Amore e morte ne «La iena di San Giorgio»
Sulla «sceneggiatura 2 (9.2-21.4 2006)» di Arnaldo Picchi
di Giovanni Infelíse
Come il 'santo' non possiamo certo che 'astenerci' dalla tentazione di puntare dritto al nocciolo del busillis che guida sotterraneamente, nella visionaria prospettiva drammaturgica di Picchi e forse nell'origine stessa della Iena, questa sceneggiatura, questa «traccia drammatica» - come preferisce definirla lo stesso regista - che non rinuncia ad essere comica e tragica, irreprensibilmente ancorata ad un'idea di impenetrabilità, di incomprensibilità, di incompiutezza, di omertà propria della vicenda umana e disumana dei protagonisti. E' fin troppo chiaro che qui, tra queste 'scene', s'aggira lo spettro di un 'male' nascosto che insegue, uccide, si 'sazia' e sazia i più lurchi: l'arcano di cui non si deve parlare. E il turbamento è tale che si avverte immediata l'esigenza di un 'fioretto', di un digiuno, di un'astinenza, di una 'dieta' appunto che riscatti il nostro senso di umanità, di povertà, di giustizia di fronte al dolore e a tanta crudeltà, che trasformi questa delirante antropofagia gastronomica per questa siffatta 'pietanza' appetita anche per ghiottoneria, in un pentimento sincero, in un rinnovato senso della vita, dell'amore, della morte.
Come possiamo, allora, con la prosopopea dell'oracolo, occuparci di questo spettacolo, di questo 'segreto' che aleggia, senza rimarcare l'identità ch'esso umilmente deve al suo regista? Un vento freddo attanaglia i pensieri che sappiamo qui corrono sulla meraviglia, sulla curiosità, sulla paura di sapere e non poter dire, sul dubbio che colpisce e fa vacillare questa 'omertà', questa costipazione che provoca crampi e fa trattenere l''aria' per non sentirsi a disagio, fuori luogo o, peggio, indesiderati, infine, tramortiti dalle risate.
Il teatro, questo teatro del mistero redivivo pronto a rivelarsi mai però mostrando il suo côté oscuro che tale resta a dispetto di qualsivoglia lieto fine, è qui sovente la trasfigurazione stessa della vita: è un tableau in cui ognuno può rinvenire con sorpresa la sua maschera, il suo carattere, il suo niente o il suo orizzonte esistenziale fatto di umorismo e di desolazione, di solitudine, di amore e morte. Insomma, in questo arcipelago di uomini e cose, di fatti e misfatti un dato è certo: chi pratica l'omicidio testimonia sempre la «presenza del male come un mistero»[1]. Del teatro di Picchi, e di questo allestimento in particolare, si può parlare solo tacendo l'illusorio ricorso ad una conchiusa spiegazione degli avvenimenti che nulla rivelano né tramandano se ingenuamente li si ritiene svelati o svelantesi di per se stessi; solo frantumando la verbosità un po' eccentrica, l'eccedenza della parola e del pensiero erudito forte e fragile al contempo, brillante quanto inutile.
E tuttavia se un «commento» si deve fare - perché questo suggerisce in toni epigrafici la frase posta in esergo dal 'redattore' di questa sceneggiatura - , «per ogni aggettivo sorprendente che compare in un testo», ebbene è necessario allora affidarsi, per analogia, ad una progressiva interrogazione che tragga dal midrash ebraico (da una radice che significa «investigare»; pl. midrashim) non un metodo, perché di questo non si tratta, ma una conoscenza che proceda per accumulazione, chiarimento, arricchimento, riduzione a fraseggio delle componenti che sono proprie del (intrinseche al) testo prescelto. Ciò nasce da una fondamentale convinzione del regista che ogni testo porti con sé più di un senso, ragion per cui della stessa opera sono possibili diverse spiegazioni e modalità di interrogazione ognuna delle quale può essere, al pari con le altre, esatta quanto efficace. In tale modo viene negata esclusività o qualsiasi pretesa di unicità ad un'operazione drammaturgica che prosperi a discapito di un'altra. La piena comprensione del termine ebraico[2] in questione, è pertanto di fondamentale importanza per una complessiva intelligibilità dei criteri adottati da Picchi nel suo allestimento che non toccano esclusivamente la sceneggiatura, il testo scritto in sé (anche se le particolarità di uno stile, di un modo di scrivere, dei singoli lemmi devono essere posti al servizio della più esatta interpretazione), ma lo spettacolo nel suo complesso.
