PRESENZE DALL'AVANT-GARDE: MIKE HOOLBOOM
a cura di Riccardo Centola
Mike Hoolboom è un filmmaker canadese nato nel 1959. Dopo aver partecipato all'attività di gruppi teatrali d'avanguardia, è passato al cinema di sperimentazione realizzando circa 40 film, la maggior parte dei quali dopo il 1989, anno in cui ha scoperto di essere sieropositivo. Il suo lavoro, per lo più composto di cortometraggi, si è sviluppato lungo tre fasi tra loro interagenti: una prima focalizzata sul funzionamento del dispositivo cinematografico; un'altra in cui i materiali indagati sono riletti attraverso una logica diaristica, ed una terza interessata alle relazioni esistenti tra un corpo - fisico, sociale e culturale - ed il potere. Le sue iniziative a favore del cinema sperimentale, includono articoli di critica ospitati su diverse riviste, l'attività di curatore di programmi radio e cicli di proiezioni, la pubblicazione di una rivista specializzata sul cinema indipendente (L'Independent Eye), e la partecipazione a più di 200 festival cinematografici.
UNA CONVERSAZIONE CON MIKE HOOLBOOM
D. M. Zryd parlando della varietà della tua produzione ti ha definito una "bête du cinéma", in grado di assorbire la tradizione del film sperimentale e fonderla con quella del New American Cinema, delle avanguardie storiche e quelle più recenti legate alle "Theory Film". È possibile individuare in questo lavoro di rielaborazione delle componenti predominanti?
R. Io penso che nel mio lavoro ci siano state due linee principale che lo hanno caratterizzato profondamente.
La prima riguardante i materiali del dispositivo cinematografico, in quanto spazio e momento della rappresentazione. Il momento della proiezione si fonda su un rapporto di potere tra chi produce l'immagine e chi in qualche modo deve subirla. Interrogarsi su questa relazione, così come avviene in film quali White Museum o The Big Show, significa fare del contesto il soggetto della rappresentazione, il luogo della visione come principale protagonista. Partendo da questo dato, il movimento è poi quello di tentare uno spostamento rispetto alla relazione che normalmente si instaura tra schermo e fruitore; fare della visione nella sua concreta materialità, il luogo e il tempo di un tentativo di modifica. Modifica che non riguarda semplicemente lo spettatore in quanto elemento oggettivato, ma gli stessi meccanismi fondanti del cinema, per riuscire a fare emergere il vero oggetto/soggetto del film: il desiderio. Guardare, e fare, un film come White Museum porta necessariamente a interrogarsi sulle motivazioni che mi spingono a farlo, sui desideri che la visione attiva e su quelli che reprime; insomma arrivare a tracciare un percorso del desiderio attivato e negato nello stesso tempo. Ma poi, di quale desiderio stiamo effettivamente parlando? In White Museum potrebbe essere quello dell'immagine assente; un film quindi che soddisferebbe, anzi che porrebbe in circolo, una privazione. La delusione di qualcosa che ci aspettiamo, che ci è dovuto, diventa il piacere principale della visione. A questa direzione di ricerca, importante soprattutto nella prima parte del mio lavoro, se ne è aggiunta un'altra relativa al corpo e al film; ovvero in qualche modo a cosa accade al corpo nei media.
D. Pensi a un corpo come stratificazione di immagini inservibili, di discarica del quotidiano Acting out dovuto alla televisione, alla Grande virtualità?
R. Certamente il corpo è un effetto del mondo. Le immagini oggi ci restituiscono una visione vuota e distorta dei nostri desideri, delle nostre individualità. Così come accade per l'anoressia in Eat, è la stessa possibilità di giungere a modelli del sé che ha perso ogni contatto con la realtà, spostandosi su un piano virtuale, in quanto ci esclude come soggetti reali. Questa nuova politica dell'immagine, che continuamente impone modelli irraggiungibili di perfezione, ha cambiato radicalmente il nostro modo di comprenderci. L'anoressia di Eat è frutto di una espulsione della mente dal corpo; ma vuole anche riferirsi a una anoressia generalizzata, che potrebbe espellere mente e corpo dall'intera realtà, riducendoci a portatori spersonalizzati di desideri, di immagini da realizzare senza il nostro intervento.
D. Credi che ci sia una relazione con l'uso frequente della scomposizione, della frammentazione di storie, di corpi, di modelli del comprendere, così presente nel tuo cinema?
R. Mi è sembrato che il cinema avesse nella sua natura la possibilità di manifestare meglio certi processi culturali; come se per il suo stesso funzionamento base potesse analizzare il corpo - e gli effetti prodotti su di esso - in diverse maniere, proponendo nuovi percorsi per la sua comprensione. Così alcuni dei miei film, come ad esempio Book of Lies, utilizzano a pieno queste possibilità. D'altronde già Griffith, sfruttando la capacità del cinema di guardare l'uomo in una maniera più fisica, più analitica, anticipava quella estrema specializzazione che l'odierna realtà sociale ha finito per perseguire. In un certo senso il cinema ha partecipato attivamente a questa complessa evoluzione della coscienza umana e dei suoi modelli di comprensione. Quello che poi mi interessa personalmente è di partire da un'idea olistica, di una globalità - del corpo come del film - per arrivare a capire meglio, e incidere sulla stessa comprensione, la forma e il movimento delle singole parti - del corpo, delle sue scissioni, della pellicola, dell'inquadratura, del montaggio...
D. Cosa significa per te dover diventare un visionario?
R. L'idea di visionarietà a cui credo di aver dato una certa importanza, è legata a una trasformazione del concetto così come era inteso tradizionalmente, e quindi in una accezione decisamente romantica.
