Nostalgia del tempo, nostalgia della libertà:
Bergson nella coscienza artistica contemporanea
(Parol
on line, novembre 1998)
di Giovanni Infelìse
...
Non c'è tempo presente, ... quello che chiamiamo
presente
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MONTAIGNE |
Il
mondo che vi pare di catene |
PENNA |
Il pensiero, afferma Valéry, "[...] ha come condizione la dissimulazione della sua macchina organica = l'ignoranza di ciò che è" [P. Valéry, Quaderni, Milano, Adelphi, 1988, vol. III, p. 460.]. Ci chiediamo dove risiedano allora gli strumenti attraverso cui è possibile togliere il 'velo' al pensiero, ma al tempo stesso che cosa può garantirci il possesso immediato e totale dell'oggetto su cui si appunta la nostra riflessione.
Potremmo avvalerci forse di una forma privilegiata di conoscenza: l'intuizione. Quell'intuizione che Plotino giudicava come l'atto semplice e perfetto con cui l'intelletto divino conosce se stesso e allo stesso modo secondo Tommaso d'Aquino Dio conosce il mondo nella sua compresente totalità. Quell'intuizione su cui del resto già Platone e Aristotele avevano distinto la ragione (diánoia), che procede discorrendo dalle premesse alle conclusioni, dall'intelletto (nûs), mediante il quale l'uomo apprende direttamente i principi primi della catena apodittica. L'intuizione può dare dunque maggiore slancio alla nostra riflessione che si presenta, almeno in via preliminare, con una duplice connotazione d'ordine linguistico e concettuale. D'ordine linguistico quanto all'uso di certi termini, d'ordine concettuale quanto al loro significato inscritto in una prospettiva che non può che essere storica. E questo perché la storia, fa notare Bontempelli, "sta [...] in una trama di significati umani che connette i fatti e configura una durata" [M. Bontempelli - C. Preve, Nichilismo, verità, storia: un manifesto filosofico della fine del xx secolo, Pistoia, Editrice C.R.T., 1997, p. 68.] .
L'epoca contemporanea ha certamente raggiunto un alto grado di creatività, ma con essa anche una profonda inquietudine. (Ci si potrebbe ad esempio interrogare, soprattutto in riferimento a tempi più recenti, su quali siano le caratteristiche che assume, quali i mutamenti che subisce, la psicologia del tempo, in un contesto in cui il vissuto e la temporalità tendono a perdere la loro centralità e, soprattutto, il loro significato metafisico ["Il tempo [...] non può essere concepito senza rapporto con la libertà, e questa, in quanto libertà finita e condizionata è sempre progetto e dunque azione nel tempo ed anche sul tempo". F. Bosio, Tra metafisica e antimetafisica: essere, linguaggio, tempo e libertà, Tor S. Lorenzo - Ardea (Roma), Abelardo Editrice, 1995, p. 73.] per far posto ad un'esistenza perennemente in esilio.) Un'inquietudine che in parte ha probabilmente tratto alimento da un senso di inappartenenza - la cui origine può essere ricondotta anche ad un errato modo di pensare ["Pensare consiste, di solito, nell'andare dai concetti alle cose, e non dalle cose ai concetti. Conoscere una realtà consiste, nel senso usuale della parola "conoscere", nel prendere concetti già fatti, dosarli, combinarli insieme, fino a quando non si ottenga un equivalente pratico del reale". Dunque "o non è possibile una filosofia, e ogni conoscenza delle cose è una conoscenza pratica orientata verso il profitto che ne possiamo trarre, oppure filosofare consisterà nel porsi nell'oggetto medesimo con uno sforzo d'intuizione". H.-L. Bergson, Introduzione alla metafisica, Roma-Bari, Laterza, 1987, pp. 66-67.] - e che ci induce a riconsiderare un'epoca la cui storia ha agito in maniera profonda sulle coscienze e sull'attività abituale dell'intelligenza, e lo ha fatto anche attraverso l'opera di un filosofo come Bergson le cui idee tanta influenza hanno esercitato [La letteratura sull'argomento è considerevole, tuttavia di particolare rilievo e cura appare lo studio realizzato da A.E. Pilkington, Bergson and his influence: a reassessment, Cambridge, Cambridge University Press, 1976.] non soltanto sul mondo accademico, ma più significativamente su quella parte di 'pensatori liberi' che ad esse hanno attinto nell'elaborazione di una propria visione delle cose e del mondo.
Le teorie bergsoniane hanno prodotto mutamenti di indirizzo. Nella filosofia europea contemporanea esse hanno dato vita ad una rinnovata concezione della metafisica. La metafisica di Bergson, afferma Maritain, è "[...] la métaphysique du changement pur" [J. Maritain, De Bergson a Thomas d'Aquin: essais de métaphysique et de morale, Paris, Hartmann, 1947, p. 44.]. Sul versante letterario lo stesso Valéry così si esprime nel suo Discours sur Bergson: "Henri Bergson, grand philosophe, grand écrivain, fut aussi, et devait l'être, un grand ami des hommes" [P. Valéry, Oeuvres, Paris, Gallimard, 1968, vol. i, p. 885.].
