Heidegger, Jung e la questione
del simbolo
Gianluca Giachery
Esiste una segretezza nel nome, un farsi voce del fonema.
E', tuttavia, sulla trasformazione di questo fonema in semen
che si sofferma la scrittura. Segno, simbolo. In esso
e da esso prende forma il farsi della scrittura. Perché affascina
(fascinare, incantare) l'estremità ammaliante della scrittura
(posso dire poesia, prosa ....tutte metafore del medesimo lavorìo)? Essa contiene il
segreto. Ciò che posso portare -a un ipotetico destinatario, anch'esso
silenziosa fantasia, forse, proiezione- quando parlo è un fonema che
si trasferisce, una nuda, pesante sorta di caotica sillabazione; oppure
il richiamo fedele della p-a-r-o-l-a. Ciò
che evoca la scrittura è l'incantesimo (fascinum!) della molteplicità
del simbolico, dell'inconscio, dell'anafora onirica che mima al contempo
il silenzio di un segreto mormorato all'orecchio di un amico fidato,
del proprio/della propria amante.
C'è un segreto, dunque, del nome. Il nomos, in Platone,
è la Legge che trasfigura il dio differenziandolo dalla figura umana.
Esso rimane nell'ambiguità che gli è propria. Eppure
tale nomos è stato trasformato dalla riducibilità aristotelica
(poi, ahimé, cristiana) in logos. Platone distingue,
differenzia. Noi non recepiamo questa
differenza, confondiamo il nomos con la figurazione di immagini
comuni ma che potrebbero essere altre. Quando
pronunciamo un nome non è quel nome, perché potrebbe essere altro.
Il nome, dunque, è divenuto parola.
Ho atteso. Il sotile insinursi di un frammento
che potesse adombrare l'effige. Essa è ora simbolo. Simbolo
è sum-ballw, metto insieme.
Parole possono dire l'estrema parafrasi della simultaneità, seppure
parola esprime l'infinita paura che genera il proporsi. Il distillato
è una goccia che si ramifica nel supposto suo altro e che si scopre
nell'alterità del proprio misurarsi. Si può dire, dunque, che questa
è antinomica incomprensibilità. Essa è la scrittura: anti-nomos, qualcosa
che è opposta a se stessa, ma al contempo vicina. Ritrovo, sbadatamente - io, piccolo uomo,
segno comprensibile di questo universo
di spazialità inusitate - le credenziali del mio nome segreto.
Esso vaga nell'allibita metamorfosi della scrittura che diviene mimesi,
ricomprensione (prendere insieme nuovamente) di se stessa. A volte,
il segreto dell'attimo che stravolge si identifica
con la certezza di un'esistenza, la stessa che ammaliando i cardini
estremi dell'essere riconduce al simulacro del simbolo.
E. Jabès dice: "Affinché il Tu sia veramente il Tu
bisognerebbe, innanzi tutto, che l'Io fosse realmente Io. Al 'Chi
sono?' fa eco il 'Chi sei?' - ma questa domanda è destinata a dissolversi
nella domanda". Questo ne Il libro della
condivisione. Mentre la domanda è chiara (Chi sono/chi sei) il
soggetto si propone come alterità indifferenziata.
Ma non è proprio così. Il testo -nella
molteplicità del suo essere poetico- modifica la parola, insinuandosi
nella struttura concettuale (unica ragione della ragione occidentale,
che si fonda sul concetto) della discorsività dialettica. Essa
è dialogica. Abbiamo imparato (nessuno ce lo
ha, di fatto, insegnato; fa parte della costituzione del nostro inconscio
collettivo, materiale che è parte integrante di un noi che si tramuta
in Io) a distinguere la forma dal diletto. Il paradosso estremo
del testo si trova in quel segreto che tanto gelosamente si nasconde
nel nome dell'inconscio. "Il segreto - dice Derrida - coinvolge non
solo il nome, ma colui che nomina, il segreto
coinvolge il soggeto del nominare".
Ancora il poeta. "Là dove il dolore è solo e l'amore non
è che le sue stesse ali bruciate. Dicendo l'attesa senza memoria;
invano perpetuandola dove non sono che
grida interiori". Ora il passo è lo stesso. I due estremi, attesa
e memoria, sono uniti indissolubilmente dal testo, che può essere
dolore, ali bruciate, grida interiori. Tutto ciò che si muove trasforma
come un fiume in piena la coscienza (questo, in realtà, è il fine
dell'inconscio.... la grande invenzione di Freud, di Jung).