E' un passaggio, questo, molto delicato che ci aiuta a capire ad esempio le sostanziali differenze, l''aristocratica' distanza di una visione del teatro, quella di Picchi, eternamente a margine dell'ufficialità più 'visibile' ma meno dirompente sul piano della resa scenica degli elementi testuali. Questa versione de La iena di San Giorgio si inscrive a pieno titolo tra quelle già esistenti - le più conosciute quelle di Luigi Forti intitolata Biagio Carnico o La riva di Biasio a San Geremia pubblicata nel 1850 che, come vedremo, costituisce un caso a sé per le varianti che introduce ad un fatto di cronaca realmente accaduto e sulla cui base si costruirà nel tempo la versione della Iena che conosciamo attraverso le versioni date da Giacomo Canardi, Gualberto Niemen, Guido Ceronetti - [3], con prerogative sue proprie, almeno per ciò che concerne il versante propriamente registico, poiché si pone costantemente la domanda su quali siano le ragioni di una scelta, peraltro anticipata sulla scena il 28 giugno 2006 presso il laboratorio di regia del DAMS di Bologna[4], che vede contrapposti e al tempo stesso in una sincronia perfetta l'attore e la «bambola» simulacro, traccia, residuo inconsistente di una realtà alla quale non corrisponde né risponde, a cui l'operatore si affida e alla quale soggiace senza alcuna preterizione o prevaricazione di sorta.
La 'mano' dell'operatore/bambolottaio/attore risulta così da un lato il prolungamento, l'estensione di un mondo che deve restare inanimato e tuttavia segnare «l'opposizione [.] tra la vitalità quasi infantile degli uomini che le costruiscono e la demonicità maligna delle bambole, che tendono invece a portare tutto, testardamente, in una storia di sangue e di paura»[5]; dall'altro la contrazione dello stesso che deve mantenersi oscuro e ìlare insieme, inespressivo e pirotecnico a vantaggio di una metamorfosi dell'anima ridotta e ricostruita da 'brandelli' che fanno viva la maschera (la bambola, le «bambole, beninteso, fatte con materiali recuperati da un immondezzaio»[6]) che si ricostituisce in un corpo visibile, risorto da potenti e inermi rifiuti attinti dalla 'discarica dei vivi'. Quei vivi votati, in una visione tutta dostoevskijana, al male e alla scoperta dell'insensatezza della vita e della sua inutilità, ma anche della menzogna e dell'ipocrisia, rifiuti dai quali, tuttavia, è impossibile disfarsi e che anzi esercitano un fascino atro dal quale è vano sottrarsi: «l'umanità è una malattia della terra»[7]. L'istante, la ferita che non divarica ma unisce l'operatore alla bambola, potrebbe essere pensato anche come un interstizio entro cui sibila, in un alito di concretezza, la vita, un intervallo da pensare come «[.] evento concreto e soffio d'aria piuttosto che come struttura astratta e spazio vuoto», che corrisponda alla necessità di «[.] mettere in movimento ciò che le nostre abitudini intellettuali vogliono tanto spesso mettere a riposo, sospendere»[8].
