Nietzsche e la genesi del mondo umano (con un'eco da Rilke)
di Antonello Giugliano
"O
einer, o keiner, o niemand, o du:
Wohin
gings, da's nirgendhin ging?
O
du gräbst und ich grab, und ich grab dir zu,
und
am Finger erwacht uns der Ring"
P.
CELAN, Die Niemandsrose (1963) I, 1
"Ma la legge interna della scienza storica
è questa: insieme al costruirsi del mondo storico nel tempo, cresce
di pari passo la comprensione scientifica della natura storica dell'uomo.
Infatti l'uomo non può comprendere se stesso attraverso nessun genere
di vuota elucubrazione sopra di sé: da quest'ultima nasce soltanto
la grande miseria nietzscheana della soggettività esasperata. Soltanto
nella comprensione della realtà storica, che egli stesso produce,
l'uomo perviene alla coscienza del suo potere, nel bene e nel male"[i][1].
Forse non è un caso che a meno di un anno
dalla morte di Nietzsche, Dilthey sentisse l'esigenza, immediatamente
all'inizio del suo gran saggio del 1901 sul secolo diciottesimo e
il mondo storico, di tirare una linea netta di demarcazione tra l'impostazione
scientifico-spirituale propria della sua considerazione della scienza
storica e della storia e quella, impersonata dalla tragica vicenda
filosofica e biografica di Nietzsche, che ne rappresentava il preciso,
catastrofico, opposto.
E questa esigenza di separare criticamente
il chiaro dal torbido stava quasi anche ad esorcizzare l'ombra malignamente
stagliantesi di un'indicibile affinità di contenuto (il problema dell'essenza
e del senso della storia) che poteva in qualche modo ricollegare,
spesso anche per la loro forma, i grandi studi e frammenti coevi e
successivi dell'incompiuta Einleitung in die Geisteswissenschaften
(1883) diltheyana con quelli dell'altrettanto incompiuto e frammentario
Der Wille zur Macht postumo nietzscheano (1901, poi 1906).
Dilthey, il quale forse segretamente
era pienamente consapevole di una scandalosa analogia, aveva ragione
a marcare e rimarcare questa assiale differenza di concezioni. Ancora
nel 1903 vi era tornato sopra quasi inquietamente in un testo biografico
privato: "Invano, in una solitaria considerazione di sé, Nietzsche
cercò la natura originaria [del sé], la sua essenza astorica. Egli
tirò via una pelle dopo l'altra. E cosa rimase poi?"[ii][2].
Come quello già formulato trent'anni
prima da suo cognato, l'eminente filologo ritschliano H. Usener, contro
La nascita della tragedia ("uno che ha scritto queste cose
è morto per la scienza"[iii][3]), il giudizio critico di Dilthey su Nietzsche
avrebbe potuto dirsi definitivo. Esso racchiudeva infatti la quintessenza
di quanto andava detto per determinare il significato di Nietzsche
nel suo autosprofondamento filosofico e per avvisare chi incautamente
avesse voluto ancora avvicinarglisi. Se il mondo filosofico fosse
stato ragionevole, avrebbe dato retta all'ammonimento diltheyano
di non prendere mai più Nietzsche scientificamente sul serio. Infatti
quella annunciata da Nietzsche costituiva l'antipodo della concezione
'umanistica' della storia, anche di quella propria della più avvertita
storiografia critico-scientifica.
Ma, si sa, la filosofia, soprattutto
quella autenticamente filosofica, cioè arcontica e cioè 'afilologica'
e perciò per principio sovranamente capace di distruggere anche ed
innanzitutto se stessa, per finire e per ricominciare da capo in se
stessa, dalle rovine della 'rovina' di se stessa, è contraria alla
ragionevolezza, è essa stessa non ragionevole e non vuole sentire
ragioni, massimamente quelle cosiddette scientifiche, che la distraggano
da se stessa, dalla mania di se stessa. Come appunto la fatale vicenda
(filologico-filosofica e biografica) di Nietzsche stava a dimostrare.
Per Nietzsche non solo e semplicemente
del "costruirsi del mondo storico umano nel tempo" si trattava, bensì
di provocare la tensione della soggettività (una sua "esasperazione"
l'aveva chiamata Dilthey), una tensione tale da farla improvvisamente
scoccare verso il concentrico superamento di se stessa, verso l'analogon
opposizionale di se stessa, verso il proprio primordiale fuori-di-sé
e perciò di procedere verso il proprio 'grado zero', verso il fondamento
della propria possibilità (la domanda circa la 'soggettività' stessa
in quanto porta d'accesso alla comprensione della vita-'hypokeimenon'
universale e parte della totalità costituita da quest'ultima: la "ursprüngliche
Natur", come l'aveva definita Dilthey), e cioè mettendo innanzitutto
in questione il senso di tutto l'apparato categoriale ("una pelle
dopo l'altra") con cui ogni totalità attraverso l'uomo ostende se
stessa: ciò che tradizionalmente costituisce la identità e la medesimezza
di quella soggettività e che si chiama 'costruzione', 'mondo', 'storia',
'uomo', 'linguaggio', 'pensiero', 'significato', 'vita', 'tempo' etc.
etc., insomma di tutti quegli elementi fondamentali che Dilthey -
che credeva di dover arrestare ad un certo punto, ritenuto inaggirabile,
la forza illuminatrice dell'analisi e quindi di non poter più spingere
oltre il pensiero - aveva sintetizzato appunto nella fondamentale
formula del "costruirsi del mondo storico nel tempo".
L'alternativa che perseguiva invece un
pensiero come quello inaugurato da Nietzsche era quella di un regresso
'trascendentale' infinito che cerca di attingere la scaturigine primordiale
del costituirsi della vita stessa in quanto vita e in quanto vita
di una 'soggettività', appunto sollevando una 'pelle' dopo l'altra,
attraverso uno svuotamento di tutte le categorizzazioni e stratificazioni
storiche onde attingere quel 'vuoto' da cui derivare l'autentica legge
e vibrazione interna della storia e della scienza storica. Un'alternativa
che pone innanzitutto in gioco e perciò filosoficamente in pericolo
l'interrogante stesso, la sua 'soggettività', esponendolo al rischio
di naufragare in sé nella esasperata "miseria" del proprio fuori-di-sé.
Insomma, decidendo di saltare al di là della propria 'ombra', Nietzsche
aveva proceduto verso la decisa infrazione metafisica del monito
filosofico-critico che lo stesso Dilthey aveva formulato pochi anni
prima in una lettera indirizzata al suo acuto interlocutore filosofico
conte Yorck von Wartenburg: l'inaggirabilità della "coscienza storica,
che l'uomo non può togliersi la pelle e trovarsi come è in sé (e su
ciò Nietzsche divenne pazzo)"[iv][4].
Paradossalmente (e ciò in quanto intorno
a Nietzsche sempre di nuovo di un infinito e concentrico paradosso
si tratta), però, la dichiarazione dell'impossibilità filosofica di
un aggiramento non può essere mai definitiva, proprio in quanto mera
dichiarazione che ha ancora tutto il giro della totalità delle possibilità
attorno a sé, e cioè ancora di nuovo dietro e avanti a sé, sopra e
sotto di sé; allorché questo aggiramento improvvisamente si compie
- è proprio della circolarità del cerchio il necessario ed inarrestabile
continuare a girare su se stesso, anche laddove e proprio laddove
esso appare ristare solo più immobile in se stesso: questo essendo
il modo primario di girare innanzitutto su se stesso e dunque anche
di aggirare e raggirare innanzitutto se stesso - esso porta alla
precisazione del concetto di 'aggiramento' stesso e dunque chiarisce
il senso del limite che era stato posto da Dilthey come invalicabile:
in questo caso, dei concetti di coscienza storica e di in sé, di costruzione,
di storicità, di mondo e, innanzitutto, di tempo.
A Dilthey (ma in parte con minor penetrazione
filosofica della drammaticità dei termini della questione toccata)
farà eco pochi anni dopo (dopo che il mondo storico, cui anche il
secolo diciottesimo e la scienza storica appartenevano, veniva lentamente
inghiottito dall'abisso che si era iniziato a spalancare con la prima
guerra mondiale ed il cui spettacolo era stato dalla sorte pietosamente
risparmiato al vecchio Dilthey, scomparso nel 1911) il teologo Ernst
Troeltsch, il quale, in un articolo dedicato allo spirito metafisico
e religioso della cultura tedesca, celebrando il carattere idealistico
di fondo della filosofia e storiografia tedesche, sottolineava come
proprio perciò, e nonostante tutti i suoi indiscutibili meriti di
critico della cultura, "Nietzsche [...], der, mehr ein Dichter als
ein Denker [ist], mit der deutschen Philosophie wenig [...] zu tun
hat"[v][5].
