Il futuro del cinema, il cinema del futuro
di Marco Monsurrò
Verso l'infinito e oltre: presente e futuro del cinema digitale
Il cinema, seguendo la sua naturale vocazione immaginifica, ha da sempre ricercato soluzioni che consentissero di creare realtà immaginarie, diverse da quella che ciascuno di noi vive e conosce quotidianamente; di mostrare non solo quanto è nel mondo, ma anche quanto è dentro l'uomo. La tecnologia digitale si è subito rivelata lo strumento ideale per dare forma a quei mondi fantastici che, completamente sganciati da un referente reale, costituiscono una parte indissolubile dell'immaginario collettivo di questo secolo. D'altronde tra cinema e tecnologia esiste un rapporto inscindibile congenito al senso stesso di questo mezzo espressivo.
Dal 1982, anno di uscita di Un sogno lungo un giorno il primo film ad alto budget a fare uso di tecniche digitali, ad oggi vi è stato una crescita costante di interventi elettronici da parte dell'industria cinematografica (ma più in generale di quella mediatica) che ha consentito di correggere, integrare e manipolare le immagini di partenza con effetti altrimenti impensabili. La computer graphic piuttosto che limitare, come alcuni apocalittici prevedevano nel decennio scorso, il talento di molti autori li ha invece stimolati a nuove soluzioni visive, offrendo loro illimitate possibilità creative. Oggi il morphing (metamorfosi da una forma ad un'altra che si sviluppa in assoluta continuità, come davanti alla macchina da presa) è diventato un effetto normale: è possibile trovarlo infatti nell'ultimo spot di Chanel come in La nona porta di Polanski gli effetti digitali, allora, sono utilizzati in un numero incredibile di casi e non solo con funzioni di ritocco come avveniva un tempo.
La rivoluzione digitale in atto, quindi, rappresenta una vera e propria svolta copernicana nel mondo della celluloide: e se dinosauri estinti da milioni di anni rivivono sul grande schermo con un impressionante effetto di realtà (Jurassic Park) e attori accidentalmente deceduti durante le riprese (Brandon Lee ne Il Corvo) riprendono vita grazie alle meraviglie della computer (re-)animation; possiamo dichiararci, ormai, ad un passo dalla creazione del divo sintetico.
Il primo Toy Story di John Lasseter costituisce, in questo senso, un film-cerniera, un punto di arrivo ed allo stesso tempo di partenza, nel campo dell'animazione digitale. Con questo lungometraggio, infatti, la tecnologia incrina definitivamente la figura centrale dell'attore. Un tentativo, già effettuato dalla televisione con il personaggio sintetico bidimensionale di Max Headroom, la cui non eccelsa impressione di realtà lo aveva fatto bollare come uno stravagante esperimento. Toy Story infatti è il primo lungometraggio realizzato completamente in CGI (Computer Generated Imagery) con strumenti di computer grafica 3D, ovvero digitale e senza la partecipazione di attori. I giocattoli del film sembrano organici, solidi, riflettono la luce, spostano l'aria, si muovono nello spazio virtuale e, soprattutto, con la loro presenza producono un cortocircuito di senso in cui il virtuale diventa reale e il reale diventa virtuale. Un vortice di significati che si allarga a comprendere il film e che mette in discussione il cinema come lo abbiamo finora inteso. La presenza materiale dell'oggetto o del fenomeno fisico durante il processo di realizzazione dell'immagine è da sempre stata una delle caratteristiche tradizionali del cinema, in quanto appartenente (insieme alla fotografia e al video) alla famiglia di simulazioni visuali referenziali. Ora il massiccio utilizzo cinematografico di computer grafica e computer animation, annullando il nesso "tecnico" di casualità diretta fra presenza fisica del fenomeno da rappresentare e produzione dell'immagine, avvicina il cinema alle forme di comunicazione visiva classiche come la pittura, la scultura e il disegno. In Toy Story la figurazione sintetica è ottenuta per via progettuale, numerica: l'informazione visiva è prodotta come se fosse osservata da un occhio, simulata per quella posizione ideale. Ma il film di Lasseter è rivoluzionario anche per l'indiscutibile volontà di recupero della centralità narrativa, operazione sicuramente favorita dall'influenza del modello disneyano cui il plot chiaramente si ispira. Solo infatti la qualità narratologica della storia raccontata può affrancare la computer animation dalla fase di autoreferenzialità che ha finora attraversato e che, comunque caratterizza il primo ciclo di maturazione di tutti i media atti alla simulazione. Occorre allora interrogarsi su un problema estremamente concreto: l'elettronica è una tecnica che il cinema può impiegare per modificare ulteriormente il suo linguaggio, o un linguaggio a sé stante? Fino a questo momento, l'universo di rappresentazione della computer animation è stato quello degli audiovisivi classici avvantaggiando un approccio critico che utilizza parametri di giudizio convenzionali nella valutazione di questo tipo di prodotti. Inoltre le realizzazioni di computer image viste finora, salvo rare eccezioni (una per tutte Luxo Jr. di Pixar) sembrano essere imbrigliate ancora in una mentalità pseudo-dimostrativa che privilegia l'aspetto spettacolare a quello diegetico-narrativo. E ci sembra assai suggestivo in questo senso l'invito rivolto da Bruno Bozzetto, maestro dell'animazione tradizionale ai giovani animatori: "è essenziale rivolgere una maggiore attenzione al contenuto della storia che, indipendentemente dalla tecnica utilizzata, è determinante per la riuscita complessiva dell'opera visuale; il soggetto, quindi, è una discriminante basilare".
