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Callida junctura: ricerca dell'odierno nella storicità

Intervista ad Adriano Guarnirei, di Roberto Di Cecco

Frequentavo il quarto anno di Composizione quando, nel 1998 (o '99, non ricordo con precisione!), il Conservatorio di Bologna si ritrovava in fermento per una lezione che il M° Adriano Guarnieri, allora docente presso il Conservatorio di Milano, avrebbe dovuto tenere presso il nostro istituto. L'incontro avvenne tra molti uditori fra allievi ed insegnanti: per uno studente abituato a pensare la musica in termini di "calcolo intervallare", Guarnieri risultò in quell'occasione rivoluzionario, in quanto portatore di un'idea di musica del tutto differente, in cui le note e la relativa successione erano solo un elemento di un sistema ben più complesso.

Ero sempre stato interessato alla musica contemporanea, trovandola troppo spesso un esercizio di dissonanza mirato a nascondere il vuoto ideale dietro alla solo apparente sofisticatezza dell'ascolto: Guarnieri era tutto il contrario.

Cominciai a cercare incisioni delle sue musiche, ritrovando in esse il gusto del "bel canto" (spero che il maestro mi passi questa espressione!) e della costruzione formale tanto evoluta quanto ben chiara e comprensibile.

Saputo che Guarnieri sarebbe venuto ad insegnare a Bologna, forte dell'esperienza sopra accennata, non esitai un momento nella richiesta di frequentare i corsi superiori nella sua classe.

In questi anni di lezioni ho raccolto appunti, impressioni e, cosa più importante, ho avuto l'opportunità di approfondire molti aspetti del comporre tramite un colloquio diretto con Adriano Guarnieri: attraverso la propria poetica, spinge l'allievo verso la ricerca di una personale strada compositiva, cercando di tessere "ad arte" quel filo storico di cui parla in quest'intervista.

Di Cecco - Riferendosi all'arte contemporanea, si parla sempre di crisi, di lontananza dal pubblico e dalle sue capacità di ricezione di ciò che viene scritto o creato oggi; e ciò per la verità, avviene già da tempo, come se questa crisi non avesse soluzione. Sul compositore sembra gravare l'ombra della classicità come perenne metro di paragone, atto che poi si limita sempre e solo all'apprezzamento dell'eufonia delle opere delle epoche precedenti. Qual è il suo approccio al passato?      

Guarnieri - Io mi rapporto con tutta la classicità, nel momento in cui io poi la ritrasformo in analisi, pensiero adatto ai nostri i tempi. Non sono io che torno indietro a rivivere i tempi di Platone, ma se studio Platone, porto Platone ai nostri giorni, così come faccio con Haydn: non torno ad Haydn, ma porto Haydn nella contemporaneità.

Di Cecco - Nel passato vi erano una grammatica ed una sintassi comuni: oggi esistono ancora dei codici della contemporaneità oppure ognuno è libero di scrivere secondo propri canoni, senza più matrici comuni?

Guarnieri - Questo accade solo in apparenza. Potrebbe apparire il fatto che ognuno faccia ciò che vuole, ma in realtà tutti partono da qualcosa. Come nella classicità c'era il punto di riferimento, magari uno solo ed unitario, oggi i punti di riferimento restano e poi, da lì, vi sono più diramazioni possibili in cui l'individualità si può esprimere, ma non sono individualità inserite in un sistema anarchico in cui un singolo improvvisamente si inventa un linguaggio.

Di Cecco - E quali sono questi punti comuni di aggancio con la storia e che ancora oggi lei sente attivi? È solo un discorso tecnico oppure ...

Guarnieri - No! ...è un discorso tecnico, ma anche poetico, così come linguistico e di idea  della musica, di un mondo musicale che ciascuno affina dentro di sé, magari con il maestro cui fa riferimento, per poi sviluppare via via con una propria individualità. Certamente oggi vi è un maggiore spicco delle molteplici individualità, ma ciò non deve far pensare che queste individualità nascano anarchicamente. C'è un ceppo comune, un albero genealogico ancora oggi riconoscibile. Questo si nota già nei giovanissimi compositori, così come in quelli meno giovani. D'altronde la storia si fa così, costituendo una discendenza in cui nulla è casuale.

