LA RÈGIA SPELONCA DELLE ANIME CARE
Felicità e morte dell'ultimo Plantageneto nel teatro di A. Picchi
di Giovanni Infelíse
Felix
qui potuit rerum cognoscere causas
(Virgilio, Georgiche, II 490)
Ciò che rende incomprensibile la "devozione" al re nella règia spelonca di traditori e ladri, di quelle anime care dai contorni funesti, non è un fatto d'ordine eminentemente umano, o meglio, legato allo stereotipo degli atti umani, né tanto meno a quello altrettanto vieto della pietrificazione mistica delle anime, ma d'ordine interpretativo. Si tratta, nel caso specifico, di una tragedia dai molti lati oscuri cioè non compiutamente definibili, sia dal punto di vista delle intenzioni - mai del tutto comprovate, esplicitate e rese pienamente visibili - dei personaggi , sia da quello più propriamente letterario (della narrazione). Tutto accade secondo una modalità di vero e falso in una forma quasi di accidentalità che crea ambiguità e dubbio nel succedersi temporale e spaziale degli eventi che però costituiscono un inspiegabilmente e straordinariamente in sé coerente, ma difficilmente contenibile e restituibile sul piano propriamente drammaturgico-registico. Sembra vi sia al fondo del Riccardo II[1] di Shakespeare una precisa volontà del tragedo inglese di rendere l'opera inespugnabile, priva cioè di un significato portante che vada al di là di una 'lettura canonica'. E nondimeno ci apre al destino del protagonista in cui è possibile scorgere motivi di una lotta tra opposti che lo fanno apparire forte e rassegnato, severo e mite, lirico e a tratti volgare, grottesco e ironico insieme, in un appassionato confronto col mondo reale intriso di passioni eppure non interamente decifrabile da un punto di vista propriamente logico e narrativo. Si potrebbe forse dire che alcuni "[.] elementi testuali sembrano proporsi, nella strategia implicita di Shakespeare, come 'resistenze' a certe opzioni interpretative"[2]. Un destino, quello di Riccardo, crudele e feroce che l'uomo inutilmente tenta di guidare. Certo è che di devozione si tratta. Tuttavia, una devozione che, stando ai fatti - cioè alla condotta di Riccardo -, risulta quanto meno non dovuta, contraddittoria e, dunque, falsa nelle premesse, ma che nonostante ciò ha motivi precisi per sussistere giacché si presenta come naturale e prescritta, indiscutibile, che certamente scaturisce e si modella sulla base di un vuoto a volte inaccessibile reso visibile solo da un'insopportabile prevedibilità dei personaggi ("ribelli") che la identificano nella formula alquanto frusta di un potere umano divinizzato a cui comunque è affidato il proprio e l'altrui destino. Il re incarna "l'Unto del Signore", egli è sacro e qualsivoglia ribellione contro la sua persona è da ritenersi un atto sacrilego oltre che un tradimento. Così "[.] quando Riccardo, in particolare durante la scena dell'abdicazione, opera tutti quei paralleli fra il proprio supplizio e quello di Cristo, non intende paragonarsi direttamente a quest'ultimo, bensì affermare semplicemente il ripetersi del rifiuto da parte del mondo nei confronti dell'Unto del Signore"[3]. Difatti il re è colui il quale racchiude in sé, in un'unione perfetta, due corpi, quello politico e quello naturale: è la doppia natura del re e perfino dell'uomo in quanto tale secondo i più personali convincimenti di Shakespeare. La scena dei ribelli che pregano (III, 2c)[4] appare in tal senso esplicativa: "[.]questi uomini chiedono una purificazione preventiva per i misfatti che si preparono a compiere"[5]. Qui, davanti all'icona dell'Odighitria[6] - di colei che guida, che sintetizza la regalità e la sacralità di Riccardo -, viene sancito l'ingresso al potere, ad uno status cioè che prevede l'affermazione attraverso il sovvertimento tout court, attraverso l'usurpazione, attraverso il soddisfacimento di un desiderio che non può non avvenire mediante il ricongiungimento 'carnale' e sacrificale con la figura del re medesimo. Desiderio, il cui atto finale è la soppressione cruenta non di ciò che il re incarna, ma di ciò che Riccardo è. Qui risiede la contraddizione che fa vacillare il senso di 'devozione' poiché con l'usurpazione e la soppressione del re decade il precetto di cui sopra che lo vuole intoccabile. Requisito che dovrebbe per ciò stesso garantirne l'incolumità. Il tradimento, anche morale, tocca il suo apice attraverso la violenza sessuale (lo "stupro") perpetrata ai danni della regina, figura esemplare, muto archetipo della purezza e della vulnerabilità che diventa così oggetto di espiazione per tutti, ma anche antitesi dell'impulso sessuale maschile al culmine della sua violenza, definito da Shakespeare, nel sonetto CXXIX, "crudele": "Sciupìo di spirito in vergognoso spreco | È l'atto di lussuria, e sino all'atto, la lussuria | È spergiura, assassina, barbara, traditrice, | Selvaggia, estrema, bruta, crudele, senza fede [.]"[7].
