Heidegger e la filosofia: una conversazione in Sicilia
Antonello Giugliano
Nella primavera del
1963, Martin Heidegger intraprende
con Medard Boss un breve viaggio di vacanza in Sicilia. Già
da qualche anno, precisamente dal 1959, e proprio su sollecitazione
dello psichiatra e psicoanalista svizzero col quale era
entrato in contatto sin dal 1947, Heidegger
tiene a Zollikon, in casa di Boss, alla presenza di numerosi medici
e psicoanalisti, una serie di seminari, che dureranno fino al 1969,
sui fondamenti filosofici della psichiatria e più in generale della
scienza medica e naturale considerati a partire dalla propria impostazione
di pensiero fenomenologico-ermeneutica.
Il 3 marzo 1963, da Freiburg
i. Br., Heidegger scriveva a Boss:
"Abbiamo grandi piani per un completo riposo e rinfrancamento.
Vorremmo, tra la fine di aprile e l'inizio
di maggio, andare in aereo, per 14 giorni, a Taormina in Sicilia,
partendo proprio da Zurigo. Non ne avrebbe piacere?"[i][1].
E, qualche giorno dopo, l'8 marzo 1963,
sempre da Freiburg, Heidegger reiterando l'invito, anche da parte della propria
consorte, all'amico per il primaverile viaggio siciliano in comune,
gli specificava un risvolto filosofico
accessorio del viaggio stesso alla cui offerta quegli molto difficilmente
avrebbe saputo resistere: "Se anche Lei potesse venire [al viaggio
di vacanza a Taormina], ciò sarebbe per noi una grande gioia, nonché,
per noi due, sarebbe un prezioso conforto avere con noi l'amico medico,
che conosce l'Italia e, per la sua vasta esperienza, conosce la lingua
e le circostanze del viaggio aereo. Riguardo al periodo (dopo la settimana
di Pasqua), ci conformeremmo del tutto a Lei. Per questa Sua assistenza,
Le saremmo oltremodo grati. Sebbene tra amici non si debbano fare
conti, tuttavia, per questa del tutto inattesa
prospettiva di possibilità del viaggio, desidero dirLe che
sarebbe per me un diletto e, al contempo, un proficuo autoesame
attendere, ogni giorno con Lei, ad una esercitazione fenomenologica
sulla scorta di Sein und Zeit"[ii][2].
La cosa dunque era definitivamente decisa,
cosicché il 20 marzo 1963 Heidegger poteva
scrivere a Boss che "è bello e stimolante
pensare all'imminente viaggio in comune in Sicilia"[iii][3]. E, qualche
giorno dopo, il 1 aprile, per mantenere la promessa fatta all'amico,
Heidegger aggiungeva: "Poiché preferirei condurre i colloqui
dai testi dei miei scritti, La prego di scrivermi quali temi
desidera con preferenza siano trattati. Cosicché
estrapolo dagli scritti le pagine corrispondenti. Non possiamo,
infatti, trasportare un'intera biblioteca in Sicilia. [...] Già vivo
completamente nel mondo greco. Sarà bello, dalla Sicilia, volgere
il pensiero alla Grecia e trovare che entrambe sono il medesimo"[iv][4].
Infatti questo
viaggio siciliano fa seguito a quello della primavera dell'anno prima,
il 1962, quando Heidegger con altri compagni
tocca per nave molti luoghi memorabili della penisola e dell'arcipelago
greci: la Sicilia, non prevista dall'itinerario di linea, è comunque
idealmente già ben presente e considerata parte integrante di quel
medesimo arcipelago. "Fu proprio in Sicilia [...] che
Goethe percepì per la prima volta la vicinanza dell'elemento
greco"[v][5], cioè "dell'elemento greco iniziale"[vi][6], quello ancora privo dei "tratti di una
Grecia romanizzata e italica, vista già alla luce di un umanismo moderno"[vii][7].
Cosicché anche per la Sicilia si tratta
(ma ovviamente ad un altro e specifico livello cronologico e di complicazione
storico-culturale), come a Cnosso, nella forma minoico-cretese
del "simbolo della doppia ascia che si incontrava
continuamente"[viii][8] e in quella del "labirinto"[ix][9], o come a Rodi e sulle coste della antica
Ionia, nella forma della prima filosoficizzazione
della retrostante millenaria sapienza indoiranica[x][10], del confronto - costitutivo dell'elemento
greco e del suo destino[xi][11] - con la "essenza egizio-orientale"[xii][12], ossia, più latamente
e più precisamente, con l' " 'Asia' "[xiii][13] in quanto tale, cioè del confronto dell'elemento
greco iniziale con la propria provenienza primordiale, allorché esso
"trasformò l'elemento selvaggio e conciliò la sofferenza facendone
qualcosa di 'più grande', qualcosa che
restò troppo grande per i mortali e aprì così per essi lo spazio del
pudore [Scheu] venerante"[xiv][14].
E' perciò che "il confronto con l'elemento
asiatico fu per l'esserci greco una feconda necessità"[xv][15]. Esso, non meno necessariamente, "oggi
rappresenta per noi, in maniera assai diversa ed entro un orizzonte
molto più ampio, la decisione sul destino dell'Europa e di
ciò che si chiama mondo occidentale"[xvi][16], tutto ciò sempre però che "l'Oriente
[possa] ancora rappresentare per noi il sorgere del chiarore dell'alba"[xvii][17]: a meno che "le sue luci, prodotte dalla
ricerca storiografica e conservate artificiosamente, non [siano] ormai
che una finzione, l'apparenza di una rivelazione che proverrebbe di
là"[xviii][18].
E questo confronto è 'arcontico',
cioè concernente la principialità
stessa dei principi costitutivi, in quanto è un confronto con l' 'arcontico'
stesso (che non è semplicemente un punto geografico-spaziale
e storico da cui tutto il resto solo più proviene, bensì il punto
temporale in cui ha di volta in volta 'principio'
ogni diversità geografico-spaziale e storica ed innanzitutto il temporalizzarsi del tempo stesso e del suo 'orizzonte'): infatti "un tempo, l'Asiatico portò tra i Greci
un oscuro fuoco ed essi, con la loro poesia e il loro pensiero, ne
composero la natura fiammeggiante disponendola in una forma dotata
di chiarezza e di misura. Così Eraclito doveva pensare il tutto di
ciò che viene alla presenza in quanto kovsmo",
e questo come to;n aujto;n
aJpavntwn, come 'il medesimo per tutti i mondi', un ornamento che non fu certo fabbricato, 'non lo
fece nessuno degli dèi né degli uomini'
(fr. 30)"[xix][19].