Di Cecco - Approfondirei un punto che forse è un po' più difficile sviscerare: il ceppo "tecnico" comune è facilmente comprensibile, vale a dire che il contrappunto deve essere condotto in un certo e ben preciso modo così come la strumentazione, ecc. ...invece il ceppo "poetico" sfugge un po' di più. Lei intende dire che c'è comunque una idealità "collettiva" che si rifà al passato?

Guarnieri - Intendevo questo: se parliamo del Novecento, possiamo dire che il Novecento è presente nei giovani, anche in quelli che reagiscono al moderno attraverso stereotipi neoclassici, perché anche loro hanno in fondo presenti la scrittura stravinskijana o piuttosto altri tipi di figuratività che magari vengono dal classicismo, dal Settecento: casi in cui è comunque riscontrabile una matrice che opera.

Di Cecco - Quindi ciascun compositore è legato a qualcosa che viene prima di lui ...

Guarnieri - Certo, ciascun compositore ha un "filo" che lo lega alla storia, altrimenti non può essere compositore.

Di Cecco  - Proprio per quanto riguarda questo legame con il passato, Boulez, in una sua intervista apparsa in questa stessa rivista[1], in riferimento ad un proprio articolo pubblicato dalla Nouvelle Revue Française, afferma: «[A proposito della dodecafonia di Schönberg] Dicevo che se c'era sempre una perpetua variazione non c'era più assolutamente modo di riconoscere alcunché, e dall'istante in cui non c'era più riconoscimento non si poteva seguire nulla. Si è così di fronte ad una sorta di espressione caotica in cui ci sono troppe informazioni per poter farne qualcosa. Tale situazione può servire per un breve momento, ad esempio, ma essendo passato questo momento bisogna ritrovare la possibilità di riconoscere». Indubbio è che storicamente il riconoscimento del materiale ha avuto un ruolo fondamentale (sotto forma di imitazioni, temi o idee tematiche, riprese, ecc.): lei come legge questi canoni e come li vede alla luce della contemporaneità?

Guarnieri - Beh, per rispondere a Boulez con le sue parole, possiamo dire che Schönberg non è morto e non è morto nella misura in cui anche Schönberg si è servito di questi canoni e che Boulez a sua volta ha tratto da Schönberg. Se Boulez fa della filosofia ben condita io ci sto, ma al di fuori di questo va ricordato che ci sono delle regole per scrivere; ora, le regole sono regole di questa umanità e su queste regole, dal punto di vista semantico, è già stato detto tanto o quasi tutto: caso mai, quello che è riconoscibilità, identità, materiale e sua relativa analisi, è in evoluzione rispetto alle istanze schönbergiane. Ai suoi tempi Schönberg si poneva di fronte ai materiali così come noi oggi ci poniamo di fronte a materiali che tecnicamente dominiamo (siano essi materiali acustici, elettronici, voluminosi o meno) sempre con comportamenti classici di canoni, fugati, ecc.: al di fuori dei campi non si va perché questa è la regola umana.

Di Cecco - Ma appunto, Boulez rimprovera alla scuola dodecafonica questa "non riconoscibilità" ...

Guarnieri - Sì ...insomma, la musica ha dei procedimenti tecnici che si riconoscono in varianti infinite di possibilità elaborative del materiale. Poi c'è il problema della comprensione del linguaggio, ma più andiamo avanti con lo sviluppo culturale, più il taglio fra percezione e pubblico (che deve percepire e riconoscere i materiali) mi pare svanire. Se questo taglio si verifica vuol dire che c'è qualcosa nel compositore che non va, ma non mi pare che questo si possa dire per Schönberg. Se c'è uno iato nel comporre, allora c'è uno iato anche fra la musica e la relativa percezione, ma mi pare che la storia abbia dimostrato che questo non è il caso delle composizioni di Schönberg. Quando la composizione è finita, si porge al pubblico il quale autonomamente la domina, la analizza: c'è chi porta via 20, chi porta via 30, ecc.. Io non farei morire nessuno, insomma, e nemmeno Boulez stesso, altrimenti questa legge diventerebbe pericolosa per tutto lo sviluppo musicale.

