Estetiche a confronto: Nanni e Genette sull'identità dell'opera
d'arte
Il cosa e il quando dell'arte.
L'opera oggetto o funzione?
Lorenza Mazzei
Due autori messi a confronto su uno dei temi più dibattuti dell'estetica contemporanea: l'identità dell'opera d'arte. Gerard Genette e Luciano Nanni insieme in un incontro virtuale ( non mi risulta che questa opportunità si sia mai realizzata), attraverso continue citazioni tratte dai testi più significativi rispetto al problema preso in esame, nell'intenzione di mettere direttamente a contatto, per quanto possibile, il lettore con il pensiero dei due studiosi. Punto di riferimento per Genette è stato il volume secondo dell'opera "L'opera dell'arte", "La relazione estetica", in particolare il capitolo "Il che cosa e il quando". Titolo che può essere, a buon diritto, ritenuto il tema conduttore dell'intero confronto.
Proprio in questo capitolo, nella parte conclusiva, Genette riassume, con grande chiarezza, la propria posizione riguardo al problema dell'identità dell'opera d'arte, evidenziandone i punti fondamentali attraverso una terminologia, a volte affatto originale, la cui conoscenza risulta fondamentale per una corretta comprensione della sua teoria.
Genette dichiaratamente critico nei confronti delle posizioni essenzialiste imposta il proprio discorso a partire dalla relazione che si stabilisce fra il soggetto e l'opera. Relazione che può essere semplicemente "estetica" o "artistica", peculiare quest'ultima delle opere d'arte, in base all'assenza o presenza di un "fattore intenzionale", e dei suoi inevitabili effetti che costituiscono la complessità del secondo tipo di relazione.
"La relazione estetica in generale consiste in una risposta affettiva (d'apprezzamento) a un oggetto attenzionale[1] qualunque, considerato per il suo aspetto - o piuttosto: a un oggetto attenzionale che è l'aspetto di un oggetto qualunque. Tale oggetto può essere naturale o "prodotto" dall'uomo ossia risultato da un'attività umana di ordinamento e/o trasformazione. Quando il soggetto di questa relazione, a torto o a ragione, e in qualunque misura ciò avvenga, assume tale oggetto come un prodotto umano e presta al suo produttore un' "intenzione estetica", ossia l'obiettivo di un effetto da ottenere o "la candidatura" a una ricezione estetica, l'oggetto viene recepito come un'opera d'arte, e la relazione si specifica come relazione , o funzione artistica. La relazione estetica a un'opera d'arte ( che ne richiama generalmente molte altre), quando il suo carattere artistico, o articità, non viene percepito, può essere una semplice relazione estetica, come quelle che eventualmente suscitano gli oggetti ordinari, naturali o prodotti dall'uomo. Viceversa, un siffatto carattere può essere attribuito a torto a un prodotto umano che non proceda da alcuna intenzione estetica, perfino a un oggetto naturale, se viene preso per un prodotto umano - o per l'effetto di un'intenzione soprannaturale: se tutta la Natura è opera di un dio, si possono prestare a questo creatore diverse intenzioni - tra l'altro, estetiche. L'esistenza oggettiva dell'intenzione non è sempre assicurata né verificabile (dubito per esempio che un giorno l'ultima questione trovi risposta), la sua postulazione soggettiva (attenzionale), oggettivamente fondata o meno, agisce da sola sulla relazione estetica, ed è sufficiente a specificarla come funzione artistica."[2]
Per Genette "caratteristica specifica e dunque definitoria, delle opere d'arte è nascere da un'intenzione estetica e dunque esercitare una tale funzione, mentre oggetti d'altro genere non possono provocare che un effetto estetico puramente attenzionale"[3] . "Ciò che è peculiare delle opere d'arte è la "funzione intenzionale", o "funzione artistica", ovvero ciò che, agli occhi del suo recettore, conferisce a un oggetto lo statuto di opera d'arte, è il sentimento, fondato o meno, che tale oggetto è stato prodotto in base a un'intenzione, almeno parzialmente estetica"[4]. Primo attore di questa relazione è il soggetto, fruitore dell'opera, la cui supposizione nei confronti dell'oggetto, fondata o meno, è sufficiente ad attribuire all'oggetto medesimo lo statuto di opera d'arte. Soggetto allora come autore di identità artistica. Genette stesso, a sottolineare il ruolo centrale del soggetto nella relazione artistica, specifica che "gli "oggetti estetici" sono in primo luogo oggetti attenzionali, ossia oggetto d'attenzione; un oggetto che non sia (attualmente) attenzionale per qualcuno non può essere (attualmente) "estetico". [.] l'aggettivo estetico non è "disposizionale", ma al contrario "risultativo": non è l'oggetto che rende estetica la relazione, ma la relazione che rende estetico l'oggetto"[5] e "la sola modificazione del soggetto comporta inevitabilmente una modificazione dell'attenzione e dunque dell'oggetto attenzionale"[6]. E' in base alla attribuzione, fondata o meno, da parte del fruitore di un'intenzione estetica all'oggetto cui pone attenzione ("oggetto attenzionale") che dipende la relazione artistica e quindi l'identità che egli attribuisce all'opera.
"lo statuto di opera di un oggetto dipende dunque fondamentalmente dalla considerazione, presso il ricevente, della presenza in esso di una intenzione estetica. Dico però "considerazione" piuttosto che "percezione", perché l'intenzione estetica non è mai sicura (" Vi è un'intenzione?") e ancor meno determinata (" Quale intenzione vi è?") e poiché l'attenzione specifica che conferisce lo statuto di opera d'arte consiste propriamente nell'attribuzione di un'intenzione estetica al produttore dell'oggetto: allo stesso modo in cui un oggetto estetico è per me un oggetto estetico quando entro con esso in una relazione di tipo estetico, è per me un'opera d'arte quando, a torto o a ragione, riferisco questa relazione a un'intenzione autoriale: una roccia può essere (per me) un oggetto "bello"; se imparo (o presumo) che non è una roccia, ma una scultura, tale oggetto cambia statuto ai miei occhi, in quanto il suo aspetto, precedentemente attribuito alla "casualità" dell'erosione, mi rimanda ora all'attività intenzionale di uno scultore e questo rimando, che gli conferisce lo statuto di opera, modifica quasi inevitabilmente il mio apprezzamento. Ancora una volta però, la scelta tra i due statuti può procedere benissimo, non da un'informazione sicura, ma da una semplice ipotesi attenzionale del tipo: "Una simile forma può essere il prodotto del caso" e se mi inganno con facilità (se, senza il minimo dubbio, prendo per una scultura ciò che in effetti è una roccia), il carattere erroneo della mia ipotesi non produrrà alcun mutamento nel carattere artistico della mia relazione a tale oggetto identificato tanto scorrettamente.
Definisco dunque come artistica ogni relazione di questo genere, che si fondi su una identificazione corretta o sbagliata.[7]
L' attribuzione, a torto o a ragione, di un'intenzione estetica al produttore dell'oggetto è il gesto da cui dipende lo statuto artistico di un'opera e che ribadisce, senza incertezze da parte di Genette, il ruolo fondamentale del fruitore, effettivo autore dell'artisticità dell'opera. Artisticità che fino a questo momento sembrerebbe essere considerata esterna all'opera e che si manifesta nella relazione fra l'oggetto e il soggetto interpretante.
La centralità del soggetto è assoluta nell'affermazione "un oggetto è per me un oggetto estetico quando entro con esso in una relazione di tipo estetico, è per me un'opera d'arte quando, a torto o a ragione, riferisco questa relazione a un'intenzione autoriale". Specificando per ben due volte "per me" (il corsivo è dell'autore), Genette precisa e quindi delimita l'estensione di quanto sta dichiarando. Il soggetto, fruitore dell'opera, diventa principio e fine dell'artisticità da egli attribuita, a torto o a ragione, all'oggetto.
