La
fenomenologia dello stupore (il venire incontro) pone le premesse
della fenomenologia dell'urto, del venire contro di un termine della
relazione verso l'altro. Il mostrarsi dell'alterità
- qui colto nella sua dimensione più positiva
e illuminante - presenta anche un aspetto negativo, un proprio lato
oscuro che suscita inquietudine. Nell'improvviso manifestarsi di qualcosa
- infatti - si coglie un effetto-sorpresa che sfugge al controllo
e alla previsione.
Nello
stupore brilla l'essere dell'alterità,
un evento gioioso, comunque ricco di potenziali
insidie. L'ente sbucato dalle tenebre si presenta, per il suo stesso
darsi a vedere, inondato di luce, ma da quella luminosità emerge
qualcosa, che - come noi - esiste. E si
anima proprio davanti a noi, intenzionando
verso di noi. L'altro da noi, in breve, si muove verso di noi, in
uno spazio non più solo nostro. Se l'inquietudine
dello stupore non dà luogo alla paura, ciò dipende dal fatto che non
esistono motivi reali per provare questo sentimento. Perché
nello stupore uno spazio ben preciso separa chi si sorprende da ciò
che sorprende. Ma resta il fatto che qualcosa muove verso di noi.
Dal
venire incontro al venire contro il passo è breve.
Dallo stupore all'incombere del dolore
La
distanza tra il soggetto e l'alterità, minima nel contatto e maggiore nell'esperienza
dello stupore, nell'urto si riduce al punto da non esistere più, almeno
fintanto che dura la collisione tra i due enti. Con quali conseguenze?
Il fattore che più caratterizza questa esperienza
- ci sembra - risiede nell'incorporazione parziale dell'altro dal
soggetto nel soggetto stesso: la cosa che "viene contro" lascia la
sua traccia su chi viene urtato. E' come se si aprisse una ferita:
una circostanza che, al di là dell'immagine metaforica, proposta per rendere in
modo più diretto l'idea, implica una scalfitura
di quell'intero costituito dall'essere stesso del soggetto.
Ma questa non è che una delle conseguenze dell'urto. L'altra
faccia della medaglia risiede nell'uscire da sé (ex-sistere)
del soggetto che, scontrandosi con l'alterità,
esperisce in modo peculiare - insolitamente profondo - l'essere dell'ostacolo,
il suo essere ostacolo. E si accorge del
pericolo della relazione con l'altro da sé, che può - in qualsiasi
momento - metterne a repentaglio l'esistenza. In questo senso, come
sostiene anche Natoli, "il dolore è un'anticipazione di morte", in quanto "l'esperienza possibile della morte si ha solo
attraverso il dolore" (5). Tesi, questa, che richiama il concetto
heideggeriano dell'anticipazione della morte ovvero dell'essere-per-la morte, quale senso autentico della vita di
ciascun uomo (6).
Ora,
nell'esperienza dell'urto - che va delineandosi
come intenzionalità assoluta e radicale - la contiguità, pur momentanea
e parziale, del soggetto a ciò che gli va contro, implica una conoscenza
nuova dell'altro, che è, anche, una conoscenza diversa della realtà
in generale. E' l'intuizione a prevalere sul concetto: si conosce
l'altro, per il tempo che dura questa esperienza, in maniera diretta e improvvisa. La parola
intuizione rinvia a intus
ire, l'andare dentro qualcosa, cogliendone il tratto più intimo -
ovvero, filosoficamente - l'essenza.
La visione intuitiva della totalità nel dolore
Occorre
soffermarsi un po' più a lungo su questa potenzialità del dolore,
perché è partendo da qui che possiamo cogliere in tutta la sua portata
la valenza conoscitiva propria di questa specialissima esperienza.
E diventa possibile scoprire nel limite conclamato del
dolore - l'assenza di senso - una strada privilegiata alla comprensione
della totalità.
Perché, se l'essere, come ricordava Heidegger, "è ciò che si manifesta alla visione intuitiva
pura" e "solo questo vedere scopre l'essere" (7), anche la via dolorosa
si ammanta di uno splendore proprio, di una dignità nuova, di una
valenza ontologica da riscoprire.
