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Heidegger e la filosofia: una conversazione in Sicilia

Antonello Giugliano

Nella primavera del 1963, Martin Heidegger intraprende con Medard Boss un breve viaggio di vacanza in Sicilia. Già da qualche anno, precisamente dal 1959, e proprio su sollecitazione dello psichiatra e psicoanalista svizzero col quale era entrato in contatto sin dal 1947, Heidegger tiene a Zollikon, in casa di Boss, alla presenza di numerosi medici e psicoanalisti, una serie di seminari, che dureranno fino al 1969, sui fondamenti filosofici della psichiatria e più in generale della scienza medica e naturale considerati a partire dalla propria impostazione di pensiero fenomenologico-ermeneutica.

Il 3 marzo 1963, da Freiburg i. Br., Heidegger scriveva a Boss: "Abbiamo grandi piani per un completo riposo e rinfrancamento. Vorremmo, tra la fine di aprile e l'inizio di maggio, andare in aereo, per 14 giorni, a Taormina in Sicilia, partendo proprio da Zurigo. Non ne avrebbe piacere?"[i][1].

E, qualche giorno dopo, l'8 marzo 1963, sempre da Freiburg, Heidegger reiterando l'invito, anche da parte della propria consorte, all'amico per il  primaverile viaggio siciliano in comune, gli specificava un risvolto filosofico accessorio del viaggio stesso alla cui offerta quegli molto difficilmente avrebbe saputo resistere: "Se anche Lei potesse venire [al viaggio di vacanza a Taormina], ciò sarebbe per noi una grande gioia, nonché, per noi due, sarebbe un prezioso conforto avere con noi l'amico medico, che conosce l'Italia e, per la sua vasta esperienza, conosce la lingua e le circostanze del viaggio aereo. Riguardo al periodo (dopo la settimana di Pasqua), ci conformeremmo del tutto a Lei. Per questa Sua assistenza, Le saremmo oltremodo grati. Sebbene tra amici non si debbano fare conti, tuttavia, per questa del tutto inattesa prospettiva di possibilità del viaggio, desidero dirLe che sarebbe per me un diletto e, al contempo, un proficuo autoesame attendere, ogni giorno con Lei, ad una esercitazione fenomenologica sulla scorta di Sein und Zeit"[ii][2].

La cosa dunque era definitivamente decisa, cosicché il 20 marzo 1963 Heidegger poteva scrivere a Boss che "è bello e stimolante pensare all'imminente viaggio in comune in Sicilia"[iii][3]. E, qualche giorno dopo, il 1 aprile, per mantenere la promessa fatta all'amico, Heidegger aggiungeva: "Poiché preferirei condurre i colloqui dai testi dei miei scritti, La prego di scrivermi quali temi desidera con preferenza siano trattati. Cosicché estrapolo dagli scritti le pagine corrispondenti. Non possiamo, infatti, trasportare un'intera biblioteca in Sicilia. [...] Già vivo completamente nel mondo greco. Sarà bello, dalla Sicilia, volgere il pensiero alla Grecia e trovare che entrambe sono il medesimo"[iv][4].

Infatti questo viaggio siciliano fa seguito a quello della primavera dell'anno prima, il 1962, quando Heidegger con altri compagni tocca per nave molti luoghi memorabili della penisola e dell'arcipelago greci: la Sicilia, non prevista dall'itinerario di linea, è comunque idealmente già ben presente e considerata parte integrante di quel medesimo arcipelago. "Fu proprio in Sicilia [...] che Goethe percepì per la prima volta la vicinanza dell'elemento greco"[v][5], cioè "dell'elemento greco iniziale"[vi][6], quello ancora privo dei "tratti di una Grecia romanizzata e italica, vista già alla luce di un umanismo moderno"[vii][7].

Cosicché anche per la Sicilia si tratta (ma ovviamente ad un altro e specifico livello cronologico e di complicazione storico-culturale), come a Cnosso, nella forma minoico-cretese del "simbolo della doppia ascia che si incontrava continuamente"[viii][8] e in quella del "labirinto"[ix][9], o come a Rodi e sulle coste della antica Ionia, nella forma della prima filosoficizzazione della retrostante millenaria sapienza indoiranica[x][10], del confronto - costitutivo dell'elemento greco e del suo destino[xi][11] - con la "essenza egizio-orientale"[xii][12], ossia, più latamente e più precisamente, con l' " 'Asia' "[xiii][13] in quanto tale, cioè del confronto dell'elemento greco iniziale con la propria provenienza primordiale, allorché esso "trasformò l'elemento selvaggio e conciliò la sofferenza facendone qualcosa di 'più grande', qualcosa che restò troppo grande per i mortali e aprì così per essi lo spazio del pudore [Scheu] venerante"[xiv][14].

E' perciò che "il confronto con l'elemento asiatico fu per l'esserci greco una feconda necessità"[xv][15]. Esso, non meno necessariamente, "oggi rappresenta per noi, in maniera assai diversa ed entro un orizzonte molto più ampio, la decisione sul destino dell'Europa e di ciò che si chiama mondo occidentale"[xvi][16], tutto ciò sempre però che "l'Oriente [possa] ancora rappresentare per noi il sorgere del chiarore dell'alba"[xvii][17]: a meno che "le sue luci, prodotte dalla ricerca storiografica e conservate artificiosamente, non [siano] ormai che una finzione, l'apparenza di una rivelazione che proverrebbe di là"[xviii][18].

E questo confronto è 'arcontico', cioè concernente la principialità stessa dei principi costitutivi, in quanto è un confronto con l' 'arcontico' stesso (che non è semplicemente un punto geografico-spaziale e storico da cui tutto il resto solo più proviene, bensì il punto temporale in cui ha di volta in volta 'principio' ogni diversità geografico-spaziale e storica ed innanzitutto il temporalizzarsi del tempo stesso e del suo 'orizzonte'): infatti "un tempo, l'Asiatico portò tra i Greci un oscuro fuoco ed essi, con la loro poesia e il loro pensiero, ne composero la natura fiammeggiante disponendola in una forma dotata di chiarezza e di misura. Così Eraclito doveva pensare il tutto di ciò che viene alla presenza in quanto kovsmo", e questo come to;n aujto;n aJpavntwn, come 'il medesimo per tutti i mondi', un ornamento che non fu certo fabbricato, 'non lo fece nessuno degli dèi né degli uomini' (fr. 30)"[xix][19].  

L''oriente dell'oriente'[xx][20], che può anche non coincidere più con la sua pur perdurante e infinitamente speculare apparenza, con la sua 'deiezione' storico-geografica (cioè la sua vicina e/o estrema asiaticità geografica), questo fuoco oscuro dalla natura fiammeggiante che spinge verso una forma chiara e distinta, che pure a sua volta giammai lo cattura completamente, e che giammai si lascia fabbricare da alcuno se non da se stesso, è propriamente la 'natura' o 'eidos' di tutte le cose: l'apparire, massimamente manifesto epperò proprio in quanto tale del tutto invisibile, dell'orizzonte di possibilità e visibilità di esse (di qui anche la possibilità della forma degradata di comprensione di questo fenomeno arcontico che finisce per intenderlo nei termini solo più 'relativistici' di un primato della mera opinione fenomenica sulla cosa: "Ciò che i Greci già sapevano, lo coglie Goethe nella proposizione: 'La cosa suprema sarebbe: capire che ogni che di fattuale è già teoria'. Vale a dire: non si danno affatto meri e puri 'fatti'. Se consideriamo che la 'veduta' ['Ansicht'] di qualcosa intende la sua 'sembianza' ['Aussehen'], lo eijj§doı, la  ijdeva, diventa allora comprensibile la frase di Goethe: 'Con le vedute [opinioni], quando esse spariscono dal mondo, spesso vanno perduti gli oggetti stessi. In un senso superiore, si può, invero, dire che la veduta [l'opinione] sia l'oggetto' "[xxi][21]).

L' 'oriente dell'oriente', il suo autoapparire (la cui collocazione è per essenza un dislocarsi rispetto alla circolarità di se stesso: ogni punto può essere l'oriente di se stesso e dell'altro determinandolo come occidente, per cui esso può apparire anche e massimamente dove esso in effetti non è più),  è ciò che innanzitutto appare quando appaiono le cose che sono: esso è la cosa vera e propria che è, ovvero la cosa vera e propria che è innanzitutto l'autoapparire stesso[xxii][22]. Esso inoltre è violento come tutto ciò che spinge fuori alla luce (e spinge fuori alla luce innanzitutto la luce stessa).

Ma proprio in ciò - nella intima e necessaria struttura 'deiettiva' propria dell' 'oriente dell'oriente' che produce di volta in volta il proprio occidente - è fondato anche il changeling (il 'bambino sostituito furtivamente ad un altro') della (storia della) metafisica: l'apparire dell'essere e l'essere dell'apparire (l'apparire è; cioè è l'apparire dell'essere) al posto dell'apparire in quanto tale nel suo apparire in quanto tale: apparire dell'apparire, autoapparire dell'apparenza (che non è, ma appare, appare essere).