Sicuramente nell'idea stessa di Filmmaker è implicato il senso di un porsi ai limiti di una visione normale, che di conseguenza rafforza l'immagine dell'individuo creatore, totalmente autonomo e responsabile della sua opera. Ma al di là di questo, c'è una volontà di riportare la visionarietà proprio nella direzione inversa; ovvero come utopica partecipazione globale all'esperienza creativa. Se il visionario può scendere dal suo piedistallo di eletto per diventare uomo di tutti i giorni, la stessa marginalità della sperimentazione può arrivare ad incidere concretamente sullo spettatore, magari seguendo vie stranissime, ma pur sempre producendosi come fatto.
D. Tu fai un uso molto articolato del rapporto tra musica e immagine, sicuramente molto efficace come impatto. Non credi che però si possa nascondere in questo utilizzo, una seduzione che finisce per guidare troppo unidirezionalmente la decodifica dello spettatore?
R. Tradizionalmente il cinema è stato considerato un'esperienza principalmente visiva; credo che sia con Godard che le relazioni tra immagine e suono acquistino una complessità legata a una vera e propria logica compositiva di stampo musicale, con temi dominanti, riprese e modulazioni. Personalmente cerco di partire da una modalità di creazione che tenga separate queste due dimensioni, tenendo conto che è abitualmente tramite la parola che passa principalmente la comprensione del pubblico. Mi interessa cioè sottolineare, enfatizzandolo o parodiandolo, come il soundtrack in generale sia in grado di indurre stati emotivi, anche disarticolati completamente da quello che viene visto. In altre parole mi interessa questa capacità di manipolazione dell'immagine tramite la musica e il testo, in modo che si rendano possibili percorsi percettivi totalmente difformi; che si creino le condizioni per superare l'iniziale omogeneizzazione del desiderio, per poter poi ognuno ricostruire un personale itinerario di lettura. E ovviamente in tutto ciò la fascinazione ha un peso rilevante, ma non credo necessariamente negativo.
D. Il cinema sperimentale, l'Experimental Film, rappresenta una possibilità in potenza del cinema, un desiderio di essere del cinema insito nella sua stessa natura?
R. Ovviamente il Mainstream Cinema, riflesso di interessi economici e di classe, ha una ristretta gamma di possibilità espressive da esplorare, persino nell'uso tecnico dei suoi strumenti. L'Experimental Film esprime al contrario una individuale, personale ricerca, radicalizzata in quanto spesso passa per il corpo stesso dell'artista. Su questo egli ritrova i segni della realtà, fatta anche di una costante invasione di film che non parlano altro che di problemi riguardanti una ristretta classe di persone; o comunque lo fanno sempre con un limitato e frustrante linguaggio e punto di vista. Diventa per questo fondamentale lavorare sulla possibilità di cambiare le attitudini spettatoriali, al di là di logiche che riposino sempre sul sogno americano di nuovi e più elevati status di vita; operare sulla essenzialità del cinema, per produrre richiami all'essenzialità della vita e dei modi per intenderla. Ma d'altro canto la stessa categoria dell'Experimental Film, deve essere di continuo problematizzata, vista la massiccia ibridazione di forme che annulla e confonde qualsiasi categorizzazione assoluta. Questo da una parte permette una certa libertà di linguaggio, ma dall'altro può far scivolare verso una impasse creativa. Si, l'Experimental Film è un desiderio del cinema, ma come ogni desiderio rischia di consumarsi nella sua circolarità, e rimanere inutilmente intrappolato in una ricerca di marginalità fine a se stessa. Così io oggi cerco di sfruttare una diversa forma di narrazione, in grado di riproporre uno sguardo su una dimensione sociale che si possa poi allargare nel momento della visione; e nello stesso tempo continuare a lavorare su piccoli film, più personali e sempre comunque Experimental, qualsiasi cosa vorrà dire questa parola fra dieci o quindici anni.
Toronto, settembre 1995
FILMOGRAFIA
Song for Mixed Choir, 7 min. b/w 1980
Self Portrait with Pipe and Bandaged Ear, 1.5 min. b/w 1981
College, 23 min. b/w 1981
Now, Yours, 10 min. 1981
Bar Good Food Desert In, 35 min. 1984
The Big Show, 7 min. 1984
Book of Lies, 7 min. 1985
White Museum, 32 min. 1986
Fat Film, 4 min. b/w 1987
Grid, 1.5 min. silent 1988
Scaling, 5 min. b/w 1988
From Home, 6o min. b/w 1988
Bomen, 2.5 min. silent 1989
Brand, 6 min. b/w silent 1989
Was, 13 min. 1989
Eat, 15 min. 1989
(B)omen, 4 min. silent 1990
Towards, 4 min. silent 1990
Fat Corner, 5 min. b/w 1990
Two (with Kika Thorne), 8 min. b/w 1990
Southern Pine Ispection Bureau n. 9, 9 min. b/w 1990
Install, 8 min. 1990
Red Shift, 2 min. 1991
Modern Times, 4 min. 1991
Man (with Ann Marie Fleming), 5 min. 1991
The New Man (With Ann Marie Fleming), 6.5 min. 1992
Disneyland in June, 9 min. b/w 1992
Mexico (with Steve Sanguedolce), 35 min. 1992
In The Cinema, 1 min. b/w 1992
Steps to Harbour, 17 min. 1992
Careful Breaking, 7 min. 1992
One plus One (with J. Boughton and K. Ramey), 3 min. 1993
Indusium, 10 min. silent 1993
Escape in Canada, 9 min. b/w 1993
Shiteater, 12 min. b/w 1993
Kanada, 65 min. 1993
Frank's Cock, 7 min. 1994
Justify my love, 5 min. b/w 1994
Valentine's Day, 80 min. 1994
Precious, 12 min. b/w 1994
House of Pain, 80 min. 1995