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Mario Giacomelli e la fotografia formalista
di Roberto Maggiori

  Nonostante il ripudio del pittorialismo, nella ricerca dei valori costitutivi propri del mezzo fotografico permane, per buona parte del Novecento, un'"invadente" matrice decorativa di stampo pittorico-astratta. Lo specifico fotografico è infatti (auto)fondato sulla predominanza di valori visivi formali: tonali e compositivi.

  Con l'inizio del nuovo secolo si va delineando sempre più la strada principale intrapresa dall'ormai rodata fotografia: Stieglitz e compagni abbandonano il pittorialismo alla ricerca delle qualità intrinseche del mezzo fotografico, qualità atte a valorizzare le opere fotografiche per sé stesse e non per la loro rassomiglianza con i dipinti. Le parole d'ordine saranno allora specificità e secessione e il veicolo di divulgazione di questa "nuova fotografia" si costituirà attorno all'attività della galleria "291" (dal numero civico in cui era collocata la galleria, nella Quinta strada di New York) e soprattutto sulle pagine di Camera Work, una delle prime fotoriviste che promosse la nuova fotografia ben oltre i confini che l'avevano vista nascere.

Il Photo-Secession, promosso principalmente da Alfred Stieglitz (1864-1946), si proponeva dunque di depurare l'immagine fotografica dagli abbellimenti superficialmente attinti dall'iconografia pittorica. Da qui la secessione dalla "fotografia artistica", così veniva chiamata all'epoca la fotografia pittorialista, e la tensione verso una fotografia pura e diretta, Straight per l'appunto.

Il risultato visibile di questa poetica fu un'immagine pura, ma non semplice; difatti, per quanto si auspicasse una riproduzione realistica non manipolata da ritocchi o fotomontaggi, il reale veniva di fatto intrappolato in composizioni arbitrarie e stranianti con effetti molto simili a quelli promulgati dalle avanguardie storiche coeve, dal Neoplasticismo al Surrealismo[1], in una logica astratta e quindi estremamente parziale. Il tutto veniva poi reso in toni chiaroscurali spesso drammatici ed irreali, atti a manifestare la presenza soggettiva dell'autore che in questo modo cercava di affermare la sua individualità virtuosa sull'impersonalità della macchina.

Questa volontà di "presenza" all'interno dell'opera rivela una concezione artistica virtuoso-manuale cui la fotografia, considerata ancora troppo meccanica, doveva necessariamente ricondursi per essere considerata arte, laddove, paradossalmente, un pittore come Mondrian poteva rivendicare la mancanza della "mano" nei suoi dipinti.

In ogni caso si palesa, in questa "nuova fotografia", l'allontanamento da un tipo di riproduzione naturalista qual'era quella moderna: Il referente diviene ora solo uno spunto da cui partire, non un traguardo, ma un pretesto per esibire valori visivi provenienti da una realtà quotidiana trascurata, una sorta di rivelazione dell'ovvio legittimata da una composizione autosignificante.

Quest'avvicinamento dei fotografi alle avanguardie storiche coeve riduce sensibilmente lo scarto diacronico che la fotografia di qualche anno prima aveva rispetto all'arte ufficiale. Ora entrambe le fazioni marciano sincronicamente in direzione post-moderna (contemporanea), seppur scambiandosi in molti casi le modalità d'intervento ("manuale" per la fotografia, "meccanica" per la pittura), tanto che potremmo ricondurle ambedue sotto uno stesso tetto: quello dell'avanguardia. Così riassume efficacemente la situazione Peter Bürger:

L'artista che produce un'opera d'arte organica (d'ora in avanti lo chiameremo classicista, senza con ciò voler introdurre uno specifico concetto di opera d'arte classica) tratta il materiale come qualcosa di vivente. Ne rispetta i significati come se originassero da una concreta situazione vivente. Per l'avanguardista invece, il materiale non è nient'altro che materiale; all'inizio la sua attività consiste solo e unicamente nell'uccidere la "vita" del materiale, cioè estrarlo dal contesto funzionale che gli conferisce significato. Mentre il classicista riconosce e rispetta il materiale come portatore di un significato, l'avanguardista vede in esso solo un vuoto segno, qualcosa a cui lui solo può dare senso.[2]

Viste queste premesse appare ovvio come il tipo di rappresentazione di questi artisti sia tutt'altro che naturale e moderna. D'altra parte una precisazione ulteriore ci sembra obbligata, vista la catalogazione di queste poetiche sotto l'etichetta di Modernismo.

Sotto questo termine si raggruppa la rappresentazione astratto-decorativa (Art Nouveau, Jugendstil, Liberty) ed essenzial-funzionale (De Stijl, Suprematismo, Costruttivismo, Bauhaus, arte concreta) che dall'inizio del secolo XX si riaffaccia nelle arti visive. Ovviamente nell'ottica di questo lavoro il Modernismo è definibile come una delle tante correnti che hanno costituito fino ad oggi il periodo post-moderno (successivo alla modernità -Barilli, 1987-); come lo stesso Post-moderno "citazionista", quello comunemente inteso a partire dagli anni '80 del Novecento, rientra in un'accezione più ampia di post-moderno, convenuto come ciclo culturale. Di conseguenza non deve trarci in inganno il tipo di composizione geometrico-astratta adottata dal Modernismo che ricorda per certi versi logiche rinascimentali come la piramide visiva rovesciata, organizzata sugli assi cartesiani. Principalmente perché le poetiche moderne usavano questi stratagemmi per ottenere una rappresentazione illusoria atta a riprodurre verosimilmente la realtà, mentre i cosiddétti "modernisti" ricreano una realtà altra, auto fondata su leggi proprie e non partecipe della realtà fenomenicamente intesa. Infatti da Cézanne in poi i rigori formanti della modernità subiranno un cambiamento qualitativo: non più una costruzione dell'immagine scientifica, il più somigliante possibile alla realtà, ma ricerche intimistiche gravitanti attorno ai due poli principali del Novecento, ossia l'Astrattismo e l'Informale a tratti reciprocamente influenzabili:

sia Cézanne sia il Cubismo [possono] essere liberati da una visione eccessivamente ligia ai canoni "forti" dell'essenzialità, della geometria, della costruttività, di cui certo non son privi, ma che andrebbero collocati al loro giusto posto, onde concedere spazio anche alle manifestazioni contrarie, che emergono senza troppe remore. [.] Il periodo sferoidale nella produzione cézaniana contiene una matrice degenerativa della forma moderna, introducendo, fra l'altro, una morfologia del flesso che sarà spia di situazioni a venire nel tempo; [...] Giova quindi riconsiderare le provenienze dei due poli principali della ricerca novecentesca, cioé l'Astrattismo e l'Informale, perche se è vero che la bipartizione tra un filo rosso apollineo e uno dionisiaco appare sostanzialmente accettabile, intervengono però fattori di conflitto e di osmosi fra le sponde.[3]

E, formalmente parlando, anche laddove la morfologia flessa latiti, ma i casi sono ben pochi visto l'uso del cerchio o dell'ellissi che le avanguardie storiche, dal cubismo al futurismo, da Kandinsky a Mondrian, da Klee a Malevič, hanno effettuato, anche in questi casi di "estremismo" razional-costruttivo, di cui si diceva, la visione moderna è comunque risolutamente negata attraverso l'eliminazione della prospettiva.

Abbiamo già detto dei rapporti che i fotosecessionisti intrecciarono con le avanguardie storiche, soprattutto sulle pagine di Camera Work. E' inoltre interessante notare come intanto ad oriente, per l'esattezza nella Russia post-rivoluzionaria, gli operatori dell'avanguardia artistica (Rodčenko, Lissitskij ed altri) utilizzassero disinvoltamente anche la fotografia, compiaciuti dalle prerogative anti individuali e quindi anti borghesi del nuovo mezzo; dimostrando come in occidente il discorso sull'arte fosse condizionato da fattori commerciali (l'opera unica acquisisce tanto valore estetico quanto è il suo potenziale valore economico relativo appunto all'unicità della stessa), laddove l'oriente sovietico, seppur soverchiato da un'ideologia sempre più vincolante ai fini espressivi, promuoveva l'accesso della fotografia nelle arti visive per meriti davvero specifici.

Ormai appaiate nel loro cammino post-moderno, fotografia e pittura inizieranno quindi ad influenzarsi reciprocamente, in un orizzonte sempre più ampio di ricerca visivo-compositiva (basti pensare alle esperienze cinematografiche e teatrali del periodo[4]) arrivando quasi contemporaneamente ai traguardi che via via si presenteranno sul loro percorso. Sono infatti del 1914 le prime fotografie astratte della storia, ad opera di Paul Strand (1890-1976) che, influenzato da artisti cubisti come Braque, Picasso e Brancusi, arrivò a questa soluzione quasi contemporaneamente all'uscita delle composizioni astratte di Mondrian e di Klee e in anticipo sull'astrattismo geometrico dei vari Malevič, Lissitskij, Rodčenko, Moholy Nagy, Henri, ecc. Naturalmente Kandinskij era già pervenuto all'astrazione, ma a un'astrazione differente, "informe", aliena al costruttivismo geometrico di cui stiamo parlando che lo stesso Kandinskij adottò solo dagli anni '20 in poi, nel cosiddetto periodo Bauhaus.

Iniziato alla fotografia da Lewis Hine[5], Strand sarà dibattuto per tutta la sua carriera tra una fotografia intesa come puro pretesto grafico e un'immagine documentaria calata nel sociale, anche se con aspirazioni universali piuttosto che particolari. Su quest'ultimo versante Strand arriva persino ad anticipare il Neorealismo italiano quando nel 1932 realizza, per conto del Dipartimento di belle arti del ministero della Cultura in Messico, il film Redes (uscito in Italia col titolo I ribelli di Alvarado) i cui attori, salvo un unico professionista, erano pescatori del posto. Summa delle due tensioni che animavano il fotografo, quella astratto-decorativa e quella documentaria, sarà il fotolibro Un paese. Nato dalla collaborazione con Cesare Zavattini e realizzato intorno al 1953, questo progetto coniuga brillantemente nelle sue immagini forma e realtà costituendo una terza opzione per quanti nel nostro paese dibattevano animatamente tra le istanze realiste e quelle liriche (compositive).