Nel Riccardo II (qui nel "passaggio" di Picchi) non mancano certo gli spunti per congetture infinite e, tuttavia, crediamo si possa convenire su di una cosa, sugli intimi tormenti estetici che in generale le opere tragiche del grande drammaturgo di Stratford-on-Avon sanno regalare.
Ed è proprio sulla tragedia e sulla sua equivalenza con la vita che bisogna interrogarsi. Su come l'insipienza, a volte, del personaggio tragico, che è anche la sua rozzezza, finisce paradossalmente per introdurre nell'azione drammatica una circolarità virtuosa di elementi fortemente lirici. Questo è tanto più visibile nella messa in scena di Picchi dove la consapevolezza di una coerente lettura del racconto shakespeariano non può prescindere dall'intrinseca consequenzialità degli elementi dell'azione, ma al tempo stesso tale consequenzialità non implica, né d'altronde giustifica, necessariamente l'adesione - per Picchi insopportabile - ad un esito che debba essere sempre uguale a se stesso o che spinga a "[.] risolvere un problema scenico ricorrendo a una giustificazione teorica"[8]. In tal senso appare pienamente comprensibile il fatto che in questo teatro il compimento tragico sia aperto, in modo palese o da ricercare tra le righe, ad una soluzione che non escluda aprioristicamente né l'infelicità né la felicità e questo perché la tragedia è mimesi della vita e, quindi, suscettibile di risolversi tanto nell'una quanto nell'altra. La liricità del testo, la sua poeticità, in altri termini consente a Picchi di istituire, all'interno di una rielaborata partitura scenica, connessioni, interrogativi, evocazioni, chiarimenti, in un ordine che dà origine ad una continuità e ad una coerenza esemplari dell'azione, che sa cogliere nell'orribile immagine dell'agonia e della morte di un re l'ineluttabile destino degli uomini dinanzi al potere e all'iniquità, all'orgoglio e alla vanità, dinanzi al tradimento e alla violenza che questo reca con sé: è lo sfondo, per così dire, sociale che perdura nel teatro di Picchi raramente individuato dalla critica e che ne costituisce il lato in ombra, discreto, ma deciso e che nutre una ricerca drammaturgica fatta di inserimenti, sovrapposizioni, sospensioni, eliminazione del superfluo, infine, di interpolazioni nella catena sintagmatica degli eventi. Interpolazioni che, come negli adattamenti neoclassici, molto spesso avvengono "[.] con un unico scopo: il rispetto della unità di tempo e di spazio, che porta a concentrare insieme le scene lontane ma successive temporalmente o collegate dal fatto di avvenire nello stesso luogo. Il più delle volte la trasformazione è semplicemente sintattica o sintagmatica, ma non paradigmatica, cioè il senso non cambia, e lo stesso risultato, sul piano del rispetto delle unità aristoteliche, è raggiunto uniformando tempo e spazio più che sia possibile, facendo fluire una scena dopo l'altra, anche nello stesso ordine del testo primo, senza indicare cambiamenti di luogo"[9]. In realtà questa funzione di coesione tra componenti testuali, nella messa in scena di Picchi, viene recuperata e rafforzata su due piani tra loro distinti, ma complementari: attraverso la proiezione di "cartelli" e un'attenta e meticolosa strutturazione della "colonna sonora". La musica in particolare assolve ad un ruolo fondamentale, essa "[.] avvolge i corpi. Le voci degli attori galleggiano sulla musica e la musica le sorregge. Sono vite che si incontrano. Non c'è sopraffazione, ma solo canto, gesti in comune e tempo che scorre. Nelle intercapedini del tempo dell'uomo entra la musica e offre definitività ai suoi gesti. Dove le parole non arrivano resta la certezza del corpo presente"[10]. Un teatro, insomma, che anche quando attinge alla grande tradizione sa restituire semanticità al linguaggio con l'inserzione di significati ulteriori in una forma più cruda e perciò stesso più familiare, più vicina alla realtà, un linguaggio che, viceversa, negli allestimenti 'ufficiali' perdura nel suo declino. Eppure sappiamo come per Shakespeare esso costituisse il fondamento stesso della sua arte. Egli percepiva che solo attraverso le variabili espressive del linguaggio "[.] le risate gioiose di qualcuno potevano essere trasformate con naturalezza, quasi senza fatica, nelle lacrime di qualcun altro"[11]. A tal punto che "il drammaturgo avvertiva l'impulso irresistibile di coniare nuove parole [.]"