L''oriente dell'oriente'[xx][20], che può anche non coincidere più con
la sua pur perdurante e infinitamente speculare apparenza, con la
sua 'deiezione' storico-geografica
(cioè la sua vicina e/o estrema asiaticità
geografica), questo fuoco oscuro dalla natura fiammeggiante che spinge
verso una forma chiara e distinta, che pure a sua volta giammai lo
cattura completamente, e che giammai si lascia fabbricare da alcuno
se non da se stesso, è propriamente la 'natura'
o 'eidos' di tutte le cose: l'apparire, massimamente manifesto
epperò proprio in quanto tale del tutto
invisibile, dell'orizzonte di possibilità e visibilità di esse (di
qui anche la possibilità della forma degradata di comprensione di
questo fenomeno arcontico che finisce
per intenderlo nei termini solo più 'relativistici'
di un primato della mera opinione fenomenica sulla cosa: "Ciò che
i Greci già sapevano, lo coglie Goethe
nella proposizione: 'La cosa suprema sarebbe: capire che ogni che
di fattuale è già teoria'.
Vale a dire: non si danno affatto meri e puri 'fatti'.
Se consideriamo che la 'veduta' ['Ansicht'] di
qualcosa intende la sua 'sembianza' ['Aussehen'], lo eijj§doı, la ijdeva, diventa allora comprensibile la frase di Goethe: 'Con le vedute [opinioni], quando esse spariscono
dal mondo, spesso vanno perduti gli oggetti stessi. In un senso superiore,
si può, invero, dire che la veduta [l'opinione] sia l'oggetto' "[xxi][21]).
L' 'oriente dell'oriente', il suo autoapparire
(la cui collocazione è per essenza un dislocarsi rispetto alla circolarità
di se stesso: ogni punto può essere l'oriente di se stesso e dell'altro
determinandolo come occidente, per cui esso può apparire anche e massimamente
dove esso in effetti non è più), è ciò che innanzitutto appare quando
appaiono le cose che sono: esso è la cosa vera e propria che è, ovvero
la cosa vera e propria che è innanzitutto l'autoapparire stesso[xxii][22]. Esso inoltre è violento come tutto ciò
che spinge fuori alla luce (e spinge fuori alla luce innanzitutto
la luce stessa).
Ma proprio in ciò - nella
intima e necessaria struttura 'deiettiva' propria dell' 'oriente dell'oriente' che produce
di volta in volta il proprio occidente - è fondato anche il changeling
(il 'bambino sostituito furtivamente ad un altro')
della (storia della) metafisica: l'apparire dell'essere e l'essere
dell'apparire (l'apparire è; cioè è l'apparire dell'essere) al posto
dell'apparire in quanto tale nel suo apparire in quanto tale: apparire
dell'apparire, autoapparire dell'apparenza
(che non è, ma appare, appare essere).
Un paio di giorni dopo il rientro, il
6 maggio 1963, Heidegger scriveva a Boss:
"Caro amico, queste righe possano essere solo un segno di ringraziamento
per la Sua sempre affettuosa assistenza, che ha plasmato, a mia moglie
e a me, in modo bello e molteplice il viaggio e il soggiorno in Sicilia...
A Taormina, ogni giorno aveva la sua propria
impronta. Le regolari ore di colloquio alla
mattina, che certamente non sono bastate per chiarire tutte le difficili
questioni; le rinfrancanti passeggiate attraverso i giardini di San
Domenico; l'andare a zonzo per i vicoli del luogo; e, infine, le escursioni
nell'interno dell'isola. Mia moglie ed io, dopo il volo, straordinariamente
bello, di ritorno a Zurigo, siamo arrivati puntualmente
alle 20 a Friburgo... Qui, tutt'intorno,
i meli e i peri sono in piena fioritura. La terra natìa
appare nuova in contrasto con il mare visto e l'isola e i suoi abitanti"[xxiii][23].
L'eidos è la 'natura' propria
che appare inapparendo in
quanto lascia apparire. L'apparire è l'apparire inapparente
della 'natura'. Non è perciò forse un
caso che l'ultimo riferimento di questa lettera sia
per il contrasto tra la natura siciliana e quella sudoccidentale
tedesca (essa stessa meridionale), un contrasto attraverso cui si
rinnova una medesima 'natura', che appunto
non è mai la medesima; i colloqui siciliani, ed in particolare il
loro sfondo atmosferico (solare, marino, antropico, materico),
la Sicilia in quanto tale, costituiscono l'occasione per fondere leggerezza
della vacanza (intesa questa innanzitutto come un inimpedibile
svuotamento, una necessaria - naturalmente violenta - deiettività)
e pesantezza di alcune ineludibili domande
che pur possono essere poste con suprema leggerezza (e che però proprio
la stessa leggerezza può pur sempre eludere).
Così di fronte all'irrespingibile oblio deiettivo
della natura risanatrice sta l'esigenza della costante "heilsame
Selbstprüfung"[xxiv][24] filosofico-fenomenologica
e, in questo "proficuo autoesame", innanzitutto
la questione arcontica se sia
prima la natura o prima la metafisica (la filosofia): se 'natura',
e naturale, non sia piuttosto innanzitutto proprio la filosofia (la
'metafisica') che sola rende possibile l'apparire del dominio
fisico-ontico e storico-positivo,
anche se - paradossalmente - è quest'ultimo
che domina quell'apparire riducendolo
solo al proprio dominio di apparizione: l'occidente che rende possibile
l'oriente scambiando quest'ultimo per l'origine univoca dell'altro ma non di
se stesso, l' 'oriente dell'oriente' che contiene in sé la propria
deiezione e rende possibile qualsiasi occidente. Ma il senso comune
- che quale sovrana deiettività partecipa sempre e comunque
di quell'arconticità che di volta in volta
appare e simultaneamente si ritrae in se stessa e che attraverso ciò
possibilizza il changeling
di se stessa, ossia che il suo ritrarsi appaia come l'eterno occidente
di un eterno oriente nell'univoco e unidirezionale sviluppo storico-mondiale
dal secondo al primo - sembra avere sempre e comunque un sopravvento:
esso è perciò l'inaggirabile paradosso del paradosso, l'apparire del suo
sostrato materiale fisico-psichico.
Tralascio qui intenzionalmente di entrare
dettagliatamente nel merito della questione circa la fondatezza o
meno del tentativo teorico di Boss di fondare
una medicina e psicologia fenomenologico-esistenziali
sulla base del pensiero heideggeriano,
così come nel merito della netta contrapposizione - per altro filosoficamente
senz'altro condivisibile - di Boss (e prima ancora, ovviamente, dello
stesso Heidegger) al precedente importante ma filosoficamente impreciso
tentativo teorico di Ludwig Binswanger di fondare il sostrato fisico-psichico-spirituale
oggetto della psichiatria, e dunque la psichiatria stessa, su una
base fenomenologico-trascendentale husserliana[xxv][25].
