MILANO - GALLERIA MAGENTA52
Sarà inaugurata martedì 5 Febbraio 2002 alle ore
18.00 la mostra personale dell'artista siciliano Calogero Barba
dal titolo Transustanziazione virtuale, testo in catalogo
del "Poeta Visivo" e cultore di Discipline Semiotiche Eugenio Miccini.
L'artista accetta di non contemplare più la natura per entrare in un rapporto dialettico con la storia e le culture e l'elemento mentale diventa deterrente del processo creativo. Ma è Barba stesso a chiarire la natura di tale processo quando sostiene che " recuperare l'oggetto serve a capirlo e a cercare di sistemarlo in uno "spazio mentale", connotandolo di una nuova energia/immagine, consapevole di compiere un'operazione di trasgressione/ avanzamento", alla ricerca di nuovi rapporti e nella definizione ed eliminazione di altri; per aprire nuove vie di comunicazione".
Quella tensione cleptomane ed onnivora che caratterizza la ricerca di Barba si mostra ora ancor più incline alla mobilità, all'interferenza, alla capacità di ibridare o correlare specifici linguistici differenti; accanto al gesto, inteso come pratica del prelievo, che finisce e nomina l'immagine, si accampa la parola; l'estrinsecazione, spesso ludica ed ironica, di un elemento narrativo-letterario.
Il "racconto per immagini", quel racconto che l'arte non può esprimere attraverso viete figurazioni naturalistiche,viene ora riproposto attraverso elementi traslati dove l'ambiguità iconica-l'ambiguità dell'immagine-si accompagna ad un'ambiguità semantica, ad un'ambiguità dei "significati concettuali" espressi dalle parole, per deflagrare poi nel paradosso, nei giochi di parole, nei puns linguistici.
Orario apertura: Lunedì/Sabato dalle ore 11.00 alle
ore 19.00
Domenica dalle ore 15 alle ore 19.00
"Alcune
divagazioni su Calogero Barba"
Calogero
è troppo giovane per portare quel nome,
certamente augurale, ma assai in anticipo sui tempi. Si diceva "calogero"
(Kaλòyηpoς) dei monaci bizantini
per descriverli o gratificarli. forse,
di una "bella vecchiaia".
Ma si potrebbe leggerlo anche come
"chi maneggia o fa belle cose antiche". Nel qual caso sarebbe più
appropriato un appellativo così apotropaico per un artista che, senza
vantare evidenti "scaramanzie", pare tuttavia costruire oggetti e
simbologie direi antropologici, ma di quel
tipo di scienza dall'uomo che ha a che fare piuttosto con la filosofia
che con l'antropologia culturale. Sì, perché "il nuovo umanesimo -
come scrive Remo Cantoni - non crede più che le forme simboliche della
società e della cultura corrispondano al tramonto dell'homo naturalis ". E questo uomo
naturale che è in noi e che sopravvive alla civiltà tecnologica in
atto, anche indipendentemente dai suoi conati intellettuali, non
è separato dal suo passato, dal suo essere stato, insomma dalle sue
origini ancorché rimosse.
Ed ecco una lunga vicissitudine estetica,
vissuta da molti artisti. motivarsi sul
rapporto, sempre differito ma sempre postulato. tra
la natura e tutto ciò che la trascende.
Ricordo una lunghissima discussione tenuta con il compianto Claudio
Costa, che sosteneva essere la sua ricerca
ispirata ad una sorta di antropologia "mista". fatta
cioè di oggetti inventati nella duplice accezione di "trovati"
e "immaginati". Reperti i primi. artifici
i secondi. In ogni caso. il bisticcio ontologico, ancorché irrituale.
si compensava in una nuova "sintassi".