Su questa linea la relazione artistica, descritta inizialmente, sembrerebbe mostrare i limiti di un arbitrario soggettivismo. Ma proprio prevenendo tale, non imprevedibile, accusa, Genette vincola, in qualche modo, l'opinione del ricevente a degli "indici oggettivi" in base ai quali tale opinione non può più essere considerata puramente soggettiva e che, un volta accertati, possono delegittimare il soggetto a perseverare in una "relazione artistica" con un oggetto di cui si dimostra la non artisticità..
Ho detto in precedenza che la relazione artistica, ossia l'attribuzione a un oggetto estetico dello statuto di opera d'arte si basava su una duplice ipotesi, fondata o meno circa il carattere di artefatto e l'intenzione estetica del suo produttore. Questa è forse una definizione molto liberale, poiché fa dipendere la natura della relazione solo da un'opinione del ricevente. Bisogna però aggiungere che questa opinione (del ricevente) non è arbitraria, né puramente soggettiva come il giudizio di apprezzamento, perché un'ipotesi si basa essa stessa necessariamente su indici oggettivi, bene o male percepiti e interpretati: suppongo che tale oggetto è un artefatto, perché credo di scorgervi l'effetto deliberato di un attività produttrice e trasformatrice, suppongo che esso proceda da un'intenzione estetica perché dubito che l'aspetto in virtù del quale suscita da parte mia un apprezzamento positivo possa essere involontario, o perché mi sembra appartenere a una classe di oggetti ordinatamente ritenuti artistici, ecc., e il carattere artistico della mia relazione a questo oggetto dipende interamente, se non dalla verità delle mie congetture, almeno dalla mia credenza in questa verità - credenza che può eventualmente venire distrutta da un'informazione contraria che la smentirà. Lo statuto della relazione artistica non è pertanto identico a quello della semplice relazione estetica: non si può confutare un apprezzamento, ma si può confutare un'ipotesi. Se mi si dimostra chiaramente che un oggetto che mi piace non è un'opera d'arte, questa dimostrazione non ha alcuna ragione di rovinare la mia relazione estetica a tale oggetto, ma rovinerà di certo il carattere artistico della relazione, e non sarò in alcun modo legittimato a perseverare in essa.[8]
Afferma Genette che l'opinione del soggetto non è arbitraria, né puramente soggettiva perché trattasi di un'ipotesi e in quanto tale fondata essa stessa necessariamente su indici oggettivi, anche se bene o male (soggettivamente) percepiti e interpretati. L'obiettività dell'opinione soggettiva dovrebbe derivare da un ipotesi fatta dal soggetto in base ad indici che sono obiettivi anche se male interpretati. Ipotesi che può essere smentita nel momento in cui "mi si dimostra chiaramente che un oggetto che mi piace non è un'opera d'arte". Ecco che comincia ad emergere nel discorso di Genette, che ha privilegiato finora l'aspetto relazionale della funzione artistica, un atteggiamento di tipo ontologistico rilevabile nelle affermazioni circa una oggettività dell'artisticità dell'opera, esterna alla relazione artistica e con il potere di delegittimare tale relazione. Non si può fare a meno di chiedersi a chi o a che cosa Genette riconosca tale autorità? Chi possa dimostrare chiaramente che un oggetto che mi piace non è un'opera d'arte? L'opera stessa attraverso alcuna sue caratteristiche specifiche o un garante di artisticità esterno all'oggetto le cui asserzioni risultano incontrovertibili? Secondo Genette il soggetto ("soggetto ingenuo" come Genette stesso lo definisce altrove) può stabilire una relazione artistica praticamente con qualsiasi oggetto, arrivando a considerare opera d'arte una montagna, esponendosi però all'amara delusione di essere smentito dai fatti che lo delegittimano a perseverare in tale impropria e inammissibile relazione.
Se ingenuamente prendo il Cervino per un'opera d'arte, con le conseguenze che questa credenza comporta sulla mia relazione estetica a questa montagna, si tratta di una articità puramente attenzionale che si rivelerà tale una volta smentita nei fatti - facile smentita, e dunque molto probabile; se assumo l'insieme delle pitture di Lascaux come un'opera d'arte, questa articità condizionale si basa implicitamente su un'ipotesi estetica forse giusta, ed essa è dunque al contempo certamente attenzionale e possibilmente costitutiva. Ma una simile conferma non è molto plausibile, non solamente perché probabilmente le "prove" o testimonianze necessarie ci mancheranno sempre, ma anche e soprattutto perché ci sono poche possibilità che il campo concettuale degli uomini dell'età magdaleniana fosse strutturato in modo tale che vi fosse spazio per una nozione di intenzione artistica esattamente identica alla nostra [.]. La mia ipotesi implicita non può dunque essere di fatto, né completamente giusta, né completamente falsa, e lo stesso avviene forse a proposito degli artefatti prodotti entro società "primitive" contemporanee: le testimonianze sul loro "statuto nativo" che un etnologo può ancora raccogliere probabilmente non sono suscettibili di essere fedelmente tradotte parola per parola, e ciò impedisce di stabilire una relazione precisa , di identità o di differenza tra questo statuto (e l'intenzione che vi presiede) e quello delle nostre "opere d'arte". Si coglie certamente la labilità di queste distinzioni: forse sarebbe meglio dire che talune articità sono più costitutive di altre - e ammettere una volta di più che questa gradazione non ha molta importanza sul piano estetico, poiché un'articità puramente attenzionale, perfino del tutto illusoria, può avere ripercussioni sulla relazione estetica tanto quanto un'articità costitutiva (e, beninteso, più di un'articità costitutiva non percepita): una credenza non ha bisogno di essere fondata per essere attiva, e una pittura rupestre o una maschera africana non hanno bisogno di essere state prodotte come opere d'arte per essere recepite e funzionare come tali, oggi e per la maggioranza delle persone. Risolvibile o meno, la questione circa la loro intenzione originaria concerne legittimamente la storia, ma non l'estetica.[9]
"Una credenza non ha bisogno di essere fondata per essere attiva, e una pittura rupestre o una maschera africana non hanno bisogno di essere state prodotte come opere d'arte per essere recepite e funzionare come tali, oggi e per la maggioranza delle persone". Come non essere d'accordo con queste affermazioni! Sono questi i fatti da tener presenti in un'analisi corretta del problema dell'identità dell'opera d'arte. La storia dell'arte del Novecento si caratterizza dall'ingresso nei circuiti artistici di oggetti nati non necessariamente come opere d'arte. Il ready-made di Duchamp ne è un chiaro e inequivocabile esempio. Ma probabilmente queste conclusioni non sono nelle intenzioni di Genette e per evitare una "arbitraria" interpretazione del suo pensiero lasciamo che siano le sue parole a chiarirci meglio la sua posizione al riguardo.
"Benché esposto in un museo d'arte, un oggetto naturale, come un semplice sasso, o come il ramo scelto da Magnelli e posto in mostra poco tempo fa al MNAM (Musée National d'Art Moderne), può funzionare "come" oggetto estetico, ma non come opera d'arte, a meno che non venga recepito, in tal caso in maniera errata (ma non è difficile immaginare uno scultore che produca volontariamente un oggetto a forma di sasso o di ramo), come se procedesse da un'intenzione estetica produttrice; in maniera errata, perché una semplice scelta non è un'intenzione produttrice nel senso in cui l'intendo io."[10]
Sono affermazioni che lasciano pochi dubbi circa le convinzioni di Genette. "Benché esposto in un museo d'arte un oggetto naturale può funzionare "come" oggetto estetico, ma non come opera d'arte" perché una semplice scelta non è un'intenzione produttrice nel senso in cui l'intendo io" Dichiarazioni - che sembrano avere più a che fare con la poetica che non con l'estetica correttamente intesa - in cui Genette arriva a negare l'artisticità e quindi il funzionamento come opera d'arte di oggetti che di fatto lo sono per la nostra cultura.