Su un versante più sganciato dal sociale e quindi ancor più concentrato sui valori "caldi" della visività farà scuola Edward Weston (1886-1958). L'ordinata ipernitidezza ricercata dal fotografo statunitense non deve però ingannare: l'impianto di molte sue fotografie è si atto ad abbellire la realtà più comune, ma non di meno è anche funzionale a rivelare la verità dell'oggetto fotografato (non la naturalezza percepibile "ad occhio"), sia esso un paesaggio, un nudo o un peperone, la cui buccia non è superfice ma essenza. I prepotenti valori materici che la fotografia gli permette di proporre trasudano infatti fisicità, rimandano ad una natura "effettiva", fenomenica, seppur isolata nel dettaglio, una natura per una volta non ideale né "naturale", ma "suprema".

La parola "suprema" riveste in questo caso un'accezione specifica, fotografica; un'accezione per certi versi distante dal significato attribuitogli da Malevič. Il padre del Suprematismo intendeva infatti con questo termine una ricostruzione della natura in senso neoplastico, una ricostruzione eidetica, pura, autonoma. Dunque una natura altra, raggiungibile attraverso una pittura essenziale, come gli elementi costituenti questa realtà ideale. Realtà, insomma, scevra dagli orpelli naturalistici che la pittura suprematista, estrinsecazione di presupposti ideali, poteva e doveva rinnegare. Un discorso di questo tipo che potremmo definire specificamente pittorico non può essere trasposto in campo fotografico. Nella fotografia infatti l'immagine non può dissociarsi dalla realtà ripresa, dal referente, perlomeno non in un'ottica "diretta". Può però mostrare il soggetto sotto un'altra luce, depurarlo, potenziarlo, spogliarlo delle convenzioni, restituirgli il significato intimo che gli appartiene. Non più avviliti dalla quotidianità che li rende anestetici, questi (s)oggetti accedono, attraverso l'immagine fotografica, ad una realtà superiore, suprema per l'appunto. Anche in questo caso ci si propone una realtà altra da quella che percepiamo naturalmente, ma pur sempre costituita da fenomeni "tangibili", mondani, che poco hanno a vedere col regno delle idee pure.

Così queste fotografie, nonostante la loro impeccabile composizione, tendono paradossalmente all'informale, ad un'esperienza conoscitiva primordiale tra l'uomo e il mondo, esperienza resa possibile dalle qualità riproduttive straight del medium fotografico:

Solo con uno sforzo si può costringere la macchina fotografica a mentire: è un mezzo fondamentalmente sincero: di conseguenza è assai più probabile che il fotografo si accosti alla natura in un atteggiamento di ricerca, di comunione, anziché con la sfrontata arroganza dei cosiddetti "artisti". La visione contemporanea, la nuova vita, si fonda su un approccio sincero a tutti i problemi, morali o artistici. Le false facciate degli edifici, le false norme morali, i sotterfugi e le mascherate d'ogni genere devono essere, e saranno, eliminati.[6]

Emergono dunque nelle foto di Weston i primi termini delle coppie wolffliniane che Barilli associa al ciclo post-moderno: il chiaro e il lineare (l'ipernitido), il chiuso (la composizione), la superficie (la mancanza della prospettiva), nonché l'oggettività del soggetto, fotografato sganciato dal contesto di appartenenza (dall'unità percettiva, direbbe Wölfflin) e mostrato nella sua realtà, non nella sua apparenza.

Anche se fruito attraverso un "calore" accattivante -l'appagamento del senso della vista - il post-moderno fotografico è ormai definitivamente salpato; l'approdo a concezioni "raffreddate" è ormai prossimo a venire e non solo per quanto riguarda il discorso strettamente fotografico. Su un versante freddo, una poetica per certi versi analoga a quella di Weston sarà infatti rivendicata un trentennio dopo da movimenti derivanti dall'Informale storico e in particolare da quello materico. Stiamo parlando del Nouveau Réalisme, dell'Arte povera e del Minimalismo che libereranno nello spazio reale, tridimensionale, gli elementi primari della natura, esperibili ora sinesteticamente.

LA PRESENZA NELLA FORMA: MARIO GIACOMELLI

La visione post-moderna si è dunque distaccata dal tipo di rappresentazione moderna, "dalla finestra aperta sul mondo" verosimile grazie alla prospettiva albertiana. I miglioramenti tecnologici come il teleobbiettivo che appiattisce la prospettiva, con un effetto simile all'à plat gauginiano, o il grandangolo che la distorce, alla maniera sferoidale inaugurata da Cézanne, non fanno che normalizzare una propensione anti naturalistica che sappiamo appartenere all'arte contemporanea e quindi anche ai primi fotografi post-moderni. Attraverso una (messa in) forma accattivante l'autore esce ora clamorosamente alla ribalta, dopo secoli di modernità in cui era tenuto a farsi da parte per avvalorare l'illusione di una visione naturale che si dava alla contemplazione del fruitore in tutta la sua bellezza o emblematicità. L'artista (pittore, fotografo o quant'altro) si manifesta quindi ora nella "stravaganza" compositiva e nel particolare punto di vista adottato, punto di vista che lo spettatore non può più ignorare, ma che è costretto a seguire, interrogandosi sul perché di quel percorso indicativo di un'intimità, quella dell'artista, ora sotto i suoi occhi. Rimane così nella fotografia post-moderna una fruizione voujeuristica, solo che l'oggetto d'indagine si sposta dall'esteriorità della natura all'interiorità dell'uomo, dell'artista.