Che
il dolore, infatti, insegni qualcosa del
mondo e della vita, lo diceva già Eschilo e lo continua a ripetere
il senso comune, come forma estrema di consolazione. Ma una cosa è
avvalersi della sapienza dei poeti o dei saggi, una cosa capire su
quali fondamenti essa poggi, e quanto
stabilmente. Come si giustifica - allora - la conoscenza intuitiva
del dolore (che vedremo essere il presupposto della sofferenza, sua
diretta "espressione")? Per formulare una risposta dobbiamo tornare
allo schema iniziale della relazione-intenzione tra enti.
Nell'analisi
preliminare abbiamo detto che la modalità
dell'urto si dà come l'esperienza più intenzionale di tutte nella
pur vasta gamma delle possibilità offerte dall'empiria.
Infatti, se in-tendere rinvia a un andare
a o verso l'alterità, la collisione rappresenta la forma più radicale
di questo indirizzarsi. L'intenzionalità - nella circostanza dell'urto
- è spinta a tal punto da potersi considerare in pericolo, perché
di fatto, il manifestarsi dell'ostacolo inibisce il movimento
dell'andare-verso. Come pure la relazione in se
stessa, un atto che abbiamo visto intimamente collegato all'intenzionalità.
Al momento dell'urto, i due termini della relazione - il soggetto
e l'alterità - non presentano distanza
alcuna, tratto distintivo fondamentale di ogni relazione, che implica, come abbiamo visto prima,
un andare verso e un riferirsi a. L'incontro
con la cosa, assume allora, nel dolore, un carattere
sovra-razionale in quanto sovra-relazionale.
E' intuizione di marca purissima.
L'intuizione
arriva subito a un giudizio - diciamo così
- senza separare, soppesare, collegare e dedurre. Bene rende l'idea
la psicologia, che parla di insight,
di una visione interiore, di qualcosa di improvviso che viene alla
mente come un raggio di luce tra le tenebre. La fatica del concetto
non è conosciuta dall'intuizione, che guadagna con facilità i propri
logoi.
E'
una visione improvvisa, facile, di qualcosa di complesso. Vico la
considerava la forma conoscitiva dei geni, un dono che essi hanno
in comune con Dio. Esattamente il contrario della consueta modalità
conoscitiva che ci appartiene per lo più, un complicato puzzle di
scomposizioni e ricomposizioni.
Nel
dolore, l'insight è la totalità stessa.
Ciò che viene contro, con la modalità dell'incombenza,
viene colto come un tutto, come se fosse esso stesso - in quel momento
- tutto il mondo essendo preclusa, in quel momento, ogni altra relazione
con altri enti.
La
vertigine provata nell'esperienza del dolore - specialmente nelle sue forme più
estreme, che portano alla massima potenza questo stato d'animo
- è il senso di spaesamento derivante
dal rompersi dello schema relazionale. Una
lacerazione che si configura anche come un'offesa, un mancato rispetto
delle regole.
L'accorciamento
estremo delle distanze, inatteso e non voluto, segna il venir meno
di un'area di rispetto che è condizione del manifestarsi, del relazionare
e del comunicare. Nello stupore esiste sempre una distanza precisa
tra chi prova meraviglia e l'oggetto che suscita questo sentimento.
Una distanza che, consentendo di mettere a fuoco
l'oggetto dell'epifania, dà al soggetto la possibilità di decidere:
se avvicinarsi, allontanarsi o rimanere in uno stato contemplativo.
Niente di tutto ciò, invece, succede nell'urto.
La
distanza - sia essa distanza dall'alterità,
dall'altro termine della relazione, dall'oggetto di
intenzione, espressioni diverse che significano, però, una
stessa idea - è certamente la condizione del rapporto comunicativo
del soggetto con il mondo; tuttavia, è proprio la distanza a dare
la misura di quanto sia precario il rapporto con gli enti che, proprio
a causa di questo "scarto", sfuggono a una piena oggettivazione.