L'atteggiamento di Genette ha una spiegazione nella definizione che egli dà dell'opera d'arte.
La definizione dell'opera d'arte come oggetto estetico attenzionale, o indifferentemente come artefatto a funzione estetica può "essere interpretata o in maniera oggettiva e ontologica ("per essere un'opera d'arte un oggetto deve procedere effettivamente da un'intenzione estetica") o in maniera soggettiva e funzionale (" per funzionare come un'opera d'arte, un oggetto deve essere recepito come derivante da un'intenzione estetica"). Le articità[11] del primo tipo sono evidentemente le articità "costitutive", il cui carattere intenzionale è più o meno oggettivamente stabilito, sia per mezzo di testimonianze storiche che in virtù di un'appartenenza generica palese e determinante (un quadro, una poesia o una sinfonia hanno poche possibilità di essere oggetti privi di intenzione estetica); quelle del secondo tipo sono le articità occasionali, o "condizionali" - che qualificherei più volentieri come attenzionali, ossia in conclusione: il cui carattere intenzionale è dell'ordine dell'ipotesi attenzionale, che questa ipotesi sia fondata o no - ciò implica evidentemente che talune articità attenzionali sono parimenti costitutive[12].
Il sospetto di un atteggiamento ontologistico in Genette sta diventando sempre più fondato. Ontologismo in sistema con gli aspetti relazionali dichiarati inizialmente per giungere alla formulazione di una teoria che presenta aspetti sì extra-testuali ma vincolata ideologicamente alla produzione di una qualche testualità. Se da una parte la causa dell'artisticità dell'opera viene individuata al di fuori dell'opera stessa nella relazione fra oggetto e soggetto divenendo quest'ultimo autore dell'identità artistica dell'oggetto, dall'altra Genette pone delle condizioni oggettive di artisticità che sono individuate nel fatto che l'opera deve essere necessariamente prodotta da un essere umano e con finalità estetica: una sorta di extratestualità "demiurgica" per cui l'artista può delegare l'artisticità solo all'opera fatta da egli stesso
Non solamente per funzionare come opera d'arte, ma per essere un'opera d'arte, un oggetto deve essere effettivamente prodotto da un essere umano; e siccome questa condizione necessaria non è sufficiente, poiché un martello non è (sempre) un'opera d'arte, bisogna dunque introdurne un'altra, che è la nostra attenzione estetica: un martello può essere oggettivamente un'opera d'arte se in effetti comporta un'intenzione estetica, e può funzionare come (e non come mero un "oggetto estetico" occasionale) solo se il suo ricevente gli attribuisce , a torto o a ragione, un'intenzione estetica.[13]
Si ripropone l'eterno dilemma del rapporto fra soggetto empirico e soggetto funzionale che Genette trasporta in campo estetico postulando l'esistenza di due tipi distinti di "articità" una "funzionale" basata sull'attenzione da parte del soggetto (articità attenzionale) e una "costitutiva" a partire dall'oggetto stesso (articità costitutiva).
Un oggetto è un'opera se è stato effettivamente prodotto con un'intenzione estetica; esso funziona come un'opera quando gli si attribuisce una simile intenzione, e le due condizioni sono in gran parte indipendenti l'una dall'altra: capita che lo scopo estetico venga ignorato, e ciò non gli impedisce di essere esistito, capita che esso venga attribuito a torto, e ciò non impedisce a questa attribuzione di agire. Insomma la prima domanda ( che cosa? ) è altrettanto legittima della seconda (quando?), e la sua risposta non è sempre inaccessibile e non dipende dalla risposta alla seconda. [.] Le due domande sono legittime, ma solo la seconda concerne direttamente la relazione artistica; la prima la riguarda solo attraverso la seconda, ed è in questo senso - e, mi sembra in definitiva, in nessun altro - che il cosa dipende dal quando. [.] La relazione artistica, ossia il fatto di un oggetto di funzionare come un'opera, non dipende infatti necessariamente dallo statuto oggettivo di tale oggetto.[14]
"Articità attenzionale" e "relazione artistica" sono dunque sinonimi in Genette. Entrambi sottendono un atteggiamento dinamico basato sull'attenzione del soggetto che conferisce a un oggetto un'intenzione estetica. Intenzione che coincide anche con l'auspicio dell'artista di ottenere un apprezzamento positivo dell'opera da egli stesso creata.
La "funzione estetica" che definisce un artefatto come opera d'arte è evidentemente intenzionale - senza di che essa sarebbe solo un mero effetto - e, daccapo, vi sono poche possibilità che questa intenzione (l'auspicio dell'artista) sia di ottenere un apprezzamento negativo o neutro; ma percepire, a torto o a ragione, in un oggetto la "domanda" [.] è pienamente sufficiente per identificarla come opera, qualunque sia la risposta, positiva, negativa o neutra, che sia dia a tale domanda.
Una volta posta la domanda non è necessario per l'identità dell'opera ottenere la risposta auspicata dall'artista: l'apprezzamento artistico, afferma Genette, in ciò che ha di specifico "non può essere sufficiente a stabilire oggettivamente il carattere artistico del suo oggetto".
non è necessario per ottenere lo statuto di opera d'arte, "meritare" un apprezzamento positivo[15]
Il "merito" non può essere un criterio di "articità". E' piuttosto la presenza, anche solo supposta, nell'opera della richiesta di apprezzamento che permette di identificarla come opera d'arte.
Che la presenza di una candidatura o di una "pretesa" all'apprezzamento positivo [.] definisca l'opera in generale (distinguendola dal "semplice" oggetto naturale o artefattuale che invece non ambisce a nulla e nei confronti del quale l'attenzione estetica dipende da una libera scelta), e che il riconoscimento o la presupposizione di tale candidatura fondi l'identificazione di un oggetto come opera, non comporta affatto che l'accoglienza favorevole concessa a questa candidatura (detto altrimenti: il suo successo) costituisca la condizione necessaria di una definizione teorica o di una identificazione pratica. [.] L'opera richiede un apprezzamento (positivo), ed è questa domanda che la definisce in quanto tale, non l'apprezzamento in quanto "esteticamente corretta" che essa ottiene o non ottiene. La domanda in se stessa è un semplice stato di fatto, il suo riconoscimento o presupposizione è un altro, e in tutto ciò nulla coinvolge la dimensione assiologia dell'apprezzamento positivo nella definizione generale o nell'identificazione individuale dell'opera. Dopo tutto, essere una domanda - e anche giungere a farsi riconoscere come tale - non garantisce, e dunque non implica, alcuna risposta[16].