Un formalismo di questo tipo che potremmo definire espressionista, inizia a manifestarsi in via eccezionale già con i manieristi toscani del 500, ma si impone definitivamente solo all'inizio del Ventesimo secolo da Matisse in poi, tanto per intenderci. Ed è da suggestioni analoghe che nel secondo dopoguerra riparte la fotografia italiana, oppressa da quasi un quarto di secolo di regime fascista.

Disorientata per i recenti trascorsi l'arte italiana, desiderosa di nuovi manierismi, volse dunque lo sguardo all'estero, mentre in patria stava già nascendo (ma dopo il conte Primoli sarebbe meglio dire: istituzionalizzando) la "non forma" tipica del realismo che voleva documentare quanto era stato fin lì censurato; con interessi folcloristici-esotici, in alcuni casi e etici-ontologici in altri. Quest'ultimo versante sfocierà nella grande stagione Neorealista del cinema italiano.

Soffermiamoci ora sul formalismo che, sull'onda dell'estetica crociana, si era imposto in Italia soprattutto nella fotografia. Le "matrici formali" principali allora erano quattro: quella francese: un formalismo elegante, surreale, metafisico; la matrice americana: un Neorealismo veicolato da forme geometriche; la matrice tedesca: un formalismo sperimentale e violento in un'atmosfera drammatica; ed infine la "classica" matrice "asettica" Neoplastica che da Mondrian passa per il Suprematismo e Costruttivismo Russo fino al Bauhaus degli anni '20.

Quest'ultima matrice fu superficialmente ripresa nel secondo dopoguerra dal gruppo La Bussola, circolo fotografico attorno al quale si riunirono operatori influenzati dall'idealismo crociano. Croce prevedeva nell'Estetica un'opera d'arte autonoma rispetto alla prosaicità del vivere quotidiano, un'opera universale nel significato e fondata su una forma adeguata a trasmettere l'"intuizione lirica" e l'"espressione" dell'artista[7], padrone assoluto della linguisticità dei mezzi da lui adottati. Da qui si evince come il gruppo si sia schierato in un'ottica anti documentarista, addirittura rispolverando il vetusto termine di "fotografia artistica", una volta tanto adoperato al di fuori delle ovvie operazioni erotico-commerciali.

L'adozione della ripresa straight piuttosto di una "fattura" pittorialista, da parte di questi operatori, dipende probabilmente dal fatto che, in ambito internazionale, la fotografia pittorica non godeva affatto di buona reputazione all'epoca dei fatti e la fotografia "diretta" era comunque congeniale ad avvicinarsi all'idea d'arte quale era stata promulgata dalle avanguardie storiche e che andava ormai normalizzandosi. Il formalismo della Bussola si presenta comunque più edonistico rispetto a quello dei colleghi "diretti" d'oltre oceano: l'astrattismo geometrico della composizione è fine a se stesso, così come il tono chiaro delle immagini high key[8] che vorrebbe simbolizzare una dimensione ideale e quindi irreale; simile a quella presente nelle opere maggiori di Mondrian e Malevič. Allo stesso modo si rivelano superficialmente "artistici" anche i soggetti, banalmente mutuati dall'iconografia metafisica.

Il Gruppo, costituitosi nel 1947 attorno alla figura di Giuseppe Cavalli (1904-1961) e presentato con un proprio manifesto sulle pagine di Ferrania dell'aprile 1947, ebbe comunque il merito di promuovere il discorso sulla fotografia in un ambito culturale, spostando l'attenzione per il mezzo fuori dai confini nazionali. Cavalli, avvocato di professione, si impegnò notevolmente in questo senso anche se, a causa della sua intransigenza, il dibattito da lui animato durò solo lo spazio di un decennio; poi le sue posizioni vennero superate dalla storia e dallo stesso gruppo La Bussola che nel 1957 si sciolse definitivamente proprio a causa di una polemica interna.

Oltre a Cavalli, fecero parte del gruppo anche Federico Vender, Ferruccio Leiss, Mario Finazzi e Luigi Veronesi. Quest'ultimo, con posizioni più personali rispetto agli altri, proseguì la ricerca avviata anni prima dal Bauhaus e da Moholy-Nagy, ma le sue sperimentazioni che sondano soprattutto le nuove possibilità espressive del colore nel fotogramma[9], furono talmente insistenti da apparire infine anacronistiche.

Sulla scia de La Bussola si formarono in Italia altri circoli fotografici tra i quali vale la pena di ricordare La Gondola, fondato a Venezia nel novembre del 1947 da Paolo Monti, Fulvio Roiter, Toni Del Tin, Gino Bolognini ed altri; dal 1954 si associerà poi Gianni Berengo Gardin. Anche le immagini made in La Gondola erano basate sul solito geometrismo questa volta però di matrice teutonica, infatti i componenti del sodalizio e soprattutto Paolo Monti (1908-1982) guarderanno dal 1949 al gruppo Fotoform ed alla Subjektive Fotografie capitanata da Otto Steinert (1915-1978). Anch'egli debitore dell'esperienza Bauhaus, Steinert si contraddistinguerà per le sue immagini sperimentali, quali fotogrammi e solarizzazioni[10] e per i toni bassi, drammatici, scuri, quasi "catramosi", usati nelle fotografie "referenziali", peraltro impeccabilmente composte. In definitiva, gli stessi interessi e la stessa cifra stilistica di Monti che si differenzia con ciò dalla "solarità mediterranea" de La Bussola, dalla quale si discosta anche per l'atteggiamento nei confronti del medium fotografico. Un atteggiamento Subjective che, diversamente dai dogmi cavalliani, consentiva diversi modi di operare per la fotografia "d'autore": dal reportage alla fotografia sperimentale, purché con una forte impronta personale, soggettiva appunto.