Il tentativo scientifico-filosofico di
Boss di configurare un'analisi medica dell'esserci umano sulla base dell'analitica filosofica dell'esserci -
che sembra talvolta (anche consapevolmente) forzato o addirittura
opportunistico-artificioso e comunque solo programmatico[xxvi][26] -, tuttavia, non faceva altro che accogliere
e vettoriare l'esigenza propria di Heidegger di una, per dir così, maggiore 'onticizzazione' (che non coincide necessariamente con una
'antropologizzazione') del suo pensiero: un'esigenza - avente
la propria radice nella questione filosofica della preminenza della
'deiettività', della 'apparenza',
nel cuore stesso della 'differenza ontologica'
e della sua paradossale 'verità' - che
si incontrerà con quella strategia di 'normalizzazione'
della filosofia di Heidegger senz'altro
connessa anche al tentativo di certi ambienti culturali di offrire
del pensiero heideggeriano un aspetto più umanistico e 'filantropico', allorché questo viene sempre più intensamente
attaccato per i suoi trascorsi filo-nazionalsocialisti, e ciò segnatamente
a partire dal rinnovato acuto interesse mondiale - che data almeno
dal 1961, anno in cui appaiono i due volumi del suo Nietzsche[xxvii][27] - per il pensiero di Heidegger.
Attraverso il rapido sfioramento di questioni
concernenti tanto la critica di singoli temi psicologico-psicoanalitici quanto i fondamenti concettuali
scientifico-naturali della psicoanalisi[xxviii][28], le occasionali divagazioni siciliane
di Heidegger in dialogo con Boss convergono però ad un certo
momento sul punto arcontico del pensiero
heideggeriano e del pensiero in generale; con ciò Heidegger, nel corso di queste conversazioni siciliane,
non fa altro che riprendere il tema filosofico che si era affacciato
già subito dopo la pubblicazione di Sein
und Zeit, costituendo, proprio nella sua 'semplicità', forse il principale argomento critico fatto
valere contro lo iperstoricismo
della fenomenologia ermeneutico-esistenziale
heideggeriana, e cioè il fatto che anche quest'ultima malgrado il suo estremo radicalismo filosofico
è in ultima istanza radicata nel suo presupposto primario che, al
pari di ogni altra cosa, la sostiene e la fa essere: la 'natura'.
Anche se però non bisogna dimenticare che proprio in quest'ultima
- soprattutto laddove essa venga pensata
in modo originario come physis
nel suo proprio simultaneo svelamento-nascondimento
- Heidegger, com'è noto, vede una configurazione dell'approssimarsi
al tentativo di pensamento dell'Essere stesso in quanto tale (che
costituisce esso l'autentica 'natura',
così come l'autentica 'storia').
In genere si fa risalire ai rappresentanti
della cosiddetta antropologia filosofica (da Scheler a Gehlen, da Plessner a König e alla scuola
diltheyana[xxix][29]) la critica della
ontologia esistenziale heideggeriana
ed il suo riconducimento al sostrato naturale psico-fisiologico
e biologico-culturale[xxx][30].
Questa critica, alla quale Heidegger
aveva risposto facendo valere l'inaggirabilità dell'analitica dell'esserci anche per qualsiasi
discorso antropologico-filosofico[xxxi][31], era stata però acutizzata,
ben prima e ben oltre l'impostazione solo più antropologico-filosofica,
da Oskar Becker e precisamente nello stesso
famoso volume VIII dello husserliano "Jahrbuch
für Philosophie und phänomenologische
Forschung"[xxxii][32], nelle cui pagine subito precedenti erano
apparse le prime due sezioni della prima parte di Sein
und Zeit.
Qui, e poi in seguito in altri scritti,
Becker faceva valere la inaggirabilità, per la stessa
analitica dell'esserci, di un orizzonte primordiale preumano-pretemporale
che nella sua centripeta circolarità e ciclicità accompagna come un'ombra,
come la propria insuperabile ombra, la stessa costituzione dell'esserci
e del suo orizzonte ekstatico-temporale.
Per sfuggire all'insignificanza filosofica della tradizionale contrapposizione
concettuale natura/storia o immanenza/trascendenza, Becker
formulava questa com-presenza 'trascendentale'
- dell'irripetibile temporalizzarsi
del tempo dell'esserci storico a partire dall'orizzonte di una intemporalità primordiale ciclico-ripetitiva
che tutto condiziona e contiene e rende possibile - nelle diadi
di paraontologico/ontologico, paraesistenziale/esistenziale, esserstato-ci/esserci
(Dawesen/Dasein),
Getragenheit/Geworfenheit
etc.[xxxiii][33].
In fondo, a modo suo, Becker
dava rango e respiro 'eidetico' (senza
con ciò ridurne la portata antifilosofica ma anzi rispettandola ricollocando
l'eidetica fenomenologica
sul proprio piano di 'autocollassamento'
e con ciò di perfezionamento eidetico:
il piano 'estetico', il piano inclinato dello sprofondante apparire
del bello, dell'apparire dell'apparenza per eccellenza[xxxiv][34]) a ciò che nella stessa fenomenologia
trascendentale husserliana restava dapprima
totalmente sacrificato ed epochizzato
in quanto meramente fondato e derivato, per poi venire solo
successivamente riscoperto come Lebenswelt
costitutiva epperò costitutiva innanzitutto
della stessa egoità trascendentale (in
tal modo assunta come mondo-della-vita
propria di quest'ultima e dunque persa
nel suo peculiare carattere preegologico
di brutale deiettività vitale-naturale
inumana).
Nel 1929 Heidegger,
replicando indirettamente anche a Becker,
così aveva puntualizzato il problema: "L'ente, ad esempio la natura
nel senso più ampio, non potrebbe in alcun modo manifestarsi se non
trovasse l'occasione di entrare in un mondo. Questa è la ragione
per cui noi parliamo di un possibile ed occasionale ingresso nel
mondo da parte dell'ente. L'ingresso nel mondo non è un processo
interno all'ente che entra nel mondo, ma è qualcosa che 'accade'
'a' l'ente. E questo accadere è l'esistere dell'esserci che,
in quanto esistente, trascende. Solo quando, nella totalità
dell'ente, l'ente 'si fa maggiormente ente'
nel modo della maturazione [Zeitigung]
dell'esserci, suona l'ora e il giorno dell'ingresso dell'ente nel
mondo. E solo quando accade questa storia originaria, ossia la trascendenza,
solo cioè quando nell'ente irrompe un ente
che ha la caratteristica di essere-nel-mondo, si dà la possibilità che l'ente si manifesti"[xxxv][35]; proprio perciò, continuava Heidegger con preciso riferimento a Sein
und Zeit, "se in quell'opera
l'esserci è interpretato come quell'ente
che in generale può porre il problema dell'essere come facente parte
della sua esistenza, ciò non significa che questo ente, che
come esserci può esistere autenticamente o inautenticamente,
sia, rispetto a tutti gli altri enti, l'ente 'autentico'
in generale, cosicché nei suoi confronti gli altri enti sarebbero
mere ombre. Al contrario, è proprio nel chiarimento della trascendenza
che si può raggiungere l'orizzonte in cui il concetto di essere, compreso
quello 'naturale' tanto rivendicato, può essere filosoficamente
fondato in quanto concetto.