Alla candidatura posta dall'opera d'arte, il riconoscimento del suo carattere d'opera (del suo atto artistico), che comporta ipso facto una considerazione estetica, costituisce una risposta illocutoriamente sufficiente, anche se tale riconoscimento consiste in un apprezzamento negativo, e dunque poco gratificante: "Non vale niente" vale in questo caso come brevetto di articità. Probabilmente non è quello che desiderava l'artista, e forse, al limite, egli preferirebbe che io ammirassi la sua opera senza riconoscervi un'opera, come chi chiede l'ora si accontenterebbe se il suo interlocutore, del tutto casualmente e senza aver compreso la domanda, gli lasciasse veder il proprio orologio nell'atto di indicare il cielo; ma questo stesso malinteso rivela ciò che volevo dimostrare:la differenza, e perfino la mancanza di rapporto, tra la definizione (e l'identificazione) dell'opera come tale e il suo aprrezzamento positivo. [.] Il riconoscimento è costitutivo dello statuto (categoriale) d'opera, [.] l'apprezzamento è solo normativo (assiologico): come non è necessario, per giocare effettivamente una partita di scacchi, vincere nemmeno una partita, bensì rispettare i movimenti dei pezzi, così non è necessario, per ottenere lo statuto di opera d'arte, "meritare" un apprezzamento positivo, ma soltanto palesare che lo si sta sollecitando[17].
E' sulla supposizione di una candidatura manifesta sull'opera che si apre il momento del confronto con l'altro studioso, Luciano Nanni. Il rilevamento della presenza di una domanda attiva sull'opera, a tutta prima, potrebbe far pensare a un punto di contatto fra Genette e Nanni, in realtà proprio su questa affermazione è possibile cogliere una differenza importante fra le teorie dei due estetologi.
Secondo Nanni affinché un oggetto diventi un'opera d'arte è necessario che su questo oggetto sia attiva una domanda. A differenza di quanto sostiene Genette, in Luciano Nanni non si tratta di una domanda di apprezzamento positivo da parte dell'artista, ma della richiesta che all'oggetto venga riconosciuta l'identità di opera d'arte: non una richiesta di apprezzamento bensì di identità, nel caso identità artistica. La presenza di tale proposta-domanda manifesta che sull'oggetto in questione è attiva quella che Nanni definisce la funzione specificatrice.
Nella teoria elaborata da Nanni la vita dell'opera d'arte è definita da tre funzioni: funzione costruttrice, con la quale la poetica presiede alla nascita dell'opera in quanto semplice prodotto dell'umana attività; funzione specificatrice che presiede alla nascita dell'artisticità dell'oggetto; funzione critica che si manifesta nell'uso in senso artistico dell'opera. Delle tre funzioni la funzione specificatrice è l'unica che non può mancare se si vuole avere l'arte perché è tramite questa seconda funzione, specificatrice d'artisticità, che viene formulata la richiesta che a quell'oggetto venga riconosciuta l'identità di opera d'arte. Se la funzione costruttrice può non essere necessaria - si pensi alle opere ready-made come Lo scolabottiglie di Duchamp che non è stato materialmente costruito dall'artista - quella specificatrice è indispensabile.
Impossibile avere l'arte senza la presenza della funzione specificatrice. A meno che non si pensi all'arte come a qualcosa dotato di un'essenza propria, di natura, manifestatesi per epifania e che a noi richiederebbe solo la buona predisposizione a riconoscerla. Ma la storia ci ha insegnato che così non è: ci ha insegnato che le concezioni dell'arte (le poetiche) sono mobili come la storia stessa e che tutto può divenire arte: dalla "Gioconda" alla "Merda d'artista" allo "Scolabottiglie" e così via. E se così è, qualcosa non nasce come arte, ma dopo che è nato, può essere proposto come arte. Proposta che in realtà ospita poi sempre al proprio interno una domanda:la domanda che quel qualcosa appunto venga usato come arte. [18]
Proposta-domanda fatta dalla poetica in vari modi " ma sempre per via metatestuale, vale a dire accompagnando l'opera, che ha intenzione di far vivere come arte, con fattori specificanti questa sua intenzione, esterni all'opera stessa. E se per via testuale, con fattori, diciamo, bifronti, fattori insomma che, accanto a una loro funzione testuale si carichino anche di quella metatestuale."[19] Fattori di artisticità che Nanni, in base al modo in cui agiscono, suddivide in modalità diretta e modalità indiretta. In Modalità diretta sono tutte quelle scritture apposte al testo (es. poesia, tragedia, sinfonia, ecc.) che non fanno parte del testo, in quanto non lo completano in nessun modo, e che se mancano questo non perde la sua completezza. Può perdere invece (si pensi ad esempio al ready-made) la sua identità d'arte, a meno che, il fattore di specificità artistica non sia vicariato da qualche altro. Di solito un'opera è accompagnata da più fattori di artisticità. La modalità indiretta propone l'artisticità per l'opera tramite il ricorso a fattori che hanno, questa volta, diretto rapporto con l'arte e che possono essere circostanziali o contestuali a seconda che si tratti della circostanza (l'esposizione dell'opera in una galleria d'arte, la pubblicazione in una collana di poesia, l'esecuzione in teatro) o di qualche elemento interno al testo stesso (ad es. la rima in poesia). Più frequentemente più fattori di artisticità coesistono in una medesima opera.
Della presenza dei fattori di artisticità e della loro importanza nella specificazione di un'opera d'arte lo stesso Genette sembra essersi reso conto. Affermare che "un quadro, una poesia o una sinfonia hanno poche possibilità di essere oggetti privi di intenzione estetica"[20] e che oggetti ( per esempio manufatti etnici), che nel loro contesto originario non sono considerati arte, possono diventarlo per "analogia tecnica" con - perchè presentano caratteristiche (fattori di artisticità) simili a - artefatti (es.sculture) ritenuti dalla nostra cultura costitutivamente artistici, può essere considerato un indiretto riconoscimento della presenza della funzione specificatrice. La "pertinenza estetica" riconosciuta da Genette ai dati tecnici di un'opera potrebbe essere considerata un'ulteriore, non dichiarata, ammissione dell'esistenza e dell'importanza dei fattori di artisticità. Ma ancora una volta l'impressione di forzare il pensiero di Genette verso una direzione che, perlomeno apertamente, egli non ha seguito deve farci desistere dal continuare in interpretazioni troppo facilmente esposte all'accusa di arbitrarietà ritornando a quanto egli ha effettivamente affermato a tal proposito.
Le opere d'arte presentano questa duplice caratteristica, la cui contraddittorietà è solo apparente: da una parte, e a causa della loro intenzionalità (della loro candidatura) specifica, sollecitano, esclusivamente o al di là della loro eventuale funzione pratica, un'attenzione estetica più costitutiva di quella che si può attribuire arbitrariamente agli "oggetti estetici" puramente attenzionali (oggetti naturali, artefatti consueti); d'altra parte però, e a causa di quella stessa intenzionalità, esse mobilitano a proprio servizio mezzi tecnici che, per quanto poco li si conosca, riguardano la funzione estetica delle opere quando, e nella misura in cui, influiscono sul loro apprezzamento. Questa pertinenza estetica dei dati tecnici mi sembra che costituisca il fattore essenziale dello statuto particolare delle opere d'arte [.]: gli oggetti naturali, in quanto fondamentalmente non intenzionali, effetti del caso e della necessità, non presentano alcuna caratteristica che si possa qualificare, in senso forte, come "tecnica", e gli oggetti d'uso, nella misura assai variabile in cui li si ritenga esteticamente non intenzionali, presentano certamente caratteristiche tecniche, la cui incidenza estetica tuttavia è dubbia, talvolta perfino patentemente nulla.[21]
La pertinenza estetica dei dati tecnici costituisce il fattore essenziale dello statuto particolare delle opere d'arte ma tale pertinenza estetica dei dati tecnici acquista valore in una concezione dell'opera d'arte come manufatto a finalità estetica. L'opera, afferma Genette, per essere "costitutivamente" opera d'arte "deve essere effettivamente prodotta da un essere umano", disconoscendo di fatto tutte le opere "indiscernibili" da oggetti naturali e da oggetti d'uso, per le quali l'incidenza estetica delle caratteristiche tecniche è, secondo Genette,"dubbia, talvolta perfino patentemente nulla". In queste affermazioni il significato dell'atteggiamento di Genette a proposito del ramo di Magnelli, posto in mostra al MNAM, cui egli non riconosce non solo uno statuto artistico ma neppure un funzionamento artistico nonostante si trovi in un museo d'arte moderna. Posizione, quanto meno discutibile, che sembra sostenuta più che da un corretto procedimento teorico da un vero e proprio atteggiamento critico.