Anche se più vicino a questo tipo di logica nord europea, da una costola de La Bussola partirà nel 1953 l'avventura del gruppo MISA. Voluto da Cavalli, sua era la "direzione artistica", il gruppo si proponeva come una scuola atta a formare giovani fotografi di talento, attraverso un tirocinio che avrebbe consentito l'accesso alla categoria più elitaria, di serie A, rappresentata da La Bussola. Ma la rigida dottrina di Cavalli mal si addiceva a fotografi quali Mario Giacomelli, Piergiorgio Branzi, Alfredo Camisa e Nino Migliori, i quali, viste le diverse qualità che li animavano e l'eclettismo di cui erano in alcuni casi capaci, si sarebbero meglio riconosciuti in una poetica Subjektive. Branzi fu quello che inizialmente più si avvicinò all'iconografia di Cavalli per poi passare a documentare la vita delle città del meridione e della Russia, sempre attraverso una sapiente composizione. Camisa sterzò bruscamente verso il fotogiornalismo documentario e Migliori riprese per lo più le ricerche iniziate da Man Ray un ventennio prima, incrementandole con l'uso del colore.

Decisamente più ambigua ed interessante appare la figura di Mario Giacomelli (1925-2000) anch'egli di Senigallia (AN), come del resto il MISA e lo stesso Cavalli. Figlio del proprio ambiente, Giacomelli riprende dall'intraprendente concittadino la volontà di forma, ma si distingue per il sentimento espressivo: alla contemplazione dell'opera, all'osservazione distaccata ed intellettuale proposta da Cavalli, Giacomelli sostituisce un coinvolgimento emotivo, un'angoscia esistenziale che prende forma in un bianco e nero grottescamente contrastato e nella brutalità della ripresa, in alcuni casi iperdiretta.

Costretto a fare i conti con l'immediato dopoguerra e rimasto orfano di padre in tenera età, Giacomelli condivide con i movimenti artistici del periodo la delusione nei confronti delle "magnifiche sorti e progressive", delusione che si riverbera nei toni cupi e nelle composizioni scarne di tante sue fotografie. Ma a differenza dei movimenti a lui contemporanei, che potremmo definire informali, in Giacomelli permane una forma "prepotente", evidente metafora della superiorità del lato ideale-costruttivo su quello fisico-naturale. L'ideale che intende Giacomelli è comunque un ideale ambiguo, "viscerale": non l'idea figlia dell'intelletto, se così si può dire, ma il sentimento partorito semmai dal cuore, sempre però mediato noumenicamente. Ad Apollo si affianca allora Dionisio, un po' come avvenne secoli addietro nell'opera di un letterato illustre come l'Alfieri che nelle sue rappresentazioni teatrali mescolava forma (le rigide regole classiche) e "forte sentire" (il sentimento romantico), analogamente alla concezione che dell'arte avrà anche Nietzsche e che si manifesterà appieno nell'Espressionismo tedesco d'inizio Novecento.

La poetica di Giacomelli è dunque lontana dalla rivoluzione informale che in quegli stessi anni andava diffondendosi, alimentata in Europa dall'Esistenzialismo di Sartre e oltre oceano dal Pragmatismo di John Dewey[11]. Le poetiche informali ricercavano infatti la fenomenicità umana, esistenziale, tipica dell'essere al mondo; non riducibile a un manufatto simbolico, ma colta negli atti, nelle esperienze fisiche significanti per se stesse e nelle tracce da queste lasciate. In Giacomelli invece la forma, ha una funzione eidetica: rappresentare il pensiero intimo dell'autore; un ruolo quindi completamente sganciato dalla realtà e dalle leggi che questa dispensa. Il particolare formalismo del fotografo marchigiano è difatti un modo per allontanarsi dalla verità della forma, quale la intendeva un Edward Weston, è semmai un formalismo che conduce al deforme così come lo definisce Roberto Pasini: "Appannaggio della vasta area degli espressionismi" il deforme esplicita "un'aggressione alla forma postulandone l'esistenza, dandone come scontato il punto di partenza per costruire un'altra forma.[12]" Pasini contrappone tra l'altro il deforme all'informe, tipico di un Turner, questo si precursore dell'informale.

L'uso che della realtà, simile ad una tavolozza, Giacomelli fa nelle sue immagini, vere e proprie proiezioni interiori[13], è facilmente deducibile osservando lavori come quelli effettuati a Scanno, un pittoresco paese abruzzese, tra il 1957 e il 1959 o quelli ambientati nel Seminario Vescovile di Senigallia tra il '62 e il '63, quest'ultimi noti col titolo Io non ho mani che mi accarezzino il viso[14].

In queste due serie, la cifra stilistica adottata da Giacomelli è funzionale ad eludere la realtà necessaria alle riprese: da una parte c'è il mosso dovuto ai tempi lunghi d'esposizione, dall'altro il bianco e nero si fa veramente tale: il contrasto estremo della stampa elimina infatti i grigi intermedi, così come le ombre che danno fisicità ai corpi, ai visi, ammantati di nero e sovraesposti su sfondi resi abbacinanti dalla neve o dai lastricati in pietra. Le stesse dichiarazioni di Giacomelli convengono con quanto detto; a proposito di Scanno affermerà: "le foto di Scanno le scattai volutamente a un tempo basso in modo da far perdere ad esse quasi ogni traccia di documento. Utilizzando la tecnica dello sfocato e il mosso, riuscii a rendere l'atmosfera del paese ancora più magica[15]". E sui "pretini": "Mi dava fastidio quest'aggancio con la realtà, volevo che le immagini fossero fuori dal reale come a Scanno e questo contrasto dei bianchi da un'immagine un po' più magica della realtà[16]".