Ma l'interpretazione ontolologica dell'essere
nella, e a partire dalla, trascendenza dell'esserci non significa
una deduzione ontica dell'universo dell'ente
non conforme all'esserci a partire da quell'ente
che è l'esserci. A questo fraintendimento è legata l'accusa d'avere
assunto in Sein und Zeit un 'punto di vista antropocentrico'. Questa accusa, che sin con troppo zelo
è ora passata di mano in mano, rimane insignificante fino a che, nel
pensare a fondo sull'impostazione, sull'intero percorso e sullo
scopo dello sviluppo del problema in Sein und Zeit, si tralascia
di capire come proprio con l'elaborazione della trascendenza dell'esserci
'l'uomo' viene a stare al 'centro',
ma in modo che solo qui può e deve farsi problema la sua nullità
nella totalità dell'ente. Quali pericoli nasconde
mai in sé un 'punto di vista antropocentrico'
che ripone tutti i suoi sforzi unicamente nel mostrare
che l'essenza dell'esserci, che sta qui 'al centro',
è 'estatica', cioè 'eccentrica',
e nel mostrare che perciò anche la presunta libertà del punto di vista,
contrariamente a tutto il senso del filosofare inteso come una possibilità
essenzialmente finita dell'esistenza, resta una folle illusione?
A questo proposito, cfr. l'interpretazione della
struttura estatico-orizzontale del tempo
come temporalità in Sein und
Zeit, I, pp. 316-438"[xxxvi][36].
Quasi trentacinque anni dopo, nel corso
delle solari giornate e passeggiate siciliane, con un linguaggio se
possibile tecnicamente meno impegnativo e/o involuto ma non meno arduo,
il medesimo problema, il problema dei problemi, quello a cui tanto
la leggerissima sovranità del filosofo quanto la pesantissima sovranità
dell'ontica sono inestricabilmente
sottomesse, così veniva (con appunto insostenibile leggerezza) riformulato:
"Essere, manifestatività dell'essere, si dà sempre solo in quanto essere-nell'esser-presente
[Anwesenheit] dell'ente. Affinché
l'ente possa esser-presente [anwesen]
e, quindi, possa in generale darsi essere, manifestatività
dell'essere, occorre [braucht
es] lo star-dentro dell'uomo nel ci, nello slargo
[Lichtung], nell'esser-levato-nello-slargo
dell'essere, come quale l'uomo esiste. Dunque
non può affatto darsi essere dell'ente senza l'uomo. / Questa
asserzione sta in assoluta contraddizione con la constatazione
scientifico-naturale, secondo cui, grazie al decadimento atomico assolutamente
uniforme nelle sostanze radioattive semplicemente-presenti nella crosta
terrestre, si può calcolare e perciò dimostrare che la terra è semplicemente-presente
già da ben due miliardi di anni, mentre il primo uomo è comparso solo
50.000 anni fa circa. Almeno quell'ente,
che chiamiamo terra, vi era già da lungo
tempo prima dell'uomo. Dunque, può
darsi ente e quindi manifestatività dell'essere,
dunque essere, anche del tutto indipendentemente dall'uomo.
/ A seguito di questa contraddizione, dunque, la proposizione centrale
in Sein und Zeit del rapporto [Bezug]
dell'uomo con l'essere, in quanto rapporto
onnireggente, non può corrispondere alla effettualità. / Nei confronti di questa cosiddetta contraddizione
si deve obiettare quanto segue: Possiamo solo dire, corrispondentemente allo 'orologio atomico',
il quale espone le sostanze radioattive, racchiuse nelle rocce solide,
che presentano un decadimento atomico, che la terra era semplicemente-presente
prima dell'uomo. Possiamo compensare col calcolo, dedurre indirettamente,
l'essente-presente allora, la terra. Tuttavia, ciò lo possiamo
solo in quanto noi stiamo nello slargo dell'essere e all'essere
appartiene l'essere-esser-stato [Gewesen-sein],
lo 'esser-prima'. L'orologio atomico è
uno strumento di misura per il calcolo dell'età della
terra. Che la terra sia, che essa
prima già fosse, viene semplicemente presupposto. / L'asserzione
solita, invero, suona: La terra è già, in un tempo in cui l'uomo non
esisteva ancora. In tal caso, però, resta indeterminato lo 'è' di questa proposizione, e, quindi,
l'essere della terra, l'essere in quanto tale. Donde viene qui il tempo? / Si può prescindere dal tempo, e dire: La
terra è stata senza l'uomo, indipendentemente dall'uomo. Prescindendo
del tutto da se essa, dunque, già era prima dell'uomo o se, dopo l'uomo,
sarà ancora, la cosa decisiva è che si possa almeno dire che la terra
può essere almeno per un attimo senza l'uomo. Già ciò sarebbe
sufficiente a far riconoscere come un errore la proposizione del rapporto
onnireggente dell'uomo con l'essere. /
In questo o quel modo, tuttavia, lo 'è', l'essere, resta indeterminato. Con ciò, non diviene chiaro,
e non potrà mai diventarlo, che cosa vogliano
dire tutte queste proposizioni circa l'essere della terra prima dell'uomo
o senza di lui. Manifestamente, la proposizione
intende meramente che la terra possa esistere indipendentemente dall'uomo,
vale a dire, che si dia l'essere anche senza l'uomo, indipendentemente
da lui. Vale a dire: Si dà esser-presente [Anwesen],
che non ha bisogno [braucht] dell'uomo.
/ Esser-presente, sin dai tempi antichi, è la determinazione
dell'essere dell'ente. Non solo sin dai tempi antichi, bensì anche
la moderna obiettività, oggettività, semplice-presenza [Vorhandenheit], presenza [Präsenz]
sono tutte solo modificazioni dello esser-presente.
/ Esser-presente non si dà senza un
'dove' ['wohin']
esser-presente e fermarsi [Verweilen],
ri-stare [An-weilen]; vale a dire,
un trattenersi [Weilen], che concerne
ciò che può lasciarsi concernere. Se non
si dà ciò che si lascia concernere, nulla può esser-presente. / L'uomo
è il custode [Hüter] dello slargo, dell'evento [Ereignisses]. Egli non è lo slargo stesso, non è
tutto lo slargo, non è identico con l'intero slargo in
quanto tale. Ma in quanto stante-fuori
estaticamente nello slargo, egli stesso
è essenzialmente levato-nello-slargo [gelichtet], e, in quanto levato-nello-slargo
in modo tanto peculiare, appartenente, pertinente allo slargo in quanto
tutto e in quanto tale, ad esso traspropriato
[vereignet]. L'esser-adoperato-salvaguardato
[Gebrauchtsein] dell'esserci, in quanto pastore dello slargo, è un modo peculiare di appartenenza
allo slargo"[xxxvii][37].
