Alice Zannoni
La “totalità” nel dadaismo
Tutto è dada, tutto è arte
La presenza della totalità secondo i vettori che contraddistinguono il Gesamtkunstwerk, già individuati nella compenetrazione delle discipline artistiche, nella ricerca di un rapporto diretto arte-vita e nella sollecitazione polisensoriale, è ravvisabile anche nel movimento dadaista: un fenomeno internazionale, cosmopolita, con molteplici direzioni di sviluppo (spettacolo, teatro, cinema, arti visive) e non costituito da un organigramma compatto e cristallizzato, bensì da un gruppo che, nella propria omogeneità programmatica, preserva l’individualismo del singolo accogliendo sotto la stessa etichetta personalità divergenti accomunate dal disagio per la società contemporanea confluito nel rifiuto del sistema culturale e artistico.
Partendo dall’assunto “Dada come negazione di tutto”[1] e svolgendolo come un’equazione matematica, “il tutto” risulta essere il termine di riferimento fondamentale per procedere all’affermazione di ciò che è Dada e ciò che non lo è, di ciò che è arte e ciò che ne è escluso: negando il tutto, ugualmente, si conferma il tutto stesso che risulta essere l’indeterminata del ragionamento da cui emerge una totalità onnivora a fondamento del movimento, noto, infatti, proprio per non avere limiti, né artistici, né comportamentali. Sintomatico della “coscienza onnicomprensiva e contraddittoria” il manifesto del 1918 che si presenta nelle vesti di anti-manifesto:
“Scrivo un manifesto e non voglio niente, eppure certe cose le dico, e sono per principio contro i manifesti…scrivo questo manifesto per provare che si possono fare contemporaneamente azioni contraddittorie, in un unico refrigerante respiro; sono contro l’azione: per la contraddizione continua e anche per l’affermazione, non sono né favorevole né contrario e non do spiegazioni perché detesto il buon senso.”[2]
Tzara continua poi con l’incoerenza fastidiosa ma stimolante a enucleare l’essenza amorfica del Dada:
“Qualsiasi prodotto del disgusto suscettibile di trasformarsi in negazione delle famiglia è Dada; protesta a suon di pugni di tutto il proprio essere teso nell’azione distruttiva: Dada; presa di coscienza di tutti i mezzi repressi fin’ora dal senso pudibondo del comodo compromesso e della buona educazione: Dada; abolizione della logica, balletto degli imponenti della creazione: Dada; di ogni gerarchia di equazione sociale di valori stabiliti dai servi che bazzicano tra noi: Dada; ogni oggetto, tutti gli oggetti e i sentimenti e il buio, le apparizioni e lo scontro inequivocabile delle linee parallele sono armi per la lotta: Dada; abolizione della memoria: Dada; abolizione del futuro: Dada; abolizione dell’archeologia: Dada; abolizione dei profeti: Dada; fede assoluta irrefutabile in ogni dio che sia prodotto immediato della spontaneità: Dada.”[3]
Una assurda congettura in cui tutto e Dada! Perciò tutto è arte partendo da un’illogica elucubrazione che nella negazione trova l’unico principio saldo.
