L'immutabile incertezza
La scrittura come paura e oblio di un tempo
Giovanni Infelìse
Nescit
vox missa reverti.
[Orazio, Ars poetica, 390]
Premessa
La maturità dell'uomo è certo il frutto di esperienze. Di esse quella che, a ragione, le conferisce maggiore accrescimento è la scoperta del tempo. Spesso è di fronte alla vacuità delle azioni, all'inutilità delle distrazioni che scopriamo il tempo. Il tempo, secondo una certa prospettiva filosofica, ci si svela proprio in quei monenti in cui cediamo all'abbandono. Di qui, tuttavia, ad affermare la possibilità di sopprimere il trascorrere del tempo attraverso «l'azione autentica», attraverso cioè «[...] un atto di fede o un atto di volontà, di amore o di contemplazione [...] perché ogni atto è in realtà un'estasi» (Zambrano, 1987, 40) - e l'estasi non è altro che l'atto con cui la mente viene distolta per paura, dolore, da un'idea di fine -, crediamo passi la differenza che si può cogliere tra una visione puramente esoterica del tempo ed una percezione di esso, per così dire, poetica attenta cioè al dato sensibile, fenomenico.
Come la contemplazione, l'amore, anche la poesia è un atto, ma un atto che persegue una finalità diversa. In essa l'estasi ha sì la funzione di aprire alla speranza, anche alla quiete, ma non quella di rimuovere l'incertezza che, malgrado tutto, permane al fondo di tale speranza. La poesia si interroga, rielabora incessantemente muovendosi in accordo col tempo non rincorrendo l'illusione di una sua revoca.
Ragion per cui «[...] il poeta è là dove non sembra si trovi, e si trova sempre in un luogo diverso da quello in cui lo si pensa. Stranamente egli abita nella casa del tempo, sotto la scala, là dove tutti gli debbono passare davanti, e nessuno lo nota». Ma «egli è colui che ama i dolori e ama la felicità» (Hofmannsthal, 1907, 257 e 260) e in questo senso gli è particolarmente cara l'interrogazione e la cura con la quale pone al centro della propria attenzione l'esistenza in ogni sua manifestazione inclusa la disattenzione o, se si preferisce, l'indifferenza. Egli è colui il quale mette in relazione gli elementi del tempo con l'incertezza intesa quale componente ineludibile dell'esercizio alla vita che è esercizio alla pazienza, capacità di tollerare il dolore e quindi, etimologicamente, sufferèntia. Ed è proprio a partire da questa che il poeta si chiede se sia possibile recuperare il significato autentico di un'esperienza che, il più delle volte, sembra lasciare dietro sé non altro che incertezza; ma si chiede anche se sia possibile ipotizzare una relazione tra questa e un qualsiasi procedimento in grado di affermare in modo perentorio i contenuti profondi di quella esperienza.
Prima di interrogarci sulla probabilità o meno che si istituisca una relazione tra l'immutabile incertezza - che scorgiamo quale condizione esistenziale che caratterizza oggi più che mai la vita - e la scrittura in quanto strumento teoricamente in grado di registrare le esperienze di una vita, è necessario affermare con Marc Augé che in fondo «[...] ogni vita viene vissuta come un racconto» (1998, 12). Ma racconto di un genere particolare giacché in esso sono delineati quei tratti della vita reale che ogni individuo assume quale memoria di un tempo vissuto. Un tempo, secondo Augé, di cui le forme dell'oblio ne rappresentano le configurazioni riassumibili nei concetti di ritorno, di sospensione, di ricominciamento. Forme che diventano, in un certo qual modo, la testimonianza di una storia umana credibile non solo dal punto di vista propriamente letterario, narrativo appunto, ma anche da quello della vita in quanto insieme di esperienze disvelate; esperienze «[...] che d'altronde sono costantemente oggetto di racconti spontanei da parte di coloro che le vivono [...]» (Augé, 1998, 48).
Cercheremo, insomma, di dar senso alla nostra interrogazione traendo spunto da una frase - che pochi accettarebbero di ridurre, ignavi, a mero espediente letterario - in cui peraltro non è difficile cogliere ciò che, se pur velatamente, può apparire come familiare ad ognuno.
"Lei ha un
sorriso che rischiara", disse egli alla non più
giovanissima donna, "ma niente più del suo sorriso mi assilla;
e lo sguardo, oh lo sguardo!, non ignora l'istante: se muore, guarda
ancora."