Qui non mi interessa entrare nel merito
della questione, spesso analizzata, ma ancora non del tutto chiarita,
della effettiva incidenza del pensiero di Nietzsche (ma di quale Nietzsche?)
sugli autori della costellazione del cosiddetto storicismo tedesco
contemporaneo[vi][6]. Attraverso una sorta di mitridatizzazione
filosofica, al fine di una 'urbanizzazione' del pensiero nietzscheano
stesso, un certo tipo di storicismo si è limitato solo più ad una
tanto cauta quanto superficiale riassunzione della acuta tripartizione
della storiografia in antiquaria, monumentale e critica operata da
Nietzsche nella seconda considerazione inattuale. Proprio la (contraddittoria)
recezione da parte dei principali esponenti del Historismus
è esemplificativa della contraddittorietà della recezione di Nietzsche
e quindi di come, però, proprio lo storicismo laddove esso prenda
sul serio i suoi problemi ed innanzitutto la problematizzazione di
se stesso, cioè la chiarificazione filosofica dei propri fondamenti
concettuali, trovi in Nietzsche il suo momento decisivo sia nel rifiutarlo
o riutilizzarlo entro i ben stretti limiti della figura dell'acuto
critico della cultura e testimone della crisi della filosofia (come
in Windelband e Dilthey e in Troeltsch e in Meinecke), sia nell'assumerlo
più o meno radicalmente e/o superficialmente (come in Simmel, Spengler,
Weber).
Anche sulla scia del tipo or ora menzionato
di recezione critica del pensiero di Nietzsche ci si è ormai abituati
a considerare interpretativamente Nietzsche ed insieme il contrario
di Nietzsche. Più propriamente, però, si dovrebbe parlare non semplicemente
di Nietzsche e del suo contrario, bensì dire e pensare che Nietzsche
filosoficamente è in se stesso il suo proprio contrario.
Il radicalismo di Nietzsche ha fatto sì
che il suo pensiero venisse utilizzato per i più diversi tentativi
di determinazione filosofica della verità della realtà nella sua totalità,
come è avvenuto nella filosofia dei valori rickertiana e in certe
peculiari tendenze 'vitalistiche' della fenomenologia eidetico-trascendentale
(laddove come in Scheler si tratta di determinare la genesi 'materiale'
dei valori); nella filosofia della vita simmeliana e nell'esistenzialismo
jaspersiano, nell'utopismo messianico blochiano e negli sviluppi della
stessa fenomenologia ermeneutica heideggeriana.
La potenza della concezione nietzscheana
in tutta e con tutta la sua propria programmatica ambiguità, che la
esponeva continuamente al necessario fraintendimento e alla sua volontaria
autodistruzione, era tale da riuscire ad attrarre a sé anche i suoi
migliori oppositori filosofici, come è il caso dello stesso Dilthey
il quale rispetto alle prime nette stroncature qualche anno più tardi
riconoscerà l'importanza culturale di Nietzsche per la ridefinizione
concettuale dell'essenza della filosofia in termini di filosofia della
vita storica.
La distruzione dell'umanesimo e della
filosofia stessa: questa intenzionalità ultima del pensiero di Nietzsche
non ha impedito che questo pensiero stesso venisse ricollocato e riutilizzato
proprio nell'ambito contrapposto alla sua arci-intenzionalità, e questo
contromovimento si configura come generale 'filosofia dei valori',
e precisamente come urbanizzazione e bonifica del pensiero nietzscheano
mediante il suo innesto sul filone della tradizione lotzeana: la derivazione
di questa 'filosofia dei valori' anche proprio da Nietzsche (e malgrado
Nietzsche) attende ancora una approfondita e spregiudicata analisi,
che dovrebbe tenere sempre di nuovo in debito conto la fondamentale
linea di connessione entro cui procedere alla chiarificazione e comprensione
dei singoli elementi che la scandiscono: Nietzsche-Rickert-Heidegger[vii][7]), e ciò proprio in quanto il pensiero di
Nietzsche, che ci è giunto ed in parte ancora ci giunge mediato dal
pensiero wertphilosophisch e da quello seinsgeschichtlich,
ha già relativizzato tutto il discorso sul valere dei valori in quanto
ha radicato la stessa logica e dunque la 'verità' nel terreno primordiale
dello Schein, e dunque dell'animalità, del tempo. Rickert è
stato a suo modo l'anticipatore del supremo tentativo filosofico del
XX secolo, quello heideggeriano, di salvare la filosofia da se stessa
col tentare di salvare Nietzsche da se stesso, dall'autosfondamento
della filosofia nella sragione, nella non-ragione. Ben più del filosoficamente
inconcludente tentativo jaspersiano - che risentiva ancora di un'impostazione
'clinicistica' per quanto ermeneuticamente aggiornata ed affilata
- o del concettualmente goffo e malriuscito tentativo bäumleriano
di lettura nazionalsocialista di Nietzsche come filosofo-politico
della volontà di potenza, sarà Heidegger il massimo artefice di quel
tentativo di salvare la filosofia da se stessa col tentare di salvare
Nietzsche dal 'se stesso' del suo esser-fuori-di-sé.
Cento anni dalla morte di Nietzsche.
L'impressione è quella di una ancora futura contemporaneità del pensiero
di Nietzsche (che ha avuto il coraggio/la follia di andare a prendere
il toro per le corna, cioè di attraversare il cerchio di fuoco della
autodistruzione della filosofia: il suo proprio naufragium feci,
bene navigavi - ma senza il compimento schopenhaueriano nel Nulla,
bensì la sua evocazione come cerchio concentrico del ritorno), del
suo continuo essere-avanti-a-sé, e simultaneamente tutta l'inadeguatezza
della posizione ancora 'aletheiologica', pur se consapevolmente e
tormentatamente relativizzante e critico-problematica, propria dell'anabasi
dello storicismo diltheyano e troeltscheano.
La ribaltabilità di Nietzsche nei propri
opposti e nell'opposto di questi opposti e così via all'infinito,
questa ribaltabilità è tutta già inscritta nella 'catastrofalità'
del pensiero nietzscheano e nella sua essenza fondamentale: lo Schein..
"La novità nella nostra attuale posizione verso la filosofia è una
convinzione che finora non fu propria di nessuna epoca: che cioè
non possediamo la verità. Tutti gli uomini del passato 'avevano
la verità': persino gli scettici"[viii][8].
Ciò implica, allora, che il pensiero si
sposti dal piano del 'poter-essere-un-tutto', quale estrema configurazione
fenomenologico-esistenziale della volontà di verità, a quello del
'tutto-può-essere' (anche e innanzitutto che non si dia più alcuna
possibilità-di-totalità, alcuna totalità che possa essere possibile)
dello Schein.. Di qui, da questo piano, si dovrebbe riarticolare
e riformulare il tutto non più nei termini categoriali-esistenziali
di 'Sein und Zeit ', bensì più appropriatamente nei termini
apparenziali di 'Schein ' e 'Zeit ' (in cui la
congiunzione sarebbe solo il pleonasmo dell'autoapparenzialità dell'esser-fuori-di-sé
del temporalizzarsi della temporalità). Lo Schein costituisce
il pensiero dominante della 'anti-filosofia' di Nietzsche, e ad esso
sono sottomessi tutti gli altri pensieri fondamentali (eterno ritorno
dell'eguale, volontà di potenza, nichilismo, genealogia etc.).
Ma in esso non si tratta di una mera
contrapposizione gnoseologistico-fenomenistica (come tutta la costellazione
della variegata Erkenntnistheorie neokantiana - da Riehl e
Simmel a Rickert fino al finzionalismo vaihingeriano di Del Negro[ix][9] - ha sempre voluto vedere, e come lo stesso
Nietzsche ha spesso fatto se non autofraintendendo se stesso offrendo
però almeno i presupposti per il fraintendimento del suo più proprio
pensiero[x][10]) tra eleatismo degli apparati categoriali
ed eraclitismo del divenire intensivamente ed estensivamente infinito
della vita (esterna ed interna); ciò di cui Nietzsche parla nel famoso
aforisma nr. 54 del primo libro de La gaia scienza (1882) è
piuttosto una più precisa, seppur non ancora definitiva, esplicitazione
concettuale di quanto la metafisica artistica de La nascita della
tragedia aveva espresso nei termini filosoficamente approssimativi
della diade estetica dionisiaco-apollineo e del loro infinito sfondo
'musicale'.
"La coscienza dell'apparenza..
In che modo meraviglioso e nuovo e insieme tremendo ed ironico mi
sentivo posto con la mia conoscenza dinanzi all'esistenza tutta! Ho
scoperto per me che l'antica umanità e animalità, perfino tutto
il tempo dei primordi e l'intero passato di ogni essere sensibile,
continua dentro di me a meditare, a poetare, ad amare, ad odiare,
a trarre le sue conclusioni, - mi sono destato di colpo in mezzo a
questo sogno, ma solo per rendermi cosciente che appunto sto sognando
e che devo continuare a sognare se non voglio perire: allo
stesso modo in cui il sonnambulo deve continuare a sognare, per non
piombare a terra. Che cos'è ora, per me, 'apparenza'! In verità, non
l'opposto di una qualche sostanza: che cos'altro posso asserire di
una qualche sostanza, se non appunto i soli predicati della sua apparenza?