Non si vuole negare che l'artisticità di un'opera vada necessariamente rapportata al concetto di arte elaborato da una poetica. Le poetiche possono essere a soggetto singolo, di gruppo o collettivo. In una poetica a soggetto singolo un'opera può essere arte solo per colui che l'ha creata facendone il correlato oggettivo della propria personale poetica. Oppure l'opera può entrare in circuito limitato a un gruppo i cui partecipanti condividono una stessa idea di arte di cui l'opera rappresenta una esemplificazione. Se la poetica invece è elaborata, accettata e condivisa da un'intera cultura l'opera sarà riconosciuta come arte a livello collettivo e vivrà nelle strutture che la società destina alla fruizione delle opere, ad es. musei, teatri ecc. Poetica a soggetto diffuso che non è completa in nessuno dei suoi utenti ma nella coscienza collettiva dove vive come competenza profonda, congetturabile a partire dai comportamenti della cultura che costituisce. Una poetica individuale non può che coincidere con un atteggiamento critico, non dissimile qualitativamente da un apprezzamento, legittimo ma solo a livello interpretativo personale e ideologica diventa ogni arbitraria estensione di tale concezione a un ambito che non sia quello di chi ha espresso l'opinione in merito. Non è colpevole optare per un atteggiamento o per l'altro, l'importante è avere presente cosa effettivamente stiamo facendo. Genette è libero di raccontarci il proprio punto di vista e noi in altrettanta libertà possiamo decidere di condividerlo o meno, se però tenta di far passare come epistemologico un atteggiamento critico sentiamo doveroso prendere le distanze. Estetica e poetica sono due cose distinte che tali devono restare in una corretta ricerca teorica. Interessante anche su questo punto il confronto con l'altro teorico. Nanni a tal proposito mette in guardia da simili trappole teoriche in cui possono incorrere studiosi non sufficientemente attenti.
Nella più corretta, a mio parere, riflessione sulla vita dell'arte nel Novecento circolano ormai in coppia due termini "poetica" ed "estetica", il primo per indicare il punto di vista produttivo dell'arte e l'altro per indicarne invece il punto di vista di chi se la prende cognitivamente (scientificamente) in carico. Ecco, se si vuol fare scienza corretta dell'arte non bisogna confonderli.[22]
Con-fusione che va benissimo, purché si accetti di ridurre l'estetica a una semplice poetica e l'estetologo a un semplice artista (anche se solo virtuale) tra i tanti possibili. Purché si accetti insomma di non fare dell'estetica una scienza, per la quale infatti la distinzione pare proprio inevitabile.[23]
Un conto sono le poetiche, pratiche legittimamente definitorie in modo dogmatico, sintetiche e produttive: pensiero etico, pratiche etiche insomma nei miei termini. E un conto è l'estetica. Orizzonte puramente teso a comprendere quanto il campo delle poetiche attiva e variamente mette in campo (le opere d'arte) e divide tra loro relaziona secondo moti, continui e discontinui insieme, che sono quelli della vita. Arte (poetiche) uguale vita. Estetica uguale a riflessione sulla vita. Guai ad un'estetica che si facesse contaminare dai modi delle poetiche e dell'arte. Morirebbe come estetica e vivrebbe semplicemente come una poetica tra le altre (tante) senza più alcuna legittimazione a comprenderle.[24]
La differenza fra estetica e poetica è ben presente a Genette. Nell'introduzione del volume preso in esame presenta la sua "teoria (meta)estetica" come una ricognizione descrittiva dei molteplici modi di esistenza degli artefatti a funzione estetica, chiamati comunemente opere d'arte, schierandosi dichiaratamente dalla parte dell'estetica concepita "non come una filosofia della critica bensì come un'analisi della ricezione estetica comune".[25]
L'estetica non ha la funzione di giustificare né di fustigare la relazione estetica, ma se possibile di definirla, descriverla e analizzarla.[26]
E' la scelta per l'opzione scientifica, descrittiva, analitica, - ideazione secondaria nella terminologia di Nanni - distinta dall'opzione critica, sintetica dell'ideazione primaria. Al primo livello il pensiero teso a produrre arte, le poetiche, al secondo livello il pensiero teso a comprendere e descrivere quanto viene prodotto a livello primario e quindi l'estetica. Un'estetica che ha scelto di far proprio il metodo scientifico, e non si vede quale altra possibilità vi sia in una ricerca corretta, afferma Nanni, non potrà che attestarsi a livello secondario come visione dis-interessata (alla lettera dis-inter-esse = non essere dentro) dei fatti che vuole descrivere.
Solo facendo proprie le consapevolezze critiche elaborate dalla teoria del comprendere (del descrivere) in generale, può l'estetica conquistare la propria autonomia, cioè a dire riuscire a darci ragione (a tentare almeno di darci ragione) di ciò che in nessun altra regione del comprendere stesso viene adeguatamente compreso, voglio dire dell'arte e della sua vita[27].
L'estetica concepita da Nanni è una scienza che pone il suo oggetto di studio nell'arte: un'estetica in chiave "galileiana", letta per via scientifica, secondo una sua teleologia esplicativa ed empirica che si traduce nell'opzione per la descrizione contro la normatività o etica e prevede l'osservanza di alcuni principi di fondo:
"Elaborare modelli di comprensione facendoseli suggerire dall'identità del proprio oggetto di studio. Cosa che è possibile solo attraverso la messa in parentesi, epoché, da parte del descrittore, della sua cultura, affinché appaia alla sua mente quella che sta studiando. E se è praticamente impossibile per noi esseri umani liberarci completamente dei nostri paradigmi culturali, arrivando a una sorta di tabula rasa, è allora importante non confondere i due ruoli, diversi tra loro, che un punto di vista può svolgere: in mano alla funzione etica (pratica) produce cose; in mano a quella epistemica chiede di essere, in forma di queste cose, conosciuto.
Evitare di cadere nella dimensione normativa o etica. Ogni slittamento di questo tipo trasformerebbe il descrittore in produttore, cioè nel suo contrario.
Rinuncia allo statuto di disciplina dell'estetica stessa. Mettersi direttamente a disciplinare l'arte e il suo mondo (cassare questo o quel tipo di arte e dar fiato ad altri) sarebbe un cadere ancora nello slittamento etico di cui s'è appena detto.
Le premesse poste da Genette non sembrano, sulla base di quanto viene dichiarato, in contrasto con quelle di Nanni. Per entrambi gli studiosi la via da seguire è quella analitico-descrittiva rinunciando a una funzione normativa e critica dell'estetica. Secondo Nanni questo sano atteggiamento epistemologico si raggiunge attraverso un'attenzione costante a mantenere separati i due livelli, descrittivo e critico. Un tale rigore metologico non è sempre riscontrabile in Genette.