Ciò equivaleva per Heidegger ad un tacito ribaltamento della tesi di Becker (e poi anche di Löwith[xxxviii][38]) circa la preminenza della 'natura' sulla 'storia' (e dunque
sulla 'filosofia'), del Dawesen
della Getragenheit paraontologico-paraesistenziale
e della sua ciclicamente perdurante 'intemporalità'
sul ripetersi di volta in volta della irripetibile
temporalizzazione ekstatico-orizzontale
della storicità della Geworfenheit
del Dasein ontologico-esistenziale.
Boss, che quasi inconsapevolmente sembra
invece riprendere un aspetto dell'argomentazione beckeriana (essa stessa dichiaratamente esperta di precisi
richiami schopenhaueriani[xxxix][39]), contrappone a Heidegger
l'ipotesi induista e buddhista che assorbe
del tutto l'uomo all'interno del bagliore primordiale come sua mera
increspatura e ombra: "Il pensiero indiano non ha bisogno di
alcun custode dello slargo. Si dà esser-levato-nello-slargo
in sé e per sé. In fondo e in realtà si dà in generale null'altro
che esser-levato-nello-slargo in
sé e per sé. L'esserci umano è soltanto un ambito dell'esser-levato-nello-slargo
stesso, il quale, però, della sua autentica essenza, cioè
dell'assoluto esser-levato-nello-slargo,
non si avvede in maniera piena, il suo sguardo è offuscato. Corrispondentemente,
tutto il senso dell'esserci umano sta nella riacquisizione
della piena conoscenza di se stessi in quanto
esser-levato-nello-slargo stesso. Tutti gli altri enti sono
essenzialmente la medesima cosa, solo sono ancor più
dell'uomo privi della consapevolezza di questa loro essenza
fondamentale, e devono faticosamente riacquistarla attraverso ogni
rinascita"[xl][40].
Rispetto ad impostazioni di questo tipo,
in cui il ripetersi dell'irripetibilità propria del tempo storico
umano è sottomesso alla intemporale
ripetizione cosmico-metafisica, dunque
ad impostazioni cui quella beckeriana
era estremamente affine, Heidegger replicava
a Boss (il quale qui poneva domande in veste, per dir così, di avvocato
del diavolo, e pur essendo culturalmente e filosoficamente molto incuriosito
dalle antiche dottrine induiste[xli][41] comunque non le condivideva) che "quel
che a me propriamente interessa è che l'uomo sia uomo. Nel
pensiero indiano ne va di una 'disumanizzazione'
nel senso del transustanziarsi dell'esserci
nella pura luminosità"[xlii][42].
Ma ciò Heidegger dice appunto per ribaltare una tale concezione
antiumanistica del temporalizzarsi della
temporalità e dunque per far valere che proprio anche una siffatta
concezione 'naturificata', paraesistenziale, del tempo - in cui prevale
la ripetizione del già-stato - ha a sua
volta bisogno essa stessa di un orizzonte di 'apertura'
che può essere garantito solo dalla ekstaticità
propria della temporalità - il ripetersi dell'irripetibilità - dell'esserci
(anche se e soprattutto se questa poi si rivela paradossalmente e
vertiginosamente essere a sua volta condizionata da ciò che essa stessa
condiziona): "Anche la terra 'prima' dell'uomo
è-presente [west an] nell'esser-levato-nello-slargo
in quanto tale, che l'uomo custodisce. Il già-esser-stata
della terra è un esser-presente della terra, la cui manifestatività,
il cui slargo, non ha bisogno affatto di
un uomo allora già presente, certo, però, conformemente all'essenza,
ha bisogno dell'uomo in quanto stante nello slargo del pieno esser-presente,
e, quindi, stante anche nello slargo dell'essere-esser-stato.
Lo star-dentro nello slargo dell'essere vuol dire, fra l'altro, anche
il permettere il già-esser-stata della terra prima
dell'uomo, vale a dire, il permettere questo modo dell'essere-nell'esser-presente. Solo perciò l'uomo comune può
dire: la terra era già prima dell'uomo. Soltanto, egli non riflette
espressamente circa lo 'era'
['es war']. Ogni esser-presente
è dipendente dall'uomo, ma questa dipendenza dall'uomo consiste propriamente
in ciò, che l'uomo in quanto esserci ed
essere-nel-mondo possa permettere l'ente nel suo essere-già-esser-stato"[xliii][43].
In tal senso, perciò, "la finitezza dell'uomo
consiste in ciò, che egli l'essere-nell'esser-presente
dell'ente nella sua totalità, del già-essente-stato
e dello ancora-avveniente, non può esperirlo
in un immediatamente presente essere-nell'esser-presente
in quanto essere in un nunc
stans. Nell'ambito cristiano, una tale cosa è riservata
a Dio. Anche la mistica cristiana non voleva
nullo di diverso. (Anche tutto il 'meditare'
indiano non vuole altro che raggiungere questa esperienza del nunc stans, eseguire
l'ascesa a questo nunc stans, in cui passato e futuro sono superati in un unico
presente immutabile). La finitezza è dicibile
ancora meglio all'inverso: essa è l'esperienza dell'essere-nell'esser-presente
dell'ente nei tre modi di essere-esser-stato
[Gewesenheit], presente e avvenire"[xliv][44].
E' importante notare, però, come la tesi
beckeriana non si riferisse ad un immobile
nunc stans mistico, cristiano o indiano che fosse, ma, molto
più sottilmente, ad una struttura 'intemporale'
non immobile bensì ripetitiva e circolare che in sé, in
quanto Dawesen, è condizione
di possibilità della stessa ripetibilità
dell'irripetibile proprio della temporalità ekstatica
del Dasein e dello scoprirsi di
quest'ultimo come condizione trascendentale
della sua propria condizione.
Cosicché alla molto opportuna osservazione
di Boss, che proprio alla luce di quanto sopra si è detto non si configurava
affatto come una mera domanda esotica, - "ora, in che misura la concezione
heideggeriana della cosa [Sache] dell'essere è più adeguata del pensiero indiano,
che non ha bisogno di alcun custode dell'essere,
in quanto, secondo esso, si dà il sorgere [Aufgehen]
(Brahman) dell'esser-levato-nello-slargo
in sé, che leva-nello-slargo se stesso
e tutto ciò che in esso può venir fuori, e che è indipendente da un
qualche ente di cui si avrebbe ancora espressamente bisogno in quanto
custode e sopportatore-ekstativo [Aussteher]
di questo esser-levato-nello-slargo?"[xlv][45] -, Heidegger
poteva rispondere precisando e ribadendo che "la mia concezione è
più adeguata in quanto io parto dall'esserci e dalla comprensione
dell'essere e mi limito a questo che di immediatamente esperibile.