Bergson fu un attento osservatore dell'uomo e della sua interiorità [Péguy estende ulteriormente la portata della sintesi bergsoniana. "L'interiorità diventa un problema collettivo, una questione di razze e di popoli [...]. In Péguy c'è più nostalgia storica che in Bergson, proprio a causa del fatto che la durée si incarna anche nel collettivo e nel politico, ed è infranta l'indifferenziazione diacronica dell'interiorità individuale". A. Beretta Anguissola, Péguy e la scrittura della morte, sta in Péguy vivant, atti del convegno internazionale svoltosi presso l'Università degli studi di Lecce dal 27 al 30 aprile 1977, Lecce, Milella, 1978, p. 404.], ma più in generale si potrebbe dire ch'egli lo fu riguardo alla vita intesa come slancio, come corrente: è il vitalismo bergsoniano, un vitalismo non teleologico poiché esclude la possibilità di costringere in una qualsiasi determinazione la spontaneità originaria della vita. "Le mouvement crée l'être, tel est un principe issu du bergsonisme applicable à l'élan vital comme à tout mouvement" [A. Marietti, Les formes du mouvement chez Bergson, Le Puy, Les cahiers du nouvel humanisme, 1953, p. 76.]. L'uomo è la manifestazione e la prova della totale libertà dello slancio creatore. Soltanto l'istinto partecipa della stessa natura dello slancio vitale, soltanto esso può consentire un'intuizione diretta. "Perciò qualunque discorso analitico e razionale sulla vita è senza senso o, meglio, fuori tema" [J. Monod, Il caso e la necessità, Milano, Mondadori, 1997, p. 29.]. Il considerevole sviluppo dell'intelligenza razionale in Homo sapiens ha segnato un progressivo impoverimento delle sue facoltà intuitive. Per il filosofo francese il principio della vita è l'evoluzione stessa. Crediamo si possa condividere l'affermazione secondo cui Bergson fu soprattutto "sperimentatore di concetti" ["La coscienza come durata, il ricordo che viene distinto dalle immagini in cui si manifesta, il venir meno della tensione psichica come fonte di manifestazioni patologiche: sono questi solo alcuni degli aspetti del pensiero bergsoniano che troveranno sviluppi e corrispondenze in campo psicologico". M. Meletti Bertolini, Il pensiero e la memoria, Milano, Angeli, 1991, p. 268.], fu un grande indagatore di problemi. Già dai tempi della tesi di dottorato si era proposto di analizzare i principi fondamentali della meccanica, approdando così all'idea di tempo e osservando che in meccanica e in fisica essa si presenta con un significato diverso da quello con cui si presenta in storia e in filosofia. Dalla matematica e dalla meccanica in seguito giunse alla psicologia e alla metafisica. E tuttavia ciò che rimane - sopra ogni altra cosa - di Bergson col passare del tempo, è la sua figura di filosofo sensibile ed incline all'introspezione, probabilmente perché - come dice Jankélévitch - "l'instance suprême et l'unique juridiction du philosophe, c'est l'expérience intérieure" [V. Jankélévitch, Henri Bergson, Paris, Presses Universitaires de France, 1975, p. 29.].
Primo fra tutti ad accorgersi "delle implicazioni generali per il mondo della cultura presenti nelle idee di Bergson, fu [...] Prezzolini, che nell'ottobre del 1902 si mescola al pubblico delle lezioni al Collège de France e scrive poi a Firenze al suo amico Papini il 1° dicembre 1902: "Su Bergson scriverò a Firenze (...) Boutroux è conosciuto, ma non vale molto. Bergson invece ha un gran valore ed è poco conosciuto"" [L. Schram Pighi, Bergson e il bergsonismo nella prima rivista di Papini e Prezzolini il "Leonardo", 1903-1907, Sala Bolognese, Forni, 1982, p. 44.]. La scelta di occuparsi di Bergson era certamente dettata anche da una simpatia per la cultura francese "che Prezzolini conosceva già, e dal fatto che in quei primi anni del secolo, Francia significava una grande letteratura vicina all'italiana per storia e lingua, significava un pensiero che vivificava l'Europa" [Ibid.].
A rileggere Ungaretti ben si comprendono le ragioni attraverso le quali il poeta seppe cogliere a sua volta una ormai più che diffusa influenza di Bergson ed a sottolineare l'atmosfera sorta attorno alla sua figura di pensatore raffinato: "nei tempi della voga di Bergson, lo scultore "orfico" andava a zonzo con Les données immédiates de la conscience [sic] sotto il braccio, e, qui da noi, non ci volevan occhi di lince per discernere nei concitati manifesti futuristi, e nelle diffuse dissertazioni futuristiche, spunti e insistenze bergsoniani" [G. Ungaretti, Vita d'un uomo: saggi e interventi, Milano, Mondadori, 1993, p. 80 (la cit. è tratta da Scritti letterari 1918-1936: L'estetica di Bergson (1924)).].