Un paio di giorni dopo il rientro, il 6 maggio 1963, Heidegger scriveva a Boss: "Caro amico, queste righe possano essere solo un segno di ringraziamento per la Sua sempre affettuosa assistenza, che ha plasmato, a mia moglie e a me, in modo bello e molteplice il viaggio e il soggiorno in Sicilia... A Taormina, ogni giorno aveva la sua propria impronta. Le regolari ore di colloquio alla mattina, che certamente non sono bastate per chiarire tutte le difficili questioni; le rinfrancanti passeggiate attraverso i giardini di San Domenico; l'andare a zonzo per i vicoli del luogo; e, infine, le escursioni nell'interno dell'isola. Mia moglie ed io, dopo il volo, straordinariamente bello, di ritorno a Zurigo, siamo arrivati puntualmente alle 20 a Friburgo... Qui, tutt'intorno, i meli e i peri sono in piena fioritura. La terra natìa appare nuova in contrasto con il mare visto e l'isola e i suoi abitanti"[xxiii][23].

L'eidos è la 'natura' propria che appare inapparendo in quanto lascia apparire. L'apparire è l'apparire inapparente della 'natura'. Non è perciò forse un caso che l'ultimo riferimento di questa lettera sia per il contrasto tra la natura siciliana e quella sudoccidentale tedesca (essa stessa meridionale), un contrasto attraverso cui si rinnova una medesima 'natura', che appunto non è mai la medesima; i colloqui siciliani, ed in particolare il loro sfondo atmosferico (solare, marino, antropico, materico), la Sicilia in quanto tale, costituiscono l'occasione per fondere leggerezza della vacanza (intesa questa innanzitutto come un inimpedibile svuotamento, una necessaria - naturalmente violenta - deiettività) e pesantezza di alcune ineludibili domande che pur possono essere poste con suprema leggerezza (e che però proprio la stessa leggerezza può pur sempre eludere).

Così di fronte all'irrespingibile oblio deiettivo della natura risanatrice sta l'esigenza della costante "heilsame Selbstprüfung"[xxiv][24] filosofico-fenomenologica e, in questo "proficuo autoesame", innanzitutto la questione arcontica se sia prima la natura o prima la metafisica (la filosofia): se 'natura', e naturale, non sia piuttosto innanzitutto proprio la filosofia (la 'metafisica') che sola rende possibile l'apparire del dominio fisico-ontico e storico-positivo, anche se - paradossalmente - è quest'ultimo che domina quell'apparire riducendolo solo al proprio dominio di apparizione: l'occidente che rende possibile l'oriente scambiando quest'ultimo per l'origine univoca dell'altro ma non di se stesso, l' 'oriente dell'oriente' che contiene in sé la propria deiezione e rende possibile qualsiasi occidente. Ma il senso comune - che quale sovrana deiettività partecipa sempre e comunque di quell'arconticità che di volta in volta appare e simultaneamente si ritrae in se stessa e che attraverso ciò possibilizza il changeling di se stessa, ossia che il suo ritrarsi appaia come l'eterno occidente di un eterno oriente nell'univoco e unidirezionale sviluppo storico-mondiale dal secondo al primo - sembra avere sempre e comunque un sopravvento: esso è perciò l'inaggirabile paradosso del paradosso, l'apparire del suo sostrato materiale fisico-psichico.

Tralascio qui intenzionalmente di entrare dettagliatamente nel merito della questione circa la fondatezza o meno del tentativo teorico di Boss di fondare una medicina e psicologia fenomenologico-esistenziali sulla base del pensiero heideggeriano, così come nel merito della netta contrapposizione - per altro filosoficamente senz'altro condivisibile - di Boss (e prima ancora, ovviamente, dello stesso Heidegger) al precedente importante ma filosoficamente impreciso tentativo teorico di Ludwig Binswanger di fondare il sostrato fisico-psichico-spirituale oggetto della psichiatria, e dunque la psichiatria stessa, su una base fenomenologico-trascendentale husserliana[xxv][25].

Il tentativo scientifico-filosofico di Boss di configurare un'analisi medica dell'esserci umano sulla base dell'analitica filosofica dell'esserci - che sembra talvolta (anche consapevolmente) forzato o addirittura opportunistico-artificioso e comunque solo programmatico[xxvi][26] -, tuttavia, non faceva altro che accogliere e vettoriare l'esigenza propria di Heidegger di una, per dir così, maggiore 'onticizzazione' (che non coincide necessariamente con una 'antropologizzazione') del suo pensiero: un'esigenza - avente la propria radice nella questione filosofica della preminenza della 'deiettività', della 'apparenza', nel cuore stesso della 'differenza ontologica' e della sua paradossale 'verità' - che si incontrerà con quella strategia di 'normalizzazione' della filosofia di Heidegger senz'altro connessa anche al tentativo di certi ambienti culturali di offrire del pensiero heideggeriano un aspetto più umanistico e 'filantropico', allorché questo viene sempre più intensamente attaccato per i suoi trascorsi filo-nazionalsocialisti, e ciò segnatamente a partire dal rinnovato acuto interesse mondiale - che data almeno dal 1961, anno in cui appaiono i due volumi del suo Nietzsche[xxvii][27] - per il pensiero di Heidegger.

Attraverso il rapido sfioramento di questioni concernenti tanto la critica di singoli temi psicologico-psicoanalitici quanto i fondamenti concettuali scientifico-naturali della psicoanalisi[xxviii][28], le occasionali divagazioni siciliane di Heidegger in dialogo con Boss convergono però ad un certo momento sul punto arcontico del pensiero heideggeriano e del pensiero in generale; con ciò Heidegger, nel corso di queste conversazioni siciliane, non fa altro che riprendere il tema filosofico che si era affacciato già subito dopo la pubblicazione di Sein und Zeit, costituendo, proprio nella sua 'semplicità', forse il principale argomento critico fatto valere contro lo iperstoricismo della fenomenologia ermeneutico-esistenziale heideggeriana, e cioè il fatto che anche quest'ultima malgrado il suo estremo radicalismo filosofico è in ultima istanza radicata nel suo presupposto primario che, al pari di ogni altra cosa, la sostiene e la fa essere: la 'natura'. Anche se però non bisogna dimenticare che proprio in quest'ultima - soprattutto laddove essa venga pensata in modo originario come physis nel suo proprio simultaneo svelamento-nascondimento - Heidegger, com'è noto, vede una configurazione dell'approssimarsi al tentativo di pensamento dell'Essere stesso in quanto tale (che costituisce esso l'autentica 'natura', così come l'autentica 'storia').

In genere si fa risalire ai rappresentanti della cosiddetta antropologia filosofica (da Scheler a Gehlen, da Plessner a König e alla scuola diltheyana[xxix][29]) la critica della ontologia esistenziale heideggeriana ed il suo riconducimento al sostrato naturale psico-fisiologico e biologico-culturale[xxx][30].

Questa critica, alla quale Heidegger aveva risposto facendo valere l'inaggirabilità dell'analitica dell'esserci anche per qualsiasi discorso antropologico-filosofico[xxxi][31], era stata però acutizzata, ben prima e ben oltre l'impostazione solo più antropologico-filosofica, da Oskar Becker e precisamente nello stesso famoso volume VIII dello husserliano "Jahrbuch für Philosophie und phänomenologische Forschung"[xxxii][32], nelle cui pagine subito precedenti erano apparse le prime due sezioni della prima parte di Sein und Zeit.

Qui, e poi in seguito in altri scritti, Becker faceva valere la inaggirabilità, per la stessa analitica dell'esserci, di un orizzonte primordiale preumano-pretemporale che nella sua centripeta circolarità e ciclicità accompagna come un'ombra, come la propria insuperabile ombra, la stessa costituzione dell'esserci e del suo orizzonte ekstatico-temporale. Per sfuggire all'insignificanza filosofica della tradizionale contrapposizione concettuale natura/storia o immanenza/trascendenza, Becker formulava questa com-presenza 'trascendentale' - dell'irripetibile temporalizzarsi del tempo dell'esserci storico a partire dall'orizzonte di una intemporalità primordiale ciclico-ripetitiva che tutto condiziona e contiene e rende possibile -  nelle diadi di paraontologico/ontologico, paraesistenziale/esistenziale, esserstato-ci/esserci (Dawesen/Dasein), Getragenheit/Geworfenheit etc.[xxxiii][33].

In fondo, a modo suo, Becker dava rango e respiro 'eidetico' (senza con ciò ridurne la portata antifilosofica ma anzi rispettandola ricollocando l'eidetica fenomenologica sul proprio piano di 'autocollassamento' e con ciò di perfezionamento eidetico: il piano 'estetico', il piano inclinato dello sprofondante apparire del bello, dell'apparire dell'apparenza per eccellenza[xxxiv][34]) a ciò che nella stessa fenomenologia trascendentale husserliana restava dapprima totalmente sacrificato ed epochizzato in quanto meramente fondato e derivato, per poi venire solo successivamente riscoperto come Lebenswelt costitutiva epperò costitutiva innanzitutto della stessa egoità trascendentale (in tal modo assunta come mondo-della-vita propria di quest'ultima e dunque persa nel suo peculiare carattere preegologico di brutale deiettività vitale-naturale inumana).