Ma un
dubbio si fece incontro alla donna da quelle anonime labbra: la 'frase' recava con sé l'ambiguità e l'incrollabilità
di una legge, di una scelta che non concedeva addio. Accennò così
ad un mormorio inquieto avvertendo timidamente l'altro del cordiale
e per nulla inusitato gesto. Era il tentativo estremo di semplificare,
di annullare il turbamento, l'incertezza. Ma un sorriso non è merce
a buon mercato per chi confida in esso,
e questo perché un sorriso (quel sorriso) non ubbidisce ad una 'forma',
ad uno stile, ma ad un desiderio che trova nel tempo effimero, nell'attimo
del suo disvelamento, un impalpabile piacere dominato dalla paura.
i
La 'frase' qui addotta esalta un'intima aspirazione che mette repentinamente in scacco chi la ascolta, ma anche chi la pronuncia per un disperato bisogno di 'vedere' entro come nessuno osa.
L'immutabile incertezza che traspare subitanea dal volto di entrambi i soggetti a confronto agita a tal punto la coscienza da far crollare quella gioia sotto il lampo dell'interrogazione: che cosa sarà di quell'atto privato del suo contesto e destituito di ogni possibile relazione col tempo? Che cosa accadrà in chi porge e in chi afferra avidamente quel dono, quel sorriso di cui resta appena una traccia quale effimera gioa della vita? Quale soccorso si invocherà per scongiurare il malinteso[1][1], il rischio che un dubbio, se pur fuggevole, possa gettare definitivamente nell'oblio - cioè in un luogo che quel tempo annulla - l'accaduto? Tutto si giocherà, con ogni probabilità, nell'anteporre un nuovo significato ad un'esperienza caduta ormai nella negazione della 'frase' e della necessità che l'ha fatta sorgere. Quelle parole se ripetute indurrebbero alla paura, ad un inconsistente timore che farebbe vacillare - sotto il peso della sua spontaneità e del suo primitivo senso - niente di più che un semplice proferimento d'amore per l'altro. Quel che qui si va prospettando può essere ricondotto per analogia all'amara constatazione del protagonista di un racconto[2][2] di Heinrich Böll che dice: «con volto immobile passo attraverso la mia vita; solo di tanto in tanto mi permetto un pallido sorriso e penso spesso se abbia mai riso. [...] Così rido in tante maniere, ma il riso mio non lo conosco» (1955, 724). Che stia precisamente qui, nell'ammissione cocente di ciò che si è sempre ignorato, la ragione profonda della propria incertezza?
La paura non è l'epilogo di una fosca lotta fra linguaggio e profezia, è semmai la risposta inferma ad un'evidenza, ad una presenza inattesa avvalorata da un tempo. E quando al colloquio fa seguito la tenebra oppure nulla, la paura porta a termine lo scacco ingiungendo alla coscienza di parlare un sentimento che non ha più capacità di risollevare né di ridare efficacia ad una voce che null'altro dice di sé obliandosi. è le sombre oubli di cui ci parla Victor Hugo la paura che trae sussistenza da un atto mancato che è una dimenticanza, da un tempo divenuto ora assente, e che si traduce in un fallimento sopraggiunto a turbare l'anima. E tuttavia per alcuni la paura è l'illuminante meteora che invita a tradire ogni illusoria certezza, l'ingenuità di espressioni corrusche, la loro improbabile capacità di rasserenare, per aprire - elargendo il meglio delle sue risorse sommerse - alla consapevolezza di un bisogno che non può che essere soddisfatto che per un attimo solo e ricercato incessantemente nella pure inevitabile caducità delle parole. La vita è colma di atti disattesi, di tempi elusi, quindi, di paure[3][3] che non riescono a superare il muro sotterraneo del sonno dinanzi al quale dispera il mondo degli uomini. E di estrema attualità appaiono in tal senso le parole di Hofmannsthal poiché «questo nostro tempo è pieno fino ad esserne malato di possibilità irrealizzate, e insieme pieno zeppo di cose che sembrano esistere soltanto in forza del loro contenuto di vita, quando invece nessuna vita hanno in sé» (1907, 248). Questa paura, in altre parole, trae origine dal disagio che non trova sollievo nel silenzio: è il balbettio di una voce incerta che annuncia ciò che non è dato possedere perché non torna.