Boccioni, uno tra i maggiori esponenti dell'arte figurativa futurista - certamente il più agguerrito -, non esita a dichiarare il suo debito al Bergson di Materia e memoria : niente si frappone tra esperienza vissuta e memoria ed entrambe vengono come reinserite in una prospettiva dinamica del loro manifestarsi. E Bergson e lì a fornire le ragioni di un prevalere del dato attivistico che pervade le avanguardie. "Come ha chiarito il Calvesi, nel dipinto di Wuppertal meglio che nel dipinto di Hannover la simultaneità è emblematicamente tradotta dal doppio volto di giovane donna che declina plasticamente nella durata memorizzante della coscienza del pittore le proficue suggestioni della lettura di Matière et mémoire di Bergson, che Zeno Birolli ci ha confermato esser stato fra le letture dirette di Boccioni con altri testi come l'Evolution créatrice e L'intuition philosophique" [M. Pinottini, L'estetica del futurismo: revisioni storiografiche, Roma, Bulzoni, 1979, p. 32.]. Estensore dei manifesti futuristi [Appare per certi versi singolare, a tale proposito, che il primo dei manifesti di Marinetti sia stato pubblicato in francese nel "Figaro" del 22 febbraio 1909. In esso sono già contenute tutte le linee essenziali del movimento. Ma per ulteriori approfondimenti circa la presenza del futurismo in Francia rimandiamo a La fortuna del futurismo in Francia, [scritti di] P.A. Jannini ...<et al.>, Roma, Bulzoni, 1979.], Boccioni sostenne la necessità di un totale distacco dalla tradizione accademica, di una piena adesione dell'arte alla vita moderna attraverso espressioni di movimento (dinamismo), di una più diretta ed intensa emozionalità della forma artistica. In sostanza il futurismo accetta le istanze formali del cubismo, mirando però ad una forma meno analitica più legata all'emozione (di qui l'interesse per l'oggetto, la luce, gli effetti di movimento, ecc.). Ma è altresì vero che il futurismo è anche esasperazione di quell'irrazionalismo che è alla radice stessa del decadentismo europeo. Con esso viene infranta la sintassi dello spirito, distrutto ogni legame logico. L'importanza storica del futurismo va cercata insomma nel suo attivismo, nel suo dinamismo che trae forza anche dall'aver condotto un'analisi attenta della filosofia bergsoniana [Per il futurismo, ad esempio, "l'intuizione è conoscenza-contatto tra soggetto e oggetto, abolizione della loro separazione, è un'esperienza specifica grazie alla quale si rivela all'individuo la durata reale, ovvero il flusso, il mutamento indivisibile di tutte le cose. Sia per Bergson che per i futuristi la durata non può essere ricondotta a una sola forma di temporalità, non costituendo un valore uguale per tutti, come il tempo comune, ma variando a seconda del punto di vista e, come sostengono i futuristi, degli "stati d'animo". La questione della simultaneità da essi posta costituisce appunto il corrispettivo in arte del pensiero bergsoniano". C. Salaris, Dizionario del futurismo: idee provocazioni e parole d'ordine di una grande avanguardia, Roma, Editori Riuniti, 1996, p. 43. Un altro elemento che il futurismo assume da Bergson è l'analisi del riso. Ma per ulteriori approfondimenti rimandiamo ancora a C. Salaris.].
Lo stesso Ungaretti, fa notare Curi, "[...] in L'estetica di Bergson [...] mostra di essere assai vicino al filosofo nel concepire il tempo e la memoria [...]" [F. Curi, Durata reale e poesia. Sul rapporto fra il Primo Ungaretti e Bergson, in "Studi di estetica", a. XXIII, III ser., n. 11/12, 1995, p. 52.]. La poesia di Ungaretti, puntualizza Guglielmi, "si pone al termine di un processo cominciato con il simbolismo - soprattutto francese - e culminato nelle avanguardie storiche. E il filosofo di questo movimento, teso a un rinnovamento del linguaggio e a una liberazione del mondo dalle immagini convenute e tradizionali, è stato Bergson" [G. Guglielmi, Interpretazione di Ungaretti, Bologna, Il Mulino, 1989, p. 124.]. E' Ungaretti, d'altronde, ad usare l'espressione che toglie ogni possibile dubbio sul fatto che "il bergsonismo ha lasciato un'impronta nell'arte" [G. Ungaretti, Vita d'un uomo: saggi e interventi, cit., p. 80.].
Riteniamo si possa parlare allora di una vera presenza di Bergson nella coscienza artistica contemporanea. Una coscienza artistica che ci porta a considerare singolari i risultati fin qui osservati, ma ancor più le tesi bergsoniane da cui quei risultati discendono.
Una peculiarità di gran parte della letteratura contemporanea è stata quella di rivolgere la sua attenzione all' 'incomprensibile' con la necessità di farne materia su cui esercitare l'intuizione, introducendo un criterio di immediatezza nella ricerca protesa tutta all'individuazione di una tematica nuova e di una rinnovata forma espressiva. Un atteggiamento per certi versi analogo a quello che la filosofia ha mostrato nei riguardi di determinati problemi per la soluzione dei quali occorreva una più duttile sensibilità che non il rigore logico delle dimostrazioni. Crediamo si possa parlare di uno scambio tra i due àmbiti, sottolineando che molta della letteratura di questo periodo si sia come alimentata di un pensiero metafisico e, viceversa, come molta filosofia si sia immersa in un clima poetico. Ciò si può tradurre, in breve, come un ritorno alle origini.
Resta comunque il fatto che queste sono state le condizioni che hanno consentito in poesia una ricomprensione del simbolismo e con esso la ripresa di quei motivi romantici entro un'atmosfera più vibrante, staccata da ogni retorica; un simbolismo insomma che non ha temuto di mostrarsi ermetico, sapendo così ridare valore sintetico alla parola poetica. Con l'intimismo, la ricerca letteraria si è portata sui valori dell'intensità, mentre il teatro, al pari della narrativa, ha mostrato che la realtà pur nella sua rigidezza porta con sé l'impensato, l'illogico, il meraviglioso. Pirandello è lesempio più alto di questa concezione rinnovata del teatro, egli ha realizzato sulla scena quanto sostenuto da Kierkegaard a suo tempo in filosofia e cioè che la vita è un insieme di assurdi, per intedere la quale bisogna quindi essere forti e spregiudicati. Un'accresciuta sensibilità espressiva che rifiuta ogni pretesa intellettualistica ridisegnando l'àmbito della ricerca in funzione della costruttività e della spontaneità.