Nel 1929 Heidegger, replicando indirettamente anche a Becker, così aveva puntualizzato il problema: "L'ente, ad esempio la natura nel senso più ampio, non potrebbe in alcun modo manifestarsi se non trovasse l'occasione di entrare in un mondo. Questa è la ragione per cui noi parliamo di un possibile ed occasionale ingresso nel mondo da parte dell'ente. L'ingresso nel mondo non è un processo interno all'ente che entra nel mondo, ma è qualcosa che 'accade' 'a' l'ente. E questo accadere è l'esistere dell'esserci che, in quanto esistente, trascende. Solo quando, nella totalità dell'ente, l'ente 'si fa maggiormente ente' nel modo della maturazione [Zeitigung] dell'esserci, suona l'ora e il giorno dell'ingresso dell'ente nel mondo. E solo quando accade questa storia originaria, ossia la trascendenza, solo cioè quando nell'ente irrompe un ente che ha la caratteristica di essere-nel-mondo, si dà la possibilità che l'ente si manifesti"[xxxv][35]; proprio perciò, continuava Heidegger con preciso riferimento a Sein und Zeit, "se in quell'opera l'esserci è interpretato come quell'ente che in generale può porre il problema dell'essere come facente parte della sua esistenza, ciò non significa che questo ente, che come esserci può esistere autenticamente o inautenticamente, sia, rispetto a tutti gli altri enti, l'ente 'autentico' in generale, cosicché nei suoi confronti gli altri enti sarebbero mere ombre. Al contrario, è proprio nel chiarimento della trascendenza che si può raggiungere l'orizzonte in cui il concetto di essere, compreso quello 'naturale' tanto rivendicato, può essere filosoficamente fondato in quanto concetto. Ma l'interpretazione ontolologica dell'essere nella, e a partire dalla, trascendenza dell'esserci non significa una deduzione ontica dell'universo dell'ente non conforme all'esserci a partire da quell'ente che è l'esserci. A questo fraintendimento è legata l'accusa d'avere assunto in  Sein und Zeit un 'punto di vista antropocentrico'. Questa accusa, che sin con troppo zelo è ora passata di mano in mano, rimane insignificante fino a che, nel pensare a fondo sull'impostazione, sull'intero percorso e sullo scopo dello sviluppo del problema in  Sein und Zeit, si tralascia di capire come proprio con l'elaborazione della trascendenza dell'esserci 'l'uomo' viene a stare al 'centro', ma in modo che solo qui può e deve farsi problema la sua nullità nella totalità dell'ente. Quali pericoli nasconde mai in sé un 'punto di vista antropocentrico' che ripone tutti i suoi sforzi unicamente nel mostrare che l'essenza dell'esserci, che sta qui 'al centro', è 'estatica', cioè 'eccentrica', e nel mostrare che perciò anche la presunta libertà del punto di vista, contrariamente a tutto il senso del filosofare inteso come una possibilità essenzialmente finita dell'esistenza, resta una folle illusione? A questo proposito, cfr. l'interpretazione della struttura estatico-orizzontale del tempo come temporalità in Sein und Zeit, I, pp. 316-438"[xxxvi][36].

Quasi trentacinque anni dopo, nel corso delle solari giornate e passeggiate siciliane, con un linguaggio se possibile tecnicamente meno impegnativo e/o involuto ma non meno arduo, il medesimo problema, il problema dei problemi, quello a cui tanto la leggerissima sovranità del filosofo quanto la pesantissima sovranità dell'ontica sono inestricabilmente sottomesse, così veniva (con appunto insostenibile leggerezza) riformulato:

"Essere, manifestatività dell'essere, si dà sempre solo in quanto essere-nell'esser-presente [Anwesenheit] dell'ente. Affinché l'ente possa esser-presente [anwesen] e, quindi, possa in generale darsi essere, manifestatività dell'essere, occorre [braucht es] lo star-dentro dell'uomo nel ci, nello slargo [Lichtung], nell'esser-levato-nello-slargo dell'essere, come quale l'uomo esiste. Dunque non può affatto darsi essere dell'ente senza l'uomo. / Questa asserzione sta in assoluta contraddizione con la constatazione scientifico-naturale, secondo cui, grazie al decadimento atomico assolutamente uniforme nelle sostanze radioattive semplicemente-presenti nella crosta terrestre, si può calcolare e perciò dimostrare che la terra è semplicemente-presente già da ben due miliardi di anni, mentre il primo uomo è comparso solo 50.000 anni fa circa. Almeno quell'ente, che chiamiamo terra, vi era già da lungo tempo prima dell'uomo. Dunque, può darsi ente e quindi manifestatività dell'essere, dunque essere, anche del tutto indipendentemente dall'uomo. / A seguito di questa contraddizione, dunque, la proposizione centrale in  Sein und Zeit del rapporto [Bezug] dell'uomo con l'essere, in quanto rapporto onnireggente, non può corrispondere alla effettualità. / Nei confronti di questa cosiddetta contraddizione si deve obiettare quanto segue: Possiamo solo dire, corrispondentemente allo 'orologio atomico', il quale espone le sostanze radioattive, racchiuse nelle rocce solide, che presentano un decadimento atomico, che la terra era semplicemente-presente prima dell'uomo. Possiamo compensare col calcolo, dedurre indirettamente, l'essente-presente allora, la terra. Tuttavia, ciò lo possiamo solo in quanto noi stiamo nello slargo dell'essere e all'essere appartiene l'essere-esser-stato [Gewesen-sein], lo 'esser-prima'. L'orologio atomico è uno strumento di misura per il calcolo dell'età della terra. Che la terra sia, che essa prima già fosse, viene semplicemente presupposto. / L'asserzione solita, invero, suona: La terra è già, in un tempo in cui l'uomo non esisteva ancora. In tal caso, però, resta indeterminato lo 'è' di questa proposizione, e, quindi, l'essere della terra, l'essere in quanto tale. Donde viene qui il tempo? / Si può prescindere dal tempo, e dire: La terra è stata senza l'uomo, indipendentemente dall'uomo. Prescindendo del tutto da se essa, dunque, già era prima dell'uomo o se, dopo l'uomo, sarà ancora, la cosa decisiva è che si possa almeno dire che la terra può essere almeno per un attimo senza l'uomo. Già ciò sarebbe sufficiente a far riconoscere come un errore la proposizione del rapporto onnireggente dell'uomo con l'essere. / In questo o quel modo, tuttavia, lo 'è', l'essere, resta indeterminato. Con ciò, non diviene chiaro, e non potrà mai diventarlo, che cosa vogliano dire tutte queste proposizioni circa l'essere della terra prima dell'uomo o senza di lui. Manifestamente, la proposizione intende meramente che la terra possa esistere indipendentemente dall'uomo, vale a dire, che si dia l'essere anche senza l'uomo, indipendentemente da lui. Vale a dire: Si dà esser-presente [Anwesen], che non ha bisogno [braucht] dell'uomo. / Esser-presente, sin dai tempi antichi, è la determinazione dell'essere dell'ente. Non solo sin dai tempi antichi, bensì anche la moderna obiettività, oggettività, semplice-presenza [Vorhandenheit], presenza [Präsenz] sono tutte solo modificazioni dello esser-presente. / Esser-presente non si dà senza un 'dove' ['wohin'] esser-presente e fermarsi [Verweilen], ri-stare [An-weilen]; vale a dire, un trattenersi [Weilen], che concerne ciò che può lasciarsi concernere. Se non si dà ciò che si lascia concernere, nulla può esser-presente. / L'uomo è il custode [Hüter] dello slargo, dell'evento [Ereignisses]. Egli non è lo slargo stesso, non è tutto lo slargo, non è identico con l'intero slargo in quanto tale. Ma in quanto stante-fuori estaticamente nello slargo, egli stesso è essenzialmente levato-nello-slargo [gelichtet], e, in quanto levato-nello-slargo in modo tanto peculiare, appartenente, pertinente allo slargo in quanto tutto e in quanto tale, ad esso traspropriato [vereignet]. L'esser-adoperato-salvaguardato [Gebrauchtsein] dell'esserci, in quanto pastore dello slargo, è un modo peculiare di appartenenza allo slargo"[xxxvii][37].

Ciò equivaleva per Heidegger ad un tacito ribaltamento della tesi di Becker (e poi anche di Löwith[xxxviii][38]) circa la preminenza della 'natura' sulla 'storia' (e dunque sulla 'filosofia'), del Dawesen della Getragenheit paraontologico-paraesistenziale e della sua ciclicamente perdurante 'intemporalità' sul ripetersi di volta in volta della irripetibile temporalizzazione ekstatico-orizzontale della storicità della Geworfenheit del Dasein ontologico-esistenziale.