[12]. Sulla scena, quindi, è sempre presente lo spettro della vita, della memoria, di amore e amicizia, di odio e sospetto, di menzogna e fedeltà, "[.] di parenti morti che continuano a restare nella testa del re"[13]; una scena dove "[.] i destini sono tutti nello stesso braciere"[14], invischiati in situazioni e sentimenti che l'uomo il più delle volte non sceglie, ma di cui conosce gli effetti e dai quali, è ben consapevole, dipenderà il modo con cui saprà risollevarsi o sprofondare definitivamente. E tutto ciò indipendentemente dal presupposto di partenza che l'opera in sé giustamente riafferma e rivendica come paradigma più che legittimo del suo autore. Ma non v'è alcuna rimozione, solo la necessità di affermare la propria autonomia di fronte al pericolo di una lettura che tenga pedissequamente conto del fatto che nella tragedia si dànno situazioni in cui molto semplicisticamente ad un'azione ne segue un'altra senza che vi sia un nesso di causalità, ma solo di opportunità. La mimesi drammatica nel teatro di Picchi compie un'operazione fortemente selettiva il cui intento è quello di individuare, eliminandone le "suture" - in funzione di una esigenza drammaturgico-registica -, quei momenti o aspetti della tragedia shakespeariana esemplari a tal punto da poter riassumere da sole il senso dello svolgersi degli eventi della vita sulla scena. "Per me - afferma Picchi - una regia, alla fine, è una serie di considerazioni sulla risposta che il testo in lavorazione offre a problemi che pur sempre ci riguardano"[15]. Se si potesse, allora, solo provvisoriamente o solo per amitié, definire il teatro di Picchi, non solo la sua scrittura, ma in generale i suoi allestimenti, si potrebbe dire che ci si trova ogni volta di fronte ad una particolarità: non è l'insieme delle situazioni a dare il senso fondamentale dello spettacolo, ma quell'unica scena che improvvisamente disvela l'insieme. È come dire: non sono le battaglie a stabilire l'esito della guerra, ma il clangore delle spade di un duello che si svolge lontano, in una radura battuta dal vento, duello che le riassume e condensa tutte e che decide le sorti di un regno in un unico gesto che, ad esempio, nel Ric2felix è rappresentato dalla scena dell'abdicazione (IV, 1; IV, 2)[16]. Ma per comprendere ciò è necessario accettare prima l'idea che a Riccardo "[.] è concesso di capire dall'interno della recita del re i compiti che gli sono stati revocati. Ed è capace di cogliere la situazione con una lucidità che il panico fa vacillare solo per un momento; anzi, la sua è una lucidità addirittura felice, perché la sua mente è sveglia e la parte che all'ultimo momento lui stesso - da sé - si attribuisce è un compito assoluto"[17]. Ciò può essere elevato a valore privato e spiegare, forse, l'appellativo felix che assume quasi una rilevanza epigrafica per sottolineare poeticamente che è "felice chi poté conoscere la causa delle cose". Ora, sebbene il dramma shakespeariano tocchi l'argomento politico, nella sceneggiatura di Picchi è fin troppo evidente che il problema non è incentrato esclusivamente sul rovello della lotta per il potere tra Bolingbroke e Riccardo (o tra questo e i suoi detrattori) - anche se è chiaro che Riccardo ha torto nell'avere male amministrato il suo regno, che l'incoronazione di Bolingbroke è ingiusta in quanto frutto della deposizione e dell'assassinio di un re tale per diritto divino, che nella prima disubbidienza di Bolingbroke si può leggere l'inizio di una serie di avvenimenti dai quali né lui né Riccardo potranno più sottrarsi -, bensì sulla natura e sulla condotta di Riccardo, sulla sua individualità, su di un aspetto cioè 'biografico', se così si può dire, che