Alcuni critici considerano il Dadaismo:
“Fenomeno capostipite della sensibilità della nostra epoca”[4]
anche se, a questo proposito, i precedenti diretti sono ravvisabili nel futurismo le cui proposte sono state radicalizzate con intenzione sovversiva:
“Vi è un grande lavoro distruttivo, negativo da compiere. Spazzare, ripulire”[5]
proclama Tzara annunciando il distacco definitivo dall’oggetto tradizionale (quadro, scultura) tramite l’abolizione delle nozioni di “Stile” e di “Bello” che determina una situazione di caos anarchico promosso dallo stesso artista incitando alla disubbidienza:
“L’artista nuovo si ribella: non dipinge più (riproduzione simbolica e illusionistica) ma crea direttamente con la pietra, il legno, il ferro, lo stagno, macigni, organismi, locomotive che si possono voltare da tutte le parti, secondo il vento limpido della sensazione del momento.”[6]
I presagi dadaisti di un “estetica mondana” anticipano di un quinquennio l’ufficializzazione del manifesto con l’atteggiamento paradossale del “proto-dadaista”[7] Arthur Cravan che accompagna le sue eccentriche imprese[8] con epifaniche dichiarazioni tra cui:
“Come è vero che sono uno che si diverte, preferisco mille vote di più la fotografia alla pittura che la lettura del ‘Matin’ alla lettura di Racine”[9]
sottendendo l’intenzione dell’avventura dadaista di portare l’arte verso la vita nella direzione di una metamorfosi dell’:
“Arte [che] ha preso la forma della non arte e viceversa; e l’elemento distintivo tra le cose d’arte e quelle no è diventato un fatto di pura sensibilità, di intelligenza, di emozione”[10]:
ovvero a discrezione delle qualità in assoluto sintomo dello spirito vitale “bramato” dalle avanguardie del primo Novecento e confermato esplicitamente nelle intenzioni Dada dall’asserzione di Ball:
“Riscriviamo la vita di tutti i giorni.”[11]
Il nesso arte-vita, risolto a favore della:
“Vita [che] è ben più interessante”[12],
conferisce al dadaismo e in particolare a Tzara il ruolo di:
“Primo assoluto predicatore dell’opportunità di divenire a una “morte dell’arte”[13] a vantaggio della vita”
principio che:
“Se applicato con coerenza fino in fondo, può portare alla rinuncia di ogni atto non soltanto ‘artistico’, affidato cioè all’uso di tecniche grafico-pittoriche più o meno tradizionali, ma anche più in genere di ogni pratica ‘estetica’ magari ottenuta con i mezzi nuovi e a quei tempi blasfemi come la fotografia, il ready-made, l’oggetto trovato e i loro vari incroci”[14]
in un atteggiamento decisamente wagneriano che ascrive la ricerca Dada nella tendenza latente della totalità per il fattore dell’integrazione tra le arti e per la ricerca sinestetica realizzata con la:
“Leggerezza di tecniche capaci di stimolare le regioni impalpabili dei sensi e della mente”[15].
1. Spettacolarizzazione delle arti e normalizzazione estetica
1.1 Artisticizzazione teatrale
Lo spettacolo è il magma artistico nel quale cercare gli elementi che più caratterizzano la vocazione poetica nella direzione della totalità: l’evento raccoglie l’inclinazione unitaria delle arti, diventando indefinibile secondo i canoni estetici consolidati dalla tradizione: è cabaret Dada e niente altro, è poesia Dada, è teatro Dada, è gestualità Dada in una folle fusione dei generi che conferma la tendenza sovversiva del movimento determinando la tipologia di Gesamtkunstwerk definita da Marquardt:
“Diretta negativa [ovvero dell’] opera d’arte totale come distruzione di tutte le singole opere in un’unica anti-opera per conseguire dignità di realtà.”[16]
L’“evento aleatorio” sancisce anche la nascita ufficiale del movimento il 5 febbraio 1916 al “Cabaret Voltaire” di Zurigo[17] e se per Menna:
“Il gesto nomina le cose”[18],
altrettanto, il modo di presentarsi di un nuovo movimento artistico designa la sua inclinazione con valore di dichiarazione programmatica implicita: una sorta di rito battesimale che esibisce pubblicamente l’inedito culto della spettacolarizzazione delle arti e la loro unione per mezzo dell’:
“Individuo [che] si fonde nel gruppo […] e dove tutte le forze congiunte si rivelano superiori alla somma delle loro componenti e permettono di togliere tutte le barriere”[19]
che frantumate,
“Per mezzo di una grande azione sovversiva che instaura la realtà politica- rivoluzionaria”[20],
avviano all’invasione estetica dello spazio extra-artistico per pervenire al contatto diretto con la vita.