Boss, che quasi inconsapevolmente sembra invece riprendere un aspetto dell'argomentazione beckeriana (essa stessa dichiaratamente esperta di precisi richiami schopenhaueriani[xxxix][39]), contrappone a Heidegger l'ipotesi induista e buddhista che assorbe del tutto l'uomo all'interno del bagliore primordiale come sua mera increspatura e ombra: "Il pensiero indiano non ha bisogno di alcun custode dello slargo. Si dà esser-levato-nello-slargo in sé e per sé. In fondo e in realtà si dà in generale null'altro che esser-levato-nello-slargo in sé e per sé. L'esserci umano è soltanto un ambito dell'esser-levato-nello-slargo stesso, il quale, però, della sua autentica essenza, cioè dell'assoluto esser-levato-nello-slargo, non si avvede in maniera piena, il suo sguardo è offuscato. Corrispondentemente, tutto il senso dell'esserci umano sta nella riacquisizione della piena conoscenza di se stessi in quanto esser-levato-nello-slargo stesso. Tutti gli altri enti sono essenzialmente la  medesima cosa, solo sono ancor più dell'uomo privi della consapevolezza di questa loro essenza fondamentale, e devono faticosamente riacquistarla attraverso ogni rinascita"[xl][40].

Rispetto ad impostazioni di questo tipo, in cui il ripetersi dell'irripetibilità propria del tempo storico umano è sottomesso alla intemporale ripetizione cosmico-metafisica, dunque ad impostazioni cui quella beckeriana era estremamente affine, Heidegger replicava a Boss (il quale qui poneva domande in veste, per dir così, di avvocato del diavolo, e pur essendo culturalmente e filosoficamente molto incuriosito dalle antiche dottrine induiste[xli][41] comunque non le condivideva) che "quel che a me propriamente interessa è che l'uomo sia uomo. Nel pensiero indiano ne va di una 'disumanizzazione' nel senso del transustanziarsi dell'esserci nella pura luminosità"[xlii][42].

Ma ciò Heidegger dice appunto per ribaltare una tale concezione antiumanistica del temporalizzarsi della temporalità e dunque per far valere che proprio anche una siffatta concezione 'naturificata', paraesistenziale, del tempo - in cui prevale la ripetizione del già-stato - ha a sua volta bisogno essa stessa di un orizzonte di 'apertura' che può essere garantito solo dalla ekstaticità propria della temporalità - il ripetersi dell'irripetibilità - dell'esserci (anche se e soprattutto se questa poi si rivela paradossalmente e vertiginosamente essere a sua volta condizionata da ciò che essa stessa condiziona): "Anche la terra 'prima' dell'uomo è-presente [west an] nell'esser-levato-nello-slargo in quanto tale, che l'uomo custodisce. Il già-esser-stata della terra è un esser-presente della terra, la cui manifestatività, il cui slargo, non ha bisogno affatto di un uomo allora già presente, certo, però, conformemente all'essenza, ha bisogno dell'uomo in quanto stante nello slargo del pieno esser-presente, e, quindi, stante anche nello slargo dell'essere-esser-stato. Lo star-dentro nello slargo dell'essere vuol dire, fra l'altro, anche il permettere il già-esser-stata della terra prima dell'uomo, vale a dire, il permettere questo modo dell'essere-nell'esser-presente. Solo perciò l'uomo comune può dire: la terra era già prima dell'uomo. Soltanto, egli non riflette espressamente circa lo 'era' ['es war']. Ogni esser-presente è dipendente dall'uomo, ma questa dipendenza dall'uomo consiste propriamente in ciò, che l'uomo in quanto esserci ed essere-nel-mondo possa permettere l'ente nel suo essere-già-esser-stato"[xliii][43].

In tal senso, perciò, "la finitezza dell'uomo consiste in ciò, che egli l'essere-nell'esser-presente dell'ente nella sua totalità, del già-essente-stato e dello ancora-avveniente, non può esperirlo in un immediatamente presente essere-nell'esser-presente in quanto essere in un nunc stans. Nell'ambito cristiano, una tale cosa è riservata a Dio. Anche la mistica cristiana non voleva nullo di diverso. (Anche tutto il 'meditare' indiano non vuole altro che raggiungere questa esperienza del nunc stans, eseguire l'ascesa a questo nunc stans, in cui passato e futuro sono superati in un unico presente immutabile). La finitezza è dicibile ancora meglio all'inverso: essa è l'esperienza dell'essere-nell'esser-presente dell'ente nei tre modi di essere-esser-stato [Gewesenheit], presente e avvenire"[xliv][44].

E' importante notare, però, come la tesi beckeriana non si riferisse ad un immobile nunc stans mistico, cristiano o indiano che fosse, ma, molto più sottilmente, ad una struttura 'intemporale' non immobile bensì ripetitiva e circolare che in sé, in quanto Dawesen, è condizione di possibilità della stessa ripetibilità dell'irripetibile proprio della temporalità ekstatica del Dasein e dello scoprirsi di quest'ultimo come condizione trascendentale della sua propria condizione.

Cosicché alla molto opportuna osservazione di Boss, che proprio alla luce di quanto sopra si è detto non si configurava affatto come una mera domanda esotica, - "ora, in che misura la concezione heideggeriana della cosa [Sache] dell'essere è più adeguata del pensiero indiano, che non ha bisogno di alcun custode dell'essere, in quanto, secondo esso, si dà il sorgere [Aufgehen] (Brahman) dell'esser-levato-nello-slargo in sé, che leva-nello-slargo se stesso e tutto ciò che in esso può venir fuori, e che è indipendente da un qualche ente di cui si avrebbe ancora espressamente bisogno in quanto custode e sopportatore-ekstativo [Aussteher] di questo esser-levato-nello-slargo?"[xlv][45] -, Heidegger poteva rispondere precisando e ribadendo che "la mia concezione è più adeguata in quanto io parto dall'esserci e dalla comprensione dell'essere e mi limito a questo che di immediatamente esperibile. In tal modo, non ho bisogno di asserire nulla circa un esser-levato-nello-slargo in sé, né ho bisogno di interpretare l'uomo come una forma fenomenica [Erscheinungsform] dell'esser-levato-nello-slargo, attraverso cui l'essere-nel-mondo e lo stare nello slargo dell'essere, in quanto distinzione peculiare [Auszeichnung], in quanto la eccellenza [Auszeichnung] dell'uomo, diventano inessenziali. Soprattutto, per il mio pensiero, la citata consapevolezza [Einsicht] indiana non è eseguibile"[xlvi][46].

Invero Heidegger, nel corso di questi "Sizilianischen Gespräche"[xlvii][47] dell'aprile-maggio 1963,  respinge l'ipotesi metafisico-cosmologica indiana e più in generale orientale non tanto e non solo per la sua peculiare impraticabilità ontologica (tutto, sia il divino principio primo e assoluto che il mero ente, dal più significativo al più insignificante, vi è ammassato e confusamente ridotto a mera semplice-presenza), quanto per la sua terribile vicinanza 'orientale' all'ancora più perfetto antiumanismo del pensiero di Nietzsche, al radicale 'sperimentalismo' filosofico di quest'ultimo, per il quale il compito estremo del pensiero consiste precisamente nel tentare di pensare l'autoapparire della vita in se stessa, in sé e per sé, prescindendo appunto dall'uomo, dalla fase del pensiero umano troppo umano; di tentare di pensare con un pensiero fuori-di-sé il puro fuori-di-sé che la vita in se stessa costituisce quale analogon di tutte le cose anche di quelle opposte e contrarie in cui essa appare e riappare molteplicemente riconfigurandosi ed il cui principio - il principio di questo suo proprio poter essere tutto ed il contrario di tutto anche di poter essere il contrario del poter-essere stesso, così come il contrario di un principio e di un inizio e di un cominciamento -  è costituito dalla struttura autodestrutturantesi del suo essere sempre di nuovo fuori-di-sé: il temporalizzarsi della struttura estatico-circolare del tempo. Era infatti proprio in riferimento anche a Nietzsche, al Nietzsche dell'eterno ritorno dell'eguale, oltre che ai paradossi della pensabilità del concetto matematico di 'infinito', che Becker era andato sviluppando la sua peculiarissima critica fenomenologica[xlviii][48].