Così il tempo assunto come valore si costituisce come il campo entro cui è possibile un incontro fra il pensiero puro e l'irrazionale, l'intuizione e l'intelletto. E vien fatto di osservare, ma solo marginalmente, se alla luce di tale concezione del tempo si possano ripensare i dipinti di Monet. Il Monet dei Covoni, per intenderci. "Ma che cosa è dipinto nei Covoni? [...] Si potrebbe dire che vedendo quei Covoni insieme, si arriva a vedere, al di là dei singoli quadri, il tempo stesso, il tempo reso visibile, o, piuttosto, risultante dall'insieme dei momenti resi visibili dai vari dipinti" [J. Sallis, Ombre del tempo: i Covoni di Monet, Siracusa, Tema Celeste, 1992, pp. 51-53.].
Bergson fu "[...] colui che di una squisita critica del concetto di tempo fece l'asse del suo pensiero rivoluzionario" [G. Cambon, L'ombra di Bergson e la letteratura contemporanea, in "L'ultima", anno v, maggio-giugno 1950, p. 52.]. Il tempo, egli afferma, non può essere disgiunto dal fluire della vita e dello spirito, e la vita è autentica vita spirituale solo in quanto creazione [Cfr. R. Ronchi, Bergson filosofo dell'interpretazione, Genova, Marietti, 1990.]. Il tempo è quantità continua e non frantumabile in misure, durata còlta nell'intuizione. Quella durata interiore che Debenedetti individua quale "testo segreto" [G. Debenedetti, Pascoli: la "rivoluzione inconsapevole", Milano, Garzanti, 1979, p. 40.] di un certo lavoro poetico del Pascoli. Si acconsente quindi alla durata vissuta in quanto in essa ci immergiamo intuendone il contatto immediato e non già oggettivandola per ridurla in schemi logici. "E' l'intuizione intellettuale di Schelling la categoria estetica che sola può cogliere la verità. Così nel pensiero di Bergson il tempo è la trama essenziale dello spirito" [G. Cambon, L'ombra di Bergson e la latteratura contemporanea, cit., p. 52.]. La vicinanza tra le due filosofie, rileva Merleau-Ponty, sussiste "[...] perché Bergson è interamente immerso in un'idea di unità come qualcosa di spontaneo e primordiale" [M. Merleau-Ponty, La natura: lezioni al Collège de France, 1956-1960, Milano, Cortina Ed., 1996, p. 77.].
Ma le tesi di Bergson le ritroviamo anche applicate ad una concezione del ritmo musicale inteso come variabile di intensità: "[...] in musica il ritmo e la misura sospendono la circolazione normale delle nostre sensazioni [...]" [H.-L. Bergson, Saggio sui dati immediati della coscienza, Torino, Boringhieri, 1964, pp. 32-33.]. Si tratta di una categoria di estetica musicale che sottolinea peraltro un'avversione di Bergson per la spazialità: "quando si dice che un oggetto occupa un grande posto nell'anima, o anche che vi occupa tutto il posto, si deve semplicemente intendere che la sua immagine ha modificato la sfumatura di mille percezioni o ricordi, e che in questo senso li penetra, senza però farvisi vedere. Ma questa rappresentazione completamente dinamica ripugna alla coscienza riflessa, perché a essa piacciono le distinzioni nette, che si esprimono senza difficoltà con parole, e le cose dai contorni ben definiti, come quelle che si vedono nello spazio [Ibid., p. 28.].
Considerazioni che spingono ad una concezione dell'interiorità non avulsa da valutazioni che investono in un senso più ampio l'idea stessa di mondo, peraltro centrale nell'estetica - ad esempio - di un compositore come Mahler, il quale ne sottolinea, dando così una connotazione esistenziale al suo lavoro di artista, la sofferenza che procura, le ferite che infligge sentendosene vittima e al tempo stesso artefice in una misura non diversa, ma comune agli altri uomini. E tuttavia Mahler a questa visione drammatica del mondo ne contrappone un'altra in cui questo appare entro la realtà immediatamente percettibile come natura incontaminata dall'auomo. Questo aspetto 'altro' della realtà è riconducibile in Mahler all'atto del vivere che egli compie in solitudine, una solitudine che gli consente con maggiore efficacia di immergersi nella natura incontaminata di questo mondo. Ma il mondo che egli percepisce come 'altro' in realtà non ne è che il simbolo incontaminato e senza tempo, un tempo che nasce dalla nostalgia di questo mondo avvertito come sogno in cui si ha coscienza di sé, nell'essenzialità. "Die Musik - dice in una lettera dell'estate 1899 - muss immer ein Sehnen enthalten, ein Sehnen über die Dinge dieser Welt hinaus" [N. Bauer-Lechner, Erinnerungen an Gustav Mahler, Leipzig, Tal, 1923, p. 119. Cfr. Gustav Mahler in der Erinnerungen von Natalie Bauer-Lechner, [Hrsg.] H. Killian, Hamburg, Verlag der Musikalienhandlung Wagner, 1984, p. 138.]. L'autenticità del mondo risiede dunque nel raccoglimento e nell'intimità del nostro animo, solo esso può renderla presente [In una lettera datata 5 dicembre 1901 Mahler scrive: "[...] la sola vera realtà in terra è il nostro animo, e che per colui che lo ha compreso, la realtà non è che una formula, un'ombra vana". A. Werfel Mahler, Gustav Mahler: ricordi e lettere, Milano, Il Saggiatore, 1976, p. 205.]. "Dall'intimo dell'animo nascono il bisogno di arte e la capacità artistica; le sensazioni "oscure", non razionali, non completamente definibili con i concetti, aprono le porte d'accesso all'altro mondo, il quale prende forma nella musica" [H.H. Eggebrecht, La musica di Gustav Mahler, Firenze, La Nuova Italia, 1994, p. 249.]