Cinema immersivo: l'interattività
Le nuove tecnologie audiovisive e l'immagine elettronica in particolare saranno nei prossimi anni sempre più al centro dell'impegno produttivo di un'opera cinematografica, sia come sistemi primari per la narrazione di una storia, come fin qui osservato, sia come generatrici di nuovi meccanismi di fruizione dei prodotti audiovisivi. Nel primo caso potremo avere un'ulteriore sviluppo delle tecniche elettroniche tale che i set digitali saranno importanti quanto quelli naturali; nel secondo caso si giocherà la partita sul futuro dei linguaggi contemporanei, ovvero sulla crescente capacità di interazione fra prodotto audiovisivo e il suo fruitore. Ma è interessante osservare, a proposito dell'ormai imminente fusione di questi due universi, come già negli anni cinquanta Georges Sadoul profetizzava per il cinema un'esperienza sensoriale che i "virtuosi del virtuale" oggi definirebbero immersiva: "parlando del cinema dell'avvenire i profeti vedono con gli occhi dell'immaginazione gli spettatori trasportati al centro dell'azione con tutti i sensi contemporaneamente interessati, vedono un mondo ricostruito a colori e in rilievo, ne aspirano il profumo, sentono nella propria mano la mano dell'eroe, soffrono nella loro carne quando egli è ferito". Quindi era già presente, proprio nella riflessione teorica sul cinema, quest'idea di un coinvolgimento di tutti i sensi nella fruizione dell'immagine e di un'interazione spinta con le immagini stesse. Nel 1965 il padre della computer grafica Ivan Sutherland, il primo che sperimentò poi un sistema di immersione nelle immagini, affermava: "lo schermo del computer è una finestra attraverso la quale noi vediamo un mondo virtuale, la sfida è far sì che ci appaia reale, che lo possiamo toccare come se fosse reale, che lo possiamo sentire reale e che questo mondo si comporti a tutti gli effetti come quello reale". Negli anni sessanta per la prima volta questi due mondi apparentemente diversi, ma che sembravano avere presupposti comuni, si incontrarono nel Sensorama, un dispositivo che consentiva la simulazione di una corsa motociclistica nella città di New York. Uno schermo molto vicino agli occhi proiettava immagini tridimensionali, mentre un impianto sonoro avvolgeva l'utente. L'idea alla base di questo esperimento, era l'immersione dello spettatore-fruitore nelle immagini; dopo circa trent'anni ed innumerevoli analoghi tentativi la fusione tra cinema e tecnologia pura (ovvero dello studio delle interfacce più efficaci per l'interazione con il computer), almeno sul piano della fruizione, non è ancora avvenuta. Le cause di questa mancata integrazione sono da ricercarsi nella natura stessa dello spettacolo cinematografico. Infatti è essenziale per poter avere effetti immersivi e di realismo che vi sia una perfetta unione tra percezione e motricità, il cinema, però, è stato costruito intorno ad una metafora passiva che è quella del racconto di qualcun altro. L'interattività nega, di fatto, l'esercizio dello sguardo privilegiato di una singola persona (autore e demiurgo della realtà cinematografica) ponendo il fruitore dentro l'esperienza sintetica ed annullando così la centralità della storia, prerogativa del cinema narrativo, in favore di una completa sinestesia sensoriale. Un film come Jurassic Park, seppure a livello concettuale si muove già in questa direzione, operando una sorta di simulazione del processo di immersività. La trama si fà irrilevante, diverse tracce della storia sono unicamente funzionali alla visione degli spettacolari effetti speciali, e perfino l'idea metacinematografica del parco di divertimenti sembra simulare una condizione di interattività.
