Sulla tela: al di qua e al di là del limite. Riflessioni sull'opera di Paolo Conti
di Leonardo Conti
Il
nuovo non è in ciò che è detto,
ma nell'evento del suo ritorno
Michel Foucault
Nel lavoro di Paolo Conti le opere su tela sono le ultime nate: è dal 1998, all'età di sessant'anni, che l'artista ha affrontato il supporto tradizionale della pittura.
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"Perché è accaduto questo dopo quasi trent'anni di attività?"
"Per caso e per necessità insieme", afferma affondando il suo ceruleo indagatore nel mio deglutito sguardo. Così frullano le due facce della stessa medaglia.
"È stato un lungo viaggio quello dell'arte del XX secolo."
"Viaggio? Viaggio è una bella metafora della letteratura. Omero, Virgilio, Dante, Tasso, Cervantes. Alle volte è di sola andata. Spesso si ritorna. Ma dove? Se partenza ed arrivo sono situati sullo stesso punto, nello stesso luogo, allora il viaggio è spazialmente trascurabile. Eppure qualcosa è già cambiato. È forse il luogo? Il luogo dell'arte? Ciò che cambia è la consapevolezza, l'identità di quel luogo."
"Come? In che senso partenza ed arrivo sono situati nello stesso luogo?"
"Nel senso che è una nostra idea quella dell'evoluzione lineare delle cose. Rispetto alla distanza che c'è tra la Terra e Alpha Centauri, la distanza tra due formiche che si introducono in un formicaio è trascurabile, la distanza tra me e te è trascurabile. Rispetto alla vita dell'universo, il tempo trascorso tra il 1900 ed il 2000 è trascurabile, i miei anni ed i tuoi sono trascurabili. È come se tutto ciò che è accaduto e che continua ad accadere fosse un'unica contemporanea emanazione. Un rumore unito e frammentario insieme, contraddittorio e pauroso finanche. A seconda del modo di guardare quell'unità, essa manifesta ciò che siamo in grado di vedere: questa è la consapevolezza del mondo. Ciò che esce da quella consapevolezza per noi non esiste."
"Ma in che modo si manifesta questa consapevolezza?"
"Presentando le cose e nominandole. Il linguaggio ne è una dimostrazione: non abbiamo più paura di ciò che indichiamo con le nostre parole. Ogni cosa l'abbiamo disattivata con una nostra parola. E così abbiamo creato una distanza tra la parola e la cosa."
"Disattivata? In che senso?"
"L'infinito spettro dei significati che tutto ciò che non conosci può avere, si riduce quando lo nomini. Col nominare qualcosa ti liberi dalla sua angosciante indeterminazione. Disattivi le infinite modalità della sua apparizione, in cambio della tua moneta-parola. Definire è dominare. Poi viene l'associazione delle parole: in virtù di essa inventiamo il mondo".
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La stessa frammentarietà ed unità insieme nelle sue opere, nella sua stessa vita d'artista. Una presentazione possibile al suo lavoro non può che essere composta con l'ossimoro dell'unita frammentarietà. Scultura, pittura, musica, letteratura, scenografia, scienza ed un unico nome: Paolo Conti. Ognuna delle sue opere ha caratteristiche analoghe. Ma guardandole da vicino,
"cosa sono quei profili che si ripetono e si ricompongono in sempre rinnovate configurazioni?"
"Sono rottami".
Ma rottami particolarissimi. A guardarli non ricordano alcun oggetto noto. "Come è possibile che sia divenuto rottame ciò che non ha nella sua apparenza una memoria di ciò che è stato?"
Schwitters, Picasso, Arman e gli altri, hanno, con intenti diversi, assemblato oggetti già usati e consegnati all'oblio, gettati via dall'uomo sociale: si ode ancora echeggiare un lontanissimo sic transit gloria mundi. Perché tutta l'azione dell'uso sulle cose le risolve in relitti. Biglietti del tram, pezzi di legno e un mestolo nel merzbild di Schwitters; fogli di giornale nel papier collé di Picasso; strumenti musicali, pennelli e tubetti nelle accumulazioni di Arman. Gli oggetti di questi artisti, è noto, si affacciano stupiti sul firmamento di un'esistenza ritrovata: nell'arte. Erano stati giudicati ormai inutili dalla civiltà della merce. Ora non sono più usabili: vivono l'arte, la sovversiva (Barthes). Da un altro luogo della consapevolezza sembrano promettere: "Un giorno tutto questo sarà vostro".