. C'è nel Lied [Lied s. neutro ted. [ant. liod, affine al lat. laus laudis] (pl. Lieder), usato in Italia al maschile. Canzone vocale tedesca, con testo, di regola, tedesco, coltivata tanto nella musica popolare quanto in quella d'arte. Nella storia del Lied si distinguono tre periodi: il periodo trovadorico, quello della canzone di società (al passaggio tra il Medioevo e l'evo moderno) e infine quello della canzone moderna dal sec. XVII in poi.] di Mahler, afferma Adorno, "qualcosa delle figure dei libri illustrati su cui il bambino volta in fretta pagina poiché ne ha paura e che poi torna a sbirciare per piangervi su beato, concentrazioni di tutte le promesse e di tutti i divieti di un'intera vita, quasi intollerabilmente prossime all'esperienza in carne e ossa" [T.W. Adorno, Impromptus: saggi musicali 1922-1968, Milano, Feltrinelli, 1979, p. 32.]. Un'esperienza che costituisce un'incognita, un mistero. Ed il mistero è lo specifico della musica, lo stesso rilevato da Jankélévitch a proposito di Debussy per il quale "il mistero meridiano dell'esistenza non è altro che l'aspetto inverso del mistero notturno del nulla" [V. Jankélévitch, Debussy e il mistero, Bologna, Il Mulino, 1991, p. 79.]. Per Debussy infatti la realtà musicale "non risiede nella concatenazione discorsiva delle note, bensì attorno ai suoni e tra gli accordi, nelle vibrazioni morenti e misteriose dell'armonia" [Ibid., p. 105 [cfr. I consigli del vento che passa: studi su Debussy, convegno internazionale, Teatro alla Scala, Milano 2-4 giugno 1986, atti a cura di P. Petazzi, Milano, Unicopli, 1989].].
Una simile prospettiva non è affatto impensabile scoprirla anche in letteratura dove lo spirito tenta di ritrarre il tempo nella sua mobilità non soltanto per sottolinearne la fugacità, ma per cogliervi la ritmicità misteriosa della vita, per vederla emergere dall'interiorità, dai luoghi della memoria. Alla Ricerca del tempo perduto di Proust diventa per tali ragioni un inno bergsoniano alla rivelazione dell'istante inscritto nel torrente della continuità in cui la coscienza si immerge alla ricerca del tempo. Una fluidità tutta bergsoniana che si rileva peraltro nel ritmo della prosa proustiana [Le teorie bergsoniane hanno certamente suscitato l'attenzione di Proust [a tale proposito vedi: S. Poggi, Gli istanti del ricordo: memoria e afasia in Proust e Bergson, Bologna, Il Mulino, 1991; G. Macchia, Proust e dintorni, Milano, Mondadori, 1990; ma anche E.R. Curtius, Marcel Proust, Bologna, Il Mulino, 1985.] . Tuttavia riteniamo si possa esprimere qualche dubbio almeno per ciò che concerne il concetto di 'intelligenza' del quale Proust si serve, ma di cui sembra ignorarne la fonte che porta dritto a Bergson e, più in generale, ad una reazione contro l'intellettualismo peraltro in quel periodo ampiamente diffusa. Nella prefazione a Contre Sainte-Beuve egli così si esprime: "Chaque jour j'attache moins de prix à l'intelligence. Chaque jour je me rends mieux compte que ce n'est qu'en dehors d'elle que l'écrivain peut ressaisir quelque chose de nos impressions, c'est-à-dire atteindre quelque chose de lui-même et la seule matière de l'art. Ce que l'intelligence nous rend sous le nom de passé n'est pas lui. En réalité, comme il arrive pour les âmes des trépassés dans certaines légendes populaires, chaque heure de notre vie, aussitôt morte, s'incarne et se cache en quelque objet matériel. Elle y reste captive, à jamais captive, à moins que nous ne rencontrions l'objet. A travers lui nous la reconnaissons, nous l'appelons, et elle est délivrée. L'objet où elle se cache - ou la sensation, puisque tout objet par rapport à nous est sensation -, nous pouvons très bien ne le rencontrer jamais". M. Proust, Contre Sainte-Beuve, Paris, Gallimard, 1996, p. 43. A queste parole fa da contrappunto l'osservazione di Revel, da noi condivisa, secondo la quale Proust sembra "[...] non sospetti neppure che la concezione dell'intelligenza cui si riferisce - l'intelligenza che divide, rende banale, coglie soltanto "l'esterno" della realtà - non è altro che una concezione divenuta di moda al suo tempo: che è il tempo di Bergson e della reazione "anti-intellettualistica" dell'Europa intera". J.-F. Revel, Su Proust: osservazioni su "A la recherche du temps perdu", Firenze, La Nuova Italia, 1969, p. 30.]. E' il movimento irripetibile del tempo emblematicamente ritratto dal movimento della fiamma figurata dallo slancio di Athikté danzante in L'âme et la dance [P. Valéry, Oeuvres, Paris, Gallimard, 1960, vol. II, pp. 148-176.] di Valéry, che è atto puro, unicità, la stessa che troviamo espressa nell'invocazione goethiana all'attimo fuggente, la stessa che leggiamo nel Saggio sui dati immediati della coscienza di Bergson unitamente alla visione agostiniana del tempo [Vedi Agostino, Le Confessioni, Torino, Einaudi, 1988 [Libro XI, 15.19-.20].]. Il tempo vitale, la memoria-spirito di Bergson sono il tempo e la memoria di Agostino in cui il ritmo della vita, non più sufficiente a se stesso, cerca un distacco, una conclusione trascendente. La vita è esilio, cosicché l'uomo è colui a cui viene data la possibilità di vivere, ma fuori dalla storia, senza un luogo, è colui per il quale la memoria diventa fardello.