L'allontanamento di Giacomelli dall'universo Informale ci appare evidente anche nella serie la cui analisi superficiale parrebbe ricondurlo. Ci riferiamo al Motivo suggerito dal taglio dell'albero (1967-1969). Qui il fotografo riprende dei tronchi tagliati con l'intento di riprodurre figure astratte ma riconducibili ad un vissuto reale, un po' quello che andavano facendo soprattutto in ambito urbano, ma non solo, fotografi come Monti e Migliori; ma in Giacomelli l'allontanamento dalla realtà non avviene per via (in)formale, semmai grazie a quella che potremmo definire una suggestione fantastica. Lo stesso Giacomelli si dichiarò sconcertato nel ritrovare in quelle fotografie dei volti umani, dei visi scavati dalle rughe e dalla fatica, visi di contadini. Qui passano in secondo piano i segni lasciati dall'uomo o dall'intreccio della cultura con la natura, segni che, in un'ottica informale, non parlano solo di se stessi, ma di un vissuto, degli eventi, degli atti a cui sono riconducibili. Segni invece, questi di Giacomelli che, nella loro naturalezza "inviolata", vengono antropomorfizzati arbitrariamente dall'autore che li mette in forma (da loro un alto, un basso, una chiave di lettura) attribuendogli un significato totalmente sganciato dal gesto, dall'atto che li ha resi tali: il taglio per l'appunto. Così, contrariamente alle fotografie cosiddette informali che della forma astratta si servono per arrivare all'informe, le immagini di Giacomelli partono dall'informe naturale e arrivano alla forma chiusa, stilizzata, figurativa. La stessa forma espressiva, (de)formata, che ritroviamo in Lourdes (1957) e nella celeberrima serie Verrà la morte e avrà i tuoi occhi[17]; serie che l'artista riprenderà, all'interno dell'ospizio di Senigallia, in più tappe (1955-56; 1966-68; 1981-83) e che ritiene la più sentita ed importante del suo lavoro.

In questo caso l'angosciante spaesamento vissuto dall'anziano, costretto in una struttura alienante e privato della dignità, proprio nel momento in cui la vecchiaia gli nega le difese più elementari, viene inquietantemente alla luce in queste immagini forti, raccapriccianti e allo stesso tempo struggenti. La rassegnazione, dolorosa fino all'incoscienza, traspare in queste fotografie che più che proiezioni oggettive della realtà sono rivelazioni della sofferenza interiore dei soggetti ripresi, al pari di soggettive cinematografiche quali quelle del Calligari di Wiene, una realtà intima che l'autore coglie empaticamente e trasmette nelle immagini. "Più che quello che avevo davanti agli occhi volevo rendere quello che avevo dentro di me[18]" ha affermato Giacomelli che si rivela nella malinconia, a volte affascinante a volte cupa, della sua opera, come un vero e proprio espressionista di matrice teutonica, lontano dalla solarità de La Bussola, e non è quindi un caso che proprio all'estero sia stato acclamato come il più grande fotografo italiano.

L'opera che più assiduamente ha impegnato Giacomelli rimane comunque La terra, paesaggi che il fotografo ha iniziato a riprendere dal 1955 e che per tutta la carriera ha continuato a fotografare. Anche in questo caso permane un'ambiguità di fondo infatti nonostante il titolo della serie, così come la composizione che elimina il cielo concentrandosi sotto la linea dell'orizzonte, convoglino l'attenzione proprio sulla terra, della sua fisicità resta ben poco; qui più che mai prevale infatti la struttura formale, la composizione "innaturale" come del resto la "tavolozza". L'impianto geometrico fortemente astraente di queste immagini senza "vie di fuga" e i contrasti esasperati del B/N, nulla hanno in comune col naturalismo moderno; la "finestra aperta sul mondo" si chiude e si apre quella sull'artista, sul creatore ora veramente "supremo"[19], non più vincolato da una riproduzione fenomenica ma narcisisticamente intento nella costruzione di una propria realtà personale in cui rispecchiarsi. "Questi paesaggi sono stati svuotati della loro realtà per mettere qualcosa di mio,[20]" "Quelle volte che non sono riuscito a trovare il paesaggio che volevo lo ho creato da me [.] è una realtà uccisa volutamente per punirla e nello stesso tempo per ridarle una vita nuova dove mi sembra per una volta di avere il sopravvento sulla natura[21]". Le frasi, dello stesso Giacomelli, sono indicative della sua ansia costruttiva fortemente radicata su concezioni artistiche tradizionali e romantiche, come l'imprescindibilità da una fattura fortemente personale che veicoli l'intimo sentimento.