"Benché esposto in un museo d'arte, un oggetto naturale, come un semplice sasso, o come il ramo scelto da Magnelli e posto in mostra poco tempo fa al MNAM (Musée National d'Art Moderne), può funzionare "come" oggetto estetico, ma non come opera d'arte, a meno che non venga recepito, in tal caso in maniera errata (ma non è difficile immaginare uno scultore che produca volontariamente un oggetto a forma di sasso o di ramo), come se procedesse da un'intenzione estetica produttrice; in maniera errata, perché una semplice scelta non è un'intenzione produttrice nel senso in cui l'intendo io."[28]
Affermazioni di tal genere non hanno propriamente il tono di un atteggiamento descrittivo. L'impressione è che i fatti prima che compresi e descritti vengano giudicati da Genette sulla base di una concezione personale di arte ("nel senso in cui l'intendo io") che arriva a negare l'artisticità di oggetti che funzionano già come opere d'arte nella nostra cultura. Le teorie dovrebbero spiegare i fatti e non piegarli a propria giustificazione anche perché tra le teorie e i fatti sono quest'ultimi che alla fine l'hanno vinta. E i fatti, sotto gli occhi di tutti, ci mostrano che nei musei troviamo, funzionalizzati come opere d'arte, oggetti di ogni genere e non certo perché il museo ha cambiato destinazione d'uso. Cosa dunque fa sì che uno scolabottiglie o un ramo possano essere ospitati in un museo al pari di un Van Gogh?
La tipologia delle opere d'arte contemporanea è talmente varia da escludere che sia l'oggetto in sé, per come è fatto, a determinare la propria artisticità. Il singolo soggetto può decidere l'identità artistica su un oggetto ma solo accettando che tale affermazione assuma il valore di una poetica individuale, che se vuole avere una validità estesa alla collettività deve necessariamente confrontarsi con le poetiche a soggetto diffuso elaborate dalla cultura, in cui si trova a essere compresa. E l'estetica, così come la intende Nanni e, nelle premesse, anche Genette, "non vuole indagare la concezione dell'arte di questo o quell'autore, di questo o quel gruppo particolare, ma di tutta la comunità che li ingloba, nel caso quella della nostra contemporanea, occidentale, cultura in particolare e naturalmente della cultura orientale occidentalizzata."[29] In una parola la nostra poetica, di noi tutti, che ne siamo consapevoli o no, indistintamente. Poetica che, come la lingua per De Saussure, non è completa in nessuno dei suoi utenti, ma solo nella coscienza collettiva, dove vive come competenza profonda nei comportamenti della cultura (dell'epoca) che costituisce e che, essendo a soggetto diffuso, non si dichiara direttamente: "all'estetologo il compito di congetturarla (di portarla a coscienza) a partire appunto da tali diffusi comportamenti."[30] E se intendiamo la poetica, secondo la definizione di Nanni, come il pensiero teso a fare, a progettare, a produrre l'arte, la "poetica a soggetto diffuso" non può che essere il progetto coincidente con la messa in opera di un modo di usare le opere prodotte da poetiche a soggetto singolo o di gruppo. E' alla poetica collettiva che la poetica individuale dell'artista rivolge la domanda posta tramite la funzione specificatrice. Ed è qui che tale domanda-proposta di artisticità può essere accolta e cominciare la vita pubblica dell'opera d'arte.
Genette sembra non vedere quanto è sotto i suoi occhi spostando l'attenzione, alternativamente o in sistema, fra i tre poli della questione, ora sull'intenzione del produttore (articità costitutive), ora sull'opera (un manufatto a intenzione estetica), ora sull'attenzione del fruitore (articità attenzionali), non accorgendosi dell'esistenza di un altro, fondamentale, elemento, che non viene messo sufficientemente a fuoco perché talmente cointessuto agli altri da non emergere come presenza determinante. Ma ciò che si dà per scontato non per questo non esiste: riferire l'artisticità di un oggetto all'intenzioni dell'autore, ma sia pure dell'opera o del lettore significa non rendersi conto che esiste un'intenzione superiore che tutte le contiene e ne è sostrato. Una delle caratteristiche di un buon teorico (etimologicamente da theorein = "guardare") dovrebbe essere l'acuità visiva, ma per mettere a fuoco gli oggetti bisogna trovarsi alla giusta (epistemologica) distanza.
Il confronto fra i due autori su questo punto fa emergere quanto le loro posizioni, partite da principi, almeno dichiaratamente, simili, finiscano per divergere giungendo a conclusioni distinte.
Nanni compone in un aneddoto la spiegazione del fenomeno.
Proporre le tre intenzioni[31] indicate come perimetro sufficiente a dare ragione del costituirsi dell'artisticità di una qualche entità e dei suoi movimenti, sarebbe come pensare di poter dare ragione dell'identità di "barca" di una barca, ricorrendo unicamente all'intenzione del suo costruttore, della barca stessa (se così si può dire) e a quella del barcaiolo che la usa , dimenticandone un'altra ben più importante e profonda, non quarta rispetto ad esse, ma prima, perché loro matrice appunto profonda. Intenzione di cui quelle tre sono semplicemente la fenomenologia di superficie, pronte a svanire alla sua scomparsa, come scompare la neve al sole. Intendo l'intenzione (la logica) del mare. Solo il mare, solo il luogo-mare e la sua logica possono darci esaurientemente ragione dell'essere "barca", del suo costruttore, del barcaiolo oltre che dei loro rapporti. Non altro. Pensate a una terra senz'acqua: barca, costruttore di barche e barcaiolo svanirebbero nel nulla. Intenzione questa del mare, che in ambito culturale ho proposto di chiamare intentio culturae e che ha nei luoghi collettivi i suoi fisici significanti.[32]
Luoghi collettivi di cui fanno parte gallerie d'arte, teatri, musei, ecc. Luoghi destinati dalla nostra cultura ad un uso specifico, capaci di rifunzionalizzare gli oggetti che ospitano al loro interno. Se così non fosse dovremmo ammettere che lo scolabottiglie di Duchamp resta allora l'oggetto che è, sia che si trovi nel negozio del cantiniere che in un museo. Cosa, d'altronde, che fa Genette quando afferma che il ramo di Magnelli benché esposto al MNAM (Musée National d'Art Moderne) non può funzionare come opera d'arte, legando l'identità artistica dell'opera all'oggetto stesso e non alla funzione che si trova a esprimere. Funzione che ovviamente non è la stessa se l'oggetto, lo stesso oggetto materialmente inteso, si trova in un bosco o esposto in un museo, così come non sarebbe la stessa cosa se invece che in un museo di arte moderna fosse ospitato in museo di botanica. Ma non sto dicendo niente di così incredibile che possa sconvolgere le certezze che regolano la nostra vita. Tutti noi, appartenenti ad una stessa occidentale cultura, viviamo all'interno di un sistema di relazioni retto da conoscenze condivise che ci permettono di muoverci e usare oggetti e luoghi con una certa competenza e disinvoltura nella quotidianità. Sappiamo, ad esempio, senza dover andare necessariamente ogni volta ad accertarsi di persona, cosa troveremo dentro un'università o una fabbrica o un ospedale. Lo stesso vale per i musei o per i teatri, e per tutti i cosiddetti "luoghi della cultura e dell'arte": in un museo d'arte troveremo sicuramente opere d'arte; anche se il museo è d'arte contemporanea e al suo interno può sembrare sia stato allestito un mercato di bric-à-brac e magari all'incauto visitatore può capitare di scambiare un appendiabiti per un'opera d'arte o per lavori in corso una installazione. Il contesto funzionalizza gli oggetti che contiene. Gli stessi oggetti, gli stessi gesti esprimono funzioni e quindi assumono identità diverse a seconda del contesto in cui sono collocati. Non vedere questo significa negare quanto di fatto avviene all'interno della nostra cultura. È a partire dai fatti che Nanni congettura la "potenza costitutiva dei luoghi".