L'esperienza
del dolore svela che le modalità di relazione e intenzione, mediante le quali normalmente
conosciamo, mettono radici in un conoscere intuitivo che le trascende.
Un sapere muto, esclamativo che precede il linguaggio, che non si
apre ma piuttosto si chiude in se stesso. Il
sapere del dolore che, per essere comunicato, non può che essere rivelato,
come si rivela una verità colta attraverso un'intuizione.
Il vedere del dolore e dello stupore. Affinità e differenze
Esiste
un'affinità, come abbiamo già visto, tra lo stupore e l'urto, due
modi di intenzionare in cui l'apparire
della cosa si ammanta di meraviglia. Entrambi è
come se mostrassero le cose in una veste del tutto nuova rispetto
a quella che conosciamo abitualmente. Nello stupore sono, in un certo
senso, le cose stesse a offrirsi alla vista in modo diverso, come permeate di un'inattesa
e originalissima luce; nell'urto il soggetto spalanca gli occhi e
la bocca per l'effetto della collisione con le cose. Come a dire,
"ma è questo, la vita?".
La
meraviglia conseguente all'urto ha in comune - con lo
qaumaqein di Platone ed Aristotele -
il vedere, cioè il carattere conoscitivo e l'essere una conseguenza
di una relazione.
Cosa
distingue, radicalmente, l'urto dallo stupore, il venire contro dal
venire incontro? La differenza risiede, ci sembra, nel modo in cui
ci si rapporta all'oggetto di attenzione:
1)
la meraviglia è un non poter non accorgersi-di, un acuire la vista
verso l'oggetto di attenzione che si
svela, ma come esperienza conoscitiva marca e rispetta una precisa
distanza dall'ente suscitatore di meraviglia,
2)
l'urto dal quale scaturisce l'esperienza del dolore è un vedere
obbligato provocato da una circostanza accidentale, conseguente
allo scontro con un ostacolo, nel quale le distanze tra i due termini
della relazione si sono annullate. Se nello stupore la meraviglia sollecita un avvicinamento
alla cosa nel suo svelarsi, nell'urto la meraviglia indica piuttosto
l'incombere di un pericolo, il rischio di mettere a repentaglio
il proprio essere nell'incontro-scontro con l'altro.
Entrambe le esperienze chiamano in causa il senso
della vista, funzione nobile della conoscenza. Con una radicale
differenza: l'esperienza della meraviglia consente di riempirsi
gli occhi dell'oggetto che emoziona o turba il cuore; l'urto fa
spalancare gli occhi, ma per capire cos'è quell'ente frappostosi all'improvviso sul nostro cammino,
che ha infranto l'area di rispetto necessaria a
una visione sufficientemente chiara e distinta della cosa. L'alterità,
possiamo altrimenti dire, si manifesta in praesentia
nell'esperienza dello stupore, mentre lo fa in absentia
in quella del dolore. Si potrebbe obiettare che, in uno scontro
automobilistico, vediamo sia pure per un attimo e in modo impreciso,
l'altro veicolo. Quello che non vediamo è l'orientamento all'urto,
la modalità aggressiva con cui l'altro veicolo viene verso di
noi; risulta assente, in altre parole, la carica urtante del veicolo,
il suo essere per noi un potenziale pericolo. Dopo un incidente,
se ancora siamo coscienti, cerchiamo
anzitutto di farci una ragione di ciò che è stato, di identificare
le ultime mosse dell'altro o le nostre, le vogliamo "vedere" - in
altri termini -, cerchiamo di immaginarcele, di compensare così
un doloroso vuoto eventuale. Quanto è più forte,
poi, il dolore inferto dal comportamento di una persona che credevamo
amica. Perché? Perché mentre elaboriamo
la nostra sofferenza - dopo il colpo dell'offesa - non siamo
in grado di riconoscere la persona che sentivamo familiare. Ci manca
qualcosa di essa; scopriamo che ci sfugge,
la sentiamo assente; all'appello risponde un essere diverso, chi
ci ha offeso non sappiamo davvero chi sia. E' un tassello che manca
nel nostro cuore e nella nostra mente. Quella percepita nel dolore
è un'assenza che annuncia però drammaticamente una presenza, esperita
sensitivamente come qualcosa di profondamente
ostile, ma pur sempre come qualcosa di esistente.