Il succo del discorso, in altre parole, era questo: dai punto di vista
artistico non c'era differenza se non quella di alludere o
meno a una qualche amnesia culturale senza tuttavia pretese
documentarie, bensì con l'incanto del suscitare in maniera suggestiva
tutto un patrimonio antropico che oggi pare disperso nelle pieghe
della storia o - che è lo stesso - nei musei della cosiddetta "cultura
materiale", oppure nei più impensabili siti (deserti, stagni. boschi,
caverne, ruderi, ecc.) che Claudio frugava continuamente alla ricerca
di "cose" che recassero in sé i segni (semioticamente
gli indici, le tracce), le cicatrici del vissuto. Ma
Calogero artificia oggetti per "ricostruire"
le radici e l'identità dell'homo faber
che persiste in noi. La natura e la storia sono concetti
comprensibili solamente entro l'umana esistenza. E
l'arte è una téchne, un
modo di "fare" e non un'imitazione dell'inesistente, insomma una platonica
mimèsi. Con i materiali più disparati (ma
tutti rigorosamente "terreni" o, per dirla con categorie estetiche
in atto. "poveri") apparecchia e mette in scena (e
infatti il termine "installazione" mi pare più idoneo a significare
piuttosto il rituale che le cose) secondo un'opzione dettata dalla
coppia dialettica nostalgia/speranza - o, se vogliamo, la sua
equivalenza più laica, memoria/progetto - che evidentemente,
come la testa di Giano, guarda, anzi unisce il passato e il futuro
per quel tramite che è nientemeno la porta della città. Le opere di
Barba hanno della vicenda umana trascorsa (soprattutto quella
arcaica, "sfuggita" al controllo di una sicura storiografia,
e quindi più misteriosa) una nostalgia iconica. come
chi -penso alla generazione dei nostri padri che non hann
mai posseduto un album fotografico dei propri avi - debba inevitabilmente
cercare in sé somiglianze di progenitori andate perdute insieme alla
loro esistenza. Con un processo di perenne simulazione Calogero costruisce,
appunto, dei simulacri. Ne fa la spia il titolo di una sua raccolta
di opere presentate in un compact disc:
"La concezione dell'origine", dove
concezione sta proprio per raffigurazione
arbitraria o congettura, per immaginazione, simulacro. E
i simulacri, ci ha avvertito fino alla noia Jean
Baudrillard. sono più veri delle
cose simulate. Avevano ragione gli Iconoclasti (anche se per imporre
quella ragione perfino con la forza ebbero non pochi torti).
L'arte, si sa, anche quando vagheggia
una certa referenzialità, cioè un "contenuto", vero o simulato, lo assume come accessorio
rispetto alla sua primaria funzione "poetica" di privilegiare la propria
forma. Invertendo lo schema, il linguaggio dell'arte è tale quando,
nel complesso delle funzioni che realizza, privilegia
quella "autoriflessiva", cioè la propria forma. Ce
lo avevano spiegato i Formalisti russi, con alla testa Roman
Jakobson.
Calogero, pertanto, guarda nel tempo
della memoria e della congettura: perciò. come
gli antichi costruttori di simbologie studiati dagli etnologi, usa
materiali e tecniche approssimativi, impropri:
è un bricoleur.
Le sculture, o meglio le installazioni di Calogero Barba attingono
a una tecnologia primordiale, a materiali, come dicevo, terreni,
naturali o di povero artificio (bricolage , il termine inventato
da Claude Lévi-Strauss
per indicare il lavoro dei cosiddetti primitivi, significa anche "di
poco guadagno"): sabbia, cera, legno. gesso,
piombo, cuoio, ferro, chiodi, grano, arance, carta scope, sali di
rame.. . Rammento una decisa presa di posizione di Gillo Dorfles
proprio contro il grande etnologo Lévi-Strauss
al quale contestava la similitudine tra l'arte e il bricolage.
L'artista, diversamente dal bricoleur, che non dispone
di tecnologie alternative, rende propria e adeguata qualunque
tecnologia voglia assumere per la realizzazione di un'opera. La differenza
del modus operandi - riassumo con parole
mie - consiste tra la condizione cogente del bricoleur
e la libera opzione dell'artista.
Ma torniamo a Calogero Barba. Trovati
o no i propri oggetti, dicevo, Calogero li costruisce,anzi
compie un atto di possesso; se ne appropria modellandone alcuni, cooptandone
altricon un discreto. ma costitutivo
controcanto cromatico: le tracce dell'usura
(termine che contiene in sé il tempo dell'uso) qui sono rare: la
ruggine e gli ossidi dei metalli e dei legni, forse, o i sedimenti
nelle sabbie...
Ma è il pigmento che, specialmente
nelle opere più recenti, appare il meno naturale possibile, come il
bleu, il rosso, l'oro. Non c'è scampo, se la distanza tra
il "croma" e la "physis" è infinita,
vuoi dire che le materie del rito hanno i caratteri del simbolico.