Nella ricerca vitalistica è evidente la ripresa di suggerimenti futuristi:[21] si esalta il rumore e il caso, anche se, gli spettacoli dada, imperniati su una precisa organizzazione, si allontanano dall’indisciplinata esibizione italiana, tesa alla “ricostruzione dell’universo”, per approfondire soprattutto la compartecipazione simultanea delle arti anticipando la struttura degli happening del secondo dopoguerra in quanto:
“Accanto agli elementi verbali, concorreranno allo stesso titolo a definire il carattere di queste manifestazioni anche elementi plastici, visivi, sonori, di danza dando luogo a eccellenti performances fondate, come usano ancora oggi, sulla cooperazione dei più disparati elementi.”[22]
Anche Balzola riconosce l’evento Dada come la prefigurazione dell’happening: esamina la comunicazione teatrale e individua nel cortocircuito linguistico, nell’episodio effimero e nel coinvolgimento del pubblico una ”nuova modalità” di spettacolo che non:
“Rappresenta un testo o un’opera totale che cerca una sintesi organica tra il linguaggio verbale, musicale e visivo, [ma che è] la drammaturgia di un evento artistico. Ovvero, l’organizzazione di materiali artistici eterogenei all’interno di una sequenza di azioni teatralizzate”[23].
Le serate dadaiste sono, dunque, delle performance ante litteram: lo spazio e soprattutto l’azione trasformano la parola in elemento teatrale come testimonia il promotore stesso delle esibizioni:
“Il nostro cabaret è un gesto. Ogni parola che qui viene detta o cantata, significa per lo meno un fatto: che questo tempo mortificante non è riuscito a imporci rispetto”.[24]
De Paz, riferendosi esplicitamente ad:
“Un’arte totale di wagneriana memoria”,
valuta gli spettacoli al “Cabaret Voltaire” come:
“Attività artistica [che] dovette integrare elementi letterali, teatrali, musicali, plastici”
e formula una personale interpretazione che esalta il ruolo individuale:
“Per dada questa integrazione assunse un carattere particolare. Dell’ ideologia dell’arte totale fece un’ideologia dell’uomo totale […] con la creatività polivalente secondo le leggi della spontaneità, della insensatezza, dell’inconscio e del caso”[25]
in cui è il singolo che con potere taumaturgico riesce a convogliare le attenzioni anche più remote dello spettatore-uomo collettivo.
E’ molto importante che lo spettacolo Dada ambisca al coinvolgimento del pubblico, nell’estremo tentativo di farlo diventare esso stesso attore e coautore dell’evento, perché ripropone l’evasione dai confini scenici che caratterizza la prospettiva di ricerca arte-vita:
“Obbiettivo primario era provocare il pubblico, condurlo all’esasperazione tramite tutte le declinazioni sceniche dell’assurdo e dell’insulto ‘rincretinirlo’ a furia di continui spiazzamenti e spingerlo a diventare per complicità o per collera, partecipe all’evento, autore egli stesso, in un anarchica performance collettiva”[26]
e quando Pierre Albert Birot, animatore di una delle riviste più importanti della nuova poesia, “Sic”, patrocinata da Apollinaire, fonda nel 1916 il movimento “Nunique” pone la complicità con lo spettatore un principio inviolabile:
“Il teatro Nunique deve essere un gran tutto simultaneo, nutrito di tutti i mezzi e di tutte le emozioni capaci di comunicare una vita intensa e inebriante agli spettatori”[27]
radicalizzando, nella pratica teatrale, il precetto futurista dello spettatore al centro del quadro.