Cecità e irrazionalità del dolore
Le
riflessioni fatte fin qui ci permettono di rispondere alla principale
obiezione mossa alla comprensibilità del dolore: il senso comune lo
descrive come cieco e irrazionale, e proprio questo pre-giudizio ostacola
fortemente ogni approccio di natura teoretica.
Che l'esperienza del dolore possa essere paragonata alla cecità lo abbiamo appena giustificato:
ciò che viene contro non si dà a vedere, (o comunque non dà a vedere
la sua carica offensiva), colpisce senza consentire alla vista di
rendersi conto dell'incombere dell'offesa, che altrimenti si cercherebbe
di evitare. Ma cieco il dolore sembrerebbe anche per l'annebbiamento
razionale che provoca la componente sensitiva-emotiva
che segue all'urto con l'alterità.
Una doppia cecità, dunque: il dolore come un "non
vedere il nemico" e come un offuscamento delle facoltà mentali. Se ci pensiamo, ci rendiamo
conto, però, che anche la nozione di cecità non implica l'assoluta
impossibilità di cogliere l'altro da noi: esclude solo la possibilità
di vedere distintamente la cosa, non di percepirla come qualcosa che
è.
Non
ne vediamo i contorni, fatichiamo a ricostruirne la natura, tuttavia
cogliamo il tratto ontologico principale il fatto che sia qualcosa.
Anche questo è in qualche modo un vedere, una modalità
conoscitiva che merita rispetto: in fondo, anche i ciechi leggono,
sia pure con la sensibilità dei polpastrelli, che esercita la funzione
della cornea e del cristallino. Alla luce di queste premesse, diventa
difficile sostenere che la cecità del dolore non consente alla ragione
di avere in qualche modo voce in capitolo nell'esperienza dolorosa,
di comprenderla, di adeguarvisi. La cecità del dolore si concentra
- semmai - nel non poter vedere l'altro nella sua dimensione di attentatore, di nemico o di pericolo per il nostro essere:
nella circostanza dolorosa facciamo esperienza, se così si può dire,
dell'assenza come rinvio a qualcosa.
Ma
a questo punto dobbiamo prendere le distanze - oltre che dalla predetta
cecità - anche dalla presunta irrazionalità del dolore.
In
che senso il dolore sarebbe irrazionale, ovvero non-razionale? Forse
perché non si adegua alla ragione, a quell'attività
che consiste nel formare concetti e giudizi? (Die Vernuft - scriveva Husserl - als das Vermögen der
Theorie betätigt sich in Funktionen der Begriffs - und Urteilsbildung)
(8). O piuttosto perché manca di un senso? Entrambi i
quesiti non possono avere, a nostro giudizio, che una risposta negativa.
Le stesse domande originarie che suscita
il venire contro dell'altro da noi - che cosa succede? perché?
- presuppongono, fondamentalmente, un giudizio (c'è qualcosa), classico
prodotto della ragione, quello straordinario mezzo di
appropriazione del reale che divide, ricompone, elabora sintesi,
le rimette in gioco. Il dolore veicola
un senso - quanto meno suscita la ricerca di esso - e questo attiva
la facoltà razionale. Al di là della domanda
fondamentale (perché?), il dolore - nel suo essere percezione di una
presenza (ostile) a partire da un'assenza parziale (l'essere dell'altro
non si dà a vedere in pienezza come nello stupore) - pone le basi
per un'attività interpretativa che è, a ben vedere, produttrice di
senso. Cercare di "vedere" chi o che cosa ha provocato in noi lo shock
della sofferenza, riesaminare i movimenti che l'hanno preceduto, riconsiderare
l'altro alla luce di quanto è successo, tutto questo e molto altro
ancora, cos'è se non un raffinato processo di comprensione? Come si
può ancora ammettere che - oltre che cieco - il dolore non abbia senso?