In verità, non una maschera inanimata che si potrebbe applicare ad
una X sconosciuta e pur anche togliere! Apparenza è per me ciò stesso
che realizza e vive, che va tanto lontano nella sua autoderisione
da farmi sentire che qui tutto è apparenza e fuoco fatuo e danza di
spiriti e niente di più; che tra tutti questi sognatori anch'io, l''uomo
della conoscenza', danzo la mia danza; che l'uomo della conoscenza
è un mezzo per tirare in lungo la danza terrena ed in questo senso
fa parte dei soprintendenti alle feste dell'esistenza; e che la sublime
consequenzialità e concomitanza di tutte le conoscenze è forse, e
sarà il mezzo più alto per mantenere l'universalità delle
loro chimere di sogno e la generale comprensione reciproca di questi
sognatori e con ciò appunto la durata del sogno"[xi][11].
La coscienza dell'apparenza: la co-scienza
appunto che appare in me, cioè attraverso la mia conoscenza, una soggettività
che è simultaneamente altra-e-non-altra da me: essa è l'autentico
me, l'autentico sé di me stesso: essa pone me ed io pongo/scopro essa:
essa, cioè tutta la primordiale umanità ed animalità con tutto ciò
che queste stesse in parte sono, con tutto ciò cui queste stesse appartengono:
tutto il tempo dei primordi e l'intero passato di ogni essere sensibile,
che continuano ad accadere (cioè ad avere un passato, un presente
ed un futuro) nel sé soggettivo-umano troppo umano: essa è il sogno
primordiale (cui la stessa cosiddetta veglia appartiene) di cui ciò
che si è soliti chiamare la dimensione onirica potrebbe essere una
peculiare porta d'accesso, che però contrariamente a quanto si crede
non conduce sempre più all'interno, bensì che dall'interno porta
all'oltremodo esterno, al massimamente esterno: al più ampio cerchio
dei cerchi che continua ad apparire e a ri-petere se stesso girando
e rigirando su se stesso e perciò nel 'me stesso', a "tutto il tempo
dei primordi e l'intero passato di ogni essere sensibile", e precisamente
al suo principio stesso: il temporalizzarsi l'uno nell'altro del
passato del presente del futuro.
Circa tre anni dopo, ciò che qui sembra
ancora presentato solo più nel quadro di una arguta meditazione critico-culturale
e psicologico-moraleggiante, viene da Nietzsche ulteriormente e radicalmente
tematizzato (ormai lo Zarathustra è definitivamente in cammino).
Così in una breve sequenza di frammenti - la cui vertiginosità da
sola basterebbe a fissare la irripetibile importanza filosofica del
suo nome e del suo pensiero, anche laddove poi questo stesso pensiero
ha bisogno di venire scrollato dalle inevitabili incrostazioni che
lo ricoprono, e ciò anche attaverso il ricorso ad altri 'luoghi' in
cui il medesimo flusso di pensiero riemerge intensificato e rigenerato
(come è il caso, e lo vedremo tra poco, di alcuni aspetti della 'poesia'
di Rilke)/-, Nietzsche scriveva, contro la fatale concezione metafisica
tradizionale di una apparenza inautentica contrapposta ad un essere
autentico, di un inapparente 'essere' vero sottostante e contrapposto
alla mera apparenzialità dei 'fenomeni', che "ci sono parole nefaste
che sembrano esprimere una conoscenza, mentre in realtà impediscono
una conoscenza; una di queste è la parola 'apparenze' ['Erscheinungen'
]. Quanta confusione procurino le 'apparenze' ['Erscheinungen'],
può essere svelato da queste proposizioni, che cito da vari filosofi
moderni ---"[xii][12], e sottolineava perciò come il contenuto
'retrostante' dei fenomeni non sia altro che l'apparenzialità dell'apparenza
stessa che rende possibile l'apparire della 'verità' stessa: "gegen
das Wort 'Erscheinungen'. / NB. Schein,
wie ich es verstehe, ist die wirkliche und einzige Realität der Dinge,
- das, dem alle vorhandenen Prädikate erst zukommen und welches verhältnismässig
am besten noch mit allen, also auch den entgegengesetzten Prädikaten
zu bezeichnen ist. Mit dem Worte ist aber Nichts weiter ausgedrückt,
als seine Unzugänglichkeit für logischen Prozeduren und Distinktionen:
also 'Schein' im Verhältniss zur 'logischen Wahrheit' - welche aber
selber nur an einer imaginären Welt möglich ist. Ich setze also nicht
'Schein' in Gegensatz zur 'Realität', sondern nehme umgekehrt Schein
als die Realität, welche sich der Verwandlung in eine imaginative
'Wahrheitswelt' widersetzt. Ein bestimmter Name für diese Realität
wäre 'der Wille zur Macht', nämlich von Innen her bezeichnet und nicht
von seiner unfaßbaren flüssigen Protheus-Natur aus"[xiii][13].
Solo per il pensiero umano, troppo umano,
solo per ciò che muove necessariamente dall'interno verso l'esterno
e per cui l'esterno è sempre dato come un che di interno e a partire
dall'interno e dunque come l'esterno di un interno, la realtà arcontica
dello Schein può venire solo "designata dall'interno" e cioè
appunto come "volontà di potenza", intesa come il supremo potenziamento
della volontà per uscire fuori da se stessa, per pervenire al fondamento
dell'interiorità di se stessa, all'esterno assoluto di sé: a quella
sua inafferrabile fluida natura proteiforme: a quel sogno primordiale
che avvolge di sé e circonda col suo più ampio giro precedendoli ogni
contrapposizione di interno ed esterno, alto e basso, superficialità
e profondità, essere e apparenza, soggetto e oggetto, natura e spirito,
etc. Proprio perciò il "Wille zur Macht
ist das letzte Factum, zu dem wir hinunterkommen"[xiv][14].
Ma se si prescinde da quell'interno/esterno
per procedere - attraverso la massima 'esasperazione' dell'interno,
attraverso la discesa agli inferi, ai fondamenti abissali - fuori
verso quell'esterno assoluto, come è possibile ostendere concettualmente
questo orizzonte apparenziale intenzionato come fluida natura proteiforme?
Nietzsche
era talmente consapevole di questo problema di 'metodo' da poter acutamente
osservare: "Das müßte etwas sein, nicht Subjekt, nicht Objekt, nicht
Kraft, nicht Stoff, nicht Geist, nicht Seele: - aber man wird mir
sagen, etwas dergleichen müsse einem Hirngespinnste zum Verwechseln
ähnlich sehn? Das glaube ich selber: und schlimm, wenn es das nicht
thäte! Freilich: es muß auch allem Andern, was es giebt und geben
könnte, und nicht nur dem Hirngespinnste zum Verwechseln ähnlich sein!
Es muß den großen Familienzug haben, an dem sich Alles mit ihm verwandt
wiedererkennt --"[xv][15].
Con ciò, però, Nietzsche ha già anche
dato la risposta: questa è il tempo che 'apparenta' tutto: l'interno
e l'esterno etc. etc. L'autoapparire del tempo-Schein che
domina anche l'epocalità dell'essere e le epoche dell'essere, 'è'
esso il fondamento dell'autoappropriazione e della autodisappropriazione
dell''essere' in quanto 'proprio' di sé stesso. Questo è 'propriamente'
il fondamento disumano dell'umano: ciò che "maltrattava"[xvi][16] Nietzsche fin nelle radici del suo più
proprio essere e che egli disperava perciò di poter comunicare mediante
una concettualizzazione filosofica tradizionale, giacché "zwischen
dem Ähnlichsten gerade lügt der Schein am schönsten; denn die kleinste
Kluft ist am schwersten zu überbrücken"[xvii][17]
"Maltrattato": anche perché Nietzsche,
completamente invaso dal pensamento di quel pensiero capitale,
da quel "Gipfel der Betrachtung" - tanto abissalmente alto da dare
le vertigini: esso stesso nella sua propria verticalità una vertiginosa
vertigine - non è in grado di 'concettualizzarlo' e 'definirlo' adeguatamente,
cioè nella sua interezza. E perciò Nietzsche ricorre alla 'poesia',
cerca cioè di 'cantarlo'. Ma il suo 'canto' non è in genere adeguato
alla vertiginosa altitudine di quel pensiero abissale la cui abissalità
è tale perché la superficialità (e la frivolità) appartiene all'essenza
di quel pensiero stesso. Nietzsche rincorre la 'poesia' (lo
Zarathustra, per es., o i Ditirambi di Dioniso etc.),
ma il suo 'canto' (salvo rarissime eccezioni: per es. la famosa Sils
Maria[xviii][18]) nel complesso fallisce[xix][19], come fallisce nella 'prosa' la concettualizzazione
di quell'Ur-pensiero: il puro, tautologico, fuori-di-sé dello
Schein in quanto temporalizzarsi del tempo.