Supponiamo che un alieno arrivi sul nostro pianeta e che, impossessatosi d'acchito non si vede infatti perché, in lui, non dovrebbe essere finalmente attiva allo stato puro quella prensile fantasia catalettica, che invece a noi, malgrado i noti auspici degli stoici, fa ancora tanto difetto) dell'insieme del nostro lessico e di tutte le sue regole per usarlo, voglia subito formulare, anche lui, la domanda correntemente capace di fargli assaggiare quella strana cosa che noi chiamiamo caffè. Gli basterà, per ottenerlo, operare sull'indeterminato (sull'entropico) campo del lessico e delle sue regole combinatorie la doppia selezione (la doppia scelta, la doppia determinazione o messa a fuoco che dir si voglia) delle cinque fonie - quattro le parole e una, l'intonazione interrogativa - da un lato, e della regola (anch'essa tra le tante) della loro unione (nel caso: pronome + verbo + articolo, ecc.)? Evidentemente no e credo che siamo tutti d'accordo. Sarà infatti necessario che tale messa a punto (messa in determinazione) del linguaggio, al fine di ottenere codesto benedetto caffè, avvenga all'interno di un bar o, se volete - concedo - , in qualsiasi altro luogo, ma non, per esempio, da un palcoscenico, all'interno di una recita. Ve la immaginate la sorpresa del nostro alieno, nel caso avesse a chiedere a qualcuno del pubblico un caffè da tale luogo? Nessuno si alzerebbe a portarglielo e anche se un barman, casualmente presente in sala, avesse (sovrappensiero facciamo, per condizionamenti alla Pavlov, tanto per intenderci) ad alzarsi e a portarglielo, nessuno (cosa ancora più shockante per il nostro alieno) riuscirebbe a vivere come reale tale evento. Se poi il nostro alieno avesse anche a berlo, questo caffè, nessuno (colmo della beffa) penserebbe che egli ha realmente bevuto un caffè, ma soltanto che egli ha recitato (come dire?) la "bevuta" di un caffè e nulla più. Con sua grande sorpresa, il nostro alieno si accorgerebbe che per possedere una lingua non basta possederne il lessico e il codice combinatorio (grammatica e sintassi), ma occorre possederne anche le convenzioni (i meta-codici, diciamo così) d'uso: questi soltanto sono capaci di far lingua una lingua, tanto in senso non-referenziale che referenziale (comunicativo, in senso stretto).[.] E' soltanto l'a priori delle istituzioni, dei luoghi, dentro i quali tale esecuzione avviene, che ci dice che cosa dobbiamo poi farne di tale esecuzione determinata, in che senso dobbiamo poi usarla. Luoghi (istituzioni) raggruppabili, per noi - oggi -, in almeno due grandi classi logiche: quelli (tutti) dell'arte e quelli (tutti) non dell'arte. Teatro nella prima classe, ma anche (che so) galleria d'arte, collane di poesia, di narrativa, ecc., vicariabili, si capisce, da una loro semplice indicazione semiosica, magari sotto forma di titolo apposto all'opera stessa. Per esempio quello di "poesia" scritto su qualcosa che si vorrebbe venisse fatto vivere come poesia e così via. Ogni altro luogo non deputato a mostrare arte nella seconda.
Nel caso della frase usata al bar, convenzione (e siamo tutti d'accordo, penso) che si debba fare attenzione solo e soltanto al concetto che essa intende veicolare: O forse, al fine di avere un caffè al bar, conta anche la nostra voce, chioccia, rauca o solenne che sia? No: tutta roba, questa, non pertinente alla circostanza in questione. Nel caso della sua esecuzione teatrale, invece, convenzione vuole che proprio codesto suo aspetto, codesto suo appiattimento comunicativo a livello concettuale non abbia più alcun senso e che tutto nella frase, diventi, se non trova paradigmi capaci di leggerlo, significativo. Tazzina di caffè? Perché non nero abîme di insospettate con crescenze psicoanalitiche, tanto più insondate (si sa) quanto più quotidiane? Perché non simbolo, ancora, di indicativissime ritualità antropologiche e sociopolitiche e così via? [.]. Non è che senza l'attenzione ai luoghi non ci sia l'attenzione a livello pragmatico del linguaggio e dell'uso in generale dei segni: non c'è proprio linguaggio. C'è solo materia ancora indeterminata (costrutti inerti) da significare. Costrutti che diverranno poesia (arte) se praticati secondo la convenzione dell'arte (dei luoghi dell'arte) e semplicemente comunicazione strumentale, invece se praticati secondo quella dei comuni luoghi discorsivi. bar, aula scolastica, ecc.
Non può essere qualcosa ad essa intrinseco a spiegarci l'approdo della frase indicata ("Mi dà un caffè?") alle due, opposte, identità culturali appena ipotizzate. La frase, infatti, rimane materialmente la stessa. La causa del suo mutare di identità non potrà che essere funzione di ciò che, nell'esperimento, cambia e cioè della sua circostanza d'uso, del luogo insomma in cui si do la sua esecuzione. Così per lo Scolabottiglie di Duchamp e per gli infiniti ready-made dell'arte contemporanea. Non è qualcosa di strutturalmente intrinseco a spiegarci la loro differenza da un normale oggetto d'uso. Duchamp non ha fatto nessun intervento sulla struttura materiale dello scolabottiglie, sulla sua forma. Il suo Scolabottiglie è rimasto materialmente indiscernibile da ogni altro. Cos'è che è cambiato nell'operazione di Duchamp. Soltanto il luogo dove lo scolabottiglie è stato posto: la galleria d'arte al posto di un normale negozio da cantiniere o cantina che sia. E qui, nel luogo, sta la sua raison d'être arte. Non in altro. Del resto che cosa può permettere, per esempio ai Promessi sposi di Alessandro Manzoni e alla Merda d'artista di Piero Manzoni di stare insieme nel campo dell'arte? Che poi stiano insieme in questo campo non ci sono dubbi: vive nelle biblioteche di letteratura, la prima opera, e nei musei, la seconda. Non certo qualche tratto materialmente in comune. E se non è qualche tratto materiale ad esse intrinseco, non potrà che essere un qualche tratto funzionale ad esse esterno. Ed è questa struttura funzionale esterna agli oggetti e alle cose che bisogna cercare per capire il principio costitutivo della loro culturale identità, nel caso quella propria dell'arte. [33]
L'opera d'arte è tale quando funziona in un certo modo, secondo l'uso che la nostra cultura ha decretato per questo genere di oggetti. "E' la cultura stessa che ancora ogni sua entità a una sua identità d'uso"[34], per cui se "dalla parte della genesi l'opera d'arte non può che risolversi che nella sua poetica (appunto nel suo progetto) [.] dalla parte della risoluzione, essa non potrà che fare corpo unico con la sua funzione, con il suo uso in quanto opera d'arte.[35]
Se così è, se la funzione stabilisce l'identità, la distinzione genettiana fra "essere" e "funzionare come" non ha senso. Il ramo di Magnelli non solo funziona come opera d'arte, ma funzionando così è un'opera d'arte. Il fatto che sia esposto in un museo, luogo destinato dalla nostra cultura alla funzione di contenitore di opere d'arte, ne è una evidente conferma. Non importa da chi e come sia stato fatto, né quale sia stata l'intenzione di chi materialmente lo ha realizzato, un oggetto diviene un'opera d'arte se una cultura lo delega a tale uso. Cultura, intesa secondo il suo etimo (cultura da colo,colis,colui,cultum,colere = coltivare) come coltivazione e quindi uso; fascio di formanti primario di cui i luoghi sono i significanti contenenti le istruzioni d'uso delle opere ivi ospitate. Un'opera, da sola, non è in grado di imporsi come artistica. L'identità di un oggetto non è al di fuori della sua funzione ma a partire da questa, anche se Genette sembra pensarla in maniera diversa, ma la sua personale opinione, e non si vede in quale altro modo possa essere definita la sua posizione, non regge al confronto con quanto avviene nei fatti e fra i fatti e le teorie che vogliono interpretarli, si sa, sono sempre i primi ad avere la meglio.