L'arte ha il compito di rintracciare la forma perduta di un'esistenza che sola può testimoniare di una vita differente dell'uomo. E la nostalgia del tempo è nostalgia di questa vita. "Nella vita umana decisivo è il tempo, ma il tempo in cui viviamo sembra essere già il prodotto di una scissione. Di qui l'irresistibile ansia, nata dalla nostalgia di quel tempo perduto che, se in un'arte si riflette è proprio nella poesia, poiché essa sembra generare la sua possibile risurrezione, in questo tempo di decadenza" [M. Zambrano, Verso un sapere dell'anima, Milano, Cortina Ed., 1996, p. 33.]. La nostalgia del tempo è nostalgia di un tempo che preesiste ad ogni tempo vissuto che solo può restituire l'innocenza perduta. Ma, afferma Debenedetti a proposito di Proust, si può parlare di tempo sia per quanto concerne le esplorazioni nel fondo delle cose, quanto per le esplorazioni in fondo al passato: "le une e le altre sono recherches du temps perdu. Perché il "tempo" per Proust - quali che siano le definizioni autentiche ch'egli ne dà nel Temps retrouvé - è la nozione lirica e concentrata di cui egli si serve per definire la dimensione, altrimenti inqualificabile, del viaggio che l'anima fa per ritrovare la parte di se stessa più profonda e reale. Viaggio di cui il "tempo", l'immagine del tempo, simboleggia liricamente la durata: mentre la nostalgia - quella nostalgia che è forse uno dei colori dominanti nella poesia proustiana - ne esprime il sentimento" [G. Debenedetti, Rileggere Proust e altri saggi proustiani, Milano, Mondadori, 1982, pp. 107-108.].
Deleuze annota in un suo importante studio che "l'intuizione è il metodo del bergsonismo" [G. Deleuze, Il bergsonismo, Milano, Feltrinelli, 1983, p. 7.]. Metodo tra i più "elaborati della filosofia" [Ibid.], costituito da regole la cui precisione analogamente a quella scientifica ne garantisce la sua estendibilità e la sua trasmissibilità. E' questa, osserva Deleuze, una ragione sufficiente per porre in primo piano l'intuizione come "metodo rigoroso" [Ibid., p. 8.] ogni qualvolta ci si appresta ad un'esposizione che vede, anche se in una prospettiva personalissima, rivisitato il pensiero di Bergson.
Tale prospettiva pone a fondamento della sua riflessione la capacità di seguire ed organizzare il proprio pensiero attorno ad un'esperienza interiore più che rassegnarsi ad una verità che, come sottolinea ancora Deleuze, spesso è frutto di un "[...] pregiudizio sociale (poiché la società, e il linguaggio che ne trasmette le parole d'ordine, ci "danno" problemi già del tutto formati - come fossero delle "pratiche amministrative" - e ci impongono di "risolverli" lasciandoci uno stretto margine di libertà)" [Ibid., p. 9.]. Ragion per cui la necessità, che peraltro trae origine proprio da una rilettura di Bergson, è forse quella di riscoprire un margine più ampio di libertà entro cui esercitare la propria riflessione attribuendo a non altri che a se stessi la facoltà di accettare come probabile o improbabile che un'intuizione si riveli utile alla coscienza. "Ciò che sorprende nelle parole di Bergson è proprio l'insistenza sul fatto che la libertà è il più significativo degli avvenimenti e la volontà di coglierne il significato profondo, anche a costo di esorbitare nel mistico" [S. Limongi, Analecta bergsoniana. i: Riflessioni e note sul "Saggio", in "Annali dell'Istituto di discipline filosofiche dell'Università di Bologna", n. 2, 1980-81, p. 82.]. La vera libertà sembrerebbe dunque consistere "[...] in un potere di decisione e nella possibilità di costituire i problemi stessi [...]" [G. Deleuze, Il bergsonismo, cit., p. 9.], una possibilità che fa sì che i falsi problemi, o i problemi mal posti, si dileguino con l'insorgere di quelli veri che appaiono come il risultato di una modalità del pensiero che ha assunto a suo fondamento la creatività. Il falso problema, spiega Boella, "è ben più dell'errore o della superficialità perché è direttamente legato alla logica della rappresentazione. Il falso problema ha due forme, quella del problema inesistente (come la possibilità e il nulla) e quella del problema mal posto (l'Uno e il molteplice)" [L. Boella, Bergson e i falsi problemi, in "aut aut", n. 276, novembre-dicembre 1996, p. 125.].