Nella ripetizione dell'irripetibile di chi è la preminenza? Della ripetitività/ripetibilità o dell'irripetibilità? Secondo Heidegger la ripetibilità dell'irripetibile (la 'storicità') rende possibile anche il ripetitivo (la 'natura'). Secondo Becker, invece, solo la ripetitività rende possibile ad un certo punto anche l'apparire dell'irripetibile e della sua ripetizione e ripetibilità: ma proprio perciò - cioè in quanto esso è ad un certo punto che non era prima e che poi non sarà più - esso appartiene alla ripetitività, viene reclamato indietro dalla ripetitività: ripetibilità della ripetitività (che può produrre ma anche non produrre, far apparire ma anche non far apparire più la ripetibilità dell'irripetibile, cioè l' 'uomo' e la 'filosofia' e la 'storia' che a loro volta fanno apparire la ripetibilità della ripetitività, la 'natura')[xlix][49]. E sono proprio tali formulazioni problematiche che accompagnano, nella loro quasi indecidibilità, il profilarsi dell'orizzonte concettuale del fenomeno arcontico dell' 'oriente dell'oriente'.

Questioni correlative, che concernono struttura e possibilità stessa di uno 'oriente dell'oriente', Heidegger aveva toccato già anni prima[l][50] e toccherà anche successivamente[li][51] girando attorno al problema della 'animalità' e del 'corpo' nel loro rapporto col Dasein. Solo perché esulanti dallo stretto quadro cronologico della conversazione filosofica siciliana, tralascio qui la trattazione di questi due temi capitali. Non senza però aver almeno solo accennato brevissimamente al senso della loro connessione ed implicazione con la questione dell' 'oriente dell'oriente'.

Per quanto riguarda il 'corpo' (inteso sempre come Leib, cioè come corpo-vivente, distinto dal Körper nel senso del 'corpo' nella sua 'inanimata' materialità fisico-chimica, anatomica e fisiopatologica), inteso come facente tutt'uno con la struttura (concostituita di 'esser-gettato' e di 'deiezione') propria del Dasein e della sua temporalità ekstatico-orizzontale, Heidegger delinea una primazia appunto di quella struttura ontologico-esistenziale, che costituisce il 'corpo' sin nelle sue più intime fibre biologiche; una primazia che è tale rispetto all'organo ma anche rispetto alla funzione: la struttura pre-funzionalistica e pre-organicistica del Dasein 'produce' sia la funzione che l'organo, ribadendo così il suo proprio convincimento filosofico di una precedenza della metafisica sulla biologia: la vita del Leib, il corpo-vivente prima del 'corpo' 'inanimato', è la traccia dell'apparire della filosofia prima della natura, prima della scienza naturale e della medicina - ma prima anche di ogni cosiddetta 'filosofia prima')[lii][52].

Estremamente più complesso, in quanto più 'ampio' giacché ricomprendente in sé anche l'aspetto cosiddetto 'inanimato' (fisico-chimico o 'vegetativo' e comunque privo di 'parola'), è il 'fenomeno' arcontico dell''animalità' cui quello del 'corpo' in tutte le sue forme immediatamente rinvia. Qui basti dire che il confronto con questa problematica, che è possibile sinteticamente indicare come quella del 'teriomorfismo' metafisico, costituisce per Heidegger il suo lungo e interminato corpo a corpo filosofico con il massimo perlustratore di quel tema, cioè con Nietzsche ed il suo tentativo di pensare l'essenza e le forme del temporalizzarsi della temporalità nel suo proprio autoapparire. E' noto come lo stesso Nietzsche identificasse questo 'fenomeno' primordiale, che continua ad apparire in ogni attimo, con ciò che egli chiama 'arte', 'vita', 'apparenza', 'Apollo-Dioniso', 'natura' ed infine 'volontà di potenza' ed 'eterno ritorno dell'eguale', sempre e comunque sottolineando la 'ferinità', la 'ur-animalità' dell'autoapparire di questo fenomeno arcontico primordiale[liii][53].

Si tratta di quel qualcosa di terribile ed onniannientante da cui però, in pari tempo, tutto proviene ed è prodotto e fatto essere: quell' 'oriente' assoluto (anche ed innanzitutto di se stesso: 'oriente dell'oriente') che tutto distrugge ed innanzitutto il sorgere della luce che esso stesso è e fa essere (assieme alle tenebre); esso deve venire sì imbrigliato, altrimenti il suo autoapparire assoluto e totale impedirebbe il suo stesso apparire (quest'ultimo, che cela infatti sempre il proprio 'orlo', non è altro che l'attenuazione, il rallentamento, l'affievolimento, appunto la messa-in-forma e l'umanizzazione di ciò che è per eccellenza informe/de-forme e inumano/dis-umano, del terribile), ma non può venire cancellato: infatti esso non può cancellare se stesso (il 'bene' non può sconfiggere il 'male', perché proprio il Male così inteso, così ben inteso, è il Bene, lo agathòn: l'apparire inaffisabile e abbacinante di ciò che massimamente rende possibile e che perciò è massimamente risplendente cioè apparente in quanto appunto fa apparire la luce stessa: il tremendo orizzonte di possibilità della possibilità stessa di ogni orizzonte)[liv][54].

Sulla scia della diade nietzscheana di apollineo/dionisiaco, alla medesima connessione problematica ur-fenomenologica si riferiscono le due 'immagini', intenzionanti la continua inauguralità ed auroralità dell'autoapparenzialità pura, cantate da Rilke: il 'bello' come inizio del tremendo[lv][55] e la 'rosa' come pura contraddizione[lvi][56]. E al medesimo 'fenomeno' fa probabilmente riferimento Goethe nel suo Faust quando Mephistopheles si autodefinisce enigmaticamente come "Ein Teil von jener Kraft, / Die stets das Böse will, und stets das Gute schafft"[lvii][57].

L'uomo è il misterioso testimone del tremendo autoapparire di quell' 'oriente dell'oriente' che il terribile in se stesso è; egli è ciò presso cui il violento autoapparire del terribile inspiegabilmente si attenua, si arresta, rendendo possibile l'apparire dell'uomo stesso e l'apparenza (cioè la visibilità per l'uomo) del suo apparire (che è apparire di un inapparente, dunque 'orlo' dei fenomeni della natura e della natura in quanto tale) e dunque l'apparire della natura; di qui la posizione secondo cui la natura quale sostrato condiziona interamente l'uomo; e di qui, da questa misteriosa posizione peculiare di a-cui e/o presso-cui dell'attenuarsi ed arrestarsi del terribile, cioè dell'attenuarsi ed arrestarsi del sempre violento ed onniannientante autoapparire dello 'oriente dell'oriente' che ci rapisce ed insieme ci fa esistere (dell'iki: ciò che è simultaneamente - quasi come una psyché - 'respiro-vita-grazia': "iki ist das Wehen der Stille des leuchtenden Entzückens"[lviii][58]), di qui, il fatto che l'uomo sia stato frainteso come il culmine teleologico della natura e/o come il presupposto trascendentale di essa; ma anche quest'ultima posizione egli non la occupa in quanto mero uomo o in quanto autocoscienza idealistico-trascendentale, bensì in quanto ek-sistenza, cioè in quanto condizionato che è simultaneamente condizione trascendentale della immanenza della 'natura' che produce e condiziona l'ente trascendente uomo: tale condizionata-condizione trascendentale è appunto ek-sistenziale e in quanto tale immediatamente ostensiva dell'apparire stesso in quanto orizzonte di possibilità dell'individuazione pura che si individua in quanto 'uomo' ('storia') e/o in quanto 'natura'. Più precisamente, egli è il misterioso interlocutore di un'enigmatica struttura, l'analogon 'puro', l'in-dividuo, che l'autoapparire del temporalizzarsi del tempo è (il nostro termine 'fenomeno' rinvia alla temporalità del suo proprio apparire-evenire; in altre lingue viene sottolineato ancora più pronunciatamente che non in greco il peculiare carattere temporale del 'fenomeno', per es. in giapponese l'ideogramma genshô, 'fenomeno', sta ad indicare alla lettera l'apparire-presentemente).

L'io e il tu, o meglio il me ed il te, il sé e l'altro (che è simultaneamente anche un qui ed un là), così come l'alterità della norma o la pretesa contemporaneità di ogni storia etc., sono fondati nella struttura 'formale' ek-statica (ekstatico-orizzontale) del temporalizzarsi della temporalità del tempo, del suo essere-in-sé - del suo in-stans - essendo simultaneamente sempre fuori-di-sé: è esso l'autentico individuo (individuità) che rende possibile l'individuarsi dell'individualità dell'individuo-uomo e attraverso di esso dell'individuità di tutti gli altri enti storici e naturali (ed anche logico-categoriali e concettuali): ciò che appunto costituisce l'horizon del mondo (che quell'individuità 'è' e che quella individualità-uomo 'è'). L'effabilità di questo individuo arcontico, di questa individuità, è il compito della filosofia (della Arcontica): con questo (che è appunto l'opposto del tradizionale adagio 'individuum est ineffabile') essa sta o cade.

Questo problema - "il problema del fondamento dell'individualità"[lix][59], della "individuazione dell'individuale"[lx][60] - nella sua apparente evanescenza metafisica sta a fondamento della stessa scienza storica quando questa si rivolge appunto ai fatti concreti particolari nella loro concreta individualità e alla individuazione delle loro concrete e specifiche connessioni generali .

