concepite
in modo olistico e trascendentale; e 2) che (a) il limite tra arte
e vita quotidiana è annullato o (b) che esso viene ristabilito su
una base nuova. Sottolineo per finire che oggi tutt'e due le opzioni
sono presenti: (aa) molta arte contemporanea - arte vista nelle mostre
da Venezia a Kassel - testimonia di un tale annullamento e (bb) molta
teoria contemporanea (da Arthur Danto e Suzi Gablik) ricerca un nuovo
fondamento dell'arte, superando così la naturale fine dell'arte provocata
dal ricordato annullamento del confine tra arte e vita quotidiana.
(Traduzione di Raffaele Milani)
Note
(1) Cfr. Jean Baudrillard, "La Guerra
del Golfo non avrà luogo", in: Mario Perniola, Guerra virtuale
et guerra reale: Riflessioni sur conflito del Golfo, Milano: Associazione
Culturale Mimesis, 1991, pp. 85-92, parafraso il titolo del saggio
di Merleau-Ponty "La guerre a eu lieu", Giugno 1945 (Cf. Maurice Merleau-Ponty,
Sense et non-sens (Paris: Gallimard, 1996), pp. 169-85).
(2)
Vincent Descombes, Modern French Philosophy, trad. di L. Scott-Fox
and J.Merleau- Harding (Cambridge: Cambridge University Press, 1980),
pp. 59-60.
(3) Renaud
Barbaras, De l'être du phénomène. Sur l'ontologie de Merleau-Ponty
(Grenoble: Millon, 1991), p. 9.
(4)
Ales Erjavec, "Merleau-Ponty: Eye, Body and Postmodernism", JTLA
(Tokyo), vol. 20 (1995), pp. 75-86.
(5)
Rosalind Krauss, The Originality of the Avant-Garde and Other
Modernist Myths (Cambridge, Mass: MIT, 1986), esp. pp. 272-3.
(6)
Cfr. Paul Crowther, Critical Aesthetics and Postmodernism (Oxford:
Oxford University Press, 1993).
(7)
The Merleau-Ponty Aesthetics Reader. Philosophy and Painting,
ed. Galen A. Johnson (Evanston, Ill.: Northwestern University Press,
1993), p. xiii.
(8)
Martin Jay, Downcast Eyes. The Denigration of Vision in Twentieth-Century
French Thought (Berkeley: University of California press, 1993).
(9) Il termine "scienza" viene qui usato
nel senso continentale: in Gran Bretagna e negli Stati Uniti nessuno
storico dell'arte affermerebbe che la sua disciplina poteva essere
o è "scienza". Poiché quel termine è esclusivamente riservato alle
scienze biologiche, alla fisica ecc. Nel continente, specialmente
gli ambiti filosofici tedesco e francese, la parola scienza ha o forse
aveva, una connotazione molto diversa. Ci è ben nota l'ampia gamma
di possibili significati che racchiude il termine "Wissenschaft"
e sappiamo bene come abbia proliferato la scientificità tra le sciences
humaines negli ani 60 e 70 in Francia, quando un discorso teoretico
era o scientifico o ideologico (il che ci porta di nuovo
alla già menzionata osservazione di Descombes). In Gran Bretagna e
negli Stati Uniti il quadro teoretico - usiamo questa parola preferendola
a "scientifica" - della storia dell'arte veniva completata dalla diffusa
applicazione della filosofia e dell'estetica analitiche; ed entrambe
le tradizioni avevano caratteristiche neokantiane. Entro un tale quadro
l'intenzione di Bryson di applicare un metodo strutturale, materialistico
e rigoroso viene percepito come scandaloso ed a ragione.
(10)
Norman Bryson, Vision and Painting. The Logic of the Gaze
(New Haven: Yale University Press, 1983) pp. 1-3.
(11)
Citato in Moshe Barasch, Icon (New York University Press),
p. 193.
(12)
Aristotele, Poetica, 1448b.
(13)
E.H. Gombrich, The Image and the Eye (Oxford: Phaidon, 1982),
p. 122.
(14)
Bryson, op. cit., p. 16.
(15)
Kaja Silverman, The Threshold of the Visible World (New York:
Routledge, 1996), p. 198.
(16)
Bryson, op. cit., p. 89.
(17)
Ibid.
(18) Ibid.,
p. 92.
(19) François
Cheng, Vide et plein. Le langage pictural chinois (Paris: Seuil,
1991), p. 47.
(20) Ibid., p. 11.
(21) "La prospettiva classica è soltanto
uno dei modi che l'umanità ha inventato per proiettare il mondo percepito
davanti a sè e non la copia di quel mondo. La prospettiva classica
è la libera interpretazione di una visione spontanea, non perché il
mondo percepito contraddica le leggi della prospettiva classica e
ne imponga delle altre, ma piuttosto perché non ne richiede una particolare
e non segue l'ordine delle leggi" (Merleau-Ponty, "Indirect Language
and the Voices of Silence", The Merleau-Ponty Aesthetics Reader.
Philosophy and Painting, p. 86).