Certo v'è un rischio immediato nello stabilire delle differenze di grado circa l'opportunità o meno di seguire o abbandonare anche solo l'illusione di una prospettiva autre. Il rischio è quello di stabilire delle diversità quanto all'importanza e non alla natura stessa del problema su cui si vuole riflettere. Come reagire allora a tutto ciò? "[...] Suscitando, sempre nell'intelligenza, un'altra tendenza, critica. Ma da dove viene questa [...] tendenza? Solo l'intuizione può suscitarla e animarla" [G. Deleuze, op. cit., p. 15.]. E' in sostanza proprio l'intuizione a rintracciare le "differenze di natura" [Ibid.] al di sotto delle "differenze di grado" [Ibid.], comunicando all'intelligenza quali sono i criteri che ci consentono di distinguere i veri problemi dai falsi al di là di ogni plausibile previsione. In breve noi siamo liberi, afferma Bergson, "[...] quando i nostri atti emanano dalla nostra personalità intera, quando la esprimiamo, quando hanno con essa quell'indefinita rassomiglianza che si trova alle volte tra l'opera e l'artista" [H.-L. Bergson, Saggio sui dati immediati della coscienza, cit., p. 172.]. Questa "rassomiglianza", sia detto solo incidentalmente, ci riconduce peraltro ad un aspetto della filosofia di Bergson fondamentale che è quello della dualità, quella forma cioè che il filosofo francese pone come "[...] costitutivamente necessaria al suo pensiero" [V. Mathieu, Bergson: il profondo e la sua espressione, Napoli, Guida, 1971, p. 18.] e dalla quale noi attingiamo, se pur per necessità contingenti, gli stimoli utili a realizzare quello che lo stesso Mathieu - riferendosi al Bergson di Materia e memoria - indica come un ulteriore sviluppo di quella filosofia rispetto al Saggio sui dati immediati della coscienza, attribuendo quella una funzione positiva al dualismo volta ora a cercare "[...] l'inserzione: dall'innesto di un termine sull'altro deve nascere qualcosa [...] di positivo" [Ibid., p. 19.]. La possibilità di questo "qualcosa" a nostro avviso risiede nel saper pensare il rapporto, ed è Plotino ad indicarcelo, fra "[...] Intelligenza e oggetto pensato" [Plotino, Enneadi, Milano, Rusconi, 1992, p. 889 [Enneade, v 6,1.].]. Plotino infatti così argomenta: "rappresentiamoci una duplice luce, una meno pura, l'anima, l'altra, più pura, l'oggetto intelligibile dell'anima, e immaginiamo poi che la luce contemplante sia eguale in purezza a quella contemplata; allora, non potendo più distinguerle né differenziarle, ammetteremo che le due luci siano una sola: pensando diremo che sono due, ma vedendo diremo che sono già una sola. Nello stesso modo penseremo il rapporto fra Intelligenza e oggetto pensato" [Ibid.].
Se il nostro compito è quello di far nascere qualcosa - non in conseguenza ad una contrapposizione rigorosa, ma ad un vicendevole scambio tra ragioni solo apparentemente distanti - dobbiamo allora riscoprire e nondimeno abitare le origini linguistiche e concettuali a cui vogliamo ri-dare vita senza negare con ciò la possibilità di lasciarci condurre dall'istinto, di lasciarci pervadere da quella spontaneità, da quella libertà che sola nasce dalla coscienza, dall'operosità e dal contatto dell'intelligenza con la materia. "La materia - afferma Bergson - è necessità, la coscienza è libertà; ma nonostante si oppongano l'una all'altra, la vita trova modo di riconciliarle. Infatti la vita è proprio la libertà che si inserisce nella necessità e la volge a suo profitto" [H.-L. Bergson, Il cervello e il pensiero, Roma, Editori Riuniti, 1990, p. 14.]. Arendt sostiene che "la libertà della spontaneità costituisce parte integrante e ineliminabile della condizione umana" [H. Arendt, La vita della mente, Bologna, Il Mulino, 1996, p. 430.], una condizione, tuttavia, in cui la spontaneità - la sua liberazione - deve, in arte come nella vita, passare attraverso la creatività di uno spirito intelligente ["L'intelligenza, in senso lato, e l'aspetto intellettuale dell'intuizione si restringono a spirito, pensiero e intuizione". P. Taroni, Tempo e intuizione: alle origini dello slancio vitale nel pensiero di Henri Bergson, Ravenna, Edizioni Cooperativa Libraria e di Informazione, 1993, p. 85.] capace di esprimere come atto libero la costruzione di un sentimento del mondo che, in quanto tale, diventa atto etico: "[...] è in quanto creatore, per umile che sia il piano dove la sua creazione si realizza che l'uomo, che ogni uomo, può sentirsi libero" [G. Marcel, L'uomo contro l'umano, sta in Lavelle - Le Senne - Marcel, Lo spiritualismo esistenziale, Napoli, Ferraro, 1990, p. 135.].
Non è una svalutazione della capacità teoretica dell'intelligenza né un sentirsi poi contraddittoriamente parte di quell'intellettualismo contro cui Bergson stesso si opponeva; bensì essere per un'intelligenza aperta, agile (suggerisce Péguy), per un'intelligenza insomma più aderente alla vita e al dettato di quell'intuizione cui il bergsonismo stesso non ha mai obiettato nulla: "[...] e di questa intelligenza è intelligente Bergson, scagionato così dall'accusa di valersi d'una facoltà da lui stesso criticata" [V. Mathieu, Bergson: il profondo e la sua espressione, cit., p. 27.].
La libertà si costituisce come variabile fondamentale dell'identità umana e del suo riconoscimento attraverso la differenza, la diversità a cui essa stessa conferisce dignità quale che sia l'atto attraverso il quale l'uomo realizza la vita e l'arte. Così, ad esempio, "[...] la fantasia comica [...] derivata dalla vita reale, imparentata con l'arte, potrebbe essa non dirci la "sua" parola sull'arte e sulla vita?" [H.-L. Bergson, Il riso: saggio sul significato del comico, Roma-Bari, Laterza, 1991, p. 4.]. A pensarci bene "non v'è nulla di comico al di fuori di ciò che è propriamente umano" [Ibid.]. Libertà e creatività sono dunque i termini che contraddistinguono l'intuizione bergsoniana. La libertà del tempo di autorappresentarsi, è la libertà che si osserva in ogni atto creativo, nella sua durata, attraverso cui la vita come l'arte si dispiegano nel mondo, in un mondo di armonie: "[...] le mouvement crée l'être, la durée, qui est mouvement, crée l'être, et c'est dans cette création que se manifeste l'acte libre [...]" [A. Marietti, Les formes du mouvement chez Bergson, cit., p. 95.].