Di Cecco  - Lei ha parlato di composizione "finita": quando lei sente che una composizione è finita?

Guarnieri - Eh, questa è una bella domanda! Nel senso partiturale?

Di Cecco - Sì. Quando lei mette il punto?

Guarnieri - Beh, quando c'è un progetto che viene esaurito e vengono esaurite tutte le possibilità di elaborare il materiale in una forma che si è pienamente determinata. Però resta sempre qualcosa di aperto.

Di Cecco - Lei infatti accennava ad "infinite varianti" nell'elaborazione del materiale ...

Guarnieri - Sì, sì, certo ...

Di Cecco - Quindi, ad un certo punto, si rende necessaria una scelta da parte del compositore ...

Guarnieri - Non è mai "finita" o, meglio, possiamo parlare di fine di un'opera che però è sempre "aperta", passibile di ulteriori revisioni: è "finita" sulla carta, ma questo non significa che sia poi propriamente finita, perché basta poi andare in sede esecutiva e già li si apportano modifiche all'opera.

Di Cecco - A lei capita di riprendere in mano vecchie partiture e di tornarci sopra per modificarle ...?

Guarnieri - Certo, ...magari scrivendo altri pezzi, riprendo materiali precedenti di cui non ero convinto (e quindi vuol dire che non erano "finiti") e li ravvivo in un altro modo. L'opera, come ho detto, è sempre aperta alle sue possibili ricombinazioni.

Di Cecco - Rimanendo sempre nell'ambito dell'elaborazione del materiale, secondo lei ha ancora senso parlare di sperimentalismo? E se sì, che cosa è per lei la sperimentazione? Come la intende anche alla luce delle nuove tecnologie?

Guarnieri - No, lo sperimentalismo lo lascerei al laboratorio. È indubbio che ci sia bisogno di un laboratorio in cui il compositore possa sperimentare determinati processi, ma comporre non è sperimentare: comporre è ricerca, questo sì, ma una ricerca attraverso canoni ben definiti sul piano linguistico, semantico, poetico, ecc.. Se vi fosse un laboratorio che permanesse tale anche nel comporre, ci sarebbe veramente il rischio di un linguaggio dissociato.

Di Cecco - E che cosa ricerca lei in una composizione?

Guarnieri - Ma intanto c'è la ricerca del superamento di ciò che è già stato precedentemente scritto nell'atto del comporre. Poi una ricerca anche rispetto a quello che solletica il compositore da un mondo sonoro che lo circonda e da quelle che sono le sue ulteriori istanze culturali che motivano il redigere una partitura. Questo si modifica di anno in anno perché l'essere, in quanto tale, è in un continuo progredire, sia molecolare che culturale.

Di Cecco - Immagino quindi che questa ricerca poetica si specchi anche poi nell'atto tecnico ...

Guarnieri - Esattamente. Vanno di pari passo e, più precisamente, è sempre la poetica a sollecitare la tecnica.

Di Cecco - Il discorso sulla ricerca ed il rapporto fra tecnica e poetica ci riporta a Boulez, il quale sostiene: «Si può partire con un'idea data e poi arrivare alla fine a una realizzazione che non ha necessariamente le stesse coordinate di quel punto di partenza. È per questo che la poetica si crea procedendo nella composizione. La poetica è immaginata, innanzi tutto, ma la poetica dell'opera terminata è una poetica che si fonda sulla tecnica». Condivide le parole di Boulez?

Guarnieri - No, siamo su un altro piano di idee. Quello di Boulez è un retaggio molto deterministico, con un'idea di materiale ancora troppo meccanicistica. Bisogna sempre considerare che la musica è un corpo vivo ed ha un'anima che, appena mettiamo sulla carta, prende vitalità. Mi pongo, nell'atto del procedere compositivo, tra la mia anima e l'anima della partitura, la quale sarà naturalmente speculare alla mia. Io non ho quest'idea staccata rispetto al materiale come quella dimostrata da Boulez; capisco che questo potrebbe far pensare ad un ritorno a quel "bel sentire" espressionistico del soggetto, ma così è in questa mia concezione di un unicum soggettivo tra il partorire la nota e la nota stessa, concepiti anche forse come unica anima.