Il dolore dà senso, fa scoprire significati, induce a riconsiderare
l'intero nostro essere nel mondo. Ma come la mettiamo, si può obbiettare
a questo punto, con l'insensatezza del mondo che esperisce chi è colpito
da un grande dolore, che lo fa desiderare solo di farla finita
con questa esistenza? Ecco come Natoli
pone la questione:
"L'esperienza
del dolore, intesa come circolarità tra danno e senso, non coincide
con la pura e semplice sofferenza fisica, ma produce una lacerazione
tale da far percepire agli uomini la propria condizione come del
tutto insensata, incomprensibile. Il dolore, non tanto quanto
è forte, ma soprattutto quando è grave, quando è strettamente imparentato
con la morte, spinge gli uomini sulla soglia della disperazione. Per
essere espliciti, il dolore solleva questioni radicali sul
significato e il valore della vita nel suo complesso. Detto altrimenti,
se ad esempio una paralisi mi inchioda
a una sedia, io non patisco solo il danno della lesione e dell'immobilità
ad essa connessa - in breve, la pura fisicità - ma, a partire dall'impedimento,
ove magari il dolore vivo da tempo tace, sperimento l'insensatezza
del mondo in cui mi trovo a vivere, ma che non mi appartiene. Inchiodato
a una sedia, vivo infatti in un mondo che
in ogni momento mi invita a camminare, che è aperto innanzi a me e
da percorrere, ma al tempo stesso mi è definitivamente precluso. In
ciò non sperimento solo il peso della mia immobilità, ma patisco la
pena di un mondo impossibile per me. Di qui la sua insensatezza".
(Salvatore Natoli, La felicità di questa vita. Esperienza del mondo e stagioni dell'esistenza, Milano, Mondadori, 2000, pag 113)
Nell'interpretazione di Natoli
la sensatezza del mondo consiste nel la
possibilità di sperimentarlo, fruirlo: è chiaro che, nel momento
in cui si frappone un impedimento grave - come nei casi di un dolore
che inabilita - questa significatività del mondo viene meno. Se
il senso dell'esistenza si correla alla possibilità di vivere, e
di vivere in modo conforme alle proprie potenzialità (motorie, psichiche,
relazionali), il dolore non può che mettere profondamente in crisi
la domanda di senso della persona.
Se però torniamo a considerare il dolore come una
conseguenza naturale dell'essere nel mondo, inscritta nella dinamica
delle relazioni tra enti, allora non è più lecito parlare di una
sua "insensatezza". Il dolore può rappresentare un ostacolo alla
sperimentazione del mondo, tuttavia il mondo continua ad appartenere
a colui che soffre: pur emarginato, esso
ne fa ancora parte e può continuare a interpretarlo, ad assegnargli
un senso, pur da un nuovo punto di vista. E' vero che la persona
paralizzata non può più correre in un prato, tuttavia può muoversi
con la sedia a rotelle o semplicemente guardarlo: solo perché non
gli è possibile camminare, dobbiamo ammettere che è definitivamente
precluso? Il dolore nelle sue forme più gravi impone nuove modalità
di fruizione del mondo. Se è vero, come scrive Natoli,
che le forme più gravi di dolore portano a
uno stato di disperazione, non si può dimenticare - la cronaca ci
offre ogni giorno motivi per affermarlo - l'eccezionale reattività
di persone colpite da immani eventi dolorosi. Giovani vittime di gravi incidenti stradali che, usciti dalla fase
acuta della malattia, si battono per informare i coetanei sui rischi
della guida. Pazienti colpiti da rarissime malattie debilitanti
che, superato lo choc della diagnosi, riescono a comunicare con il mondo
impiegando magari solo un dito o una palpebra, unica funzione vitale
in corpi che sono ormai solo scafandri. Ammettere, poi, che attraverso
l'esperienza del dolore nelle sue forme più gravi, il mondo fa affiorare
tutta la propria insensatezza, fa supporre che sia sensato solo
il mondo in cui le cose vanno bene, dove la normalità sia la regola
e la pietra di paragone di ogni evento.