Poiché Dada simboleggiava:
“Il più elementare rapporto con la vita”[28],
si assiste ad una naturale trasformazione dello spettacolo che, dallo spazio ufficiale del cabaret, evolve verso la contaminazione artistica del comportamento quotidiano per conquistare l’uomo comune, la massa, realizzando la “normalizzazione estetica” che, nella confusione tra sketch e realtà, cerca la vita per “desublimare l’arte” secondo il presupposto che è insufficiente “Sputare sull’altare dell’arte”[29] per sostituirvi comunque altra arte ritenendo, invece, necessario minare le fondamenta del sistema stesso, distruggere l’ara sacrale anche a costo di un anomala ma necessaria offesa del consolidato ordinamento culturale come le parole Barilli precisano:
“Chi si assume il compito di manifestare, di portare a epifania questi aspetti della superficie estetica del mondo anche senza indossare gli abiti inamidati dell’arte fa la stessa opera di rottura e di provocazione come dimostrano abbondantemente le reazione del pubblico.”[30]
Condividendo l’articolazione dicotomica di Barilli che, nell’opposizione “polarità implosiva v/s polarità esplosiva”, individua la struttura generale del sistema delle arti, sostengo che il Dadaismo, per le sue caratteristiche ontologiche, corrisponda alla categoria deflagrante che:
“Dall’ambito delle pratiche letterarie porta a quelle visive, oppure a quelle sonore e musicali, o infine all’attività dello spettacolo e della performance, quando il discorso è affidato alla pienezza del gesto, della fonazione acustica della mimica e così via”[31];
Dada, infatti, come confermano le parole di Pignotti, opera sul piano:
“Dell’autonomia del segno linguistico dai canoni della comunicazione tradizionale, senza mai perdere di vista la comunicazione stessa, cioè il nuovo tipo di rapporto che si deve instaurare tra l’opera e il suo destinatario: una concezione dell’arte come azione e della parola come gesto che darà luogo al fenomeno indicato come teatralizzazione della poesia”[32]
che cattura l’interesse del pubblico non limitandosi più alla lettura della poesia ma inserendo progressivamente variazioni nel tono della voce, del timbro e dell’intensità per giungere al canto accompagnato da travestimenti paradossali:
“Indossavo un costume speciale disegnato da me e Janco […]” Il pubblico si spazientisce, si mette a rumoreggiar e da segni di disattenzione. Ball si sente in una posizione particolarmente goffa e ridicola. E’ immobilizzato nel suo scafandro e per di più da un momento all’altro rischia di cadere in preda ad un attacco di riso. E’ a quel punto che, per trovare la forza i resistere, decide di concentrarsi mentalmente solo sui suoni che gli escono dalla bocca, ed è così che, inaspettatamente, notò che la sua voce finiva per prendere “la cadenza antica di un salmo ecclesiastico, dei canti liturgici che vengono comunemente praticati in tutte le chiese Cattoliche sia dell’Ovest che dell’Est.”[33]
Il racconto di Ball focalizza l’aspetto di contemplazione passiva, opposto all’azione sovversiva, che porta a concepire il movimento come:
“Il ritorno ad una religione dell’indifferenza, di tipo quasi buddista”[34]
che, rifacendosi ad un mantra ancestrale, utilizza la modulazione della voce come pratica introspettiva di cui anche Huelsenbeck e Tzara si servono per dare vita a “Preghiere Fantastiche” e “Poesie simultanee” che:
“Attraverso la fonazione [attivano] tutto l’apparato muscolare [impedendo] che l’atto stesso del parlare si riduca ad esigue proporzioni mentali”[35]
ottenendo una percezione sensoriale amplificata, tramite un ricco repertorio di gesticolazioni, movimenti, abiti e maschere, che coinvolge tutto il corpo e permette di annoverare l’attività dadaista nella ricerca del Gesamtkunstwerk secondo lo specifico orientamento della sinestesia.