mira a dipanare la fitta trama della personalità (non la psicologia) di un re che si scopre 'poeta' e che per ciò stesso ci spinge a considerare la tragedia come uno spartito aperto sulla musica del sentimento, dell'immaginazione, sugli effetti allegorici della parola e sul turbamento che suscita nello spettatore disposto, in alcuni casi, ad entrare nell'agone picchiano con l'innocenza e la crudeltà di un fanciullo. È in questa prospettiva che Ric2felix appare come un lavoro in progress, dove non è la persuasività a stringere il cerchio sul senso ultimo di un'opera per definizione 'senza termine ultimo', ma la contemplazione dell'umano dove non è necessario stabilire ciò che è giusto o sbagliato, bensì capire se considerare o meno Riccardo come eroe tragico, in un senso strettamente classico, o più semplicemente un questuante, un dissipatore o entrambe le cose. Qui si compie in sostanza lo sforzo maggiore che è quello di portare a conoscenza, rendendole visibili, le reticenze di un testo altrimenti fin troppo scontato. E lo si fa attraverso l'individuazione e la messa a nudo dei personaggi, sia di coloro che tramano contro Riccardo, sia di chi, come Aumerle, resta legato al re sulla scorta di un senso alto di amicizia e di fedeltà. Aumerle, che viene assimilato da Picchi a Orazio (anche per la preoccupazione che questi manifesta per Amleto la cui 'immaginazione' lo rende sempre più disperato e solo (I.iv))[18], è fedele fino alla fine: "[.] è l'idea stessa di amico"[19] che con la sua presenza dà forza a Riccardo posseduto da una passione che, unita alla sua genialità, ne fanno uno spirito che suscita non solo pietà, ma anche ammirazione. Una passione che "è un dono fatale, ma reca con sé un tocco di grandezza [.]"[20]. Ma alle difficoltà inerenti ad una esaustiva decifrazione del ruolo dei singoli personaggi, nella messa in scena di Picchi se ne è aggiunto uno assai più urgente. E non si allude solamente ad una dislocazione sulla scena degli attori che pure devono seguire precise "traiettorie" in base ad una scelta registica per cui una volta entrato in gioco "nessuno può uscire"[21], ma anche come affrontare l'occorrenza di una riduzione fisica del numero degli attori sulla scena senza dover incorrere in operazioni arbitrarie. Così ogni attore finisce per accumulare in sé "[.] il carattere dei personaggi che via via deve sostenere. [.] Non si tratta di molte parti per un attore trasformista, né [.] di più attori sulla stessa parte [.] ma di masse morali (o immorali [.]) provenienti da più personaggi che vanno a convivere in uno stesso attore. È un personaggio che si vede diventare un altro da quello che credeva di essere, e poi un altro e poi un altro e così via. [Qui si parla di] [.] un attore che porta in sé un gruppo contraddittorio di caratteri formato da tutti i personaggi che porta avanti assieme. [.] Incorporando nuovi personaggi nei vecchi [.] le figure in scena mostreranno altri aspetti di sé. [.] Bisogna pensare in termini di somma di personaggi e non di trasformismo di attori"[22]. Ciò in sintesi costituisce la più intima essenza dell'arte shakespeariana che rivela come siano attivi nell'essere umano più piani, come interagiscono tra di loro anche in opposizione l'uno all'altro e come mescolandosi nelle istanze diverse tendono comunque a stabilire un equilibrio in una forma quasi di liricità, e ciò è quanto, verosimilmente, Picchi ha realizzato nel suo allestimento. È l'arricchimento attivo e compresente degli attori-personaggi, e "la stratificazione di vari personaggi in uno stesso attore produce la stratificazione di spazi diversi in un unico spazio scenico"[23]. Ciò sembra la chiave di lettura, per così dire, naturale di questo aspetto registico del Ric2felix , l'altra è, forse, nell'idea del re quale prototipo divino: "[.] il Dio-uomo, inizia a profilarsi nel momento in cui Riccardo allude al tradimento di Giuda"[24]: "Serpi scaldate dal mio sangue che mi trafiggete il cuore! | Tre giuda, ciascuno tre volte più perfido di Giuda" (III.ii)[25].