Di Cecco - Questo annulla l'idea di una poetica in divenire (Boulez) durante l'atto della composizione...

Guarnieri - Può succedere che si cambi una nota, al più una pagina, ma la poetica assolutamente no. Anzi questa di Boulez è un'affermazione molto grave, perché comporta l'essere in balìa d'una continua caoticità. Lui ha sempre dimostrato un'idea della musica e del mondo troppo casuale.

Di Cecco - Lo stesso discorso ci porta ancora ad un altro autore, Luigi Nono. Egli rivendica un approccio «senza idee, senza programmi. Questo è fondamentale perché significa l'abbandono totale del logocentro, la perdita di quel principio per cui sempre un'idea dovrebbe essere l'antecedente della musica. L'idea come ciò che deve essere realizzato o espresso in musica»[2]. Lei che ne pensa?

Guarnieri - Forse capisco che cosa volesse dire Nono, cioè che la musica si rende come idea nel momento in cui si dà corpo al suono e così il suono acquista la propria anima. Però è anche vero che Nono è figlio della scuola di Darmstadt, rimanendo quindi a sua volta imbrigliato in quell'ideologia: in lui si riscontra una dicotomia tra il suo dire ed il suo fare. In lui si sente ancora molto Webern, così come si sente molto il progetto ideativo. Negli ultimi lavori, tramite lo scarto della notazione tradizionale, lo scarto della partitura fino ad arrivare alle sperimentazioni di tipo orale, è andato molto vicino alla propria utopia secondo cui l'opera si farebbe vivendo con il suono e quindi senza i vari antecedenti ideativi dell'opera stessa. In questo senso è da intendere ciò che lui definisce "abbandono totale del logocentro", vale a dire come abbandono della progettualità a priori.

Di Cecco - Qual è il suo rapporto con la scuola di Darmstadt? Si sente in qualche maniera legato ad essa?

Guarnieri - No. Volutamente, all'età di 24/25 anni, non ci sono andato. Ne avevo già avuto abbastanza di averne sentito il cattivo odore emanato anche dai miei ottimi maestri che a Darmstadt andavano ed operavano puntualmente. Io ne percepivo una musica stanca, anche per quanto riguarda il rapporto fra progettualità (in questo caso veramente istituzionale) ed il sentire la musica. Lì il pubblico era del tutto scartato ed ancora oggi paghiamo le conseguenze di quelle scelte: Darmstadt è stata una scuola di "eletti", ma solo di eletti.

Di Cecco - Esiste invece una scuola italiana che si distacca da Darmstadt come dalla scuola francese di Boulez?

Guarnieri - L'Italia non ha mai subito la mancanza di una scuola. Ci sono sempre state quelle figure cardine, come ad esempio Dalla Piccola, che in fondo s'è fatto "italiano" andando a studiare il nostro immenso serbatoio ricco di patrimoni culturali (il nostro Medioevo, il nostro Rinascimento, ecc.). L'importante è non buttare quell'ottimo serbatoio per andare ad attingere da altre fonti più scadenti: si pensi anche al Settecento od al fatto che ancora oggi, nella drammaturgia contemporanea, sia ben presente l'insegnamento di Verdi. Quindi si tratta, senza andare a formarsi in una scuola di eletti, di studiare la nostra vita ed il percorso della nostra storia, ancora ricca ed ancora viva; e deve rimanere viva ancora oggi che ragioniamo in un'ottica europea. Ma viva lo è di certo e ne sono dimostrazione i musicisti di altre nazioni che vengono in Italia per attingere dalla nostra tradizione.

Di Cecco - Qual è il rapporto fra la forma dell'opera ed il suo contenuto?

Guarnieri - Estremamente unitario. In questo io stesso recupero un'idea molto ellenistica ed allo stesso tempo molto espressionistica e moderna. Ad emettere il significato totale dell'opera è veramente la forma: non sono le note, non sono altri elementi strettamente musicali, ma come tutti questi "parziali" vengono connotati in questo arco formale totale che dà senso all'opera.