Una storia dell'oggetto (del rottame) del Novecento deve essere ancora scritta. Forse è troppo lo spavento per calarsi nell'abisso dell'oblio. Forse perché l'oblio altro non è se non un corpo opaco che si trasforma in specchio. Sembra di sentire una voce lontana:
"Vedi le particelle di quel vuoto avanzare nel prolungato sguardo mattutino? È il tuo sguardo. La storia del rottame del Novecento parla del ruolo che ci siamo destinati". Nell'attualità sociologica siamo nati rottami ed è persino ormai superfluo ed obsoleto spiegare perché.
I rottami di Conti non hanno memoria, perché non hanno mai avuto un uso, un'altra effimera vita. Essi sono ritagli metallici dei pezzi "utili": ciò che resta dopo lo stampaggio, ai margini delle lamiere, come già notava Renato Barilli nel 19721. L'uomo industriale ha da sempre cospirato contro la loro esistenza, riducendone al minimo l'estensione e programmandone lo smaltimento. Figli illegittimi dell'utilità essi sono senza mai essere stati. Quanti sono gli oggetti prodotti dall'uomo completamente ed ineluttabilmente inutili nella contemporaneità? Soltanto questi ritagli, talmente indesiderati e fuori luogo che uno stuolo di ingegneri tenta, senza successo, di progettarne la non nascita. Sono "semi-lavorati" con un valore inferiore alla materia prima. Sono l'eccedenza della quotidianità.
La sintassi alla quale appartengono è quella dei codici esatti e fortemente formalizzati della scienza. Attraverso le costanti di progettazione, realizzazione, ripetibilità e controllo nasce l'industriale "pezzo utile", i cui profili affollano l'universo del noto. Ma l'assenza di quei profili, tolti dal metallo, genera involontariamente altri profili sconosciuti. Sono a migliaia nel grande e fraterno abbraccio delle discariche.
È con la riflessione sul mondo e su se stessa, che l'arte del Novecento ha acquisito la consapevolezza della possibilità per il rottame di cospirare contro la "sudditanza" alla vacua identità.
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Nel 1913 Duchamp ha prelevato un oggetto già fatto dal contesto della quotidianità riconoscibile e lo ha immesso in una nuova rete, quella dei significati dell'arte. Il suo è un gesto limite, spesso giudicato provocatorio2. Sposta cioè l'articità di qualsiasi oggetto dalla considerazione di caratteristiche interne alle circostanze in cui l'oggetto è collocato: l'analisi passa dalle presunte "qualità" intrinseche dell'opera al funzionamento dell'opera stessa nel sistema dell'arte3. Quell'opera diviene una sorta di cartina al tornasole che manifesta la presenza del sistema cui appartiene.
Vi è poi un pensiero che agisce con l'opera, la modifica e che persino giunge ad esautorarne la presenza fisica concentrando tutta la portata artistica su di sé. Il momento di massima esplicitazione di questo atteggiamento auto-riflessivo e metalinguistico dell'arte moderna si realizzerà nelle opere dell'Arte Concettuale, in cui diviene estremo lo scollamento tra il "procedimento mentale" e le "forme specifiche in cui si concretano le diverse pratiche dell'arte"4.