Eraclito suppone (ma è "osservazione", come dice) che gli opposti
s'incontrino. E' reale. La scrittura rende
nitida - o ulteriormente confusa - l'immagine che sottende ad ogni
parola.... "l'attesa senza memoria". Dunque, ciò che è sotteso attende. Ma il mio desiderio, ora,
è rendere palese lo stupore (choc, direbbe Baudelaire) che
si prova a leggere, esecrando il gesto che vorrebbe imitare -quanto
goffamente!- l'istrionica figura del verseggiatore, l'umile burlone
che ha la sola arma delle sue mani.
Heidegger si è soffermato sulla verità (Der Wahrheit) dell'Opera.
Egli ha definito l'opera come "l'apertura dell'ente nel suo essere,
il farsi evento della verità". Ma se questa alhqeia, che affascina e maliziosamente
crea i presupposti di una corrispondenza sottesa, mai esplicita, si
manifesta nel suo essere-atto, nel suo riproporsi
cioè come forma, qual è il luogo nel quale si riduce l'esser-già-detto
dell'opera e che reitera questa verità? Aristotele dice (Metafisica
II, 1, 5): "Senza la causa non conosciamo il vero". Eppure
noi abbiamo due eventi che non scaturiscono l'uno dall'altro, né sono
complici, quindi, di diretta causa ed effetto.
Olimpiodoro (VI sec. d.C.), commentando il concetto platonico di
mito (o muqoV),
ci riporta indirettamente sul livello simbolico del mito stesso: "Il
mito è un falso discorso raffigurante la verità (MuqoV
esti logoV pseudhV eikonizwn
alhqeian)." Dunque, se è possibile l'assunto aristotelico
per cui "come ogni cosa sta all'essere,
così anche sta alla verità" (Metafisica, II, 1, 6) è possibile, altresì,
pensare il mytos come l'alterità di quel soggetto "che nomina",
che crea il legame stesso tra mytos e logos, tra realtà
simbolica ed essere.
Ciò che non viene
nascosto è manifesto. I Greci usavano questo termine alhqhia,
verità, per indicare il movimento del non-essere-nascosto. Heidegger ha riproposto
con vigore quest'interpretazione. Il percorso individuale che conduce
all'esperire dell'essere in quanto esser-ci,
pone la qualità dell'alhqhia
in modo unico, inequivocabile, come esperienza che dipana da sé il
motivo ultimo dell'essere-che-diviene. Ma Heidegger sostiene anche che il non-essere-nascosto dell'ente
è possibile solo attraverso il diniego, la simulazione di questa stessa
verità. "E' all'essenza stessa della verità come non-esser-nascosto
che questo diniego appartiene nella forma del duplice nascondimento.
La verità, nella sua essenza stessa, è non-verità."
(Heidegger, Sentieri interrotti, Firenze, 1968, p. 39). Incomprensibile
sarebbe l'affermazione di Heidegger se non si tenesse conto di ciò
che sosteneva Aristotele: "...una cosa non è considerata per se stessa
in due casi: o per via di apposizione,
o al contrario" (Met., VII, 4, 8).
Il Logos è fermento incline alla creazione (poiesiV),
perché continuo ciclo vitale.
Ammiro il leggero declinare dello sguardo sul foglio che ansima e
brucia di energia, fuoco che ravviva la
flebile fiamma di una candela. Bachelard ha intuito la forza di questo
fuoco che si mescola al flusso di energia
che percorre una vita, si trasferisce nell'opera, mutando carattere,
aspetto. Nella solitudine dell'Anima che cerca
i propri simboli, la psyché riporta all'origine di uno
spazio intimo, privato, l'immagine del mito che unisce in sé gli aspetti
della trasformazione autopoietica. Essa è una sorta di ubris che comprende in sé la lotta degli opposti per riconoscere
la propria unione. Dice Epicuro (Arist.,
Etic. Nicom.): "L'opposto concorde e dai
discordi bellissima armonia." Da qui ha origine quel polemos
che permette l'insinuarsi del concetto in quella sorta di
intenso scambio che non redime, tuttavia, dal peccato di aver
ricercato, così appassionatamente agognato la sacralità della parola
che diviene testo. Il fuoco che a ciò sottende è la sentenza che dilania
gli estremi di uno stesso discorso rendendoli essi stessi elementi.
Perché esiste un aspetto magico della scrittura
che si confonde ed è esso stesso specchio dell'individuo-che-crea.
Questo estremo fascino evoca sommessamente -con estrema delicatezza
e sensibilità- quel daimwn
(spirito) segreto che nasconde il nome. I greci non nominavano mai
una persona, un oggetto, un dio senza che avessero
la presenza di quella persona, di quell'oggetto, di quel dio. "L'attribuzione
del nome trasforma la cosa", ci ricorda J. Hillman. Nel
momento stesso in cui questa "proprietà" del nome svanisce vien meno
anche la rappresentazione dell'altro come diverso da sé, che è poi
quella ricchezza incommensurabile che ci fa dire essere l'altro amante,
amico, estraneo. Ecco, l'estraneità della parola rimanda ad
una scrittura senza proprietà. Ho rammentato Heidegger: egli, in effetti,
è stato l'ultimo filosofo che si sia realmente misurato con l'"autenticità"
dell'Opera. Ma quest'autenticità cade nel
momento stesso in cui l'opera si confonde, diviene simulacro, ambito
della retrospettiva umana. Heidegger pensa la parola alhqeia
"nel non-esser-nascosto dell'ente".