E' arte ciò che viene usato come arte; non lo è ciò che non viene usato come tale. I soggetti di tali usi, che hanno anche un nome (si chiamano poetiche) possono avere estensione diversa: singoli, gruppi a soggetto diffuso, epocale. In quest'ultimo caso la poetica costituisce la guida di fondo dell'uso artistico delle cose, la delega di artisticità data a determinate cose, propria di intere culture (che so, del Medioevo, della Modernità, ecc.) spesso tra loro in opposizione. E se la cultura è pluralista, poetiche (queste, a soggetto diffuso) con cui quelle dei singoli e dei gruppi determinati devono fare i conti.[36] .
Poetiche a soggetto diffuso con cui quelle dei gruppi determinati e dei singoli, Genette compreso, devono fare i conti Ogni arbitraria estensione di una poetica individuale a spiegazione universale non è altro che un indebito ideologismo.
In Genette, se da una parte l'artisticità dell'opera emerge dalla relazione del fruitore all'oggetto, dall'altra la materialità dell'opera, una certa materialità che coincide con la sua idea di opera d'arte, diventa un pesante fardello di cui non riesce, o non vuole, liberarsi vincolandolo a una posizione ontologica. L'atteggiamento di Nanni non è di chi vuole negare il livello materiale dell'opera, ma questo aspetto diventa rilevante solo per una cultura che tale lo ritiene, non assolutamente in sé. Una pietra del selciato, il ramo di Mannelli, lo scolabottiglie di Duchamp hanno lo stesso diritto di essere opera d'arte di un Rembrandt o di un Van Gogh: è la delega di artisticità con cui una qualche cultura l'investe che decreta l'artisticità dell'opera d'arte. Il ramo di Mannelli, come lo scolabottiglie duchampiano, può essere ospitato in un museo al pari di un Rembrandt per l'investimento simbolico cui la cultura li sottopone entrambi. "E' più artistico un quadro Van Gogh o un termosifone?"[37] recita il titolo di un saggio di Luciano Nanni che è poi come chiedersi se è più artistico un Rembrandt o un ramo.
Uno scolabottiglie (un termosifone, un idoletto) non è un Van Gogh. E chi ha mai detto che lo sia? L'uno non è l'altro, sicuro, ma né l'uno né l'altro sono arte se non vengono delegati da una qualche cultura ad esserlo, se in tal modo da una qualche cultura ad esserlo, se in tal modo da una qualche cultura non vengono simbolizzati.
Un estetica che difenda in assoluto l'uno ( non importa se il Van Gogh o il termosifone) contro l'altro è un'estetica che s'intruglia (si confonde) paurosamente con il proprio oggetto di studio. [38]
Con-fusione che va benissimo, purché si accetti di ridurre l'estetica a una semplice poetica e l'estetologo a un semplice artista (anche se solo virtuale) tra i tanti possibili. Purché si accetti insomma di non fare dell'estetica una scienza, per la quale infatti la distinzione pare proprio inevitabile.[39]
Con-fusione che è rilevabile nell'atteggiamento di Genette che venendo meno ai propositi iniziali di mantenere rigorosamente distinto il piano critico da quello epistemologico è giunto a elaborare una teoria che li comprendesse entrambi con il risultato che l'opera d'arte viene considerata sia in maniera oggettiva che in maniera funzionale. Da qui la distinzione fra "articità costitutive" e "articità condizionali". Distinzione che non ha significato dal momento che nessuna materia è artistica in sé e, come tale, già arte, prima che una qualche cultura la deleghi ad esserlo. Se l'artisticità dell'opera dipende dalla delega fatta da una cultura sull'oggetto, la stessa cultura può revocare tale investitura e riportare l'oggetto al suo statuto di semplice artefatto. L'artisticità non può, dunque, che essere un fenomeno transitorio, mai costitutivo o stabile, in quanto legato a una cultura e al concetto di arte che tale cultura elabora. Originariamente non siamo gettati di fronte alle nude cose, afferma Nanni, ma sempre nelle loro pratiche (cognitivamente parlando, nell'universo della loro interpretazione). Ogni pratica, costituendosi, costituisce anche il proprio modello di interpretazione delle entità che pratica. Opere d'arte e oggetti di uso comune possono condividere lo stesso livello materiale e assumere identità diverse entrando in logiche d'uso diverse. Logiche che sono necessariamente esterne all'oggetto e che a ben vedere regolano non solo il mondo dell'arte ma la vita dell'uomo di cui l'arte fa parte.
Pensiamo al linguaggio. Che cosa nomina il nostro linguaggio? Gli enti e le cose? Nemmeno per sogno. Il nostro linguaggio nomina le relazioni che noi intratteniamo con gli enti, con le cose e quindi il nostro modo di usarle, di prendercele in carico, appunto di coltivarle. Un esempio? Bene. Prendiamo la parola "scolabottiglie". Se diciamo "scolabottiglie" e ci auto-invitiamo a pensare a che cosa significhi, credo non ci siano dubbi: ci accadrà spontaneamente di associare a questa parola l'immagine di un oggetto, in particolare un oggetto da cantiniere. Bene. Ma "scolabottiglie" alla lettera non significa questo. Alla lettera "scolabottiglie" ci rinvia ad una pratica "scolare bottiglie", cioè a una relazione che esso (l'oggetto in questione) arriva ad intrattenere con una nostra usanza. Tolto da questa relazione, allora, cosa diventa? (.) Il nostro "scolabottiglie" tolto dal linguaggio, diviene una pura "cosa" e se vogliamo continuare a chiamarlo "scolabottiglie" lo possiamo fare in memoria di ciò che fu, in ricordo di un'identità sua passata e ora scomparsa. Nulla di strano, allora, che entrando in relazione con la galleria d'arte - penso ovviamente a Duchamp - diventi opera d'arte. La parola "arte" non nomina l'oggetto, ma il tipo di relazione (e siamo ancora al fuori) in cui l'oggetto entra, non altro. Perché allora questa proposta, come quella della "merda", del resto e tante altre simili, ha suscitato scandalo? Ha suscitato scandalo, perché in noi il linguaggio vive in occultamento di questa sua verità. Il linguaggio nomina sempre delle relazioni e mai delle cose in sé. In principio cognitivamente parlando ci sono le relazioni, non le cose e il linguaggio le relazioni nomina. (...)
Genette dopo aver impostato il problema nella relazione fra il soggetto e l'opera, nel tentativo di voler recuperare l'oggetto, corrispondente alla sua idea di opera, cui non ha voluto rinunciare, è andato incontro a vari tentativi per trovare una sorta di equilibrio fra due aspetti che sono risultati in logica contraddizione fra loro: l'oggetto e la funzione, il cosa e il quando. La contraddizione non è solo interna ma anche esterna alla teoria, falsificata dai i fatti che vorrebbe descrivere e spiegare. Affermare che, benché esposto in un museo d'arte, un oggetto naturale, come un semplice ramo, non può funzionare come, e tanto meno essere, opera d'arte, a meno che non venga recepito in maniera errata, significa negare i fatti in nome di una personale idea di arte. Estendere, per di più, la propria poetica a spiegazione universale dell'arte sottende un atteggiamento ideologico che poco a che fare con l'estetica. Estetica che nei propositi di Genette avrebbe dovuto essere analitico-descrittiva e che si è trasformata nel suo opposto, una poetica, venendo meno ai presupposti che devono sostenere una corretta ricerca.