L’attenzione al corpo non riguarda unicamente la dimensione fisico-materiale della danza come espressione dinamico-lirica del moto ma, tramite la scuola di ballo ufficiale di Laban che studia la segmentazione del movimento, attraverso l’uso di abiti cilindrici[36] e maschere sul ritmo cadenzato della musica negra, il corpo diventa un mezzo per arrivare ad un'altra dimensione disinibendo la massa fisica, liberando l’individuo a dagli schemi sociali prestabiliti e raggiungendo una carica vitalistica allo stato puro, indicata giustamente da Alinovi come una sorta di trance che la descrizione di Ball conferma:
“Noi eravamo tutti lì quando Janco arrivò con le maschere, e ognuno ne afferrò una. L’effetto era strano. Non solo ciascuna maschera sembrava esigere il costume appropriato, ma sembrava richiedere anche uno specifico sistema di gesti, enfatici o addirittura vicini alla pazzia. Il dinamismo delle maschere era irresistibile…Le maschere chiedevano semplicemente che chi le indossava, intraprendesse una danza tragico assurda.”[37]
Le parole dell’artista non esimono il loro valore nella focalizzazione di un momento decisivo del movimento, ma si rivelano una fonte per l’ermeneutica della maschera in ambito Dada: appellandomi all’uso dell’aggettivo “strano”, non riferito all’oggetto[38] ma, attribuito alla sensazione prodotta dall’atto di indossare la maschera come se possedesse intrinsecamente qualità magiche, vorrei sottolineare la sua funzionalità disinibitoria indispensabile alla liberazione del corpo e al ritorno allo stato primordiale dell’attore e del pubblico che per essere coinvolto deve uscire dal proprio:
“Mutismo abituale, abbandonandosi alla gioia della propria spontaneità”[39]
protetto e giustificato, comunque, dal travestimento come diaframma tra l’essere e l’apparire.
La rottura della complicità tra Ball e Tzara e l’affiorare di dissapori porta all’inevitabile interruzione delle serate al Cabaret Voltaire di Zurigo (l’ultima il 14 luglio 1916); l’evento, che può sembrare sfavorevole, in realtà, si dimostra essere un episodio molto importante per la diffusione del Dada che, ancora carico di potenza poietica, trova in alcuni centri della Germania la possibilità proseguire la ricerca approfondendo specifici orientamenti.
Berlino, con la presenza di Huelsenbeck, vede la fondazione di un “Club Dada” [40] a cui sono iscritti Baader, Grosz[41], Heartfield, Herzefelde, Hannah Höch che, prima configurandosi sul lascito del dada svizzero, trova la propria vocazione nella contestazione politica.
A Colonia il gruppo Dada, nato dall’incontro tra Ernst, Baargeld e Arp, consegue riconoscimento ufficiale con la mostra del 1919 al “Kunstverein”, nota per aver esposto, accanto ad opere di grandi artisti, disegni infantili e di malati mentali annunciando la linea direttrice di un percorso artistico sovversivo che trova la più compiuta realizzazione con la mostra alla “Birreria Winter” nell’aprile-maggio 1920 quando, obbligando il pubblico ad un metaforico percorso che inizia negando l’ufficialità dell’entrata principale e lasciando come unico canale di accesso il retro maleodorante dei gabinetti, si costringe lo spettatore a subire asfissianti esalazioni, come segno di una repressione culturale che soffoca l’individuo impedendo la libera espressione e si propone la simbolica autonomia con la distruzione del sistema per mezzo di un’ascia a disposizione del pubblico in sala cui era
“consigliato” l’uso per fare a pezzi le opere presenti.
Il Dada di Hannover si identifica con la figura di Schwitters, artista che più di ogni altro accolto l’endiadi arte-vita forgiando una personalissima visione di totalità.
1.2 Linguaggio: “In principio era il Verbo…”
Merita un approfondimento l’analisi del linguaggio partendo dalla concezione dadaista di lingua come equivalente della materia,
“Ogni cosa ha la sua parola ma la parola è diventata una cosa stessa”[42],
afferma Ball, che induce a plasmare la scrittura alla stregua del corpo plastico e che nell’oralità della lingua parlata individua l’analogo del sonoro da modulare e orchestrare.
La configurazione della parola come oggetto subisce la manipolazione analoga a quella delle coeve sperimentazioni artistiche: si può presentare sotto nuove vesti (poetica dello straneamento), si può prelevare, decontestualizzare (poetica del ready-made) e riutilizzare attribuendole un nuovo significato con la propensione a poeticizzare il repertorio di scarto del linguaggio quotidiano per ottenere vocaboli irriconoscibili, senza forma, sillabe, suffisi, desinenze, lettere assommate alla rinfusa senza nessun nesso logico secondo una struttura caotica che si sviluppa in due direzioni opposte individuate metaforicamente da Francesca Alinovi[43] nella polarizzazione tra il caos infernale di una Babele linguistica e una lingua paradisiaca fatta di suoni semplici.