V'è nella filosofia bergsoniana una nostalgia, mai espressamente dichiarata, del tempo trascorso e un anelito all'avvenire inteso come prospettiva entro la quale si realizza la libertà dell'individuo, come il luogo a cui la 'spontaneità' tende nella 'speranza' di recuperare la sua originaria essenza che costituisce l'altro aspetto irriducibile di quella nostalgia ed insieme l'atto forse primigenio che solo procura l' . Quell'estasi la cui funzione liberatrice, già affermata nella filosofia ellenistica, è intesa come lo stato nel quale lo spirito, rapito nella contemplazione del divino oggetto, sembra essere fuori dal mondo esterno, e in primo luogo dal proprio corpo, non più di ostacolo al contatto dell'anima con l'oggetto oltremondano. "Viviamo - dice Pavese - nel mondo delle cose, dei fatti, dei gesti, che è il mondo del tempo. Il nostro sforzo incessante e inconsapevole è un tendere fuori dal tempo, all'attimo estatico che realizza la nostra libertà. Accade che le cose i fatti i gesti - il passare del tempo - ci promettono di questi attimi, li rivestono, li incarnano. Essi divengono simboli della nostra libertà. [...] Il tempo arricchisce meravigliosamente questo mondo di segni, in quanto crea gioco di prospettive che moltiplica il significato supertemporale di questi simboli. [...] Il simbolo è sempre attimo estatico, affermazione, centro" [C. Pavese, Il mestiere di vivere: 1935-1950, nuova edizione condotta sull'autografo a cura di M. Guglielminetti e L. Nay, Torino, Einaudi, 1990, pp. 244-245.]. Così l'impossibilità di 'sperare' in una siffatta vitalità dello spirito, rende il divenire impraticabile e la nostalgia di quella libertà l'epilogo di un'intelligenza che non è tale poiché misconosce del divenire la sua realtà. "L'intelligenza, nella sua inettitudine a seguire il vitale, immobilizza il tempo in un presente sempre fittizio. Questo presente, è un puro niente che non arriva nemmeno a separare realmente il passato e l'avvenire. Sembra in effetti che il passato porti le sue forze nell'avvenire, e sembra anche che l'avvenire sia necessario per fornire lo sbocco alle forze del passato e che un solo e medesimo slancio vitale solidifichi la durata. Il pensiero, frammento della vita, non deve dettare le sue regole alla vita" [G. Bachelard, L'intuizione dell'istante. La psicoanalisi del fuoco, Bari, Dedalo, 1987, pp. 46-47.].
Se ciò vale, la filosofia di Bergson pone allora in una continuità indissolubile il passato e l'avvenire, tempo e libertà. Questo spiega forse gli effetti che una tale prospettiva ha prodotto sulle arti in epoca contemporanea, rimanendo altresì un punto ineludibile nel panorama della filosofia dove, tuttavia, rispetto alle tesi del filosofo francese non è mancato un atteggiamento più legato al pregiudizio che ad un ragionevole dissenso. Tesi che al di là di tutto ciò hanno comunque costituito il più delle volte uno stimolo a superare i propri limiti concettuali per dare vita ad un pensiero in grado di rigenerarsi attorno ad un'idea nuova; così come nelle arti a cercare quella dinamicità che è insita in ogni atto creativo quale che sia il luogo in cui si trovi ad agire e durare. E' facile, annota Pavese in data 24 febbraio 1940, "creare un'opera d'arte "istantanea" (il "frammento"), come è relativamente facile vivere | un attimo di moralità, ma creare un'opera che superi l'attimo è difficile, come è difficile vivere più a lungo di un palpito il regno dei cieli" [C. Pavese, Il mestiere di vivere: 1935-1950, cit., p. 178.].
Il punto di vista storico resta sicuramente insostituibile nell'analizzare il lavoro di un artista e dell'epoca a cui egli appartiene. Esso consente, se non altro, di valutare quale sia il trascorso culturale che giunge all'artista medesimo, al di fuori del quale non gli è consentito sentirsi parte di quell'origine stessa da cui pure la sua arte trae vita e che sola può garantirgli un'identità culturale, una coscienza artistica in grado di assegnargli un posto d'osservazione privilegiato dal quale assistere al libero corso del futuro. Del resto "[...] ogni coscienza è anticipazione del futuro" [H.-L. Bergson, Il cervello e il pensiero, cit., p. 8.], e ciò è tanto più vero quanto più si osserva il proprio spirito, poiché in ogni istante esso si occupa di ciò che è, ma "in vista soprattutto di quello che sta per essere" [Ibid.]. Non si dà dunque identità al di fuori della storia, al di fuori di ciò che può essere nominato e in quanto tale tramandato quale attestazione di un vissuto riconoscibile. Così "[...] quando il poeta parla di eredità ricevuta senza testamento, allude proprio alla mancanza di un nome. Elencando quel che sarà legittima proprietà dell'erede, il testamento lega beni passati a un momento futuro. Senza testamento, o, fuor di metafora, senza la tradizione (che opera una scelta e assegna un nome, tramanda e conserva, indica dove siano i tesori e quale ne sia il valore), il tempo manca di una continuità tramandata con un esplicito atto di volontà, e quindi, in termini umani, non c'è più né passato né futuro, ma soltanto la sempiterna evoluzione del mondo e il ciclo biologico delle creature viventi" [H. Arendt, Tra passato e futuro, Milano, Garzanti, 1991, p. 27.].