Riflessioni ontologiche sul nuovo dispositivo
L'utilizzo sempre più esteso della tecnologia digitale, determinato dal progressivo abbassamento dei costi di questi servizi, esige, come suggerisce l'animatore di ILM Christian Rouet, una ridefinizione tout court del termine effetti speciali, in particolare, poi, dopo Toy Story dove l'immagine di sintesi non si limita ad integrare o correggere, ma addirittura a rimpiazzarla del tutto. Lasseter non realizza immagini iperreali ad alta definizione (più vicine alla realtà che vediamo con i nostri occhi, che a quella tradizionalmente catturata dalla cinepresa), ma costruisce un mondo in sè coerente, con un suo linguaggio ed una sua peculiare grammatica: un'operazione, quindi, che esclude qualsiasi tentativo di ricerca mimetica. Non è un caso, d'altronde, che gli animatori della Pixar abbiano preferito realizzare dettagli degli umani coinvolti nella vicenda (soprattutto mani e piedi), privilegiando cioè il punto di vista dei giocattoli. La tendenza ad optare per questa possibilità è dovuta soprattutto alle minori difficoltà che essa pone rispetto ad una ricerca di credibilità ancora molto faticosa e costosa da eseguire. A questo proposito si prenda come esempio in Jumanji la sequenza della distruzione della città ad opera di un gruppo di animali inferociti: le fiere sono state tutte realizzate da bozzetti scultorei e dotate di scheletri e movimenti coerenti, i branchi disposti secondo un complesso sistema random, le pelli ed il pelo sono stati creati con softwares molto complessi e ritoccati tramite matte painting, Eppure, nonostante l'abilità di Rouet e degli specialisti della ILM e l'accuratezza della combinazione animatronics-computer graphics, lo spettacolo suscita nello spettatore una forte perplessità. Le scimmie che invadono la cucina della villa dove Robin Williams è intrappolato risultano immensamente più artificiali degli attori in pelliccia di 2001: odissea nello spazio. Questo accade perchè l'insopprimibile discontinuità tra l'elemento digitale non fotografico (le scimmie), ed il contesto fotografico (la cucina), rende l'effetto Percettibile, secondo la definizione di Metz, ma Visibile e quindi falso, sgradevole. Completamente diversi sono i casi di Forrest Gump e Toy Story. Nel primo, infatti, l'elemento fotografico (Kennedy stringe la mano di un uomo di colore) è manipolato in digitale (l'uomo di colore diventa, come per magia, Hanks-Gump) all'interno di un contesto fotografico (la stanza Ovale). Nel secondo l'effetto è addirittura impercettibile - quindi non è un effetto - dato che l'elemento non fotografico in digitale risulta indistinguibile all' interno di un contesto non fotografico. Appare quindi evidente che lo spettatore cinematografico accetta più facilmente una singola porzione del fotogramma che trascende la realtà fotografica, piuttosto che una creazione digitale che cerca di emularla senza poterla raggiungere. Ma nel momento in cui cambiano le modalità di percezione dei fruitori si rende indispensabile non solo una ridefinizione, come già detto, della categoria effetti speciali (che includa i Trucchi digitali accanto a quelli profilmici e cinematografici), ma un vero e proprio ripensamento teorico del dispositivo cinematografico così come è stato fino ad oggi inteso. Le fasi tradizionali della realizzazione di un film stanno già mutando radicalmente in funzione delle nuove esigenze: si perde sempre più la centralità della ripresa a vantaggio dello storyboard e della post-produzione che diviene determinante per il risultato globale definitivo e come abbiamo già sottolineato, anche il ruolo dell'attore è assai ridimensionato se non annullato.
Cambia, quindi, la valenza dell'immagine a partire dalla sua ontologia: cade l'obiettività irrecusabile dell'immagine fotografica (e cinematografica) e con essa il suo cotè documentario, muore l'illusione di una sua veridicità costitutiva contrapposta alla consapevolezza dell'artificialità del digitale.