Lo stesso nome del movimento Dadaismo,
“Non significa nulla”[44],
è composto da due sillabe, “Da - Da”[45] la cui fonia, che ricorda il gemito del neonato, marca simbolicamente lo statuto del movimento in direzione del ritorno a una primigenia natura umana attraverso la distruzione delle convenzioni sociali e l’eliminazione delle strutture che falsano l’essere contemporaneo; il senso profondo della ricerca è rimarcato nel 1951, 35 anni dopo la prima serata ufficiale da Tzara:
“Dada nacque dallo spirito di rivolta, che è comune alle adolescenze di tutte le epoche e che esige la completa adesione dell'individuo ai bisogni della sua natura più profonda, senza riguardi per la storia, per la logica o per la morale. Onore, patria, morale, famiglia, arte, religione, libertà, fraternità, tutto quel che vi pare: altrettanti concetti che corrispondono agli umani bisogni, dei quali non resta null'altro che scheletriche convenzioni, private ormai del loro significato primitivo.”[46]
L’indagine relativa alla concezione della totalità nel Dada non ha a disposizione la ricchezza teorica del Futurismo che aveva fatto della stesura programmatica il fulcro dello sviluppo poetico; il dadaismo necessita di un approccio diverso in quanto le dichiarazioni esplicite[47] sono esigue e per ricostruire le vicende del movimento bisogna scovare i principi poetici nelle descrizioni frammentarie, nelle azioni e soprattutto nella riflessione globale delle opere che implicitamente sottende un significato molto più ampio di quello apparente: un criterio di analisi che si avvicina allo sguardo del mataldetector in grado di riconoscere la presenza di elementi non visibili celati sotto apparenze esteriori, indizi nascosti, tracce latenti e pericolose che trovano analogia con il paragone di Tzara:
“Dada è un microbo vergine che si insinua con l’insistenza dell’aria in tutti gli spazi che la ragione non è riuscita a colmare di parole e di convenzioni.”[48]
Il manifesto del signor Antipirina[49], per esempio, nella veste di rappresentazione teatrale, ha la duplice valenza di implicita dichiarazione poetica perché compaiono parole inventate, sillabe astratte dal puro valore fonetico-musicale “Diin, Dzin, Bobobo…”, frasi estrapolate da slogan pubblicitari e modi di dire sdoganati da legami logici e sintattici presentando un modo di agire sulle parole che diverrà convenzione tra i dadaisti, una “langue” che approfondendo le “parole in libertà” e i suoni onomatopeici dei futuristi, aspira ad un rapporto assoluto con il reale.
Ne Il manifesto sull’amore debole e l’amore amaro[50], invece, Tzara dà suggerimenti espliciti sul modo di fare poesia e la tangenza al “Gesamtkunstwerk” è da ricavare:
“Prendete un giornale
Prendete delle forbici.
Scegliete in questo giornale un articolo della lunghezza che
Contate di dare alla vostra poesia.
Ritagliate l’articolo
E mettetelo in un sacchetto.
Agitate delicatamente.
Tirate fuori un ritaglio dietro l’altro nell’ordine in cui
Sono usciti dal sacchetto.
Copiate coscienziosamente.
La poesia vi assomiglierà.
Ed eccovi scrittore infinitamente originale
E di affascinante sensibilità,
Benché incompreso dal volgo.”[51]
Le indicazioni comunicano un preciso atteggiamento che sconvolge la modalità di composizione lirica usuale a favore di un immediato contatto con il quotidiano per mezzo del prelievo di frammenti di realtà, un procedimento analogo alla tecnica del fotomontaggio e del collage, definito da Pignotti:
“Il primo tra i recuperi operati dalle avanguardie artistiche dal serbatoio delle tecniche povere”[52],
trovando l’impulso per creare un’anti-opera legata all’ordinario nell’umiliazione dell’arte “alta” e confermando l’ipotesi della “normalizzazione estetica” come elemento poetico strutturale del Dadaismo.