La scrittura quindi per Shakespeare, come per Picchi, rappresenta l'estrema necessità di libertà nel portare sulla scena il proprio tempo. Questo teatro raggiunge così un grado di oggettività che consente alla natura umana di elevare la propria coscienza e la capacità di scorgere la verità anche se profondamente dolorosa: "Potete spogliarmi di gloria e di potere, ma non del mio dolore. Di questo sono ancora il re" (IV.scena)[26]. Ma nelle tragedie shakespeariane i temi fondamentali si rivelano anche attraverso enunciazioni di tono minore e per bocca di personaggi il cui ruolo è a volte marginale o, perlomeno, appare tale. In ciò è possibile cogliere un aspetto dell'opera del drammaturgo inglese che è fonte di una conflittualità latente che Picchi, ancora una volta, ha saputo intendere nei suoi risvolti più critici e drammatici: la mancanza di umanità del desiderio, che si traduce nell'affermazione individuale di un'indifferenza che disarma la ragione e rende l'atto umano foriero di un disonore e di una crudeltà difficili da confessare. Nella tragedia shakespeariana non regna la felicità dell'ozio, ma una pratica comune: impossessarsi del potere nel modo più cruento. Sta, forse, anche in questo la modernità di Shakespeare, la sua attualità mai disgiunta dal ruolo che l'immaginario gioca nel destino dei protagonisti delle sue tragedie. E questo perché l'immaginario segue il fantasma del potere e riduce, annullandoli, i legami di sangue, le coscienze sì da fare apparire i nobili una gang pronti come fiere a divorarsi l'uno con l'altro la ragione. Ecco perché le parole di Riccardo nascono da riflessioni, da 'rivelazioni' che suscitano stupore. Abbandonarsi a questa condizione può, tuttavia, significare autodistruggersi, rimanere prigioniero di un labirintico rancore, o costituire inopinatamente l'occasione di un pronunciamento che superi l'abiezione e il rifiuto di coloro che hanno tradito giacché, come recita Prospero nella Tempesta (V.i), "è nel perdono, anziché nella vendetta, [.] l'atto più bello"[27]. Riccardo opera così una sorta di azione salvifica sulla sua mente riconducendo l'intelletto alla ragione in un quadro dove traditori e vittime ("[.] genti dolorose | c'hanno perduto il ben dell'intelletto"[28]) sono la proiezione drammatica dei loro stessi fantasmi e dei loro stessi desideri. Le immagini sorrette dalla musica hanno pertanto, nello spettacolo di Picchi, la funzione di indicare sentieri che da un lato tendono a ridurre ad una sorta di icona il dolore e dall'altro lo scopo di realizzare narrativamente una lettura in tempo reale proprio di questa nèmesi della ragione, altrimenti sopraffatta dalla contingenza e dalla follia. Quando l'ordine delle cose e dell'amore è infranto ciò che domina è l'interesse che rovescia sopra la coscienza il freddo gelo dell'ingratitudine e della assenza di pietà. Il nulla si offre nell'età dell'infelicità e della povertà umana, sembra dire Riccardo, non c'è più posto per la saggezza, ma solo per i traditori. Questa dimora è diventata una spelonca di bestie, di anime vili e di ladri. L'umanità degradata che non riconosce l'amore né il senso dell'unità, questa umanità di prede e divoratori, è inaccettabile ora per Riccardo, ma è l'umanità di cui egli stesso è parte poiché su di esso grava l'ombra dell'assassinio di Gloucester, la dissolutezza, l'avidità ed altro ancora e tuttavia è proprio ciò che lo conduce, infine, alla denudatio e alla ricerca di una verità che non concede assoluzione né per sé né per gli altri, ma che comprende e vive come liberazione e dolorosa felicità. Ecco perché in questa tragedia l'ultimo Plantageneto rappresenta la voce lucida e ferma di una volontà che agisce a fondo sulla natura umana e sulle vicende con sottile ironia e questo perché "[.] la tragedia, non meno dell'ironia, è esistenziale [.] e quanto più ironica è la