Gioco, linguaggio, sentimento, si sarebbe indotti a credere all'esistenza di una dimora in cui l'uomo crea la vita, il suo sguardo singolare. In verità essa è nulla di più dell'occhio che percorre fugacemente un'oscura realtà nell'illusione che la parola disveli le rovine di un sogno che non ha origine né fine se non nell'istante che è già un infinito; il luogo di un incessante accadere di eventi ormai perduti.
Non rimane che lo scherno. Ciò che esso afferma, con una calma tradita, è l'impossibilità di decifrare il senso ultimo di un'istanza che ha poche parole, tuttavia ricche di possibilità estranee ad uno spirito indolente, incapace di progredire nella nostalgia, nel 'dire' ancora e con esso obbligarsi a vivere più che ad esistere.
La follia risorge allora fulminea presentandosi in tutta la sua semplicità e stravaganza attraverso una 'frase', attraverso parole che escludono altre parole in attesa di un nuovo incontro che non ci sarà? Se così è, essa può solo distruggere la comprensione confinando la necessità - ciò che in essa ha compimento attraverso il riconoscimento - in una totalità incipiente che nell'atto dello svelarsi perisce e con essa la speranza di un nuovo sorriso. In verità questa follia appare più che altro come presenza, come l'espressione di una linearità che non ammette ritorni. Non v'è in questa follia perdita ma affermazione, attraverso il suono della lingua, di possibilità sopite che essa dichiara nel rispetto di un limite che designa una condizione tutta umana: soffrire di una grazia esitante, di quel sorriso, di quel dono effimero e obbedire senza possibilità di scampo ad una legge esteriore che mortifica e conduce all'oblio prima ancora che alla paura del pronunciamento. Ma la follia è anche evocazione di estremi relitti di un linguaggio frantumato e ricomposto all'occasione per affondare definitivamente l'invisibile identità di un sorriso sensibile ad un richiamo di gioia e di amore.
ii
Così scrivere adunando a sé visioni e divieti, è ritenere che vi sia sempre un'anteriorità, un prima da dire in ogni figura umana che rende possibile la trasgressione del silenzio; un prima che si palesa come l'interdizione stessa che la paura di un suo disvelamento impone. La scrittura come prospettiva irrinunciabile appare priva di futuro. Scrivere è una possibilità seducente, ma nulla di più. Anzi, è dispersione e in questo senso atto disperato, perdita di un tempo entro cui giocare le proprie mancanze e le parole, la loro imprevedibilità e irregolarità rispetto alla previsione incessante e conseguente del discorso scritto.
L'esperienza presuppone la vita nel suo svolgimento temporale non la sua scrittura. Essa è un susseguirsi di stati interiori che cambiano con la scrittura la loro natura irriducibile ad una coesistenza tra l'immaterialità, la leggerezza di un suono, e la sua trascrizione e oggettivazione mediante uno strumento per definizione ad essa estraneo. Non è dell'armonia della parola, della 'frase', che si parla, ma dell'impossibilità di rappresentarne la pienezza concettuale nel tempo immutabile del suo pronunciamento[4][4]. La 'frase' dice ciò che per noi è irripetibile: è insomma l'attimo del proferimento ad annullare la possibilità stessa di una sua ripetizione fedele, a creare un distacco tra ciò che è essenziale e folgorante e ciò che ad essa tenta di sostituirsi come suo equivalente segnico. In altre parole la scrittura non può che sancire la pietrificazione proprio di quel senso di cui vorrebbe maldestramente impossessarsi; un senso che palesa così la sua vera natura nell'attimo estatico del sorriso, un sorriso còlto nella paura per la parola detta e perduta nella dolcezza di un istante. Tutto viene così stravolto dalla scrittura attraverso la falsificazione, inconsapevole?, dell'origine a cui essa tende disperatamente rimuovendo quel solco profondo entro cui la parola cantata stabilisce il confine tra sé e l'aspirazione alla conquista cui non sa resistere l'altra.
iii
Quel sorriso che rischiara è quindi perduto? L'interrogazione trova nel mondo chiuso dell'ineluttabilità la parola scabra che non sa farsi amica se non nella mancanza, nell'assenza, nel silenzioso mormorio dell'angoscia che spinge all'invocazione[5][5]. Un'angoscia più simile al tedio e al dolore che al rovello di uno spirito imbelle. Avversione per la mancanza di risposte, per l'eco vuota che giunge a sancire la notte senza immagini dissuase peraltro dall'apparire finanche dal superfluo gioco del cercare in sé l'ignoto che le inghiotte; dolore per la lontananza sempre prossima ad un'idea di malinconica contraddittorietà che rende inaccessibile il passaggio attraverso la quiete e la speranza nel ricordo[6][6] che è vita. «La vita... è ricordarsi di un risveglio | triste in un treno all'alba: aver veduto | fuori la luce incetta: aver sentito | nel corpo rotto la malinconia | vergine e aspra dell'aria pungente» (Penna, 1939, 3).