In tal senso, si può affermare - facendo
comunque attenzione a non restare intrappolati nella tradizionale
contrapposizione e/o giustapposizione di filosofia e poesia (tipo
quella che sta alle origini della prima recezione del Nietzsche artista-poeta
e pensatore, come suonava il sottotitolo della gloriosa monografia
del neokantiano A. Riehl[xx][20]) - che Rilke (in alcuni aspetti della
cui 'poesia', come ho anticipato, il medesimo flusso di pensiero che
attraversa Nietzsche riemerge intensificato e rigenerato), se fallisce
nel 'pensiero' non fallisce nel 'canto', nel suo proprio canto
poetico che è già come un nuovo pensiero (quel pensiero-balenante
che su di un altro binario - quello 'filosofico' - anche Nietzsche
prefigura: attraverso la metafisica, ovvero l'antimetafisica, dello
Schein).
La caratteristica fondamentale di questo
pensiero è la caratteristica fondamentale dello Schein stesso:
la sua propria transitorietà e fugacità; ciò implica propriamente
la sua propria immemorialità, ma questa è propria innanzitutto
dell'animalità dell'animale; una sua formulazione estrema (ma
tenendo conto che questo pensiero, appunto in quanto puro fuori-di-sé,
è l'antiestremo di ogni estremizzazione dialettica) potrebbe essere:
la irripetibilità del suo eterno ritornare e l'eterno ritornare della
sua propria irripetibilità. Con ciò è espressa la uniduplicità propria
dello Schein, che è la vita stessa, e questa, innanzitutto,
è l'animalità degli animali.
Ma proprio Heidegger, malgrado il suo
puntuale rilevare in Nietzsche la rimandatività ed identificazione
di animalità ed eterno ritorno dell'eguale, proprio Heidegger,
attraverso questa tattico sfioramento del problema filosofico-primordiale
che i "Zarathustras Tiere"[xxi][21] in sé rappresentano, elude strategicamente
il problema stesso: precisamente come avviene per la questione dello
Schein. Anche in ciò animalità e Schein, girando
ogni volta in circolo concentricamente (proprio come fanno l'aquila
ed il serpente di Zarathustra) su se stessi, si rimandano a vicenda.
Ma ogni volta è come se Heidegger si ritraesse
atterrito da ciò a cui lo Schein , attraverso la sua propria
intima compenetrazione di animalità e temporalità - esso stesso
questa 'commettitura' primordiale - conduce. Se solo si sapesse che
cosa questi termini propriamente significano, si potrebbe semplicemente
dire: verso il fondamento 'disumano' dell'umano. Ciò implica che si
parli anche della 'animalità' e del 'tempo', ma il doppio volume
heideggeriano su Nietzsche uscito solo nel 1961 non fa trapelare
gran che di questa esigenza che pure l'accompagna come un'ombra oltre
la quale è impossibile saltare.
Ma proprio riandando a ritroso a partire
dal doppio volume su Nietzsche quest'ombra si rende invece
pienamente visibile e comprensibile (nei limiti in cui un'ombra può
esserlo): e questa è la intima vicinanza negli Holzwege[xxii][22] heideggeriani, pubblicati dieci anni prima,
del lungo saggio su Nietzsche e di quello altrettanto lungo su Rilke;
non a caso l'un saggio segue l'altro[xxiii][23]: come a dire che la poesia di Rilke è
impensabile senza presupporre Nietzsche, epperò che il pensiero di
Nietzsche è cieco ed incompiuto senza gli essenziali presagi d'essere
che Rilke canta e rappresenta e che solo un pensiero-balenante, un
pensiero che procede per balenii, qual è proprio quello della cosiddetta
'poesia', allorquando essa afferra sovranamente se stessa, può mettere
in opera.
Qui però non entrerò direttamente né nelle
questioni della tarda filosofia heideggeriana, del suo peculiare
linguaggio e dei suoi problematici binomi: pensiero e poesia, pensiero
poetante e poesia pensante, né nelle questioni della poesia di Rilke
in quanto tale, della posizione che occupano in essa le Elegie
Duinesi , delle interne stratificazioni nella lunga composizione
di queste ultime e della loro connessione con altri coevi cicli poetici
rilkiani.
Mi interessa piuttosto far vedere, attraverso
l'eco reiterata del pensiero di Nietzsche in alcuni picchi d'eccellenza
della poesia di Rilke, davanti a cosa il pensiero di Heidegger (il
quale proprio questa ispirazione metafisica nietzscheana della poesia
di Rilke riconosce e sottolinea[xxiv][24]) si ritrae atterrito, mettendo in moto
tutta una strategia di difesa e di aggiramento. E ciò è già ben visibile
nel tanto prudente quanto esatto giudizio di Heidegger circa i limiti
della comprensione e dell'avvicinamento critico delle Elegie di
Duino e dei Sonetti ad Orfeo[xxv][25]. D'altra parte, però, occorre anche sottolineare
come proprio l'estrema stratificazione di ispirazioni e di suggestioni
presente nei due maggiori cicli poetici rilkiani renda necessario,
per seguire propriamente l'importo metafisico nietzscheano nella poesia
di Rilke, trascegliere "alcune parole fondamentali [Grundworte]
dell'autentica [gültige] poesia di Rilke"[xxvi][26] e dunque fare ricorso anche a versi esterni
a quei due cicli poetici principali.
Utilizzerò perciò alcuni passi delle Elegie
Duinesi come 'materiali' (dunque senza alcuna preoccupazione di
fedele e/o puntuale commento sistematico[xxvii][27], e ciò proprio in quanto la pura e sovrana
autostensione peculiare della poesia per eccellenza in generale,
e di alcuni versi delle Elegie Duinesi in particolare, sembra
possedere in sé la capacità di non aver bisogno di un commento che
la riconduca logicamente ad altro: in quanto sono i versi che, reiterati
nella loro lettura, rendono propriamente intelligibili le parole del
commentario), o meglio come autentico contro-canto ed esplicitazione
in quanto (laddove non ricade nelle sue infelici formulazioni esoterico-sapienziali
che costituiscono un secondo strato innestato sul nucleo originale
delle Elegie Duinesi) in alcuni di questi versi Rilke canta
il Dionisiaco nietzscheano con una rigorosità concettuale inattinta
dallo stesso Nietzsche (che spesso è abbastanza evasivo e rinunciatario
se non anche addirittura 'impreciso' a concettualizzare il Dionisiaco:
in effetti però ciò è connesso alla questione dello Schein
che non permette più alcuna determinazione logica bensì solo una ostensione
'estetica', ekstatica, per mezzo della 'logica' propria della poesia
autenticamente filosofico-metafisica[xxviii][28]), mettendo in connessione con insuperata
essenzialità propria solo della poesia il Dionisiaco, l'Animalità
e la Temporalità del Tempo ed il loro reciproco autoapparire.
Anzi si può dire che come la Nascita
della Tragedia di Nietzsche è un vero e proprio trattato di metafisica
dell'apparenza - che costruisce curvando nel proprio senso materiali
schopenhaueriani e wagneriani -, cosa che la filologia classica ufficiale
coeva fece giustamente notare stroncandola scientificamente, così
le Elegie Duinesi di Rilke costituiscono per alcuni tratti
l'essenzializzazione di quella metafisica dell'apparenza. In entrambi
i casi è questione della delimitazione apollinea nell'essere (ousìa)
prodotta dal dolore dionisiaco del divenire (dynamis/energheia),
della delimitazione apollinea nell'essere che è apparenza, ma quest'ultima
altro non è che il precipitato del movimento di apparizione dell'illimitato
che è il principio dinamico di produzione in sé, ma ciò è proprio
lo Schein (che è il monstrum per eccellenza: ciò che
appare in sé, cioè fuori-di-sé, massimamente - ed insieme, poiché
è il principio stesso della vita e dunque esso stesso massimamente
vivente, è l'animale primordiale, il minotauro), cioè il temporalizzarsi
del tempo: il puro fuori-di-sé (proprio di ciascuna delle sue ekstasi)
nelle sue condensazioni (le varie singole esistenze). Come si vedrà
più avanti, Rilke impiegherà formulazioni poeticamente più confacenti
alla complicata semplicità propria della 'cosa' da ostendere.
La conoscenza che Rilke aveva di Nietzsche
e degli aspetti essenziali del suo pensiero, segnatamente quelli connessi
con la metafisica artistica de La nascita della tragedia, gli
fu certamente mediata anche da Lou von Salomé. Com'è noto, i due
si conobbero nel 1897 (data di inizio della loro intensa relazione
sentimentale ed intellettuale). La più anziana Lou aveva pubblicato
già nel 1894 la sua pionieristica ma in più punti acuta ricostruzione
del pensiero di Nietzsche[xxix][29] in cui, a suo modo, metteva in risalto
la centralità della questione della temporalità e la sua intima connessione
con la 'follia' mistica: "Questa tendenza verso l'elemento ascetico
e mistico, che, proprio nella lotta contro di essi, si palesa con
forza come il tratto segreto della filosofia di Nietzsche [...]. La
dottrina nietzscheana dell'eterno ritorno non è mai stata messa in
rilievo e apprezzata a sufficienza, sebbene in certa misura essa costituisca
sia le fondamenta sia il coronamento dell'edificio concettuale di
Nietzsche, e sia stata l'idea da cui egli ha preso le mosse nella
concezione della sua filosofia dell'avvenire, così come quella con
cui la conclude"[xxx][30]. E forse fu proprio anche questo testo
della vom Salomé[xxxi][31] che condeterminò all'epoca la altrettanto
pionieristica quanto disordinata scelta editoriale di Fritz Kögel
di mettere in risalto il pensiero di Nietzsche fondamentalmente come
pensiero del temporalizzarsi del tempo e cioè come pensiero dell'eterno
ritorno dell'eguale[xxxii][32].