tragedia, tanto meno numerosi sono i protagonisti che muoiono"[29]. Riccardo contravviene a ideali e stereotipi di una morale prescrittiva che non sempre chiarisce agli occhi del pubblico da che parte sta la ragione e da che parte il torto. Ecco perché sceglie la remissione e la morte più che la negazione della coscienza giacché "l'essere umano invaso dalla certezza di non essere voluto a livello esistenziale, ontologico, cerca il silenzio e la morte"[30]. La sofferenza di Riccardo può essere compresa attraverso "la visione della realtà meglio esemplificata dalla lenta tortura di un bambino o di un animale"[31]. Il suo volto è in definitiva l'espressione consapevole del carattere effimero della tirannia. La sua maschera tragica assume la forma della contemplazione vissuta da isolato in mezzo ai suoi simili: fratelli e traditori. Attraverso il suo 'delirio' dai lamenti poetici, che assume anche il carattere di una appassionata requisitoria, egli svela e al tempo stesso cela una sapienza quasi esoterica e predittiva, umiliando così l'uomo indegno e ponendolo implicitamente in contrasto con la saggezza del condannato, del prescelto al sacrificio che redime e maledice. L'accettazione dell'abisso fa sì che la realtà a cui la sua regalità l'ha legato gli appaia come un cerimoniale di inezie dai risvolti prosaici a tal punto che la sua "[.] sovranità diminuisce man mano che la sua poesia migliora"[32]. Questo 'folle' riassume in sé in modo esemplare la funzione di profeta, di anticipatore della tragedia che sarà sempre patrimonio del genere umano e, nello specifico, delle vicende che accompagneranno la vita di Bolingbroke, il futuro re. "Io - dice Riccardo (III, 3) - non sono solo. Il mio padrone Dio Onnipotente in mio aiuto sta adunando tra le nubi un esercito di pestilenze che colpiranno i vostri figli e quelli non ancora nati né concepiti, voi che levate le vostre mani di vassalli contro il mio capo e attentate alla gloria della mia corona. [.] Nel fuoco eterno brucerà la mano che mi fa vacillare così" (V, 3 (4)).
Il 1399 e il 1413 rappresentano la data di inizio e fine del regno di Bolingbroke l'usurpatore (Enrico IV). Il tormentato regno di questo re aprirà la dinastia dei Lancaster sul trono d'Inghilterra e sarà contrassegnato, sul piano nazionale, dalle rivolte dei nobili del Galles e di Scozia, e sul piano familiare dall'amarezza del re per la giovinezza dissoluta del primogenito ed erede, Enrico, denominato, come si vedrà poi nelle due parti dell'Enrico IV, coi vezzeggiativi "Harry" e "Hal".
Gli effetti che la messa in scena di Picchi produce sono quelli del teatro shakespeariano: commuovono, sconvolgono, spaventano, abbagliano. Il teatro di Picchi sospende ogni giudizio non espressamente previsto dall'opera, ma per ciò che concerne il finale ciò è quanto egli annota:
"Shakespeare chiude con un funerale, con una formula. Ma senza che qui ci sia la presenza eccitata - direi fremente, impaziente - di un Fortebraccio (che non è miglioria da poco). Qui il finale è solo lugubre; si finisce con una dissolvenza, uomini in nero che si allontanano con una bara sulle spalle. Tetro, ma formulare. Un'astuzia. Finali e aperture sono quanto di più esposto ci sia. Passando da una sceneggiatura alla successiva ho cercato di continuo di sfuggire a questa chiusura lugubre, ma la materia è quella che è: esequie, voti di pellegrinaggio in Terra Santa eccetera. Ancora bugie. Io invece vorrei chiudere con tutte le vite che continuano, quelle degli altri, della gente comune che si arrampica dentro i suoi guai e sa anche ridere; che ha futuro o che perlomeno vuole inventarselo. Allora penso che forse la soluzione è proprio nell'ultima musica. Forse. Questa fottuta coda di tre finali (l'addio alla regina, finale primo; l'assassinio del re, finale secondo; l'ultima scena di Bolingbroke, finale terzo) si scuoia male.