Così, ad esempio, Giorgio Orsolano il macellaio, la iena [dal lat. hyaena, gr. (femm. di uV«maiale»)], resta oltre la sua semplicità apparente e la sua fin troppo sbrigativa qualifica di 'assassino', di personaggio «assurdo», la figura più enigmatica, certamente «tragica» dunque complessa, che da sola varrebbe la pena di indagare giacché - a nostro avviso - di «mito» propriamente non si tratta[9] e che quindi anch'egli è passibile di castigo, di comparire di fronte alla giustizia degli uomini (anche se, «quando l'immaginazione dorme, le parole si vuotano di senso: un popolo sordo registra distrattamente la condanna di un uomo»[10]), esposto alla sofferenza e per ciò stesso anche alla com-passione. Del resto è nella natura stessa della leggenda, alla cui invenzione concorrono nel tempo più di un autore, sviluppare in sé elementi di un fatto realmente accaduto[11]. Ridurre a «mito» il 'personaggio' significherebbe in un certo senso annullare quella parte di verità che gli è propria e che costituisce la ragione stessa di una costante ricerca, che è anche speranza di poterla, forse, cogliere tra le pieghe nascoste della narrazione. Significherebbe rinunciare alla possibilità che la leggenda in quanto tale ha di tradurre fantasticamente ciò che gli uomini vogliono scoprire in un'accanita volontà di sapere: la causa 'remota' dei fatti, di certi atti umani. Atti che solo l'immaginazione può aiutare a chiarire, a svelare e a restituire in tutta la loro innocente paradossalità nella voce di un uomo che 'reclama' per sé il diritto di vivere, magari su di un'isoletta a godersi il paesaggio e la bella vita dopo tanto 'duro lavoro'. La necessità di conoscere è parte del gioco, ecco perché non basta strombazzare la bizzarria delle miserie umane ma, come nel caso del salumiere, tentare quantomeno di cogliere gli aspetti umoristici, grotteschi, allusivi, parodici, evocativi di un uomo tragicamente solo: è la solitudine della sua miseria: «ora per tollerare il vero senza soffrirne, dovrei avere il cuore arido. Sono invece afflitto da un cuore tenero. Io amo molto di più di quanto non sia amato»[12].
Ci troviamo, ed è quanto si evince fin dalle prime battute della sceneggiatura di Picchi, in un universo composito, per nulla 'affabile' giacché non recepisce e parla un linguaggio per nulla cordiale quasi a voler ribadire una distanza, una forma di rispetto che si deve all'origine stessa di una storia frutto dell'aggregazione di più universi in sé forti e drammatici. Uno spazio «unico» e «multiplo»: ridotto quello scenico, infinito quello delle potenzialità espressive. Il potere evocativo delle maschere sulla scena, la loro capacità di svelare «[.] in quale estrema misura il meraviglioso bisogno di fantasticare è radicato nell'uomo»[13], fa sì che lo spazio «unico» e «multiplo» che ospita l'azione ne contempli uno «segreto» che a sua volta li contenga tutti: San Giorgio Canavese. Il rovescio, il lato nascosto di questo, e un «sottopalco» che, nelle intenzioni del regista, è «quello che per Forti e per Niemen era la cantina, la tana del macellaio, il mattatotio-laboratoio».
Caratteristica tutta picchiana sono le «Storie» intercalate al testo e contrassegnate nella sceneggiatura con le lettere a-l. Esse costituiscono una sorta di eserciziario per gli attori, utile al loro addestramento, e pertanto tali devono restare: le indicazioni fornite in esse, in veste di racconti paralleli di 'ingiustificabili' scelte, «in alcun modo devono entrare nell'allestimento»[14]. Sulla base di che cosa, allora, si innestano trasversalmente al testo di Niemen queste «Storie», le loro singole tematiche? E che cosa aggiungono o sottraggono al clima della cronaca dei fatti? A che cosa rimandano? Da quale esigenza sorgono? Che andamento seguono? Come le controlla l'attore dal punto di vista emotivo? Sono alcuni degli interrogativi del busillis di cui sopra.