Non è un caso quindi se quel che rimane
dei frammentari appunti di lettura rilkiani della seconda edizione
(1886) de La nascita della tragedia di Nietzsche fu trovato
proprio tra le carte private di Lou. Queste annotazioni - diciotto
fogli manoscritti privi di titolo -, risalenti probabilmente al marzo
1900 (periodo in cui Rilke abitava presso Lou Andreas-Salomé nella
villa Waldfrieden di Berlino-Schmargendorf) furono pubblicate solo
nel 1966, come Marginalien zu Friedrich Nietzsche "Die Geburt der
Tragödie", nel quadro dell'edizione delle opere complete di Rilke[xxxiii][33].
Come ho già detto prima, non mi interessa
qui entrare nel merito di queste annotazioni per valutare nel dettaglio
la loro maggiore o minore capacità di penetrazione e corrispondenza
estetico-filosofica al classico testo nietzscheano in quanto tale
(su ciò cfr., per es., il classico contributo di F. Jesi[xxxiv][34], ma intanto la letteratura critica sull'argomento
si è ovviamente di parecchio arricchita). Qui esse vengono richiamate
solo per documentare la presenza altresì di un filo in qualche modo
diretto tra Rilke e Nietzsche, casualmente o meno mediato anche dalla
von Salomé. Anzi, il dato di fatto fondamentale di queste note rilkiane
è di muovere già ad una essenzializzazione della metafisica artistica
nietzscheana (quale d'altra parte aveva iniziato a procurare Nietzsche
stesso, come quest'ultimo ricorda nel suo Tentativo di autocritica
apposto come introduzione alla seconda edizione,1886, de La nascita
della tragedia[xxxv][35], cioè proprio l'edizione che Rilke aveva
tenuto presente), cioè ad una arconticizzazione di essa, della metafisica
dell'artista primordiale, e attraverso di essa del pensiero di Nietzsche
in quanto tale riconducendolo al suo principium individuationis
che è, insieme, il principio di tutti i principi; nei termini di
queste note rilkiane: alla "causa della Musica".
"Es ist
auffallend, daß man für 'Musik' in allen erwähnten Wirkungen immer
jenes Andere setzen kann, das nicht Musik ist, sondern,
welches nur durch Musik am reinsten ausgedrückt wird. Der Lyriker
bedarf ja nicht der Musik, um zu schaffen, sondern
nur jenes rythmischen Gefühles, das schon nicht mehr des Gedichtes
bedürfte, wenn es sich erst in Musik ausspräche. Und sollte mit Musik
nicht überhaupt jene erst dunkle Ursache der Musik gemeint
sein und somit die Ursache aller Kunst? Freie bewegte Kraft, Überfluß
Gottes? Auch Malerei und Bildhauerei hat nur den Sinn, jene 'Musik'
zu interpretieren, an Bildern zu verbrauchen. Und dann wäre etwa die
Musik schon der Verrath jener Rythmen, die erste Form sie anzuwenden,
noch nicht an den Dingen der Welt, sondern an den Gefühlen, an uns.
Daran schlösse sich die Lyrik an, die uns leise mit der Welt verknüpft,
indem sie von unseren Gefühlen spricht als von Dingen der Welt und
aus der Lyrik entwickelte sich auf dem Umweg über die plastischen
Künste, die mit Weltdingen bereits symbolisch verfahren, das Drama,
die bildhafteste und darum vergänglichste Interpretation, der tiefverborgenen
Rythmen, die indessen die Absicht hat, in den Schauenden jene erste
primäre Ursache der Kunst zu erwecken, indem sie die Individualität
in den einzelnen Zuschauern zerstört, aus hunderten eine Einheit schafft,
d. h. ein Instrumentum für jene dionysischen Geräusche des Hintergrunds.
Und also schließt sich hier der Kreis. Aus der gewaltsam durch den
Rausch des Schauens vereinten Menge löst sich ein Einzelner mit dunkler
Kraft los, isoliert seine Gestalt und vergeudet in Flötentönen den
Gott, der die erschütterte Menge erfüllt"[xxxvi][36].
Ed in un
altro passo Rilke annota: "Das Ursprüngliche ist das Wellenschlagen
des Unbegrenzten und sein erster vollkommenster Ausdruck: Musik.
Fast mit der ganzen Breite spricht sich der bewegte Hintergrund in
der Musik aus, - während in der letzten Anwendung, im Drama, in den
schmalen Gestalten nur ein kleiner Theil jenes Hintergrundes Raum
hat, der allerdings so wirkt, daß aus den Zuschauern wieder
ein verhältnismäßig Unbegrenztes, - also ein momentaner
Schauplatz jenes ursprünglichen Wellenschlages entsteht"[xxxvii][37].
Attraverso la messa in rilievo di questo
singolare pensiero della "causa della musica", cioè di ciò
che 'è' essendo tutto ed il contrario di tutto, dunque anche della
musica strettamente intesa così come dell'apparire di tutte le altre
arti, rispetto alle quali l'inapparente 'musica' serba però una primazia
che la rende 'causa', innanzitutto di 'se stessa', cioè 'causa della
musica' - per cui essa è in sé l'inapparente apparire del puro fuori-di-sé
- e attraverso ciò l'orizzonte autoapparenziale di qualsiasi possibilità
dell'apparire e di qualsiasi apparizione concreta, Rilke si procura
la matrice concettuale (che pure subirà non poche variazioni terminologiche,
come si vede già dall'ultimo passo appena citato: ma più precisamente
si tratta di estensioni e vibrazioni concentriche provenienti da un
medesimo 'diapason') per procedere alla arconticizzazione della metafisica
nietzscheana quale avverrà in particolare nelle Elegie Duinesi
.
E segnatamente in alcune parti di esse:
anche in Rilke infatti non può non farsi sentire l'insostenibile tensione
dell'intenzionalità continua e irriducibile del principio dei principi,
della scaturigine delle scaturigini; come per Nietzsche prima, e poi,
più tardi, anche per Heidegger, anche se in modi radicalmente diversi,
lo sforzo estremo di intenzionare e concettualizzare il gran principio
dei principi non può non risultare esso stesso storico, individuale,
e perciò votato necessariamente al naufragio, in se stesso rovinante
nel proprio opposto, nella perdita di se stesso, nell'oblìo del raggiungimento
totale di sé, nel venire sommerso nella deiezione della 'quotidianità';
a ciò cerca di far fronte appunto la tematizzazione - che è a disposizione
del talento proprio del genio poetico e solo raramente del filosofo
che si atteggia (spesso solo goffamente se non pateticamente) a poeta
- dell'apparenzialità dell'ossimoro puro, in cui è ricompreso lo stesso
'naufragium feci, bene navigavi', cui appartengono anche ed innanzitutto
i versi dell'epigrafe tombale rilkiana della "rosa, pura contraddizione,
piacere/ di essere il sonno di nessuno sotto tante/ palpebre"[xxxviii][38], il che significa appunto intenzionare
e concettualizzare la supremazia dell'apparire dell'apparenza, del
temporalizzarsi del tempo, del fondo animale del minotauro, della
curvatura del divenire, della "causa della musica", etc.
La compiuta 'esasperazione' della soggettività,
l'attingimento della sua propria "natura originaria", della sua propria
"essenza astorica", di cui parlava Dilthey a proposito di Nietzsche,
è proprio ciò che viene rappresentato da Rilke attraverso la figura
dell' "angelo": il potente 'rovescio' dell'uomo: perciò questo assoluto
'rovescio' è/appare 'astorico': il fondamento della storicità storico-umana
appare come 'astorico', poiché esso è l'ossimoro puro proprio dell'essenza
del tempo, cioè l'apparire di se stesso come autentico non-se-stesso:
e proprio in questa sua autenticità, in questo suo apparire-ed-essere
propriamente se stesso: inautentico, irragiungibile, apparente, velocissimo,
lentissimo, lunghissimo, brevissimo, aurorale, inaugurale, immobile,
improvviso etc.; ma tutte queste determinazioni sono tali di come
'esso' appare a noi dall'interno, appunto cioè come determinazioni
temporali, ma non in sé, cioè nel suo proprio autoapparire, e perciò,
come direbbe Nietzsche, non nella 'sua' inafferrabile proteiformità:
giacché pure questo voler afferrare è già esso stesso l'autoapparire,
l'autoapparirsi, del tempo, il suo proprio temporalizzarsi: il tempo
che vuole afferrare il tempo: "Ciò dovrebbe essere qualcosa, non soggetto,
non oggetto, non forza, non materia, non spirito, non anima - ma
mi si dirà che qualcosa di simile somiglia a un'allucinazione, fino
a confondersi con essa? E' quello che credo io stesso: e guai se così
non fosse! Certo, dovrà somigliare, fino a confondersi con essa,
anche a ogni altra cosa che esiste e può esistere, e non solo all'allucinazione!