Il desiderio che perduri l'effetto così raro e turbolento di un sorriso fa sì che si cerchi nel segno della scrittura il luogo entro cui prolungare nel tempo tale effetto. Una sorta di vacua felicità che rimanda al futuro il linguaggio neutro di un cedimento, di un abbandono ad una forma a cui si dà troppo credito, su cui si riversano, forse un po' precipitosamente, le offerte di un'intera vita.
Scrittura dunque come paura e oblio di una voce, ma anche di un tempo che non torna, come strumento che annulla in sé l'impossibile ripetizione di una verità che è unità espressiva fuori da una forma che non ripete, ma sancisce nella sua inviolabilità la necessità di un incontro - la sua brevità - dopo la parola silenziosa che è un invito.
L'angoscia silenziosa, il mormorio impercettibile in cui s'accende la vita, è la riservatezza che segna la soglia (e dunque il tempo: «Il tempo è muto fra canneti immoti...» (Ungaretti, 1947, 213)) entro cui restare parlando di una sorte che accade, di un desiderio presente che è tutto pensiero e vacillamento, condivisione di una medesima e immutabile incertezza che impedisce il permanere dell'attenzione lasciando all'interrogazione, solo ad essa, il godimento di un istante, di un frammento che si consuma, che non è già più - né per l'uno né per l'altra - aspirazione all'eternità, ma oblio, silenzio.
Se 'dire' è già negare ciò che gli consegue, la scrittura vuol dire allora ciò che non può più esser detto se non come oblio di un senso; l'oblio è «[...] per sua stessa natura scuro [...]» (Weinrich, 1997, 13). Poiché quindi l'esperienza è il semplice desiderio di un'alterità, l'ordine che viene richiesto dalla sua trascrizione si traduce nel tentativo di interrompere e fissare nell'astrazione non più l'esperienza medesima, ma la sua ipotesi attraverso una tecnica che ne annulla l'incanto. La scrittura è un limite e in quanto tale inibizione di ogni rappresentazione che si svolge oltre l'ambiguità e l'insufficienza delle sue tracce a cui appartiene un'altra età che è quella dell'oscurità.
Così lo smarrimento è, in un certo qual modo, accettazione nella paura di una asserzione non vera che null'altro offre se non il senso di una fine, lasciando che siano le lacrime l'unico atto in grado di evocare la nostalgia per la parola perduta. Una parola che non si sottopone al dominio della morte e dunque al dominio di un tempo finito (di un destino), ma che mostra, anzi, di voler ripercorrere l'ascoso periglio dei pensieri, la loro desolata leggerezza e la loro irriducibile inquietudine che permane quale segno inconfutabile di una vitalità insopprimibile.
Pazienza e passione, incredulità e caso: tutto agisce nel desiderio come dono spontaneo, immediato e fragile al di fuori degli automatismi della scrittura tesa all'erranza, tra paura e oblio, per ciò che non c'è gia più.
iv
Ecco, qui è la forma incenerita della scrittura che non si anima se non nella sua leggenda. Scrivere è anch'esso un desiderio, ma un desiderio attraversato dall'indeterminatezza, dall'incapacità di rendere comprensibile il contenuto paradossale di un proferimento che diviene così il phármakon letale delle sue gloriose ragioni e della sua astuzia; dono, certuni affermano, da elargire a futura memoria, per noi oblio di una speranza.
Una bianca morte attende così la scrittura: è il bianco brusio di una parola che attraversa un tempo e si perde. La parola è l'immagine inaccessibile, il muro giunto fino a noi dalla sua casa che si desta col primo passante. Il trascorso della voce è la sua ferita, l'impronta che ha il colore dell'inchiostro la sua solitudine.