Se ammettiamo che le cose - in
generale tutti gli altri enti - possano venirci contro oltre
che incontro, non possiamo accettare l'irrazionalità del dolore,
pur riconoscendo che la facoltà del vedere non è al suo massimo
grado, anzi è alquanto manchevole.
A ben rifletterci, anche la meraviglia, che induce
a spalancare gli occhi sull'ente che si manifesta in tutta la luminosità
della sua presenza - e in questo farebbe pensare al massimo possibile
della razionalità - non permette una
conoscenza "razionale" in senso proprio. Perché, se il dolore non
possiede abbastanza "tracce" dell'altro da sé per comprenderlo adeguatamente,
lo stupore non ha troppe: l'essere della cosa apparsa all'improvviso
stordisce, lasciando spazio - nella fase iniziale dell'esperienza
- alle sole esclamazioni, che sono espressioni di senso, presuppongono
anch'esso il giudizio fondamentale (c'è qualcosa), ma sono ben lungi
dall'essere articolate. Sotto il profilo
della conoscenza, l'esito finale è il medesimo per entrambe le esperienze:
meraviglia/stupore e urto/dolore hanno l'effetto di colpire al cuore
dell'essere, portando dolcemente alle cose o strattonandoci al loro
cospetto in malo modo. Anche lo stupore
possiede un che di "irrazionalità", ma non per questo non possiamo
dire che la ragione sia fuori gioco. In entrambi i casi "vediamo"
qualcosa, apriamo i nostri occhi o i nostri sensi sull'essere, senza
poterlo davvero afferrare nel dettaglio (stupore) o per coglierlo
come assenza di una presenza (dolore). Per quanto possa
sembrare strano, tra le due esperienze accomunate dal manifestarsi
dell'alterità, è quella del dolore a produrre i risultati conoscitivi
più importanti.
1)
La visione è al minimo (ma sufficiente a garantire l'esistenza di
un altro da sé), in compenso la ricerca di senso
al massimo (dall'urto promana la domanda). Nello stupore la visione
dell'alterità è massima; l'altro si
offre in tutta la sua apparente luminosità, al punto da annullare
la ricerca di significati, sostituita da una sospensione ben espressa
dalle modalità linguistiche esclamative.
2)
Nel dolore entra in gioco una conoscenza sensitiva-emozionale complessa,
quale conseguenza dell' "attentato" all'integrità
della persona posto in essere dal venire contro ad essa. Nello stupore
prevale la sensitività della vista. E
la distanza che si frappone tra l'alterità
venuta incontro e il soggetto che la contempla, non configura alcun
contatto, che resta una potenzialità.
3)
Se nello sguardo dell'altro si coglie la propria identità - l'Io
si scopre tale in relazione a un Tu - nell'esperienza del dolore come urto,
si partecipa a un'epifania ontologica: si scopre anche di che natura
è quell'Io che va identificandosi come tale in relazione a
un altro da sé. Lo stupore, per il faccia a faccia tra il soggetto
che si stupisce e l'alterità che viene
incontro improvvisa, predispone alla massima individuazione dell'Io.
Ma non consente di coglierne il tratto
della fragilità, né di sperimentare la vittoria del pensiero sulla
fragilità stessa, come straordinaria risorsa di reazione al rischio
del proprio annientamento.
4)
La scoperta della fragilità si accompagna alla scoperta delle strategie
di reazione all'urto, per rimuovere ciò che, nel produrre un danno
all'integralità del nostro essere nel mondo, frena la fruizione
di quello stesso mondo.
L'accadibilità dell'esperienza dell'urto rende "normale" l'esperienza
stessa del dolore: quella che comunemente si concepisce come qualcosa
di inaccettabile, di insensato e che
in tutti i modi si vorrebbe scongiurare.