Dovrà avere una grande caratteristica comune, dalla quale tutto si
riconosca apparentato ad esso"[xxxix][39].)
Si può dire, perciò, che questo è il medesimo
tema metafisico delle Elegie Duinesi[xl][40], pur se esso stesso giammai nella piena
e totale disponibilità del poeta, che spesso lo perde, lo smarrisce,
scambiandolo per altro e con altro, e che perciò lo può solo attendere:
in quanto il suo proprio apparire (quello della 'cosa' stessa), il
suo intimo automovimento, è quello dell'apparire dell'apparenza pura:
l'Angelo, che però non appare mai del tutto, giacché ciò, l'apparire
della sua pura autoapparenzialità, significherebbe l'annientamento
di ogni apparenza finita, perciò esso è tremendo: "e se anche un Angelo
a un tratto/ mi stringesse al suo cuore: la sua essenza più forte/
mi farebbe morire"[xli][41]; il trattenersi della pura autoapparenzialità
dall'apparire totalmente crea come una distanza tra sé ed il proprio
completo apparire: il rilucere di questa sospensione è il 'bello':
"Perché il bello non è che il tremendo al suo inizio, noi lo possiamo
reggere ancora,/lo ammiriamo anche tanto, perch'esso calmo, sdegna/
distruggerci. Degli Angeli ciascuno è tremendo"[xlii][42]. Gli Angeli sono essi stessi una dimensione
primordiale, la scaturigine di ogni apparire in cui le direzioni
temporali si equivalgono, si sovrappongono, si invertono e si cancellano;
essa è come la vibrazione di un'onda musicale che si innalza oltre
con il proprio esser-stata o, più intensamente, è come una corrente
rifluente tra vortici contrapposti che pur però appartengono ad essa:
"Montava/ un'onda dal passato"[xliii][43]; "Ma i vivi errano, tutti,/ ché troppo
netto distinguono./ Si dice che gli Angeli, spesso, non sanno/ se
vanno tra i vivi o tra i morti. L'eterna corrente/ sempre trascina
con sé per i due regni ogni età,/ e in entrambi la voce più forte
è la sua"[xliv][44].
Anche gli Angeli sono e non sono questa
stessa corrente centripeta e simultaneamente centrifuga.
"Gli Angeli sono tutti tremendi"[xlv][45]. "Si movesse ora l'Arcangelo, il pericoloso,
si movesse da dietro le stelle/ di un passo soltanto, giù verso di
noi: con la violenza/ del battito, ci ucciderebbe il nostro proprio
cuore. Chi siete voi?/ Voi, primi perfetti, viziati della Creazione,/
profili di vette, creste di tutto il Creato/ rosse d'aurora, - polline
della divinità in fiore,/ articolazioni di luce, anditi, scale, troni,
spazi d'essenza, scudi di delizia, tumulti/ di sentimento in tempeste
d'entusiasmo, e a un tratto, uno per uno,/ specchi : la bellezza
che da voi defluisce/ la riattingete nei vostri volti"[xlvi][46]
Ogni Angelo è la concentrazione delle
diverse direzioni del tempo e delle sue temporalizzazioni (gli Angeli,
come il tempo, sono simultaneamente singolari-e-plurali: essi sono
il principio del tempo, cioè della temporalizzazione dei tempi).
Perciò il singolare di Angeli è: Arcangelo, cioè il loro principio
arcontico. Di fronte ad essi - che sono la totalità estensiva ed intensiva
delle eternità passate, presenti e future, sempre di nuovo di volta
in volta ritornanti in se stesse -, e proprio da essi, in quanto tali
culmini della concentrazione del temporalizzarsi dei tempi, reso possibile,
sta il divenire storico umano (di qui il poter-essere-per-una-totalità
proprio di quest'ultimo, il suo poter-essere sempre oltre se stesso,
il suo costante passare per essere sempre di nuovo in vista di se
stesso, e dunque in esso, nella sua consustanziale caducità e rovinanza,
anche quello strano ed inspiegabile - e in fondo falso in quanto
malcompreso - presagio di definitiva eternità quale sembra affiorare
massimamente nel forte sentimento d'amore che promette ogni volta
di legare gli amanti l'uno all'altro per sempre): Dai superni agli
inferi, l'altissimo e l'infimo si confondono l'uno nell'altro, chiudendo
un medesimo cerchio:
"Ma per noi, sentire è svanire; ah, noi/
ci esaliamo, sfumiamo; di brace in brace/ buttiamo odore più lieve.
Ecco, qualcuno ci dice:/ sí, tu mi entri nel sangue, questa stanza,
la primavera,/ s'empie di te... Che giova, egli non può trattenerci,/
noi svaniamo in lui e intorno a lui. E la bellezza/ oh, chi la trattiene?
Sul volto la sembianza/ sorge e spare senza posa. Come rugiada dall'erba
novella/ quel che è nostro svapora da noi, come il calore da/ vivanda
calda. Oh, sorriso, dove mai? Oh alzar d'occhi:/ nuova, calda, fuggitiva
onda del cuore -/ ahimè: eppure siamo questo, noi. Avrà forse
sapore/ di noi il cosmico spazio in cui ci dissolviamo. Sarà vero
che gli Angeli/ attingono soltanto dal loro, emanato da loro,/ o
c'è talvolta, come per sbaglio, un po'/ d'essere nostro? Ai loro tratti/
siam misti soltanto così, come quel che di vago ch'è nel volto/ delle
gestanti? Gli Angeli non se ne accorgono nel vortice/ del loro ritorno
a se stessi (Come potrebbero accorgersene)"[xlvii][47].
L'io e il tu, e massimamente quello degli
amanti, sono semplicemente la loro propria rispettiva individuazione
oppure attraverso di essi appare e agisce quello che è il principio
e l'orizzonte di possibilità di ogni individuazione e relazione e
di ogni promessa di (eterno) amore? Chi è veramente l'altro? E chi
è veramente il se stesso? E chi abbraccia/comprende/afferra chi?
"Amanti, a voi, placati l'uno nell'altro,/
io domando di noi. Voi vi avvincete. Ne siete sicuri?/ [...] Lo so,/
vi toccate beati così, perché la carezza trattiene,/ perché non svanisce
quel punto che, teneri,/ coprite; perché in quel tocco avvertite/
il permanare puro. E l'abbraccio, per voi, è una promessa/ quasi
d'eternità. Eppure, [...]"[xlviii][48].
Al di là delle dottrine e degli esoterismi
che Rilke pure mette in campo per produrre la sua costruzione poetica,
ciò che qui occorre mettere in rilievo è l'intreccio tra l'autoapparenzialità
pura degli Angeli, la bellezza: cioè il loro trattenersi dall'apparire
completamente al cospetto delle semplici apparenze finite, e il rimbombare
in queste ultime (siano esse apparenze non-più o non-ancora apparenti)
dello scroscio assordante del fluire della corrente concentrica dei
tempi del tempo con cui gli stessi Angeli si identificano. Ma un altro
aspetto occorre ancora rilevare, e cioè il fatto che questa corrente
immemorabile, il cui autoapparire attraversa e ricomprende in sé
le singole apparenze individuali (per es. gli amanti) trascinandole
con sé, non solo si identifica con gli Angeli, ma questi stessi e
quella stessa esprimono una loro ulteriore fattezza come Animale primordiale:
come se Angelo e Animale fossero le due facce coincidenti del medesimo
cerchio concentrico della corrente primordiale dell'autoapparire del
tempo nel suo continuo rifluire (temporalizzarsi) in se stesso: questo
è allora l'Animale primordiale che scorre come tempo cosmico dei primordi
attraverso il presente, passato e futuro delle vite e dei corpi dei
singoli, già-nati o già-morti o non-ancora nati, che sempre obbediscono
- pur illudendosi del contrario, come tra gli amanti che credono di
stravedere l'uno per l'altro - ad esso in quanto attratti dal loro
atavico signore abissale, dalla loro linfa e matrice primigenia. Ciò
costituisce appunto l'ambito della "creaturalità".
Perciò: "Cantare l'amata è una cosa. Un'altra,
ahimè,/ quell'occulto, colpevole Dio-fiume del sangue"[xlix][49].
E' questo, il "Signore del piacere"[l][50], questo "Nettuno del sangue"[li][51] colui che, attraverso l'attrazione dell'amante
per l'amata, propriamente "levava il capo divino [...]/ per chiamare
la notte a tumulto infinito"[lii][52]. E' perciò che lo "struggersi dell'innamorato/
per il volto dell'amata", "lo sguardo che s'interna nel volto puro
di lei", "quello spasmo d'attesa, ch'è nell'arco delle sue sopraciglia"[liii][53], non gli viene dalla spirituale purezza
stellare dell'amore, né gli viene dall'apparire dell'innamorata,
né, infine e soprattutto, gli viene "da sua madre"[liv][54]. L'amata è solo l'occasione perché nell'amante
affiori quel "dio-fiume del sangue" che solo così, cioè particolarizzandosi
in figure limitate che esso insieme ama e distrugge, riesce ad autoapparirsi
ed insieme a distruggere e non distruggere se stesso. In tal senso
l'amata non riesce a richiamare e a trattenere del tutto nella limitazione
l'amante perché questi è e non è se stesso ma è trattenuto e voluto
da una volontà che sta al fondo della sua singolarità, il fondamento
universale individuale della sua singolarità.