La struttura 'formale' del temporalizzarsi della temporalità, il tempo, l'individuarsi dell'individuazione dell'individuità dell'individuo, è una astrazione concretissima e una concrezione astrattissima. E' il presupposto 'logico-metafisico' di ogni fenomeno storico e della sua analisi e descrizione scientifico-storiografica così come della sua costruzione.

Ciò costituisce l''oggetto' specifico della filosofia in quanto filosofia intrinsecamente storica epperò distinta dalle scienze storico-sociali, in quanto l'apparire dell'oggetto di queste ultime è reso possibile solo a partire dall'orizzonte che è intenzionato dalla prima, che è poi il medesimo oggetto nella sua fase aurorale: è il lato 'formale' - sempre identico e mai identico, sempre diverso e giammai diverso (come quello delle 'generazioni') - di ogni concreto contenuto storico, di ogni fatto e fenomeno storico; ma questo lato è propriamente la sua concrezione primordiale, il suo "supporto non-teoretico"[lxi][61], la sua 'materia-trascendentale', l'ombra oltre la quale esso non può mai saltare, ovvero ciò che lo fa apparire quale esso è consegnandolo alla luce del giorno dell'analisi storico-sociale e causale.

L'individuità è ciò a cui mira la stessa scienza storica, in quanto l'individuità sta a fondamento di ogni spiegazione genetica che può sì dire di scientificamente ignorare le origini assolute e primordiali, ma che non può fare a meno di presupporre continuamente l'articolarsi della 'struttura' - il suo 'evenire' - di ciò che solo rende possibile - attraverso l'autoapparire della sua propria 'analogicità' - la linearità di ogni genesi e di ogni fase di nascimento e di ogni sviluppo da una fase all'altra, da un nascimento all'altro, da una relatività situazionale all'altra; dell'analogon che solo rende possibile tanto il concetto, logicamente falso e miticamente stilizzato in una immanenza assoluta o in una trascendenza assoluta, di un'origine assoluta, quanto il concetto logicamente vero ma temuto di un assoluto relativismo: cioè il temporalizzarsi della temporalità, l'individuarsi dell'individuazione dell'individuità (che, in quanto 'evento' per eccellenza, è il fenomeno storico primordiale della correlatività del presente, di ogni presente e di ogni passato e di ogni futuro, e del presente e del futuro di ogni passato, e del passato e del presente di ogni futuro), ovvero l'evento connessionale dell'autoapparirsi del temporalizzarsi della temporalità del tempo, dell'analogon: di fronte a cui, di fronte alla cui possibilità, si erge - proveniente da dietro - la necessità assoluta di una pura immanenza che nel suo puro in-stans, nell'infinito giro e rigiro di se stesso su se stesso eternamente ritornante in se stesso del suo puro presente cosmologico-abissale, come un buco nero tutto riassorbe in sé di quanto ha fatto dapprima apparire (ogni pensiero, il pensiero stesso, ogni risveglio, ogni luce, la filosofia, ed anche la scienza storica), oppure - proveniente da prima del prima cosmico e insieme dal futuro della fine dei tempi storici e naturali - si staglia la necessità assoluta di una pura trascendenza puramente e-statica ed eternamente fissa nel suo puro presente totalmente compiuto una volta per tutte senza più cangiamento corruzione distruzione movimento, cioè senza più l'orizzonte-mondo.

Invero l'abissalità del problema del temporalizzarsi della temporalità del tempo consiste proprio nella sua simultanea ed assoluta superficialità e superficializzazione. Sta qui innanzitutto il suo carattere di 'alienazione'. Esso è l'individuo arcontico che si articola, cioè si temporalizza, essendo-in-sé stando fuori-di-sé: alla sua gettatezza è propria innanzitutto la deiezione di sé in altro, che è la medesima individuità in-sé-fuori-di-sé. La deiezione è quella dell'individuità nell'individuo (nel singolo uomo, nel singolo ente storico e/o naturale, nella particolare totalità individuale o connessione di fenomeni storico-culturali e/o naturali). Ma innanzitutto è quella della ek-sistenza (del temporalizzarsi della temporalità del tempo, della individuità, cui anche, certo in maniera privilegiata, l'individuo uomo in quanto Dasein - essente-nel-mondo, dunque ek-statico-orizzontale e storico  - appartiene) nella in-stantaneità dell'immanenza, nel Dawesen, nel paraontologico, nel paraesistenziale: in ciò da cui - staccandosene (seppur avendolo sempre di nuovo inaggirabilmente accanto, presente e futuro come un passato che non passa) - l'ek-staticità del temporalizzarsi del tempo è apparsa.

Questo autoapparire del temporalizzarsi della temporalità del tempo (della scansione di 'natura' e 'storia' nel loro intrinseco rapporto) è il fenomeno per eccellenza, l'evento per eccellenza, della storia della cultura occidentale e della sua unicità storico-mondiale. Essa infatti, proprio sulla base di questa sua autoconsapevolezza dell'evento del temporalizzarsi della temporalità del tempo (che segna simultaneamente la fine della filosofia e l'inizio dell'apparire storicissimo del suo 'oggetto' scientifico primigenio), può incontrarsi ora con l'altra metà della cosiddetta storia universale, quella dell'Oriente che è ora sempre più occidentalizzato: di quell'Oriente che è l'emblema proprio della cancellazione del tempo ekstatico-orizzontale, e dunque l'emblema per eccellenza della preminenza e sovranità dell'immanenza del Dawesen, del paraontologico-paraesistenziale, in forme sublimemente deiettive. Questa sublimità orientale della deiezione del temporalizzarsi della temporalità del tempo è però essa stessa un fenomeno perduto e frastagliato e perciò di difficile conoscenza autentica: perduto sia per il suo peculiare stato linguistico-concettuale sia per il suo modo di trasmissione.

Di fronte all'Oriente occidentalizzato in quanto scoperto e reso parlante dall'Occidente, quest'ultimo, attraverso la sua propria iperstoricistizzazione (la scoperta e consapevolezza postfilosofica ed antifilosofica dell'autoapparirsi dell'individuità) scopre che l'Oriente stesso, proprio per la preminenza vigente in esso della 'natura', ossia del Dawesen, non è mai stato autenticamente 'orientale': e ciò paradossalmente è dimostrato proprio dalla sua quasi del tutto compiuta iperoccidentalizzazione. Ciò significa per il cosiddetto Occidente europeo-americano (e forse in parte anche per la cultura nipponica, laddove questa farà convergere l'essenza delle proprie origini shintôiste[lxii][62], anche attraverso il nihilismo zen, con gli esiti fenomenologici più estremi del pensiero europeo[lxiii][63]) che proprio esso, attraverso la consapevolezza dell'evento della individuità del temporalizzarsi della temporalità del tempo (che contrassegna la peculiarità ed unicità della storia della cultura cosiddetta occidentale), costituisce l''oriente dell'oriente', quell'aurorale fenomeno abissale che necessariamente deve sempre simultaneamente ricadere nella suprema superficializzazione di sé, cioè dell'autoapparirsi dell'in-cui dello star-fuori della propria pura distruggitrice possibilità. Nell'apparire dell'apparire appare allora una cosa, una casa, una vita, una storia, un evento, un'invenzione, un suono, una stella, l'est e l'ovest, il nord ed il sud, la neve e la primavera, un viaggio di ritorno o una solare vacanza al mare etc. Non solo anche qui abitano gli dèi, ma nell'apparire del loro grazioso scomparire, per lasciar che ogni cosa si stabilisca nel proprio specifico 'orlo', ciascuno di essi sussurra: naufragium feci bene navigavi.


[i][1] Cfr. M. HEIDEGGER, Zollikoner Seminare. Protokolle - Zwiegespräche - Briefe, hrsg. von Medard Boss, Frankfurt a./M., Klostermann, 1987. Edizione italiana: ID., Seminari di Zollikon. Protocolli seminariali - Colloqui - Lettere, a cura di A. Giugliano ed E. Mazzarella, Napoli, Guida, 1991 (= SdZ), p. 370.

[ii][2] SdZ, pp. 370-371.

[iii][3] Ibid., p. 371. - Salvo indicazione diversa, le lettere di Heidegger a Boss sono sempre inviate da Freiburg i. Br.

[iv][4] SdZ, p. 372.

[v][5] Cfr. M. HEIDEGGER, Soggiorni. Viaggio in Grecia (1989), trad. it. di A. Iadicicco, Parma, Guanda, 1997, p.12.

[vi][6] Ibid., p. 13.

[vii][7] Ibid., p. 12.

[viii][8] Ibid., p. 28.

[ix][9] Ibid., p. 29.