Una conoscenza che sconcerta
Il
dolore è una grandissima occasione conoscitiva, che tuttavia sconcerta
per la sua modalità. In una collisione
- qual è la conseguenza di un urto - prima che l'occhio metta a fuoco
il proprio bersaglio, è il corpo senziente a "vedere". Non c'è spazio
alcuno per lo sguardo, almeno inizialmente: l'altro da sé è
sentito, prima che veduto; questo spiega perché il dolore non
si adegui, nella sua fase per così dire "acuta" ai modi della razionalità,
perché sia tanto oscuro, enigmatico, perché non si presti al racconto,
perché sfugga alla parola, espressione preferita del concetto. Eppure,
anche il dolore derivante dallo scontro con l'altro da sé, è conoscenza.
Apprensione sensibile, confusa, da ordinare, imprecisa,
fatta di dettagli, ma sempre conoscenza. Che
informa, anzitutto, sulla presenza dell'altro e - contestualmente
- dell'esistenza del soggetto. Protagonista del dolore è certamente
chi soffre. Ma, l'attore principale, il
movente della sofferenza che ne deriva, è ciò che produce l'urto,
l'altro dal soggetto.
Venendo
meno i presupposti di una chiara e corretta messa a fuoco dell'altro
da sé, si comprende quali disagi possa avvertire il soggetto conoscente nel suo rapportarsi
al mondo. In qualche modo, la relazione - in virtù del suo movimento
intenzionale - può essere vista come il garante dell'Io, o meglio
ancora, del farsi dell'Io in relazione agli
altri enti che costituiscono quel reale in cui anche l'Io si situa.
E' la zavorra di questo originario trovarsi-situandosi, in virtù della
quale si forma la consapevolezza di far parte di questo mondo in modo
diverso da tutti gli altri enti. Quando alla visione dell'altro da
sé si sostituisce l'incorporazione, o si profila il rischio di essa,
venendo meno la spazialità del rispetto (la distanza-presupposto di
ogni intenzione/relazione), è in pericolo lo stesso trovarsi nel mondo.
Non solo l'Io rimane scosso, fatica a mettere
a fuoco se stesso, nel rapporto non riuscito con l'alterità che è dato dall'urto: si modifica la stessa percezione
della realtà e l'esserne parte.
Qui
vanno cercate le radici ontologiche dello straniamento,
del pessimismo, dalla solitudine vissute da chi sta
attraversando un'esperienza dolorosa. E
qui mette radici l'idea - così lucidamente esposta da Heidegger,
ma non pienamente giustificata in Sein
und Zeit - dell'anticipazione della morte come la condizione
più caratterizzante dell'uomo, il più autentico essere dell'Esser-Ci.
Perché se partiamo dal presupposto che l'esistenza sia essenzialmente
un relazionarsi degli enti, giungiamo alla consapevolezza che - prima
o poi - c'è il rischio di esperire una circostanza come quella
che fa scaturire il dolore.
1)
Simone Weil, Attesa di Dio, Milano, Rusconi,
1984.
2)
Aristotele, La Metafisica, a cura di Giovanni Reale, Milano, Vita
e Pensiero, 1993, IX edizione, III volume.
3)
Il termine intenzionalità si comprende anzitutto analizzando il significato
originario della parola latina intentio,
composta dal prefisso in, con valore di moto a luogo, e dal verbo
tendere, che indica invece l'atto di orientarsi a qualcosa. Alla luce
di questa pur breve esegesi, si comprende come l'intenzionalità indichi
"il riferimento interno di un atto o uno stato mentale a
un determinato oggetto, indipendentemente dall'eventuale sussistenza
di questo oggetto nella realtà esterna" (voce "Intenzionalità" in
Enciclopedia Garzanti di Filosofia, Milano, Garzanti, 1993, IX edizione,
pag 552). Pressochè
accantonata dal pensiero moderno, la nozione di
intenzionalità è stata riproposta alla fine dell'Ottocento
da Franz Brentano e successivamente rilanciata da Edmund Husserl. "Nella fenomenologia,
la filosofia stessa è caratterizzata dal compito di descrivere la
struttura immanente con cui l'oggetto è intenzionato dalla coscienza"
(Enciclopedia. ibidem, pag 353). In generale,
si considera intenzionale il rapporto di qualsiasi atto con un oggetto.