In tal modo, non ho bisogno di asserire nulla circa un esser-levato-nello-slargo
in sé, né ho bisogno di interpretare l'uomo come una forma fenomenica
[Erscheinungsform] dell'esser-levato-nello-slargo,
attraverso cui l'essere-nel-mondo e lo
stare nello slargo dell'essere, in quanto
distinzione peculiare [Auszeichnung], in quanto la eccellenza [Auszeichnung] dell'uomo, diventano inessenziali.
Soprattutto, per il mio pensiero, la citata consapevolezza [Einsicht]
indiana non è eseguibile"[xlvi][46].
Invero Heidegger, nel corso di questi "Sizilianischen
Gespräche"[xlvii][47] dell'aprile-maggio 1963, respinge l'ipotesi
metafisico-cosmologica indiana e più in
generale orientale non tanto e non solo per la sua peculiare impraticabilità
ontologica (tutto, sia il divino principio primo e assoluto che il
mero ente, dal più significativo al più
insignificante, vi è ammassato e confusamente ridotto a mera semplice-presenza),
quanto per la sua terribile vicinanza 'orientale'
all'ancora più perfetto antiumanismo del pensiero di Nietzsche,
al radicale 'sperimentalismo' filosofico
di quest'ultimo, per il quale il compito estremo del pensiero
consiste precisamente nel tentare di pensare l'autoapparire
della vita in se stessa, in sé e per sé, prescindendo appunto dall'uomo,
dalla fase del pensiero umano troppo umano; di tentare di pensare
con un pensiero fuori-di-sé il puro fuori-di-sé
che la vita in se stessa costituisce quale analogon
di tutte le cose anche di quelle opposte e contrarie in cui essa appare
e riappare molteplicemente riconfigurandosi
ed il cui principio - il principio di questo suo proprio poter essere
tutto ed il contrario di tutto anche di poter essere il contrario
del poter-essere stesso, così come il contrario di un principio e
di un inizio e di un cominciamento -
è costituito dalla struttura autodestrutturantesi del suo essere sempre di nuovo fuori-di-sé: il temporalizzarsi
della struttura estatico-circolare del
tempo. Era infatti proprio in riferimento anche a Nietzsche,
al Nietzsche dell'eterno ritorno dell'eguale,
oltre che ai paradossi della pensabilità
del concetto matematico di 'infinito',
che Becker era andato sviluppando la sua
peculiarissima critica fenomenologica[xlviii][48].
Nella ripetizione dell'irripetibile
di chi è la preminenza? Della ripetitività/ripetibilità o dell'irripetibilità?
Secondo Heidegger la ripetibilità dell'irripetibile
(la 'storicità') rende possibile anche
il ripetitivo (la 'natura'). Secondo Becker,
invece, solo la ripetitività rende possibile
ad un certo punto anche l'apparire dell'irripetibile e della sua ripetizione
e ripetibilità: ma proprio perciò - cioè in quanto esso è
ad un certo punto che non era prima e che poi non sarà più - esso
appartiene alla ripetitività, viene reclamato indietro dalla ripetitività:
ripetibilità della ripetitività (che può
produrre ma anche non produrre, far apparire ma anche non far apparire
più la ripetibilità dell'irripetibile,
cioè l' 'uomo' e la 'filosofia' e la 'storia' che
a loro volta fanno apparire la ripetibilità
della ripetitività, la 'natura')[xlix][49]. E sono proprio tali formulazioni problematiche
che accompagnano, nella loro quasi indecidibilità,
il profilarsi dell'orizzonte concettuale del fenomeno arcontico
dell' 'oriente dell'oriente'.
Questioni correlative, che concernono
struttura e possibilità stessa di uno 'oriente dell'oriente', Heidegger
aveva toccato già anni prima[l][50] e toccherà anche successivamente[li][51] girando attorno al problema della 'animalità' e del 'corpo' nel
loro rapporto col Dasein. Solo
perché esulanti dallo stretto quadro cronologico della conversazione
filosofica siciliana, tralascio qui la trattazione di questi due temi
capitali. Non senza però aver almeno solo accennato brevissimamente
al senso della loro connessione ed implicazione con la questione dell'
'oriente dell'oriente'.
Per quanto riguarda il
'corpo' (inteso sempre come Leib,
cioè come corpo-vivente, distinto dal Körper
nel senso del 'corpo' nella sua 'inanimata'
materialità fisico-chimica, anatomica
e fisiopatologica), inteso come facente
tutt'uno con la struttura (concostituita
di 'esser-gettato' e di 'deiezione')
propria del Dasein e della sua
temporalità ekstatico-orizzontale, Heidegger
delinea una primazia appunto di quella
struttura ontologico-esistenziale, che costituisce il 'corpo' sin nelle sue più intime fibre biologiche; una primazia che è tale rispetto all'organo ma anche rispetto
alla funzione: la struttura pre-funzionalistica
e pre-organicistica del Dasein
'produce' sia la funzione che l'organo,
ribadendo così il suo proprio convincimento filosofico di una precedenza
della metafisica sulla biologia: la vita del Leib,
il corpo-vivente prima del 'corpo'
'inanimato', è la traccia dell'apparire della filosofia prima
della natura, prima della scienza naturale e della medicina
- ma prima anche di ogni cosiddetta 'filosofia prima')[lii][52].
Estremamente
più complesso, in quanto più 'ampio' giacché ricomprendente
in sé anche l'aspetto cosiddetto 'inanimato'
(fisico-chimico o 'vegetativo'
e comunque privo di 'parola'), è il 'fenomeno' arcontico dell''animalità' cui quello del 'corpo'
in tutte le sue forme immediatamente rinvia. Qui basti dire che il
confronto con questa problematica, che è possibile sinteticamente
indicare come quella del 'teriomorfismo'
metafisico, costituisce per Heidegger
il suo lungo e interminato corpo a corpo filosofico con il massimo perlustratore
di quel tema, cioè con Nietzsche ed il
suo tentativo di pensare l'essenza e le forme del temporalizzarsi
della temporalità nel suo proprio autoapparire.
E' noto come lo stesso Nietzsche identificasse
questo 'fenomeno' primordiale, che continua ad apparire in ogni
attimo, con ciò che egli chiama 'arte', 'vita', 'apparenza',
'Apollo-Dioniso', 'natura'
ed infine 'volontà di potenza' ed 'eterno
ritorno dell'eguale', sempre e comunque sottolineando la 'ferinità',
la 'ur-animalità' dell'autoapparire
di questo fenomeno arcontico primordiale[liii][53].