Fatta salva la porta d'ingresso allo spettacolo, fornita dall'incipit che riguarda la storia della tota Rosetta «bambola del macellaio» Giorgio Orsolano[15] e del suo incontro con questi - si tratta di un rendez-vous appassionato sotto la pioggia, ballano, si stringono, fanno l'amore, poi lui la spinge contro il muro e l'accoltella: il corpo cade nella «botola» e lui dietro pronto a. macellare -, in una successione scandita da un metronomo ideale apprendiamo le «Storie». Fanno da sfondo alle singole narrazioni una sottesa sequela di elementi (indizi) in apparenza estranei o quantomeno secondari, ma che hanno invece un risvolto quasi didascalico all'interno delle singole scene e pertanto determinanti. Indizi a tratti ben visibili negli effetti prodotti, in altri quasi 'scientificamente' mimetizzati o posati sulla musica, nelle movenze plastiche e ben ritmate della danza, trascritti sulle ombre o taciuti:
a) Testafina è assimilato all'angelo Marut (mentre il suo angelo gemello Harut è Gianduja) (v. «Storia degli angeli Harut e Marut») - sfondo: il segreto (o mistero), la bellezza, la seduzione, l'amore, l'ebbrezza, la colpa, l'esilio - ; b) Il Capitano Carletto ha un naso d'argento che evoca quello dell'astronomo danese Tycho Brahe (Ticone) (v. «Storia del naso di Tycho») - sfondo: dono, conoscenza, duello, amicizia, ferita, minaccia, riguardo, ospitalità - ; c) ingresso sulla scena della nonnetta Carlotta (la parca Atropo?) e del suo cavallo (v. «Storia del cavaliere pallido») - sfondo: l'immondezzaio, il cavallo di legno, la danza, la morte, l'Ade - ; d) Colombina è la donna di Gianduja (dunque di Harut) (v. «Storia della Stella del Mattino trasformata in Colombina») - sfondo: la fidanzata, la moglie, la massaia, l'inganno, il segreto, la bellezza, il fascino, l'amore, l'accoppiamento, la danza, il busto femminile da sarta - ; e) la scena viene attraversata da una donna che reca con sé un fagottino, un bambino morto (v. «Storia del bambino morto») - sfondo: la danza del bambino morto, la danza del bambino rubato, la fame, le anime degli uccisi, la magia, l'aria, l'acqua, il sangue, la carne, il fanciullo, il ritratto, l'inferno -; f) Giorgio Orsolano: «la iena sono io! e non mi scopriranno giammai!» (v. «Storia dell'inferno») - sfondo: le uccisioni, la macellazione, i maiali, le ragazze, i salami, le salsicce, la coscienza umana, l'inferno di Dante, l'Italia litigiosa, le pene amorose, le offese, gli usurai -; g) Testafina, lo storpio, si trascina, si alza, si drizza: diviene un magnifico uomo (v. «Storia dell'angelo storpio» che riprende il suo aspetto celeste) - sfondo: il nano, la zanna, l'occhio, il mare azzurro, i piedi, lo sputo, il clown sciancato, la testa di corvo, il volo, l'armatura d'acciaio, la luna, gli occhi vuoti e neri, il viso bianco e freddo, il demone-assassino -; h) Sulle stesse corde, delle due precedenti, un'altra storia (v. «Descensus Christi») - sfondo: l'inferno, la disperazione, le porte di bronzo, i morti, il Re della gloria, l'uomo, le tenebre illuminate, l'inferno scosso, le porte della morte, Satana, i ceppi -; i) Testafina: «tutti a salvare le donne»; «Giorgio viene avanti coltello alla mano contro Gianduja [.]. Gianduja dà a Giorgio un colpo solo e lo abbatte» (v. «Foto da Budapest 1956») - sfondo: gli spettatori immobili, il lampione, la piazza vuota, l'uomo spara fucilate, il nemico fuori scena, la donna, l'altra arma -; k) (sic!) Testafina: «Sono veramente contento che finalmente la iena maledetta l'abbiamo pescata!» (v. «Storia della città in cui non si arrivò a nascondersi») - sfondo: i ponti di marmo, Venezia, le tre cose da temere: i gradini, i preti, le puttane; il mare, le gambe, l'isola di Rialto, la casa di legno, i padroni, il servo, i mendicanti, l'anziano, il pianto, l'antico padrone -; l) Sindaco: «Ora si esca tutti da questo orribile macello. Farò mettere i sigilli alle porte fino all'arrivo delle autorità competenti del Tribunale. Mi metterò d'accordo anche con le autorità religiose per fare un funerale unico a tutte le povere vittime solennemente grande! con i fiori più belli. E infine una bella festa ai cacciatori volontari della iena più valorosi che sono: Gianduja, Testafina e nonna Carlotta la più coraggiosa alla sua tarda età». Carlotta ride. (v. «Storia delle grida della strega di En-dor») - sfondo: il re atterrito, l'esercito nemico, Dio, i profeti, la negromante, la vecchia, l'evocazione dei morti, il trucco, il travestimento, l'avvenire, lo spettro, la colpa, l'inganno, l'essere divino, il vecchio, il mantello, la notte -.