La scrittura è affermazione di una debolezza, di una vocazione all'isolamento, di una retorica ormai precipitata nell'oblio. La sua curiosità non lascia nulla di ciò che prende ed i suoi segni altro non sono che i ceri insanguinati della decadenza cui non può sottrarsi. In essa non viviamo, esistiamo, con essa non agiamo ma assistiamo attoniti alla caduta di un paesaggio in cui l'uomo riassume il suo destino infausto, la nostalgia di un tempo per definizione irraggiungibile. La scrittura sotterra il volo delle parole nella cenere del futuro, il corpo armonioso di una domanda in un'altra parola che non risponde.
Se il fine della scrittura appare in sostanza quello di affermare in modo perentorio la validità di sé come strumento indispensabile ad un'esperienza, ad un'esperienza vera[7][7], di cui si vuole trasmettere compiutamente ogni minima traccia, ebbene essa non deve vanificare tale proposito assumendo su di sé i vizi a cui il più delle volte dice di non voler soggiacere. Suo compito deve essere allora quello di sottrarre la parola all'indugio e alla rarefazione del suo significato quando più immotivato diventa l'esercizio di una tecnica, il cui esito non può che renderla incapace di esprimere e di interpretare alcunché. Se ciò non accade ne risulta un'alterazione ancor più compiaciuta e fine a se stessa di quell'atteggiamento esteriore della scrittura, già di per sé inaccettabile, votato alla ripetizione di stilemi il cui pregio è tutto racchiuso nell'esercizio di un'arida, anche se formalmente pregevole, tecnica.
La scrittura come mezzo sembra volerci rassicurare, attraverso una reiterata affermazione di concretezza, circa il puro godimento della parola a partire proprio dai suoi segni visti quali indiscussi depositari di un senso più alto, di una sintesi inalienabile. Ma la parola che la nostra voce modula, quasi fosse un canto primitivo, è di tutt'altra natura. Non è ricercatezza di una forma, pura astrazione o fitto gioco di simmetrie, appagamento, bensì desiderio incessante, fame e non abulia, calore e non glaciale eccedenza di un'anima morta nel disperato tentativo di imitare le movenze invisibili di una danza di suoni infinitamente ricchi di senso e di possibilità. Di questo linguaggio della parola 'cantata', la parola scritta altro non può esserne che l'infelice imitazione, anche del 'dire' così e non altrimenti.
Scrivere vuol dire forse dar forma al pensiero, al suo sentire? Una forma che ne prolunghi nel tempo l'eco? E sia. Ma non prima di averne recuperato i frammenti dispersi, gli attimi; non prima di aver ricomposto in nuova vita la sua funzione evocativa priva di effetti, di inanimati giochi di parole che nulla possono dinanzi all'incertezza, alla passione e alla speranza di cui, malgrado il linguaggio, esso solo è depositario.
v
L'età raduna ogni malinconia, ma anche il pericolo che la chiarezza di piccole verità lasciano intravedere. Da qui l'incertezza che disperde l'ottimismo nei lembi calpestati della grazia e della spontaneità.
Così, ogni lacrima che muore è la goccia dimenticata di un istante in cui la vita, nella sua istintualità, si scioglie per accordarsi al sentimento.
E allora guardiamo sovente il freddo che rovista nelle ferite perché lì è l'imperscrutabile sonno che si offre davanti all'infinita tortura dell'assillo: conoscere che è in un certo senso perire nell'incendio dell'eccesso che incanta.
Come può
dunque l'uomo, in una prospettiva di incertezza,
accorgersi dell'incessante scorrere del tempo, di un tempo che trascrive
la vita sull'esile nota che ne evoca il sentimento e dilegua? Egli
dice: "basterà ricordare e quindi annotare istante dopo istante
i tratti emblematici di un'esperienza". Ma
ci sarà nuovamente quel che la scrittura rende ancor più ascoso, o
sarà forse la fatalità ad istituire una qualche affinità con la parola
che sa farsi cosa e durare nella certezza di un proferimento? Sarà
piuttosto l'onesta ammissione dell'irrapresentabilità
di una vita che non ha ritorno a volgere in canto ciò che è
incessantemente governato da una tragica e fatale necessità: essere
ovunque sia la felicità malgrado l'immutabile
incertezza che ciò sia materialmente possibile. Quel canto,
è la voce del poeta che giunge dai recessi del tempo e il poetare,
sappiamo, altro non è che «un lavoro di
scavo in miniera, perché solo così il "tesoro" del ricordo può essere
estratto» (Weinrich, 1997, 194).
Bibliografia
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