Vorrei chiudere con un'allegria volontaria, inventata con testardaggine da tutti quelli che da questa faida di delinquenti vogliono uscire, togliersela dai piedi. Un finale duro e allegro assieme, che viene da dopo il testo. Finire in crescere. Salire fin là"[33].
È, in altri termini, un teatro tutto da guardare e da ascoltare facendo appello alla più fervida immaginazione, alla capacità di osservazione, alla sensibilità, in questo teatro l'azione e il dialogo rivestono un ruolo importante. E gli elementi del teatro elisabettiano sono trasposti in una chiave assolutamente moderna, così come l'amore fisico, le atrocità, le sofferenze mantengono il loro carattere realistico.
L'allestimento scenografico è pressoché ininfluente come lo sono i costumi. Picchi fornisce solo piccoli indizi tali da assolvere ad un funzione di suggerimento. La loro natura è quasi sempre allegorica, raramente anche simbolica. La scenografia come pure i costumi sono comunque privi di ogni riferimento di carattere rinascimentale e barocco.
Gli unici elementi presenti sulla scena sono: una poltrona ("la poltrona-tana") sulla quale la duchessa di Gloucester "rimugina e rimugina . è piena di smanie e di rancore . implacabile" nel desiderare che la regina rimanga vedova anch'essa; "uno specchio di attore. Quando Riccardo si trucca, vi vede comparire l'immagine della sua Madonna" (l'Odighitria).
La dama che accudisce il re danza sul fondo della scena (sulla stessa parete vengono proiettate le immagini in sequenza degli attori e i "cartelli", didascalie che "indicano scene da immaginare") con movimenti che fissano l'inquietudine che fa da pendant con lo stato d'animo della regina (che "è un doppio del re"), la quale vive tutto il tempo con la coscienza del delitto imminente che la farà precipitare in un abbandono dalle movenze che richiamano alla mente la follia di un internato partecipe di un destino non suo, non voluto, ma ineluttabile.
L'operatore video (il "terzo occhio" di Riccardo) si muove liberamente (dispone di una sua drammaturgia, di "linee-guida") sulla scena proiettando sul fondo della stessa una sequenza di immagini, in prevalenza primi piani ("che valgono come décor scenico"), "dettagli semi-invisibili di tutte le recitazioni". Ma la loro funzione è anche quella di anticipare il contesto, di fissare gli istanti più salienti della tragedia in una narrazione (che tuttavia "non deve autovalutarsi come simbolica") dagli effetti suggestivi e altamente drammatici.
Il luogo dell'azione primaria, è il corpo centrale della scena riservato prevalentemente a Riccardo. Mentre i due corpi laterali sono riservati al resto degli attori presenti sulla scena. Le luci che ivi agiscono sono in totale nove e la colonna sonora principale è basata su Jarrett[34].
Il pubblico costituisce il lato 'oscuro' della scena che è il lato 'oscuro' della sofferenza che attraversa Riccardo. Le prime file sono come destinate a partecipare del tormento e della fine del re.
Picchi dà, dunque, rilievo all'umanità del protagonista, alle sue potenzialità, alla sofferenza attraverso la quale matura la sua idea di libertà in grado di determinare, mediante un approfondito esame del suo animo - dei suoi pregi e delle sue debolezze, delle sue intuizioni e delle sue ombre -, l'ultimo atto del suo destino. È un "[.] richiamo all'umiltà e all'accettazione del proprio ruolo nel teatro universale, come condizione saggia dell'equilibrio esistenziale". Prospettiva di matrice rinascimentale che spiega anche come "dietro questa visione dell'umano sta l'amore di Shakespeare per le persone"[35]. Quale senso Shakespeare attribuisse al tradimento credo lo si è potuto riscoprire appieno nell'allestimento di Picchi dove è chiaro che quella della vita umana è difatti una condizione ironica e che "[.] i massimi sforzi di fedeltà e di eroismo possono soltanto farla assurgere dall'ironia alla tragedia"[36].