Il percorso artistico di Hugo Ball è teso verso un linguaggio capace di esprimere la purezza originaria penetrando nello stato primordiale di ogni individuo per ritrovare le energie dissipate nel corso della civilizzazione; l’enunciazione:
“Abbiamo impresso forze ed energia alla parola in modo che ci faccia riscoprire il concetto evangelico di logos come di una magica immagine della totalità”[53]
è un’autentica rivelazione per l’indagine che questa tesi sta affrontando, in particolare emerge una sfaccettatura della tendenza alla totalità che Alinovi ha magistralmente sintetizzato:
“Risalire alle origini significa infatti, cogliere l’essenza del logos, il mistero per cui il Verbo si congiunge alla carne, partendo per così dire dalla carne per attingere il momento in cui il corpo fa tutt’uno con la parola e vive e pulsa emettendo gemiti, rumori, suoni, grida. […] Ball fa propria l’intuizione fondamentale della poesia come canto, lamento, respiro, emissioni labiali e gutturali, grido perché, nelle sue performances, tutto il corpo partecipa alla dizione poetica. Ball intuisce per primo, benché in maniera ancora confusa, che il corpo umano stesso con tutti i suoi rumori, è già poesia, prima ancora che intervenga la parola.”[54]
Il corpo inteso come poesia è un concetto che presuppone una profonda analisi e conoscenza introspettiva dello statuto umano, la soppressione della parola come mezzo di espressione avviene solo con la consapevolezza che il moto e la mimica facciale sono correlativi al linguaggio parlato di cui condividono l’analoga potenza comunicativa che, sviluppandosi in un indeterminato “territorio di confine” dove la definizione dei generi (danza, teatro, spettacolo) non ha senso, genera il valore aggiunto della ricerca extra-pittorica realizzando, nell’auspicio wagneriano.
“Che l’egoismo delle arti venga vinto dal loro comunismo[55]”,
l’opera d’arte totale nel profilo della fusione delle categorie artistiche e nella prospettiva di ricerca sinestetica poiché il corpo attiva la globalità dei canali sensoriali.
L’intenzione regressiva di Ball cerca l’originalità primigenia nella “Poesia Elementare”, per liberare l’individuo dalle costruzioni socio-comportamentali e recuperare la naturalezza spontanea smarrita nell’eteroglossia contemporanea, a sostegno di una comunicazione immediata e comprensibile specifica dell’arcaismo prebabelico e di un tempo ancora più remoto in cui l’intervento del logos non è più necessario:
“Io leggo versi che si propongono niente di meno che: rinunciare alla lingua. Lascio semplicemente cadere i suoni. Emergono parole, spalle di parole. Au, oi. U. Non bisogna che nascano molte parole. Un verso è l’occasione di cavarsela possibilmente senza parole e senza lingua”[56]:
un ritorno al passato ancestrale dell’uomo per mezzo della fonazione, che è stata in primis la forma di un’esistenza compiuta ed è tutt’ora il primo sintomo vitale del neonato, in una ricerca che Barilli puntualizza:
“Noi veniamo dal freddo, da condizioni antropologiche in cui il medium di base era quello […] della parola parlata: tipico strumento freddo, anzi prototipo in tal senso, in quanto portato a consentire un globale esercizio sin-estetico; l suono conciliato all’udito (nel così detto circuito orale-aurale), appoggiato al gestire in una pur embrionale performances”[57]
Esemplificano i principi teoretici a favore dell’antilingua[58] le “poesie Fonetiche” (Lautgedichte ovvero “versi senza parole”) che palesano l’avversione per la parola compiuta e che esprimono la loro assiologia non per una formalità estetica compiuta ma per il valore intrinseco del suono:
“Gadji beri bimba glandridi laula lonni cadori
Gadjiama gramma berinda bimbala glandri galassassa laulitolomini”[59]