Un brano ancor più rilevatore riguardante
la prospectiva artificialis può essere tratto dal saggio L'oeil
et l'esprit. "I pittori sapevano per esperienza che nessuna tecnica
della prospettiva è una soluzione esatta e che non esiste nessuna
proiezione del mondo esistente che lo rispetti in tutti i suoi caratteri
e che meriti di diventare la legge fondamentale della pittura [..]
per esempio gli italiani adottavano il ruolo della rappresentazione
dell'oggetto, ma i pittori nordici scoprirono ed elaborarono la tecnica
formale di Hochraum, Nahraum, Schrägraum. In questo modo la
proiezione piana non sempre stimola il nostro pensiero alla scoperta
della vera forma delle cose, come credeva Descartes. Al di là di una
certa fase di trasformazioni, ciò ci rimanda al contrario al nostro
punto di osservazione; quanto alle cose, esse fuggono in una lontananza
che il pensiero non riesce a raggiungere. Qualcosa riguardo allo spazio
ostacola i nostri tentativi di considerarlo dall'alto" (Merleau-Ponty
The Merleau-Ponty Aesthetics Reader, Philosophy and Painting,
p. 135). Come ciò sia in rapporto con Descartes lo si intuisce dalla
affermazione di Lacan che per Descartes "le persone non erano altro
che abiti che fanno una passeggiata" (J. Lacan, Le Séminaire XX
- Encore (Paris: Seuil, 1975), p. 12). Un'analisi dell'organizzazione
decentralizzata dallo spazio visivo dei 'pittori nordici', che implica
legami tra una tale pittura e gli sviluppi ottici dell'epoca, è offerta
da Svetlana Alpers, The Art of Describing: Dutch Painting in the
Seventeenth Century (Chicago, Chicago University Press, 1983).
(22) Maurice Merleau-Ponty, Phenomenology
of Perception (London: Routledge, 1995), p. ix.
(23) Ibid, p. xx.
(24) Merleau-Ponty, "Eye and Mind", The
Merleau-Ponty Aesthetics Reader. Philosophy and Painting, p. 123.
(25) Merleau-Ponty, Phenomenology of
Perception, p. 63.
(26) Ibid, p. xvi.
(27) Questa è tra l'altro la ragione della
sconfessione della fotografia da parte di Merleau-Ponty. La negazione
più esplicita della fotografia di Marey in quanto prototipo della
fotografia si trova nel saggio L'oeil et l'esprit. Si potrebbe
tuttavia dire che Merleau-Ponty non rende un buon servizio alla fotografia
in quanto egli la considera soltanto come uno strumento di registrazione
visiva imparziale ("scientifica"), ignorando quindi il fatto che alla
sua epoca (il saggio fu scritto nell'agosto del 1960) la fotografia
aveva superato l'orizzonte percettivo (e creativo) degli esperimenti
di Marey e che era perciò semplicistico ridurla al grado d'incisione
da camera oscura di Descartes.
(28) Bryson, op. cit., p. 89.
(29) L'accentuazione di Bryson sulle tracce
delle pennellate merita forse un commento. Perché mentre nella pittura
europea i deittici non possono essere sempre così presenti come in
quella cinese, nondimeno è vero che lo stile dell'artista o la scrittura
pittorica è spesso unica. Merleau-Ponty cita questo dicendo "la scrittura
di Michelangelo è attribuita a Raffaello in 36 casi, ma è correttamente
identificata in 221 casi. Riconosciamo perciò una certa struttura
che è comune alla voce, alla fisionomia, ai gesti e all'andatura di
una persona. Per noi ogni persona non è nient'altro che questa struttura
o questo modo di essere al mondo" (Merleau-Ponty, Le cinéma et
la nouvelle psychologie, in Sens et non-sens, p. 68).
(30) Merleau-Ponty, Sens et non-sens,
p. 75.
(31) Una simile posizione che emerge però
da uno sfondo molto diverso è quella di Adorno, Marcuse e dei difensori
dell'avanguardia e della neovaguardia nella Germania postbellica in
cui tutti considerano l'arte come un unico locus di autenticità
in un mondo mercificato.
(32) Maurice Merleau-Ponty, "Eye and Mind",
The Merleau-Ponty Aesthetics Reader. Philosophy and Painting,
p. 142.
(33) Merleau-Ponty, Phenomenology of
Perception, p. x.
(34) Merleau-Ponty, "Eye and Mind", The
Merleau-Ponty Aesthetics Reader. Philosophy and Painting, p. 129.
(35) Merleau-Ponty, "Cézanne's Doubt",
The Merleau-Ponty Aesthetics Reader. Philosophy and Painting,
p. 66; Phenomenology of Perception, p. 198.
(36) Cf. Cheng, op. cit., p. 47.
(37) Normann Bryson, Tradition and
Desire. From David to Delacroix (Cambridge, Mass.: Cambridge University
Press, 1984), p. 65.
(38) Ibid., p. 66.
(39) Jean-François Lyotard, Phenomenology
(Albany: State University of New York Press, 1991), p. 77.
(40)
Cf. Merleau-Ponty, The Merleau-Ponty Aesthetics Reader. Philosophy
and Painting, p. 86.
(41)
Ibid., p. 61.
(42) Citato
in Jacques Lacan, le Séminaire II - Le moi dans la théorie de Freud
et dans la technique de la psychanalyse (Paris: Seuil, 1978),
p. 100.
(43) Jean-François
Lyotard, Discours, figure (Paris: Klincksieck, 1971).
(44) Silverman, op. cit., p. 1.