Il gesto di Marcel Duchamp è centrale nel dibattito estetico contemporaneo: l'opera non è soltanto l'oggetto ma è l'oggetto più un pensiero che l'accompagna5. L'artista ha scelto non a caso un orinatoio per la sua opera "Fontana" (del 1917): esso è infatti un oggetto esteticamente "indifferente"6. Come oggetto sociale l'orinatoio assolve ad una funzione strumentale, come oggetto artistico (tramite la presentazione all'interno del mondo arte) diviene l'instabile anello che collega due diversi livelli di consapevolezza. Esso, infatti, sembra oscillare tra due poli d'attrazione magnetica: quello tranquillizzante e consueto che lo vuole "orinatoio" e quello artistico che lo trasforma, non senza inquietudine per chi guarda, in opera d'arte. L'orinatoio, pensato e realizzato per un fine socialmente utile, viene ri-pensato dall'artista e immesso nell'ambito del funzionamento artistico. Indagando ontologicamente sulle ipotetiche "qualità intrinseche" di quell'oggetto, non è possibile giungere ad una conclusione definitiva, se non quella di rimontare l'orinatoio in una toilette e fare finta che "Fontana" di Duchamp non sia mai esistita7. In ambito estetico-analitico è soprattutto Luciano Nanni che, dimostrata l'inutilità d'ogni essenzialismo8, si è interrogato sul perché di simili scomode ambiguità, per giungere a descrivere più in generale il funzionamento del sistema dell'arte. Ma non è questa la sede per riferire sull'argomento. Ciò che mi preme sottolineare è la discrepanza che Duchamp ha creato tra l'identità apparentemente conclamata dell'oggetto scelto e l'identità diversa che esso assume artisticamente. Indipendentemente dalle singole investigazioni sul perché egli abbia scelto alcuni oggetti e non altri, ciò che qui interessa è l'attivazione di consapevolezze diverse a proposito del medesimo oggetto, che non cessa di oscillare concettualmente tra le due. Da Duchamp all'Arte Concettuale, di oggetti considerati come "materiali anomali" ne sono stati introdotti parecchi in pittura e in scultura, ed essi hanno conservato questa bipolarità oscillatoria9. La riconoscibilità, legata alla funzione precedente, persiste e coesiste nell'opera con intenzione10 artistica.
È con Conti che qualcosa surrettiziamente accade. Non qualcosa di nuovo, piuttosto di conclusivo, non definitivo (e come potrebbe?), nel panorama dell'arte che precede, accompagna e perdura. Ciò che l'artista non ha inventato ma ha trovato è, a mio avviso, sintesi e risoluzione ultima degli aspetti sopra descritti dell'arte moderna. Il "suo" rottame non ha, come si è visto, una riconoscibilità precedente, è astorico. La sua esistenza artistica era come in sonno, era un'indicibile voce senza nome: non attendeva altro che di essere scoperta. E la scoperta presuppone un atteggiamento conoscitivo, analitico, da parte di colui che indaga il reale: è dunque il frutto di una condotta vicina alla scienza piuttosto che ad ogni forma d'intuizionismo. Nelle strutture (o agglomerazioni di rottami) di Conti è scomparsa l'oscillazione della consapevolezza, il rottame nomina se stesso ed è, immediatamente nell'arte. Non c'è più distanza tra la parola e la cosa, la parola non decide per la cosa una delle possibili identità, c'è un'unica identità immediata ed inalienabile. In questo risiede la sintesi del mondo dell'arte cui appartiene. Con un parallelo musicale, così come J.S. Bach, Paolo Conti non è un innovatore avanguardista, è il porto cui tendeva chi lo ha preceduto, è colui che sistema, amministra e chiude un mondo. Vediamo ancora perché.
Lucio Fontana può considerarsi, per ciò che riguarda la spazialità bidimensionale dell'arte, un pioniere giunto alle Colonne d'Ercole della pittura: l'estrema sintesi del suo "dipingere", infatti, al di là dell'illusione, si risolve in un segno che è gesto, e quel gesto non dipinge più, bensì buca e taglia il supporto. Con Fontana, la posizione auto-riflessiva della pittura moderna, partita con Cézanne, giunge all'orizzonte, al limite estremo della sua appartenenza. In questo margine ultimo sorge la domanda:
"Che cosa al di là della tela?"
"Una nuova identità del reale."