"Credi davvero che l'abbia scosso così
il tuo apparire/ leggero [...]?/ Certo gli turbasti il cuore, ma turbe
più antiche/ si scaricarono in lui all'urto di quel tocco./ Richiamalo...
tu non puoi richiamarlo del tutto da oscura compagnia"[lv][55].
Ma ancora prima e più dell'amata, presso
la quale l'amante vuole scaturir fuori da quel dolore/piacere primordiale
che lo vuole, lo pretende e lo disintegra, cercare di uscir fuori
da esso per incominciare ad esistere, è la madre quella che fin dal
principio, fin da piccolo, gli ha dato un inizio, cioè individuazione,
esistenza nell'articolazione di passato-presente-futuro, difendendolo
dal "Caos ondeggiante"[lvi][56]. Ma anche la madre, come l'amata (che
è come un'ulteriore figura materna), non riesce a trattenere il figlio/l'amante
da quella regione occulta propria del dio-fiume del sangue, del signore
del piacere, del Nettuno del sangue, quella regione della vita prima
della vita cui egli propriamente appartiene e che costituisce la sua
autentica matrice primordiale precedente la stessa maternità della
propria madre. Quel regno delle madri dei tempi remotamente remoti
e remotamente futuri che si sollevano improvvisamente per temporalizzarsi,
per accadere, per autoapparire. Che interrompono l'ordine consueto,
non appena il sonno della notte si impossessa del giorno. Per farlo
ricominciare nuovamente dall'inizio. Come la silente crescita dell'intrico
vegetale ed animale.
"Madre, tu lo facesti piccino,
sei tu che gli desti principio,/ per te era nuovo, tu chinavi ai suoi
occhi nuovi/ il mondo amichevole, e gli scansavi l'estraneo"[lvii][57]. "Così, rasserenato, nel suo letto,/ solvendo
la dolcezza della tua lieve figura/ sotto le palpebre assonnate nel
gusto del primo sonno - :/ pareva difeso... Ma dentro:
chi contrastava,/ chi frenava in lui i flutti dell'origine [Herkunft]?/
Ah, non c'erano precauzioni quando dormiva: dormiva ma sognava,
ma febbricitava: e come ci si prestava!/ Lui, il nuovo, il timido,
com'era irretito/ dalle liane striscianti dell'intimo accadere:/ già
aggrovigliate in archetipi, in strozzante rigoglio,/ in forme dallo
slancio ferino. Come si abbandonava. Amava./ Amava il suo intimo,
il selvame del suo intimo,/ quell'originaria foresta ch'era in lui,
sulla cui muta rovina/ stava, verde luminoso, il suo cuore. Amava.
Quando lasciava il suo cuore, andava/ oltre le proprie radici, alla
potente scaturigine,/ dove la sua piccola nascita era già sopravvissuta./
Amando affondava nel sangue più antico, nelle forre dov'era la paura
sazia ancora dei padri. E ogni/ orrore conosceva lui, ammiccava,
era come d'intesa./ Sí, l'orrido sorrideva..., di rado/ hai sorriso
così teneramente tu, mamma. E lui come faceva/ a non amarlo, se gli
sorrideva. Prima di te/ l'aveva amato, perché già quando lo
portavi,/ era sciolto nell'acqua che fa lieve il germoglio./ Vedi,
noi non amiamo come i fiori, attingendo/ da un'annata soltanto; a
noi, quando amiamo/ sale alle braccia un'immemorabile linfa. O fanciulla/
è così: noi non amiamo in noi, un essere solo, futuro,
ma/ l'immenso fermento; non un singolo figlio,/ ma i padri, che come
frane di monte/ posano al fondo nostro, ma l'arido greto/ di madri
d'un tempo -; ma tutto/ il muto paesaggio sotto il Destino/ nuvoloso
o limpido -; questo, fanciulla, era prima di te./ E tu che
ne sai, - tu suscitasti/ tempi remoti nell'innamorato. Quali mai
sentimenti/ eruppero da esseri scomparsi. [...]"[lviii][58].
Come si vede, qui il tempo come Animale
primordiale è insieme la fusione di diversi eppur medesimi orizzonti
'amniotici' che in analogia a quella che Rilke, nelle postille a Nietzsche,
aveva chiamato la "causa della musica" si potrebbero chiamare la 'causa
della madre' ovvero le matrici botaniche, vegetative, linfatiche,
animali, pulsionali della vita le quali nel sonno e nella notte e
nell'amore si impadroniscono di nuovo dell'individuo. Quella possente
scaturigine rispetto alla quale ogni nascita è solo piccola e solo
già sopravvissuta. Lo stesso accadere del presente è perciò solo l'occasione
d'innesco dell'avvento di un passato immemorabile la cui linfa inesausta
brama ancora il proprio compimento. Qui Rilke, proprio per sottolineare
il carattere disumano e pre-umano di questo fluido accadere primordiale,
lo chiama anche l'orrore e l'orrido.
Insomma, si tratta di quell'ambito che
Rilke altrove ha anche, più genericamente, chiamato 'natura' e che
qui chiamerà, nella celebre ottava elegia, "l'aperto": "das Offene
". Questo è tale per la "creatura". E questa (il termine designa
tutto ciò che appare in natura, senza alcun riferimento ad un 'creatore'
che non sia la 'natura' medesima[lix][59]), è innanzitutto l' "animale": "La creatura,
qualsiano gli occhi suoi, vede/ l'aperto. Soltanto gli occhi nostri
son/ come rigirati, posti tutt'intorno ad essa,/ trappole ad accerchiare
la sua libera uscita./ Quello che c'è fuori, lo sappiamo soltanto/
dal viso animale; perché noi, un tenero bambino/ già lo si volge,
lo si costringe a riguardare indietro e vedere/ figurazioni soltanto
e non l'aperto ch'è sì profondo/ nel volto delle bestie. Libero da
morte./ Questa la vediamo noi soli; il libero animale/ ha
sempre il suo tramonto dietro a sé./ E dinanzi ha Iddio; e quando
va, va/ in eterno come vanno le fonti"[lx][60].
Questi versi rilkiani costituiscono una
essenzializzazione della metafisica di Nietzsche, ma essi procedono
con una ancora più forte sottolineatura della supremazia del più ampio
cerchio della 'natura' e della sua temporalità, della sua 'animalità',
sul cerchio inferiore della 'storia' umana. Per riprendere di nuovo
l'analogia con la rilkiana "causa della musica", si potrebbe dire
la 'causa della storia', o, più propriamente, la 'causa del tempo'.
E così infatti li ha letti Heidegger: come una minaccia metafisica
di fondazione della temporalità storico-esistenziale dell'esserci
a partire dalla temporalità in quanto Animale primordiale per il
quale non si dà 'essere' ma solo autoapparire dell'Aperto. Un sostituirsi
di quest'ultimo, in quanto Schein , alla "verità" dell' Essere
la quale sostiene anche il Tempo. Ma ciò, l'impatto di questi versi
su Heidegger, non è quasi più visibile nel saggio del '46, dove la
sua grande maestria interpretativa chiude piuttosto che aprire i conti
con la metafisica nietzscheano-rilkiana della primazia dell'autoapparenzialità
dell'Animale primordiale. L'effetto di questo impatto è invece ancora
parzialmente visibile nel corso universitario di quattro anni prima
in cui Heidegger aggira l'orrido ossimoro di "'animale' ed 'angelo'"[lxi][61] in cui la metafisica 'pagana' nietzscheano-rilkiana
riafferma la pura 'creaturalità' senza alcun 'creatore' od orizzonte
di possibilità (anche solo aletheiologico-ontologico) che non sia
l'autoapparenzialità stessa dello Schein , cioè della animalità
primordiale (il 'Dionisiaco'): "Denn das Offene, das Rilke meint,
ist nicht das Offene im Sinne des Unverborgenen. Rilke weiß und ahnt nichts von der alhqeia ; er weiß
und ahnt nichts davon, so wenig wie Nietzsche"[lxii][62].
Perciò,
rispetto a questa "Deutung des Menschenwesens aus dem Tierwesen"[lxiii][63]
che attraverso Nietzsche costituisce "das durchgängige Thema der Dichtung"[lxiv][64],
cioè della poesia di Rilke[lxv][65],
Heidegger sottolinea come "der Geist der Schopenhauerschen Philosophie,
vermittelt durch Nietzsche und die psychoanalytischen Lehren, steht
hinter dieser Dichtung. Wenngleich die Metaphysik Nietzsches im Hinblick
auf die Lehre vom Willen zur Macht außerhalb der Rilkeschen Dichtung
bleibt, so waltet doch das eine entscheidende Gemeinsame, daß das
Wesen des Menschen aus dem Wesen des Tieres begriffen, hier 'gedichtet',
dort gedacht wird. Rein metaphysisch gesehen, d.h. im Hinblick auf
die Auslegung des Seienden als die rational-irrationale Wirklichkeit,
ist der Bereich der dichterischen Grunderfahrung Rilkes von dem der
denkenden Grundstellung Nietzsches in nichts unterschieden"[lxvi][66].