Ma caratteri starei per dire allegorici. Il bleu
di Calogero è quello del Blaue
Reiter che per Wassili Kandinsky
significava l'assoluto "spirituale"? Oppure
è il bleu di Yves Klein.
immagine immateriale dell'universo? O
quello irrelato di Mondrian? Di Kandinsky
si era perfino detto che nella sua "astrazione" c'erano persistenze
naturalistiche nella relazione che inevitabilmente si realizza tra
il colore e le forme. Ma in Calogero non
ci sono determinazioni cromatiche esclusive. I colori, cioè,
possono essere evocativi, avere il doppio codice della cosa e della
sua simulazione, oppure avere una pura "astanza".
Ma la struttura, ovvero il complesso di tutto ciò che si
manifesta nella fattura di un'opera (la sua forma) appare regolato
da una legge, ora geometrica, ora mimetica, in entrambi i casi simmetrica,
che del resto corrisponde (cfr. certe
strutture simboliche studiate da Carl
Gustav Jung e dai suoi allievi
in "L'uomo e i suoi simboli ") all'apparenza dei rito,
ad esempio, alla postura dei celebranti, oppure ai modelli culturali
di una certa cultura:il cerchio, simbolo magico per eccellenza, la
più corale (sociale) disposizione degli attanti;
ma anche il triangolo (che Kandinsky considerava
"mistico"), per non dire del quadrato (una "divinità" per Pitagora),
o di altre complesse morfologie (la spirale, il labirinto, i "mandala"
indù, ecc.). Calogero, insomma, struttura gli oggetti come un artigiano, o li ricicla come
un rigattiere. Ma non si avverte mai nel
suo lavoro il sottofondo dissacrante e ludico del ready
made duchampiano, né dell'assemblage dada.
Anzi Calogero tenta il miracolo di una
transustanziazione virtuale, capace di "fare di un albero un'idea
e di un'idea un albero" (Jean Dubuffet).
Per esempio, quei trabiccoli, come diciamo noi toscani di quegli ordigni
di liste di legno a forma di cupola su cui si appendeva il veggio
(lo scaldino) per riscaldare il letto o per asciugare i panni, non
a caso sono definiti "strutture magiche", anche se non è difficile
per omologia riferirli a un emisfero terrestre e quindi accrescerne la fascinazione
simbolica; si veda anche l'installazione "Dedicato agli artisti" ,
composta da arance disposte in cerchi concentrici e trafitte, nel
cerchio esterno, da grossi chiodi, che rammenta quelle pratiche iettatorie,
dette anche "fatture" di maghe e fattucchiere, pratiche ormai "consacrate
dall'uso" epperciò antropologicamente
vere (verificabili cioè solamente entro un particolare "universo di
discorso". Non concordo però con qualche esegeta che stringe Calogero
troppo da vicino a una supposta eredità o influenza della sua terra nissena. Ma può essere una mia
probabile miopia. Tutte queste mie divagazioni fanno parte dell'ermeneutica,
di un mio approccio interpretativo, amichevolmente sollecitato, all'opera
di Barba, ma non intendono fornire nessuna garanzia, come dire?,
estetica. Che cosa fa di tutto questo un'arte?
Il grande Nietzsche diceva che l'arte
non si spiega. Non è, dico a modo mio, un distributore di significati
o di emozioni, me semmai un catalizzatore.
L'interprete ha tutto il diritto, anzi la responsabilità di conferire
senso all'opera d'arte, come del resto è sempre stato nei
secoli dei secoli. Anche Paul
Valéry. in
perfetta sintonia, diceva che dava alle proprie poesie il significato
che davano loro i suoi interpreti.
Forse, con l'aiuto "iconologico" di Ervin Panofsky. potremmo identificare il lavoro artistico in quell'insieme di idee, di tecniche e di materie che "violano" le norme e le convenzioni più o meno consuete, prefigurandone continuamente delle nuove, in vista di un tèlos, di una finalità -mi si perdoni l'ossimoro - "inutile" ma necessaria. Inutile, diceva il filosofo tedesco che ho citato sopra. perché non si inserisce nell'etica della civiltà dei consumi, ma necessaria a riqualificare l'esistenza umana. Dunque una finalità per così dire trascendentale, cioè kantianamente "sublime". Nei confronti di quella vicenda umana che l'antropologia ci ha magnificamente descritto legata strettamente alla terra, chissà mai quando sia nata questa immensa avventura estetica che le ha dato le ali per sollevarla molto più in alto di tutte le altre umane consuetudini.