Giacomelli che ha iniziato la carriera artistica come pittore è in definitiva pittorico anche nelle fotografie e l'uso che ha fatto del mezzo fotografico lo testimonia. Come nei casi in cui ha usato delle sovraesposizioni per ricostruire la realtà o meglio per allontanarsene e non mi riferisco alle messe in scena "poetiche" come Spoon River[22], ma ancora ai paesaggi. In uno di questi introduce per sovrapposizione un segnale stradale, una freccia, come nella migliore tradizione del cubismo sintetico o come in certe opere di Klee, volendo con questo svelare l'artificio, la superiorità del dato culturale su quello naturale. Giacomelli dunque usa lo strumento fotografico come il pittore usa il pennello, cioè per materializzare le proprie aspettative, ricercando nella manualità virtuosa lo stile che lo distingua dagli altri rappresentando nella maniera più efficace l'espressione interiore che lo anima. E i paesaggi non fanno eccezione: il vero paesaggio è quello interiore. Naturalmente il pittoricismo di Giacomelli non è riconducibile ai Preraffaelliti o a certa pittura romantica, l'ovvia influenza è in questo caso quella Neoplastica che lo porterà ad affermare a proposito di un suo paesaggio: "ho pensato nel farlo che lì c'era un quadro di Mondrian[23]."

Da qui parte anche Franco Fontana (1933) che in chiave più edonistica astrarrà ulteriormente i paesaggi di Giacomelli, ancora una volta apportando l'innovazione del colore, vivace, tagliente e presente quanto il bianco e nero di Giacomelli. Tra l'altro, anche i paesaggi urbani del fotografo modenese, con la loro accentuata sovrapposizione dei piani, ricordano quelli che Giacomelli scattò in Puglia nel 1958 che a loro volta ricordano certe vedute medioevali; a sottolineare il filo di riconduzione che lega il pre-moderno al post-moderno.

Nel concludere il discorso su Giacomelli, e qui azzardiamo un'ipotesi, rileviamo come l'ambiguità della sua opera, di cui si parlava qualche pagina fa, potrebbe dipendere dalla provincia italiana del periodo: luogo in cui intuizioni notevoli non trovarono terreno fertile per il loro pieno sviluppo, succubi com'erano di suggestioni formali provenienti dall'immaginario artistico collettivo. L'ambiguità di Giacomelli è allora probabilmente la stessa di Alberto Burri[24] (1915-1995): calarsi nell'esistenza della natura, ma senza parteciparne; attraversare gli eventi piuttosto con l'atteggiamento di un raffinato osservatore, come un "turista sofisticato" che presa la tipica "istantanea ricordo" l'incornicia con gusto, la personalizza con rigidi canoni di composizione e proporzione, direbbe Burri, prima di presentarla visivamente ai propri interlocutori.

In definitiva, l'opera del fotografo marchigiano che più ci affascina rimane quella legata all'ospizio, il reportage che lo stesso Giacomelli definisce "più realistico". La sua opera più diretta e forse per questo paradossalmente più lirica.


[1] Parte dell'avanguardia storica utilizzò, tra gli altri mezzi, anche la fotografia, intravedendo nella sua capacità meccanico-riproduttiva un nuovo potenziale da sperimentare. I vari Man Ray, Lázló Moholy-Nagy, Aleksandr Rodčenko, El Lissitskij, utilizzarono senza complessi il medium fotografico, ma con una grafia pur sempre riconducibile all'attiguo campo pittorico. Un vero "disinvolto" della storia della fotografia può essere invece considerato Eugène Atget che, a cavallo tra i secoli XIX e XX, riprese in maniera semplice, ma efficace, vedute della Parigi meno abbiente, meno famosa. Atget non si considerava un'artista, per questo la sua fotografia, scevra da formalismi "artistici", è veramente pura e diretta e per questo suo essere "incosciente" è stato poi acclamato come il primo fotografo surrealista.

[2] P. Bürger, Teoria dell'avanguardia, Torino, 1990. In: A. Russolo, Il luogo e lo sguardo, Torino, 1997, p. 34.

[3] In: R. Pasini, Cento segni di solitudine, Bologna, 1999, pp. 28, 29.

[4] Sono di questo periodo, intorno al 1919, le scenografie costruttiviste di Mejerchol'd, così come il film il Gabinetto del Dottor Caligari, figlio dell'espressionismo tedesco, di Wiene. Ma anche la scenografia di Cavalcanti per il Feu Mathias Pascal di l'Herbier (1925) e le scenografie di Leger e Mondrian in ambito teatrale. E ancora le prime prove di Hitchcock dove i dettagli trionfano con una propria autonomia significante (quanto a straniamento basti poi ricordare Buster Keaton). Per non parlare inoltre dei vari Appia, Craig, Tairov e Djagilev (che utilizzò come scenografi Braque, Picasso e Balla) o di cineasti quali: Dulac, Epstein, Clair, Murnau, Lang, Ejzenstejn, Vertov. Si impone dunque un impianto geometrico-compositivo derivato dal cubismo e affinatosi nelle ricerche neoplastiche, ma anche tributario dell'immagine fotografica se è vero quanto dice Sharf quando afferma che suprematisti e costruttivisti russi, furono influenzati nella loro visione dalla particolare prospettiva delle fotografie aeree (A. Sharf, op. cit. pp. 312, 313). Impianto compositivo che, con gli scorci dal basso o dall'alto e con le inquadrature oblique, resisterà, passando per il Bauhaus, fino agli anni '50 del Novecento sublimandosi in campo cinematografico nell'opera di Orson Welles; Quarto potere è del '41.