[x][10] Su questo punto controverso - che è un fondamentale problema filosofico ed insieme storico-universale -, oltre alle classiche pagine di S. MAZZARINO, Fra Oriente e Occidente. Ricerche di storia greca arcaica (1947), a cura di F. Cassola, Milano, Rizzoli, 1989, cfr. ora gli studi specialistici di M. L. WEST, La filosofia greca arcaica e l'Oriente (1971), trad. it. di G. Giorgini, Bologna, Il Mulino, 1993, sui quali si vedano le considerazioni critiche svolte da A. MOMIGLIANO, Saggezza straniera.  L'Ellenismo e le altre culture (1975), trad. it. di M.  L. Bassi, Torino, Einaudi, 1980, in particolare le pp. 127-154 e la relativa bibliografia essenziale (ibid., pp. 194-197 e p. 199). - Più recentemente sul tema, privilegiando fortemente il sostrato sumero-accadico rispetto a quello indo-iranico, cfr. le innovative indagini linguistiche di G. SEMERANO, Le origini della cultura europea, vol. I: Rivelazioni della linguistica storica, 2 tt., Firenze, Olschki, 1984; vol. II: Dizionari etimologici. Basi semitiche delle lingue indeuropee, 2 tt., Firenze, Olschki, 1994. 

[xi][11] Cfr. M. HEIDEGGER, Soggiorni. Viaggio in Grecia, cit., p. 30.

[xii][12] Ibid., p. 28.

[xiii][13] Ibid., p. 30.

[xiv][14] Ibid.

[xv][15] Ibid., p. 31.

[xvi][16] Ibid.

[xvii][17] Ibid., p. 32.

[xviii][18] Ibid.

[xix][19] Ibid.

[xx][20] Per una prima determinazione (e insieme distinzione) di questo concetto cfr. le interessanti ricerche avviate da G. MARCHIANO', Sugli orienti del pensiero. La natura illuminata e la sua estetica, Soveria Mannelli (Cz), Rubbettino, 1994, 2 voll. - Seppur in apparenza terminologicamente affine a quello, da me qui utilizzato, di 'oriente dell'oriente', il nuovo concetto di "orienti del pensiero" non è però in tutto e per tutto coincidente con esso (se non altro perché quello di 'oriente dell'oriente' è un concetto trascendentale - più precisamente: il concetto di un orizzonte trascendentale di possibilità, di possibilità dell'autoapparire in quanto tale, precedente ogni determinazione di punti cardinali - e appunto trascendentalmente precedente anche ogni oriente degli orienti del pensiero "cioè l'insieme unitario delle fonti dalle quali origina il pensare", ibid., vol. 1, p. 5), infatti la inevitabile localizzazione culturale dell'oriente nelle millenarie tradizioni e trasformazioni di quello anteroasiatico e/o lontanoasiatico, l'inaggirabile sostanzialismo di tale impostazione, non può che costringere a collocare nel pensiero - certo in un pensiero che pur contro la sua più propria intenzione tende generalmente sempre di nuovo a scivolare nel mentalismo e nello psicologismo - il  luogo/non-luogo di tali orienti del pensiero stesso, per cui qui sarebbe un presunto pensiero puro ciò da cui sorge il pensiero.- Nell'album dei Beatles, Please Please Me, c'è una famosa canzone dei giovanissimi J. Lennon & P. McCartney, del marzo 1963, intitolata There's a place, la cui prima strofa ("There, there's a place,/ Where I can go,/ When I feel low,/ When I feel blue,/ And it's my mind, / And there's no time,/ When I'm alone", cfr. Il libro delle canzoni dei Beatles, a cura di A. Aldridge, Milano, Mondadori, 1972, p. 116) forse rende bene in tutta la sua necessaria ambiguità gnoseologica il concetto di orienti del pensiero, cioè "l'idea che da qualche parte, su questa terra, esistessero dei 'luoghi' inviolati, calmi e radiosi, nei quali rifugiarsi in qualsiasi momento senza muovere nemmeno un passo. [...] luoghi-radice di questa specie, nutriti dal soffio del proprio cuore, della spinta a foggiarsi paradisi solitari, godevano di un regime di 'realtà' diverso da quello dell'esperienza comune: 'erano' senza esistere [...]. La quieta certezza di potercisi affidare senza che nulla trapelasse alla superficie di questo incofessabile vincolo segreto bastò a rendere tollerabile, a tratti persino lieto, il transito nelle stazioni della vita", cfr. G. MARCHIANO', op. cit., vol. 1, p. 7.

[xxi][21] SdZ, p. 373. - Le due citazioni heideggeriane da GOETHE sono tratte dalle Maximen und Reflexionen (nr. 993 o 575 e nr. 1025 o 1147 a seconda dell'edizione di riferimento).

[xxii][22]In tal senso non è probabilmente solo un caso che il carattere cinese, il kanji, con cui la lingua giapponese (cioè la lingua della nazione e della cultura estremo-orientale massimamente occidentalizzata e consapevole di questo ossimoro) indica il concetto e la parola di       Ajia (Asia) sia costituito dal segno assomigliante approssimativamente ad una croce greca indicante la parità (ovvero l'indeterminazione) di tutte e quattro le direzioni: a sua volta questo kanji è costituito dalla rotazione intorno a se stesso e proiezione speculare su se stesso (sull'alterità di se stesso) del carattere indicante la medesimezza -       ki [stesso] - che sta a fondamento anche dell'identità personale del se stesso umano. - Uno dei limiti di fondo della storiografia universalkulturgeschichtlich europea, che pur affronta con la massima consapevolezza la centralità del tema Oriente/Occidente, mi sembra risiedere nella esclusione dal suo discorso proprio dell'orizzonte estremo-orientale. Probabilmente in ciò il tardo Spengler aveva ragione (cfr. O. SPENGLER, Frühzeit der Weltgeschichte. Fragmente aus dem Nachlaß, unter Mitwirkung von M. Schröter hrsg. von A. M. Koktanek, München, Beck, 1966).

[xxiii][23] SdZ, p. 373.

[xxiv][24] Cfr. M. HEIDEGGER, Zollikoner Seminare, cit., p. 326. (Si tratta della lettera di Heidegger a Boss dell'8 marzo 1963, citata supra all nota 2).

[xxv][25] Su ciò cfr. in particolare E. MAZZARELLA, Ermeneutica dell'effettività. Prospettive ontiche dell'ontologia heideggeriana, Napoli, Guida, 1993, cap. VII: "Psicoanalisi e ontologia", pp. 151-170.

[xxvi][26] Cfr., per es., i due scritti di M. BOSS, L'introduzione dell'analitica dell'esserci nel pensiero medico (1982) e Il significato di Martin Heidegger per il lavoro con persone sofferenti e per l'autocomprensione della psicoterapia (1981), raccolti ora in trad. it. in appendice a SdZ, rispettivamente alle pp. 415-423 e pp. 425-436. La principale realizzazione sistematica del tentativo di fondazione fenomenologico-ermeneutica della psichiatria è costituito da M. BOSS, Grundriss der Medizin und der Psychologie. Ansätze zu einer phänomenologischen Physiologie, Pathologie, Therapie und zu einer daseinsmässigen Präventiv-Medizin in der modernen Industrie-Gesellschaft (1971), zweite, ergänzte Auflage, Bern-Stuttgart-Wien, Huber, 1975.

[xxvii][27] Cfr. M. HEIDEGGER, Nietzsche (1961), a cura di F. Volpi, Milano, Adelphi, 1994.

[xxviii][28] Cfr. SdZ, pp. 231-258 ("Dal 24 aprile al 4 maggio 1963 durante le ferie in comune a Taormina, Sicilia").

[xxix][29] Su ciò cfr. le ricerche di S. GIAMMUSSO, La comprensione dell'umano. L'idea di un'ermeneutica antropologica dopo Dilthey, Soveria Mannelli (Cz), Rubbettino, 2000.

[xxx][30] Cfr. H. FAHRENBACH, Heidegger und das Problem einer philosophischen Anthropologie, in AA.VV, Durchblicke. Martin Heidegger zum 80. Geburtstag, Frankfurt a./M., Klostermann, 1970, pp. 97-131; ed inoltre O. PÖGGELER, Schritte zu einer hermeneutischen Philosophie, Freiburg/München, Alber, 1994, pp. 205-215; ID., Heidegger in seiner Zeit, München, Fink, 1999, pp. 174-186.

[xxxi][31] Cfr. M. HEIDEGGER, Kant und das Problem der Metaphysik (1929), fünfte, vermehrte Auflage, hrsg. von Fr.-W. von Herrmann, Frankfurt a./M., Klostermann, 1991, §§ 37-38, pp. 208-218.

[xxxii][32] Cfr. O. BECKER, Mathematische Existenz. Untersuchungen zur Logik und Ontologie mathematischer Phänomene, in "Jahrbuch für Philosophie und phänomenologische Forschung", VIII (1927), pp. 439-809.

[xxxiii][33] Per una trattazione più esaustiva di questi plessi concettuali beckeriani rinvio ad A. GIUGLIANO, Nietzsche-Rickert-Heidegger (ed altre allegorie filosofiche), Napoli, Liguori, 1999, in particolare pp. 22-42, e alle indicazioni bibliografiche ivi contenute. Si veda inoltre il più recente O. PÖGGELER, Phänomenologie und philosophische Forschung bei Oskar Becker, Bonn, Bouvier, 2000.