Di Cecco - Ciò che lei dice a proposito della forma che coordina i segni che la compongono mi dà l'opportunità di un riaggancio a Nono: «[...] il segno, di per sé cristallizzante, diviene indicazione di apertura, rinvio a una mobilità da iscriversi nell'esistenza e nella coscienza dell'esecutore, diviene certo indicazione strutturale, ma che necessita di una mobilitazione/reinvenzione nella memoria dell'interprete»[3]. Qual è il suo rapporto con il segno partiturale e, successivamente, con gli esecutori?

Guarnieri - Questa è un'altra bella domanda! Dato che bisogna demandare al segno l'indicazione musicale, io tendo ad essere un paleografo convinto. O si va per via orale, allora la partitura diventa ad un certo punto eludibile (ma questa è un'utopia!), oppure si rende il segno vicolo fondamentale, contenitore primo dell'idea poetica e mezzo attraverso cui trasmettere all'esecutore la necessità di vedere oltre le note scritte. Questa per me è una ricchezza che mi preme particolarmente tenere in vita e che al contrario il computer sta facendo morire. Il segno contiene in sé tutti i principi vitali dell'opera ed è compito dell'esecutore riprenderli e renderli attivi.

Di Cecco - Fra quello che la partitura e lei in prima persona indicate all'esecutore ed il prodotto che esce da quest'ultimo, ammette uno scarto?

Guarnieri - Lo scarto c'è ed è inevitabile. L'utopia semiografica porta a mettere tutto nella partitura, ma da questo tutto al tutto sentito ed eseguito dall'interprete uno scarto c'è sempre. D'altro lato, guai al musicista che non punta al tutto. Forse oggi l'esecutore ha perso quella spinta di andare a scandagliare nel segno dell'autore per fare riaffiorare la totalità dell'intenzione compositiva: questa è una crisi che noto, una crisi dell'interprete che non se la sente più di identificarsi ed elaborare perché i tempi consumistici portano a dover produrre e riprodurre in fretta un'opera, a discapito di qualsiasi approfondimento e con la conseguenza di una frattura fra autore ed esecutore.

Di Cecco - Quindi lei avverte proprio una tensione in questo senso ...

Guarnieri - Sì, certamente sì.

Di Cecco - E i suoi rapporti con la critica?

Guarnieri - Non mi sono mai posto in questa relazione. So che i critici approvano o meno la mia musica e che sono degli specialisti che fanno comunque parte del pubblico. È un rapporto vivo, dialettico, a volte di discussione ...

Di Cecco - Intrattiene un rapporto diretto con la critica ...

Guarnieri - No, solo con alcuni. Sono poi rapporti che non cerco anche perché io me ne sto abbastanza isolato da loro. Se ci sono, sono tra il pubblico, con la differenza che hanno più arnesi in mano per sapere interpretare quello che sentono.

Di Cecco - Lei si ritrova nei giudizi che la critica dà dei suoi lavori?

Guarnieri - Ma ...finora devo dire di sì.

Di Cecco - Allora possiamo parlare di un buon rapporto ...

Guarnieri - Sì, nel senso che io so quali sono i critici che non mi stimano, ma poi loro non vengono neanche a sentirmi ...per cui chi viene a sentirmi sono coloro che credono in ciò che scrivo. Ci sono critici che hanno posizioni piuttosto retrive o conservative rispetto alla musica d'oggi, per cui se parli loro di Guarnieri cominciano già a pensare alle complicanze dell'ascolto e non vengono. Insomma, come sempre tout court, o sì o no: evangelico ...sì è sempre e solo sì, no è sempre e solo no, punto!

[1] Cfr. M. Campanino, Linguaggio, tecnica, significato. Pierre Boulez intervistato da Mario Campanino, in Par∂l 11, 1995.

[2] L. Nono, Comunicazione. Altre possibilità d'ascolto, in Europa musicale. Un nuovo Rinascimento? La civiltà dell'ascolto, Atti del convegno ai corsi di Alta Cultura della Fondazione G. Cini, a cura di A. Laura Bellina e G. Morelli, Vallecchi, Firenze 1988, p. 108.

[3] M. Pennese, Il segno di Nono, 2000, p. 64.

 

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