[5] Lewis Wickes Hine (1874-1940) è considerato il padre della fotografia socio-documentaria. Statunitense, dopo aver studiato sociologia ed aver raggiunto la laurea in pedagogia, si da alla fotografia documentando la misera situazione degli immigrati e soprattutto dei minori, costretti a lavorare in condizioni proibitive. Le sue fotografie, pubblicate sulla rivista The Survey, colpirono l'opinione pubblica e contribuirono alla riforma della legislazione del lavoro.

[6] Edward Weston in: S. Sontag, Sulla fotografia, Torino, 1978, p. 160. La visione di cui parla Weston si estrinseca attraverso la messa in pratica dei dettami di Stieglitz. Un'immagine dunque straight ed ipernitida, ottenuta con l'uso di macchine di grande formato e con pellicole a bassa sensibilità (16 ASA), nonché con la chiusura totale del diaframma che elimina lo sfuocato dello sfondo. E proprio da questa diaframmazione estrema prenderà nome il gruppo fondato da Weston, Ansel Adams, Imogen Cunningham ed altri, riuniti per l'appunto sotto la sigla Group F: 64.

[7] Ritroviamo gli stessi termini nel manifesto de La Bussola, in cui si parla di "sentimento lirico misteriosamente sbocciato nel cuore dell'artista per virtù d'intuizione."

[8] Con questo termine si identificano le fotografie cosiddette a tono alto. Queste si presentano come immagini chiare, luminose, evanescenti e con un chiaroscuro debole; il contrario di quanto avveniva nel fotogiornalismo dove all'immagine era richiesta ricchezza di dettagli informativi e dove la necessità della stampa giornalistica rendeva indispensabili chiaroscuri ben marcati. Sul versante opposto all'high key, ma sempre in un'ottica espressiva e manierata troviamo la stampa a tono basso, low. Visivamente il contrario del tono alto, l'immagine low, scura, catramosa, si ottiene sottoesponendo il negativo per poi sovraesporre in fase di stampa; modalità esattamente inverse a quanto avviene con la tecnica dell'high key.

[9] Questa tecnica, usata già da Talbot nei suoi photogenic drawing, venne riscoperta a partire dal 1919 dal dadaista Christian Schad e resa celebre dalle opere di Man Ray e Moholy-Nagy. Il fotogramma, che si ottiene senza l'ausilio della macchina fotografica, consiste nell'impronta fotografica lasciata da un oggetto illuminato posto sopra un foglio fotosensibile. La mancanza della prospettiva e quindi la referenzialità limitata riscontrabile in queste particolari fotografie, conferì a chi ne fece uso una "patente d'artista", difficilmente ottenibile con la fotografia "pura e semplice".

[10] La solarizzazione dà, al soggetto ripreso, una sorta di rilievo mutando in negativo i toni dello sfondo o i contorni del soggetto stesso. Usata inizialmente dalle avanguardie storiche e soprattutto da Man Ray, il suo uso si è poi diffuso tra quanti ricercavano nella fotografia un mezzo espressivo svincolato dalla realtà, tra questi anche Mario Finazzi. Ottenuta esponendo alla luce per un breve periodo la stampa o il negativo, durante la fase di sviluppo non ancora ultimata, la solarizzazione comporta una certa dose di casualità, essendo il trattamento condizionato da variabili assai poco prevedibili.

[11] E' del 1951 la prima traduzione italiana dell'Arte come esperienza, edito a Firenze da La Nuova Italia. Qui, da una posizione anti idealista, l'autore riavvicina l'esperienza estetica alla vita quotidiana.

[12] Op. cit. pp. 33, 34.

[13] A proposito delle sue fotografie Giacomelli dirà: "Prima di ogni scatto c'è uno scambio silenzioso tra oggetto e anima, c'è un accordo perché la realtà non esca come da una fotocopiatrice ma venga bloccata in un tempo senza tempo per sviluppare all'infinito la poesia dello sguardo che è per me forma e segno dell'inconscio." In: Aa. Vv. Mario Giacomelli-Fotografie 1954-1994, Tenero, 1994.

[14] Il titolo è ripreso da una poesia di padre David Turoldo.

[15] In: R. Frontoni, Obiettivo Scanno, Venezia, 1997, p. 49.

[16] In: A. C. Quintavalle (a cura di), Mario Giacomelli, Milano, 1980, p.172.

[17] Titolo ripreso da Cesare Pavese.

[18] In: A. C. Quintavalle (a cura di), op. cit. p. 85.

[19] Contrariamente a quanto detto per Weston nel precedente paragrafo, le fotografie di Giacomelli, perdendo in questo caso la loro specificità "diretta", sono più vicine alla logica pittorica suprematista di Malevič che a quella "iperreferenziale" di Weston.

[20] In: A. C. Quintavalle, op. cit. p. 71.

[21] Op. cit., pp. 213, 214.

[22] Da Spoon River Anthology di Edgar Lee Master, Caroline Branson (1971-73).

[23] In: A.C. Quintavalle, op. cit., p. 211.

[24] L'artista di Città di Castello e il fotografo di Senigallia si frequentarono per diverso tempo, riconoscendo nelle proprie opere interessanti affinità. D'altro canto Burri dai trent'anni in poi si trasferirà in città, a Roma, ma frequentò anche gli Stati Uniti, mentre Giacomelli resterà sempre legato alla sua Senigallia

 

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