[xxxiv][34] Su questo specifico punto cfr. O. BECKER, Von der Hinfälligkeit des Schönen und der Abenteuerlichkeit des Künstlers (1929), in ID., Dasein und Dawesen. Gesammelte philosophische Aufsätze, Pfullingen, Neske, 1963, pp. 11-40; trad. it.: ID., Della caducità del bello e della natura avventurosa dell'artista, a cura di V. Pinto, Napoli, Guida, 1998.

[xxxv][35] M. HEIDEGGER, Dell'essenza del fondamento (1929), in ID., Segnavia (1976), a cura di F. Volpi, Milano, Adelphi, 1987, p. 115.

[xxxvi][36] Ibid., pp. 118-119, n. 59.

[xxxvii][37] SdZ, pp. 253-255.

[xxxviii][38] Su questo punto cfr. A. GIUGLIANO, Nietzsche-Rickert-Heidegger (ed altre allegorie filosofiche), cit., pp. 43-54 e le indicazioni bibliografiche ivi contenute.

[xxxix][39] Cfr. O. BECKER, Mathematische Existenz, cit., p. 665, nota 1.

[xl][40] SdZ, pp. 255-256.

[xli][41] Cfr. M. BOSS, Indienfahrt eines Psychiaters (1959), Freiburg-Basel-Wien, Herder, 1966.

[xlii][42] Ibid., p. 256.

[xliii][43] Ibid.

[xliv][44] Ibid., pp. 256-257.

[xlv][45] Ibid., p. 257.

[xlvi][46] Ibid.

[xlvii][47] Cfr. M. HEIDEGGER, Zollikoner Seminare, cit., p. 228.

[xlviii][48] Cfr. A. GIUGLIANO, op. cit., pp. 27, 34-35, 52, 54-58.

[xlix][49] Su questi punti cfr. ibid., pp. 27-42.

[l][50] Cfr. M. HEIDEGGER, Parmenide (1942/43), a cura di F. Volpi, trad. it. di G. Gurisatti, Milano, Adelphi, 1999, pp. 269-285; e ID., Perché i poeti? (1946), in ID., Sentieri interrotti (1950), a cura di P. Chiodi, Firenze, La Nuova Italia, 1968, pp. 247-297; in entrambi i casi con riferimento a Rilke e a Nietzsche. Al riguardo cfr. A. GIUGLIANO, op. cit., § 4: "Nietzsche e la genesi del mondo umano (con un'eco da Rilke)", pp. 139-170.

[li][51] Cfr. SdZ, pp. 337-341 (si tratta di un protocollo di un dialogo del 3 marzo 1972 in cui si fa riferimento anche alle famose obiezioni mosse anni prima da J.-P. Sartre, "il quale si stupiva che Lei, in tutto Sein und Zeit, abbia dedicato appena sei righi all'argomento del corpo", al che Heidegger ribatteva che "il rimprovero di Sartre lo posso accogliere solo con la constatazione che il corporeo è la cosa più difficile e che io allora non sapevo proprio dire di più", ibid., p. 337. Cfr. J.-P. SARTRE, L'être et le néant. Essai d'ontologie phénomenologique (1943), Paris, Gallimard, 1999, passim).

[lii][52] Cfr. SdZ, pp. 337-341.

[liii][53] Anche in questo caso, così come per quanto segue nel testo, mi permetto di rinviare ancora ad A. GIUGLIANO, op. cit., pp. 58-62 e pp. 117-170, dove ho tentato di argomentare maggiormente questi punti.

[liv][54] Forse non è solo un caso che l'ideogramma sinogiapponese aku [    ], indicante il concetto di 'cattiveria' e di 'male', sia composto proprio dal kanji di Ajia (Asia) sovrapposto a quello di shin (cuore, animo, sentimento, 'pensiero'). - E nemmeno sembra quindi una mera valutazione esteriore, bensì proprio la determinazione profonda del 'principio asiatico', il verso virgiliano in cui si parla del "saevus Oriens" (cfr. Aen., V, 739).  

[lv][55] Cfr. R. M. RILKE, Elegie Duinesi, trad. it. di E. e I. De Portu, Torino, Einaudi, 1978, I Elegia, vv. 4-7: "Perché il bello non è che il tremendo al suo inizio, noi lo possiamo reggere ancora, / lo ammiriamo anche tanto, perch'esso calmo, sdegna / distruggerci" ("Denn das Schöne ist nichts / als des Schrecklichen Anfang, den wir noch grade ertragen, / und wir bewundern es so, weil es gelassen verschmäht, / uns zu zerstören").

[lvi][56] Cfr. R. M. RILKE,  Poesie, vol. II (1908-1926), a cura di G. Baioni, Torino, Einaudi-Gallimard, 1995, pp. 316-317: "Rosa, pura contraddizione, piacere / di essere il sonno di nessuno sotto tante / palpebre" ("Rose, oh reiner Widerspruch, Lust, / Niemandes Schlaft zu sein unter soviel / Liedern").

[lvii][57] Cfr. J. W. GOETHE, Faust, a cura di F. Fortini, Milano, Mondadori, 1976(3), pp. 102-103, (Parte prima, "Studio") vv. 1336-1337: "Una parte della forza / che vuole sempre il male e opera sempre il bene".

[lviii][58] Cfr. M. HEIDEGGER, Unterwegs zur Sprache (1959), Pfullingen, Neske, 1997(11), p. 141; trad. it.: ID., In cammino verso il linguaggio, a cura di A. Caracciolo, Milano, Mursia, 1973, p. 116: "Lo iki è il soffio della quiete che luminosamente rapisce". - Su questo punto si veda in particolare Sh. KUKI, La struttura dell'iki (1930), a cura di G. Baccini, Milano, Adelphi, 1992, e R. ÔHASHI, Heidegger und "Graf" Kuki. Zu Sprache und Kunst in Japan als Problem der Moderne (1989), ora in ID., Japan im interkulturellen Dialog, München, Iudicium Verlag, 1999, pp. 203-214.

[lix][59] Cfr. P. PIOVANI, Totalismo, idealismo, conoscere storico (1963/64), in ID., Conoscenza storica e coscienza morale (1966), Napoli, Morano, 1972(2) (= CSCM), pp. 77-102, qui p. 80.

[lx][60] Cfr. P. PIOVANI, Ricognizione dell'individuale, scienza storica, filosofia italiana, interesse fenomenologico (1962), in ID., CSCM, cit., pp. 64-75, qui p. 70.

[lxi][61] Per l'uso di questo concetto di ispirazione humboldtiana cfr. F. TESSITORE, Per una storia della cultura (1988), in ID., Contributi alla storia e alla teoria dello storicismo, vol. I, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1995, pp. 35-79, qui p. 67 e p. 65.

[lxii][62] Su questo aspetto cfr. le acute pagine di P. VILLANI, Lo shintoismo. Variazioni su temi linguistico-religiosi, Napoli, Morano, 1990.

[lxiii][63] Penso qui in particolare all'ultima fase della fenomenologia eterodossa di M. Merleau-Ponty su cui più volte aveva acutamente richiamato l'attenzione già P. PIOVANI, cfr., per es., ID., Filosofia e storia delle idee, Bari, Laterza, 1965, p. 168;  ID., Ricognizione dell'individuale, scienza storica, filosofia italiana, interesse fenomenologico (1962), in ID., CSCM, cit., p. 74; ID., Totalismo, idealismo, conoscere storico (1963/64), in ID., CSCM, cit., p. 90; ID., Antirelativismo, pluralità dei valori, restaurazioni universalistiche (1974), in ID., Posizioni e trasposizioni etiche, a cura di G. Lissa, Napoli, Morano, 1989 (=PTE), pp. 87-116, qui p. 116; ID., L'etica del Novecento (1977), in ID., PTE, cit., pp. 117-164, qui p. 148; ID., Ragioni e limiti del situazionismo etico (1973), in ID.,  PTE, cit., pp. 165-201, qui pp. 188-189: in questi tre ultimi lavori Piovani citava ripetutamente il seguente emblematico e programmatico passo: "La contingenza  di tutto quel che esiste e di tutto quel che vale non è una piccola verità a cui far posto, bene o male, in un anfratto del sistema, ma è la condizione di una visione metafisica del mondo" (cfr. M. MERLEAU-PONTY, Il metafisico nell'uomo, in ID., Senso e non-senso (1948), trad. it. di P. Caruso, Milano, Il Saggiatore, 1962, p. 119). Su questo tema nel frattempo la letteratura filosofica è divenuta vastissima, cfr. almeno la trattazione complessiva dedicata a Merleau-Ponty da B. WALDENFELS, Phänomenologie in Frankreich (1983, 1987), 3. Aufl., Frankfurt a./M., Suhrkamp, 1998, pp. 142-217, pp. 568-570, con ampia bibliografia internazionale aggiornata.    

 

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