Proprio per questo motivo, però, per salvare l'orizzonte aletheiologico
dell'Essere, l'apparire in quanto apparire nella verità dell'Essere,
occorre per Heidegger respingere l'equazione nietzscheano-rilkiana
di 'Schein-Dionisiaco-Offene-Animale-Angelo-Bellezza-Primordialità'
(ciò che O. Becker sintetizzerà nel termine "Dawesen " contrapponendolo
all'orizzonte storico-umano, troppo umano del Dasein heideggeriano[lxvii][67]) facendo valere appunto che "zwischen
dem, was Rilke 'das Offene' nennt, und dem Offenen im Sinne der Unverborgenheit
des Seienden [cioè nel senso di Heidegger, A.G.] gähnt freilich eine
Kluft. Das in der alhqeia wesende 'Offene' läßt erst Seiendes
als ein Seiendes aufgehen und anwesen. Dies Offene sieht allein der
Mensch. [...] Das Tier dagegen sieht weder, noch erblickt es jemals
das Offene im Sinne der Unverborgenheit des Unverborgenen"[lxviii][68].
In tal modo Heidegger pretende di aver
ristabilito l'orizzonte di preminenza che nella metafisica 'animalizzante'
nietzscheano-rilkiana risultava ribaltato, capovolto e pervertito.
Nondimeno qui, malgrado il suo netto rifiuto di questa metafisica,
Heidegger mantiene ancora in qualche modo aperta la porta del dubbio
circa l'arduo problema di una adeguata determinazione filosofica
della dimensione 'senza-parola' del cosiddetto regno animale e vegetale,
ossia di quel dominio che Rilke aveva possentemente evocato nei suoi
versi paragonandolo ad una immane corrente 'panamniotica' che rifluisce
sempre di nuovo in se stessa e dall'ondeggiante intrico della quale
la stessa temporalizzazione propria della individualità storica scaturisce.
Heidegger vi si riferisce però chiamandolo semplicemente
"il vivente". "Doch mit dem Hinweis auf den Ausschluß des Tieres aus
dem Wesensbereich der Unverborgenheit beginnt erst das Rätsel uns
aufzugehen"[lxix][69];
epperò secondo Heidegger proprio questo enigma rappresentato dal
vivente in sé stesso e nel suo non meno enigmatico passaggio alla
forma storico-umana la metafisica nietzscheano-rilkiana non riesce
a penetrare: "auch in Rilkes Dichtung die Wesensgrenze zwischen dem
Geheimnis des Lebendigen (Pflanze - Tier) und dem Geheimnis des Geschichtlichen,
d.h. dem Menschen, weder erfahren noch innegehalten wird"[lxx][70].
Il giudizio di Heidegger risulta però non del tutto condivisibile.
Nelle Neue Gedichte (1907) di Rilke
è contenuta una poesia che è doppiamente archetipica: nel senso che
essa sta all'origine della svolta poetica di Rilke, ma anche, e soprattutto,
nel senso che essa evoca il centro propulsore di quella svolta stessa
- così come di qualsiasi altra possibile svolta e svolgimento e rivolgimento
etc. -, 'centro' al cui richiamo imperioso i versi rispondono ripetendone
la movenza.
Forse non del tutto a caso la poesia è
intitolata Der Panther (1903): questo termine oltre a designare
l'animale costituisce, nel suo strano etimo, l'archetipo trascendentale
dell'animale puro, perfetto (voll-endlich, si potrebbe dire
nella terminologia rickertiana, cioè finito-perfetto), eccellente,
massimo, la intensificazione dell'animalità stessa, appunto l'animale
di tutti gli animali: o panqhr.
"Sein Blick
ist vom Vorübergehen der Stäbe/ so müd geworden, daß er nichts mehr
hält./ Ihm ist, als ob es tausend Stäbe gäbe/ und hinter tausend
Stäben keine Welt.// Der weiche Gang geschmeidig starker Schritte,/
der sich im allerkleinsten Kreise dreht,/ ist wie ein Tanz von Kraft
um eine Mitte,/ in der betäubt ein großer Wille steht.// Nur manchmal
schiebt der Vorhang der Pupille/ sich lautlos auf -. Dann geht ein
Bild hinein,/ geht durch der Glieder angespannte Stille -/ und hört
im Herzen auf zu sein"[lxxi][71].
In una lettera del 17 marzo 1926 (pochi
mesi prima della morte) Rilke, rispondendo ad una giovane lettrice
che gli aveva chiesto di conoscere più in dettaglio alcuni aspetti
della sua vita e della sua opera, così scriveva: "Effetto della grande
influenza di Rodin, che mi aiutò a superare una superficialità lirica
e un à peu près a poco prezzo (derivante da un sentimento
vivamente commosso ma non maturo), impegnandomi a lavorare per qualche
tempo come un pittore o uno scultore davanti alla natura, con
l'inesorabile volontà di capire e di imitare. Il primo frutto di questo
severo e buon ammaestramento fu la poesia La pantera - nel
Jardin des Plantes a Parigi - che ne rivela l'origine"[lxxii][72].
L'origine che qui è rivelata - la Ur-animalità,
che si tratta di fissare, comprendere e afferrare (plasticamente,
figurativamente, sonoramente) nella sua suprema motilità - è ciò che
chiama la poesia rilkiana verso il proprio diventare se stessa, imponendole
di uscir fuori di sé e perciò di "superare una superficialità lirica
e un à peu près a poco prezzo (derivante da un sentimento
vivamente commosso ma non maturo)":
Il punto
centrale di quei versi apparentemente solo più impressionisticamente
descrittivi è : "Der weiche Gang geschmeidig starker Schritte,/ der
sich im allerkleinsten Kreise dreht,/ ist wie ein Tanz von Kraft um
eine Mitte, / in der betäubt ein großer Wille steht"[lxxiii][73].
Il molle ritmo di passi che flessuosi e forti girano in minima
circonferenza come una danza di forze intorno a un centro: ove stordito
un gran volere dorme.
In questi strani versi Rilke cerca di
descrivere una configurazione dell''animale primordiale', che in sé
è appunto un centro che gira e rigira su se stesso, intorno a se stesso
(la 'pantera' ma anche quel centro, come la 'rosa', inconsistente
ed invisibile intorno a cui essa gira e rigira, girando e rigirando
intorno a se stessa) contenendo in sé tutto l'autoapparire del temporalizzarsi
del tempo.
Ed è precisamente a questa dimensione
dello Schein che si riferisce Nietzsche quando decide di raccontare
'come si diventa ciò che si è', mostrando il principium individuationis
di natura e cultura: laUr-individuazione del puro in-sé/fuori-di-sé:
il tempo-Schein, lo Schein-und-Zeit arcontico immemoriale;
immemoriale come l'animale-primordiale: lo Ur-individuo ricomprendente
in sé ogni uno ed ogni dualità, essendo 'prima' di 'uno' e 'due'.
Insomma, l'individuazione quale principio dello stesso principium
individuationis e dunque quale principio della stessa 'verità':
l'autoapparire dello Schein che solo rende possibili natura
e storia e la loro distinzione.
In Ecce homo , la
sua 'autobiografia', Nietzsche conia la più intensa formulazione del
proprio pensiero 'abissale', una formulazione tanto trasparente quanto
enigmatica (per la cui disarmante 'semplicità' forse solo la concettualità
sviluppata da O. Becker[lxxiv][74] è stata in grado finora di offrirci una
chiave se non di soluzione almeno di precomprensione):
"Das Glück
meines Daseins, seine Einzigkeit vielleicht, liegt in seinem Verhängniss:
ich bin, um es in Räthselform auszudrücken, als mein Vater bereits
gestorben, als meine Mutter lebe ich noch und werde alt. Diese doppelte
Herkunft, gleichsam aus der obersten und der untersten Sprosse an
der Leiter des Lebens, décadent zugleich und Anfang
- dies, wenn irgend etwas, erklärt jene Neutralität, jene Freiheit
von Partei im Verhältniss zum Gesammtprobleme des Lebens, die mich
vielleicht auszeichnet"[lxxv][75]
"La fatalità della mia esistenza ne ha
fatto la felicità, le ha dato, forse, il suo carattere unico: io,
parlando per enigmi, come mio padre sono già morto, come mia madre
vivo ancora ed invecchio. Questa doppia discendenza, come dire dal
più alto e dal più basso germoglio sulla scala della vita, décadent
e inizio al tempo stesso - questo solo, se mai, può spiegare
quella neutralità, quella libertà da qualunque partito di fronte al
problema generale della vita, che forse mi contraddistingue"[lxxvi][76].