Si tratta di quel qualcosa di terribile
ed onniannientante da cui però, in pari
tempo, tutto proviene ed è prodotto e fatto essere: quell' 'oriente' assoluto
(anche ed innanzitutto di se stesso: 'oriente dell'oriente') che tutto
distrugge ed innanzitutto il sorgere della luce che esso stesso è
e fa essere (assieme alle tenebre); esso deve venire sì imbrigliato,
altrimenti il suo autoapparire assoluto e totale impedirebbe il suo stesso
apparire (quest'ultimo, che cela infatti
sempre il proprio 'orlo', non è altro
che l'attenuazione, il rallentamento, l'affievolimento, appunto la
messa-in-forma e l'umanizzazione di ciò che è per eccellenza informe/de-forme
e inumano/dis-umano, del terribile), ma non può venire cancellato:
infatti esso non può cancellare se stesso (il 'bene' non può sconfiggere il 'male',
perché proprio il Male così inteso, così ben inteso, è il Bene, lo
agathòn: l'apparire inaffisabile
e abbacinante di ciò che massimamente rende possibile e che perciò
è massimamente risplendente cioè apparente in quanto appunto fa apparire
la luce stessa: il tremendo orizzonte di possibilità della possibilità
stessa di ogni orizzonte)[liv][54].
Sulla scia della diade nietzscheana di apollineo/dionisiaco, alla medesima connessione problematica
ur-fenomenologica si riferiscono le due
'immagini', intenzionanti
la continua inauguralità ed auroralità
dell'autoapparenzialità pura, cantate
da Rilke: il 'bello' come inizio
del tremendo[lv][55] e la 'rosa'
come pura contraddizione[lvi][56]. E al medesimo
'fenomeno' fa probabilmente riferimento Goethe
nel suo Faust quando Mephistopheles
si autodefinisce enigmaticamente come "Ein
Teil von jener
Kraft, / Die
stets das Böse
will, und stets
das Gute schafft"[lvii][57].
L'uomo è il misterioso testimone del tremendo
autoapparire di quell' 'oriente dell'oriente'
che il terribile in se stesso è; egli è ciò presso cui il violento
autoapparire del terribile inspiegabilmente si attenua,
si arresta, rendendo possibile l'apparire dell'uomo stesso e l'apparenza
(cioè la visibilità per l'uomo) del suo apparire (che è apparire di
un inapparente, dunque 'orlo' dei
fenomeni della natura e della natura in quanto tale) e dunque l'apparire
della natura; di qui la posizione secondo cui la natura quale sostrato
condiziona interamente l'uomo; e di qui, da questa misteriosa posizione
peculiare di a-cui e/o presso-cui dell'attenuarsi ed arrestarsi del
terribile, cioè dell'attenuarsi ed arrestarsi del sempre violento
ed onniannientante autoapparire
dello 'oriente dell'oriente' che ci rapisce ed insieme ci fa esistere
(dell'iki: ciò che è simultaneamente
- quasi come una psyché - 'respiro-vita-grazia':
"iki ist
das Wehen
der Stille des
leuchtenden Entzückens"[lviii][58]), di qui, il fatto che l'uomo sia stato
frainteso come il culmine teleologico della natura e/o come il presupposto
trascendentale di essa; ma anche quest'ultima
posizione egli non la occupa in quanto mero uomo o in quanto autocoscienza
idealistico-trascendentale, bensì in quanto ek-sistenza, cioè in quanto condizionato che è simultaneamente
condizione trascendentale della immanenza della 'natura' che produce e condiziona l'ente trascendente uomo:
tale condizionata-condizione trascendentale è appunto ek-sistenziale
e in quanto tale immediatamente ostensiva
dell'apparire stesso in quanto orizzonte di possibilità dell'individuazione
pura che si individua in quanto 'uomo'
('storia') e/o in quanto 'natura'.
Più precisamente, egli è il misterioso interlocutore di un'enigmatica
struttura, l'analogon
'puro', l'in-dividuo, che l'autoapparire
del temporalizzarsi del tempo è (il nostro
termine 'fenomeno' rinvia alla temporalità del suo proprio apparire-evenire; in altre lingue viene sottolineato ancora
più pronunciatamente che non in greco
il peculiare carattere temporale del 'fenomeno',
per es. in giapponese l'ideogramma genshô,
'fenomeno', sta ad indicare alla lettera l'apparire-presentemente).
L'io e il tu, o meglio il me ed il te,
il sé e l'altro (che è simultaneamente anche un qui ed un là), così
come l'alterità della norma o la pretesa
contemporaneità di ogni storia etc.,
sono fondati nella struttura 'formale'
ek-statica (ekstatico-orizzontale)
del temporalizzarsi della temporalità
del tempo, del suo essere-in-sé - del
suo in-stans - essendo simultaneamente
sempre fuori-di-sé: è esso l'autentico
individuo (individuità) che rende possibile
l'individuarsi dell'individualità dell'individuo-uomo e attraverso
di esso dell'individuità di tutti gli
altri enti storici e naturali (ed anche logico-categoriali
e concettuali): ciò che appunto costituisce l'horizon
del mondo (che quell'individuità 'è' e
che quella individualità-uomo 'è'). L'effabilità
di questo individuo arcontico, di
questa individuità, è il compito della
filosofia (della Arcontica): con questo
(che è appunto l'opposto del tradizionale adagio 'individuum
est ineffabile') essa sta o cade.
Questo problema - "il problema del fondamento
dell'individualità"[lix][59], della "individuazione dell'individuale"[lx][60] - nella sua apparente evanescenza metafisica
sta a fondamento della stessa scienza storica
quando questa si rivolge appunto ai fatti concreti particolari nella
loro concreta individualità e alla individuazione delle loro concrete
e specifiche connessioni generali .
La struttura 'formale' del temporalizzarsi
della temporalità, il tempo, l'individuarsi dell'individuazione dell'individuità dell'individuo, è una astrazione
concretissima e una concrezione astrattissima. E' il presupposto 'logico-metafisico' di ogni fenomeno
storico e della sua analisi e descrizione scientifico-storiografica
così come della sua costruzione.
Ciò costituisce l''oggetto' specifico della filosofia in
quanto filosofia intrinsecamente storica epperò
distinta dalle scienze storico-sociali,
in quanto l'apparire dell'oggetto di queste ultime è reso possibile
solo a partire dall'orizzonte che è intenzionato dalla prima, che
è poi il medesimo oggetto nella sua fase aurorale: è il lato 'formale'
- sempre identico e mai identico, sempre diverso e giammai diverso
(come quello delle 'generazioni') - di ogni concreto contenuto storico, di ogni
fatto e fenomeno storico; ma questo lato è propriamente la sua concrezione
primordiale, il suo "supporto non-teoretico"[lxi][61], la sua 'materia-trascendentale',
l'ombra oltre la quale esso non può mai saltare, ovvero ciò che lo
fa apparire quale esso è consegnandolo alla luce del giorno dell'analisi
storico-sociale e causale.