Può essere utile leggere anche la definizione di Searle.
"Intenzionalità: E' il termine usato dai filosofi e dagli psicologi
per definire quella caratteristica di molti stati mentali che sono
diretti a o che riguardano stati di cose
del mondo. Se ho una convinzione, un desiderio
o una paura, deve sempre esserci il contenuto di tale convinzione
(.) Deve riguardare qualcosa, anche se il qualcosa cui si riferisce
non esiste (.) Anche in casi in cui mi sto radicalmente sbagliando,
deve esserci un qualche contenuto mentale che implicitamente faccia
riferimento al mondo" (vedi alla voce "Intenzionalità", in John
R. Searle, "Per una teoria empirica della
coscienza", in Micromega, febbraio 1998,
pag 232). Molto chiara
la spiegazione che dà Edith Stein, la
quale indica nell'intenzionalità il tipico modo di rapportarsi di
un Io e di un oggetto, entro un'unità di vissuto. "L'esperienza vissuta
del contenuto 'gioia' - scrive la filosofa - è condizionata quindi da due
lati: da parte dell'oggetto e da parte dell'Io, L'oggetto, in questo
caso il contenuto della notizia, non appartiene, come parte, alla
gioia in quanto contenuto di esperienza vissuta, ma vi appartiene
il dirigersi verso tale oggetto (l'intenzione, nel linguaggio fenomenologico); la proprietà di essere gioia per questo
oggetto, appartiene alla sua consistenza e, in senso intenzionale,
ossia come qualcosa cje è da essa (gioia)
'inteso', le appartiene anche l'oggetto".
(Edith Stein, Essere finito e
Essere eterno. Per una elevazione al senso
dell'essere, Roma, Città Nuova, pagg 83-84).
4)
Silvano Petrosino, Lo stupore, Novara, Interlinea Edizioni, 1996,
pag. 70
5)
"Il dolore, come la morte non viene scelto, ma assegnato". Salvatore Natoli,
L'esperienza del dolore, Milano, Feltrinelli,
1986, pag. 17.
6)
Martin Heidegger,
Essere e tempo, Milano, Longanesi, 1980
7)
Nelle pagine sulla morte, in quel macigno concettuale che è Sein
und Zeit, si tende per lo più a portare l'attenzione sulla distinzione
tra la morte e l'essere per la morte quale cifra davvero autentica
dell'uomo o Esser-ci. Guido Bruni, nel suo saggio sulla fatticità
nell'opera maggiore di Heidegger, si
sofferma piuttosto sull'incombenza della morte. Un aspetto molto
interessante, in relazione al nostro studio, perché aiuta a capire come
mai il dolore venga considerato un annuncio della fine. Come la
morte incombe, così il dolore si manifesta improvviso incombendo
sull'individuo. In questo tratto - il tratto del venire contro,
che consideriamo l'aspetto più proprio del dolore - esso dà la
percezione anticipata della fine. Ma
torniamo a Bruni e alla morte in Heidegger.
"Abbiamo detto che la morte non è, semplicemente, come "la" possibilità
in quanto tale (.): essa piuttosto è
ad ogni momento possibile, in sé assolutamente certa e mai "delegabile"
a qualcun altro, non scansabile, non scavalcabile; insomma, non
basta dirne che è il polo d'un rapporto di dominio (.): essa propriamente
incombe sull'esserci, e incombe già sempre (.) ma ne è l'incardinazione,
ne detta il senso, ne sigla la finitudine,
vi afferma sempre e comunque la propria inarginabile
potenza". (In Guido Bruni, Heidegger
e l'essere come fatticità. La temporalità vuota, il
dominio della celatezza, l'eclissi dell'"altro",
Pisa, Edizioni ETS, 1997, pagg. 422-423.
8) Edmund
Husserl, Fenomenologia e teoria della
conoscenza, Milano, Bompiani, 2000,
testo tedesco a fronte, pag 66.