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Il personaggio pirandelliano Anselmo Paleari, durante una rappresentazione della tragedia di Oreste in un teatro di marionette, espone ad Adriano Meis una serie di considerazioni11: «Se, nel momento culminante, proprio mentre la marionetta che rappresenta Oreste è per vendicare la morte del padre sopra Egisto e la Madre, si facesse uno strappo nel cielo di carta del teatrino, [.] Oreste sentirebbe ancora gli impulsi della vendetta, [.], ma gli occhi, sul punto, gli andrebbero lì, a quello strappo donde ora ogni sorta di mali influssi penetrerebbero sulla scena, e si sentirebbe cader le braccia. Oreste, insomma, diventerebbe Amleto. Tutta la differenza, signor Meis, fra la tragedia antica e la moderna consiste in ciò, creda pure: in un buco nel cielo di carta». Attraverso quello strappo, come ha osservato Salvatore Guglielmino12, il personaggio di Pirandello "ricava la consapevolezza della propria condizione [.]": al di là del cielo di carta c'è il mondo reale. Questa consapevolezza è considerata dallo scrittore come uno stadio di conoscenza fondato sulla riflessione.
Se Pirandello, attraverso lo strappo, connette la finzione artistica con la realtà, crea cioè una metafora della sua idea della condizione umana, lo strappo di Lucio Fontana è totalmente artistico: l'autoanalisi dell'arte si affaccia sull'altro da sé, che non è il mondo ma è ancora arte possibile. Il gesto, per contro, è totalmente reale: non c'è più scarto tra finzione e realtà, ma tra realtà e realtà. Non si tratta di andare oltre, quanto di comprendere diverse dimensioni d'identità. L'avventura dell'identità andrebbe forse approfondito, in altro luogo, come possibile titolo per la vicenda visiva (e non solo) del Novecento.
Un'ampia collazione di frammenti s'accatasta in confusa unità. Cézanne, Pollock, Duchamp, Schwitters, Burri, Fontana e gli altri: si sfiorano? La concezione diacronica della storia può anche contrarsi di fronte ad un'accumulazione di strati sincronici. Tutto può dunque accadere qui ed ora, se questo hic è abbastanza ristretto, se questo nunc è abbastanza vasto. Può anche accadere che al di là della tela di Fontana, al di là dell'arte, ci sia ancora arte. È solo attraverso un atto conoscitivo che il caso, talvolta, concede di scoprire certi luoghi di avventura.
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La formazione culturale di Paolo Conti, improntata sin dalla fine degli anni Sessanta su un desiderio di verifica (e di rottura) nei confronti dei valori della società e dell'arte contemporanea, gli ha fornito le capacità conoscitive per accorgersi del rottame nudo13, quando si è imbattuto in tale oggetto figlio del caso e senza un'identità reale.
"Com'è possibile accorgersi di qualcosa che non ha identità?"
"Soltanto se ci si è interessati alla decostruzione critica della propria".
E Conti, già impegnato nella stesura di un primo libro di narrativa14, sviluppa ecletticamente lo sguardo su se stesso e sul mondo: vede le ricucite armonie di Burri ed il suo sciamanico potere sul fuoco, della materia grande modificatore; legge Borges e Joyce, mentre divertiti, ai bordi della letteratura, giocano la loro partita a scacchi; ascolta con il corpo e con la mente il giovane apparire del suono elettronico post-seriale; studia il fascino dell'astronomia e l'innocente rigore della fisica delle particelle; apprende infine la durezza della materia ed il "sapere delle mani" per blandirla, nelle officine degli amici artigiani Alvisi, Azzaroni e Marani.
Nei dintorni del rottame, l'artista si è inoltrato dunque con il rigore e la curiosità del trentenne "contro". Poi la scoperta vera e propria, nelle colline di scarti ai margini delle officine meccaniche. Per caso, guardando il paesaggio che circonda il sibilo dei volani delle presse ed i boati secchi delle tranciatrici, seguiti dall'ondulato accasciarsi a terra del metallo. Rumori accompagnati da gesti che quotidianamente si ripetono nelle otto ore che rubano la luce del giorno, già nascosto dietro la collina. Forse sono la lapidaria solennità di quei rumori ed il rispetto dell'umanità di quei gesti che hanno portato la mano di Paolo Conti a posarsi, per la prima volta, sulla multiforme collina. Per caso e per necessità.