Un orizzonte teorico e tematico - molti sono infatti gli inserti che ribadiscono le costanti che vanno mantenute vive alla coscienza dell'attore - fa da contrappunto alla natura stessa delle «Storie», al loro pur contemplato rischio di scivolamento verso forme di maniera che vengono evitate e tenute fuori dall'edificio scenico proprio grazie a questo continuo ripescaggio dei criteri e delle scelte contenutistiche adottate oltre che, si intende, ad un certo numero di prescrizioni per l'attore che si trova perennemente in bilico tra il finire con l'essere un comune 'mestierante' o resistere e rimanere ciò per cui e stato 'assoldato': l'ombra vigile, l'intransigente doppio della sua bambola 'crudele'.
Questo orizzonte costituisce, forse, lo sguardo più intimo del regista sulla storia nel suo insieme. Così, ad esempio, il rapporto intenso tra l'operatore e la bambola è sottolineato dallo sforzo con cui l'attore muove la sua creatura, colei che custodisce con forza il mistero che avvolge il non detto della storia. Le basta un impercettibile gesto, imprevisto e scaltro, per riuscire quasi ad annullare lo sforzo con cui l'attore la contiene entro i limiti prescritti delle finte e delle stoccate. Ascolta il proprio corpo e quello dell'avversario (attore) e vi legge l'anima. E quando il movimento non è sincrono essa neppure si muove. In che cosa consiste allora questa sua capacità di padroneggiare il mistero? Da che cosa le deriva questa sicurezza? Forse dal non possedere una coscienza e la parola. Tutto ciò che le serve è gia nella fisicità, nella vaghezza, ciò è quanto basta all'una e all'altro (bambola e attore) per congiungersi.
Nel rapporto tra i due, almeno nella prospettiva registica di Picchi, crediamo risieda l'unico enigma possibile, quello che scorgiamo tra amore e morte, tra un corpo senza vita e quello di una vita che rinuncia al suo corpo, al futuro della sua anima, che è «[.] il cammino dell'anima del danzatore»[16], e ne fa dono animando l'inanimato. E' la muda buia e fredda della ragione che unisce ciò che l'allegria vorrebbe dissipato in un alito, nell'atto drammatico della danza infinita tra bambola e attore, tra amore e morte, tra diavolo e santo. Una condanna per l'attore, certo, ma di cui egli si è fatto carico e di cui va fiero. Questo crediamo sia il lato meno formalizzato e più romantico attraverso cui osservare l'esuberanza quasi fanciullesca dell'operatore e della bambola. L'uno e l'altra si sostengono 'afferrandosi per mano', che appare più che un arto del corpo, il 'manufatto', l''arnese' che lega così indissolubilmente entrambi alla vita e alla morte, che si tende sulle corde dell'odio e dell'amore.
La mano è l'altro da sé, dunque, potenzialmente chiunque. Ciò può significare che all'interno di questo «spazio-paesino» agghindato a festa (ma in modo piuttosto squallido) per la fiera, tutto può accadere. Finanche in-trattenersi con l'assassino, con il proprio amore (v. Rosetta e Giorgio), col suo fantasma, con la paura, con la propria anima che mal consiglia e che per ciò può apparire 'infida', 'perfida', la forza edificatrice stessa del male. Ma l'uno è legato all'altra (operatore e bambola), la mano che si ingegna e l'intelletto che si sottrae, che si perde, che dimentica anche e irrompe su tutto con la follia di chi sa la vita persa, smarrita nell'inutile ma al tempo stesso insopprimibile gioco delle passioni, del desiderio e della solitudine disumanizzante.
La fiera di San Giorgio è la metafora vivente e tragica di un luogo, di un 'qualsiasi' luogo, dove la vita e la morte, l'amore e il disprezzo danzano insieme, si affrontano e dove ognuno lotta, vive e perisce sotto i colpi incalzanti di un ritmo che segna il passaggio del corpo dell'uno in quello dell'altro attraverso quella mano, attraverso quell'anima e. così sia.