L'individuità è ciò a cui mira la stessa scienza storica,
in quanto l'individuità sta a
fondamento di ogni spiegazione genetica che può sì dire di scientificamente
ignorare le origini assolute e primordiali, ma che non può fare a
meno di presupporre continuamente l'articolarsi della 'struttura'
- il suo 'evenire' - di ciò che solo rende
possibile - attraverso l'autoapparire
della sua propria 'analogicità' - la linearità di ogni genesi e di ogni fase
di nascimento e di ogni sviluppo da una fase all'altra, da un nascimento
all'altro, da una relatività situazionale
all'altra; dell'analogon che solo
rende possibile tanto il concetto, logicamente falso e miticamente
stilizzato in una immanenza assoluta o in una trascendenza assoluta,
di un'origine assoluta, quanto il concetto logicamente vero ma temuto
di un assoluto relativismo: cioè il temporalizzarsi della temporalità, l'individuarsi dell'individuazione
dell'individuità (che, in quanto 'evento'
per eccellenza, è il fenomeno storico primordiale della correlatività
del presente, di ogni presente e di ogni passato e di ogni futuro,
e del presente e del futuro di ogni passato, e del passato e del presente
di ogni futuro), ovvero l'evento connessionale
dell'autoapparirsi del temporalizzarsi
della temporalità del tempo, dell'analogon:
di fronte a cui, di fronte alla cui possibilità, si erge - proveniente
da dietro - la necessità assoluta di una pura immanenza che nel suo
puro in-stans, nell'infinito giro e rigiro di se stesso
su se stesso eternamente ritornante in se stesso del suo puro presente
cosmologico-abissale, come un buco nero tutto riassorbe
in sé di quanto ha fatto dapprima apparire (ogni pensiero, il pensiero
stesso, ogni risveglio, ogni luce, la filosofia, ed anche la scienza
storica), oppure - proveniente da prima del prima cosmico e insieme
dal futuro della fine dei tempi storici e naturali - si staglia la
necessità assoluta di una pura trascendenza puramente e-statica ed
eternamente fissa nel suo puro presente totalmente compiuto una volta
per tutte senza più cangiamento corruzione
distruzione movimento, cioè senza più l'orizzonte-mondo.
Invero l'abissalità
del problema del temporalizzarsi della
temporalità del tempo consiste proprio nella sua simultanea ed assoluta
superficialità e superficializzazione. Sta qui innanzitutto il suo carattere
di 'alienazione'. Esso è l'individuo arcontico che si articola, cioè
si temporalizza, essendo-in-sé
stando fuori-di-sé: alla sua gettatezza
è propria innanzitutto la deiezione di sé in altro, che è la medesima
individuità in-sé-fuori-di-sé.
La deiezione è quella dell'individuità
nell'individuo (nel singolo uomo, nel singolo ente storico e/o naturale,
nella particolare totalità individuale o connessione
di fenomeni storico-culturali e/o naturali). Ma innanzitutto
è quella della ek-sistenza
(del temporalizzarsi della temporalità
del tempo, della individuità, cui anche,
certo in maniera privilegiata, l'individuo uomo in quanto Dasein
- essente-nel-mondo, dunque ek-statico-orizzontale
e storico - appartiene) nella in-stantaneità dell'immanenza, nel Dawesen,
nel paraontologico, nel paraesistenziale: in ciò da cui - staccandosene
(seppur avendolo sempre di nuovo inaggirabilmente
accanto, presente e futuro come un passato che non passa) - l'ek-staticità
del temporalizzarsi del tempo è apparsa.
Questo autoapparire del temporalizzarsi
della temporalità del tempo (della scansione
di 'natura' e 'storia' nel loro
intrinseco rapporto) è il fenomeno per eccellenza, l'evento per eccellenza,
della storia della cultura occidentale e della sua unicità storico-mondiale.
Essa infatti, proprio sulla base di questa
sua autoconsapevolezza dell'evento del temporalizzarsi
della temporalità del tempo (che segna simultaneamente la fine della
filosofia e l'inizio dell'apparire storicissimo
del suo 'oggetto' scientifico primigenio), può incontrarsi ora con
l'altra metà della cosiddetta storia universale, quella dell'Oriente
che è ora sempre più occidentalizzato: di quell'Oriente
che è l'emblema proprio della cancellazione del tempo ekstatico-orizzontale,
e dunque l'emblema per eccellenza della preminenza e sovranità dell'immanenza
del Dawesen, del paraontologico-paraesistenziale,
in forme sublimemente deiettive. Questa
sublimità orientale della deiezione del temporalizzarsi
della temporalità del tempo è però essa stessa un fenomeno
perduto e frastagliato e perciò di difficile conoscenza autentica:
perduto sia per il suo peculiare stato linguistico-concettuale
sia per il suo modo di trasmissione.
Di fronte all'Oriente occidentalizzato
in quanto scoperto e reso parlante dall'Occidente,
quest'ultimo, attraverso la sua propria
iperstoricistizzazione (la scoperta e
consapevolezza postfilosofica ed antifilosofica
dell'autoapparirsi dell'individuità)
scopre che l'Oriente stesso, proprio per la preminenza vigente in
esso della 'natura', ossia del Dawesen,
non è mai stato autenticamente 'orientale':
e ciò paradossalmente è dimostrato proprio dalla sua quasi del tutto
compiuta iperoccidentalizzazione. Ciò significa per il cosiddetto
Occidente europeo-americano (e forse in
parte anche per la cultura nipponica, laddove questa farà convergere
l'essenza delle proprie origini shintôiste[lxii][62], anche attraverso il nihilismo
zen, con gli esiti fenomenologici più
estremi del pensiero europeo[lxiii][63])
che proprio esso, attraverso la consapevolezza dell'evento della individuità del temporalizzarsi
della temporalità del tempo (che contrassegna la peculiarità ed unicità
della storia della cultura cosiddetta occidentale), costituisce l''oriente
dell'oriente', quell'aurorale fenomeno
abissale che necessariamente deve sempre simultaneamente ricadere
nella suprema superficializzazione di sé, cioè dell'autoapparirsi
dell'in-cui dello star-fuori della propria
pura distruggitrice possibilità. Nell'apparire dell'apparire
appare allora una cosa, una casa, una vita, una storia, un evento,
un'invenzione, un suono, una stella, l'est e l'ovest, il nord ed il
sud, la neve e la primavera, un viaggio di ritorno o una solare vacanza
al mare etc. Non solo anche qui abitano gli
dèi, ma nell'apparire del loro grazioso scomparire, per lasciar che
ogni cosa si stabilisca nel proprio specifico 'orlo',
ciascuno di essi sussurra: naufragium feci bene navigavi.