Il testo, dunque, è anche estraniamento. Ho scritto parole (se è
vero che parole possono essere miniate entro codici preziosi) di dolore,
efferate, in quella ricerca del delirio che caratterizza il moribondo
e porta a quella che Bataille ha definito "esperienza limite". La
scrittura, allora, racchiude quel nome segreto che ha in sé il suo
prorpio daimwn: è questo il
desiderio (ambivalenza incauta e pericolosa dei sentimenti) che può
contenere il semen, il germoglio che si radica saldamente nel
e col testo. Ha scritto Bachelard: "Nascere nella scrittura,
attraverso la scrittura, grande ideale delle grandi veglie solitarie!
Ma per scrivere nella solitudine del proprio essere,
come se si avesse la rivelazione di una pagina bianca della vita,
sarebbero necessarie avventure di coscienza, avventure di solitudine.
Ma la coscienza, da sola, può far variare
la propria solitudine?" Esiste una nascita della scrittura
e una nascita nella scrittura. La Necessità (che in Grecia
era la dea Ananche) è ciò che rende possibile l'evolversi dell'esistenza
nella scrittura. Tutto rimane segretamente contenuto nello spazio
e nel luogo che al simbolo si richiama.
C'è un senso remoto, un dischiudersi al pensiero di una lettera che
apre e chiude il cerchio dell'espressione, una tra le tante e che
può essere il Genesi, il Libro del
cominciamento, unica parola, tuttavia, in grado di destare ancora
quella sacralità che unisce la metafora al senso del divenire.
Già Eraclito mina alle fondamenta lo spirito della conoscenza antica,
se è vero che afferma: "Ciò che si concatena, invero, è principio
e fine nel cerchio (arch kai peraV
epi kuklon)" (22 B103 DK). Questo principio non è ciò che riproduce
una similarità ma è ciò che crea continuità nella forma del pensiero,
quel fuoco sacro che ravviva la scrittura rendendola dissimile da
se stessa, ciò che le assicura di permanere, incunearsi in quell'anfratto
che permette al simbolo di essere metafora-che-diviene.
Il testo qui non è ciò che sembra, bensì ciò che si lascia trasformare
nel proprio altro, una tensione interpretativa (ermhneuw) che trova la sua forma più alta nell'esegesi
di un mondo originario rappresentato, una sorta di vaso che contiene
tutti i simboli di un movimento energetico autopoietico.
Tutti i miti e le scritture di tutte le origini pongono in un sottile
ma immediatamente avvertibile incastro di segni la propria natura
unificatrice, un continuo interrogarsi sul valore ultimo del testo
che rimanda a sua volta a quella conoscenza (gnvsiV) che è la sottile
trama del sapere.
I Veda (che hanno una comune radice -rizoma-
nel verbo oraw, vedere) non
dissimulano questa forma della conoscenza oscurandola: essi possono
essere 'ermetici' ma non mettono mai in dubbio quel fuoco (athar)
originario che scatena la "sapienza primordiale".
E' quella che Jung chiamava il "fare anima" che permette la comprensione
del logos simbolico che si sofferma sui differenti percorsi
che può intraprendere il testo, sempre
nella prospettiva di un dono che viene portato (jerw) ma che non ha un referente particolare.
E' qui che la scrittura perde la propria oggettualità (cosalità,
direbbe Heidegger) per assumere la valenza del soggetto: non più messaggio
ma messaggero, apollinea figura che reca in sé il segno della ubriV contrastante e unificante.
Ancora Eraclito: "Non comprendono come, distinguendosi (dia-jeromenon,
portando al di là) con se stesso si accordi: una trama di rovesciamenti,
come quella appunto dell'arco e della lira" (22 B51 DK).
Il simbolo è, dunque, nel testo che sopravvive e che lascia di sé
il segno chiaro della propria alterità.
Noi abbiamo appreso a vezzeggiare questo testo, a lambirlo sensualmente, come contenesse un qualche simulacro da scorprire, ma non ce ne siamo mai -per fortuna?- appropriati. Quest'origine (arch) del testo che si manifesta nella scrittura e assume il suo carattere attraverso di essa, s'impadronisce del simbolo ricucendo (anche solo per pochi istanti) quella frattura, quella millenaria cesura che sempre s'interpone tra lo scorrere della scrittura e il suo poter-essere-interpre