Credo sia così che ha incominciato a costruire, con gli inediti pezzi di realtà, agglomerati e strutture cui ha dato il nome di sculture e frammenti. Per brevi accenni ci si riferirà qui a tali opere: soltanto per ciò che da vicino concerne la domanda da cui muove questo breve scritto: "perché la tela?".
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Ancora la tela. La tela è il mezzo per collegare, dialetticamente, il nuovo "paesaggio" di realtà con il colore, con la pittura. Tramite il ritorno al supporto tradizionale dell'arte, viene collocato il rottame nella storia, e precisamente nella storia dell'arte. Riappare inopinatamente la rappresentazione, ma la rappresentazione di qualcosa che vive l'illusione per la prima volta. Avendo osservato, infatti, alcune delle strutture15 di Conti (sia ambientali che da parete), si percepisce la propensione all'illimitatezza: le colonne, i cubi, le piramidi, i cerchi, i frammenti, in cui sono assemblati i rottami delle sue "sculture", sembrano autoalimentati da un propellente che ne guida l'organizzazione interna. Ogni opera è come un frammento di una possibile opera più grande. È una maglia della più ampia rete cui appartiene, di cui non possiamo che percepire, bloccare una parte, anelando a ciò cui è collegato e che già tende altrove. Ma queste non sono che congetture di fronte ad una sostanziale opacità16 e resistenza all'interpretazione. Se l'analisi è possibile, e sorprendente, da un punto di vista della costituzione strutturale delle singole opere, se è cioè possibile calcolare le corrispondenze matematiche di ogni singolarità o gruppo di rottami e l'equilibrio e le dinamiche complessive dell'opera, sfugge in quell'analisi ogni rimando a referenze estetiche riconoscibili. Quell'analisi diviene un'attività scientifica di osservazione del fenomeno, unico metodo di approccio consentito. Se si pensasse di accedere ad illuminazione estetica, attraverso una qualche introduzione o spiegazione di queste opere (credenza fin troppo radicata nella generale fruizione dell'arte contemporanea), vi sarebbe un enorme abbaglio. Continueremo ad incantarci, forse a commuoverci, di fronte al rosso torpore di un tramonto, nonostante ed indipendentemente dalle nostre nozioni fisiche dei fenomeni atmosferici. In queste opere il tramonto è per la prima volta, anzi è un'alba.
La predisposizione all'indeterminata progressione combinatoria di queste strutture, Conti giunge a realizzarla nel recupero dello spazio illusorio della pittura. Si badi che l'illusione riguarda soltanto la collocazione spaziale, poiché i rottami non sono rappresentati bensì giacciono come impronte lasciate nel colore. L'artista infatti se ne serve come di maschere17 (di negativi), che, trattenendo sulla nudità metallica l'eccedente (lo scarto!) del colore a spruzzo, concedono alla tela ed ai bagliori degli smalti la loro presenza. Lo spazio della pittura ritorna luogo della finzione, quel luogo immaginario in cui calare per intero il mondo dei rottami. Se la pittura spazialista veneziana, da Guidi, a Bacci, a Morandis, a Vianello, a Finzi per citare solo qualcuno, non ha fatto altro che conquistare e svelare spazi in cui calare nuove domande ed impreviste affermazioni, Conti si serve di alcuni di quegli spazi, in cui le sue siderali architetture18 realizzano prospetticamente la loro infinitezza.
I rottami, d'altra parte, utilizzati fisicamente per le impronte, hanno strappato alla tela parte della pittura: quella parte (lo scarto) di colore (di finzione) rimasto sulla loro superficie quando l'artista ha tolto le maschere. La finzione ritorna reale sotto forma d'incrostazioni e stratificazioni di colore, che i rottami poi esibiranno dall'interno delle scatole di grezzo legno, cui sono avvinte nelle ultime opere di Conti. È uno strano potere di attraversamento quello di questi oggetti, capaci di traghettare la realtà nella finzione e la finzione nella realtà.
La domanda che ora s'impone è se non si tratti di un traghettamento da finzione a finzione o, che è lo stesso, da realtà a realtà. La risposta coincide forse con una nuova domanda e il domandare appartiene al dominio della conoscenza, una pratica che ogni giorno ricomincia.