Oppure:
“Ambula
take
solunkola
tabla tokta tokta takabla”[60]
sono versi che hanno abolito lo stile magniloquente della “Poesia” a favore di un apparente non senso logico determinato dalla frantumazione della parola in sillabe la cui vera natura espressiva è trasmessa dalla declamazione in suoni:
“Fluidi come lamenti sussurrati come respiri, levitanti come il canto degli uccelli, sibilanti come il vento, aerei come i misteriosi segnali emessi da popolazioni extraterrestri. Quale ricchezza sconfinata rispetto al miserabile repertorio di suoni ammessi dal vocabolario.”[61]
La destrutturazione anarchica della comunicazione e il rifiuto del sistema culturale sono coordinati verso:
“La spinta extra-artistica, [che] corrisponde alle tendenze per così dir radicali o selvagge o primarie volte a creare le installazioni elementari caratteristiche degli stadi antropologici arcaici”[62],
nell’espressione poetica di Tzara che, nell’ordine:
“GRIDARE!, GRIDARE”[63],
impone un’oralità brutale sollecitando l’istinto animalesco come forma di emancipazione corporea dal surplus di sovrastrutture innaturali che vincolano l’uomo contemporaneo ad un approccio artificiale con lo di scopo fargli riassaporare il piacere di un’umanità autentica per mezzo dell’estasi, ovvero:
“L’uscir fuori e andare a raggiungere la presenza del mondo o l’ambiente”[64]
reale e non fittizio, primordiale e perciò innocente grazie alla trance diacronica.
Anche Huelsenbeck, che individua le origini della poesia fonetica nel componimento Kikakoku ekoralaps, scritto nel 1897 dal poeta Paul Scheerbart, trova collocazione in questo ambito della ricerca Dada, in particolare, con le “Preghiere Fantastiche” marca l’importanza della intonazione attribuendo alla modulazione, al timbro e al ritmo della voce il valore espressivo della poesia ribadendo l’idea di Tzara,
“Il pensiero si forma in bocca”[65],
che esprime la concezione del cavo come punto fisico che media tra l’essere e la sua necessità antropologica.
L’artista tedesco stila una classificazione delle sperimentazioni utile a valutare la ricchezza di applicazione dei principi poetici in ambito Dada:
1) “Poesia Statica”: concepita da Tzara come poema di natura ottico-visiva, esalta il silenzio, anticipando la concezione di Cage di suono silenzioso e costringendo la parola:
“Ad una faticosa convivenza con tutti i possibili elementi prossemici e cinetici”[66].
Hugnet fornisce una descrizione dell’evento:
“Il poema statico era fatto di sedie sulle quali erano posati dei cartelli con una parola scritta sopra e che venivano spostati, a ogni calar di sipario, invertendone l’ordine delle parole.”[67]
2) “Poesia Simultanea”: opposta della precedente, si basa sul frastuono linguistico e sulle sovrapposizioni di voci che leggono più testi con:
“L’intenzione […] di stimolare una percezione simultanea di suoni, voci, rumori il tutto svincolato dai tradizionali rapporti logici di significato.”[68]
Ideata da Tzara, trova la massima realizzazione nella sonorizzazione scenica de L’amiral cherche une maison a louer[69]:
“Opera contrappuntisica nella quale tre o più voci cantano, fischiano, ecc., contemporaneamente e, precisamente, in modo che le loro combinazioni costituiscono il contenuto elegiaco, buffo o bislacco della cosa. In questo tipo di poesia simultanea il lato bizzarro di un essere è spinto drasticamente a venire alla luce e, insieme la necessità di avere un accompagnamento”[70]
Questo tipo di poema influenza direttamente la trascrizione sonora sulla pagina, che considerata come uno spartito musicale, visualizza la simultaneità vocale con l’uso alternato di una grafica particolare avviando la sperimentazione tipografica.
3) “Poesia Brutistica” o “Rumoristica”: elaborata da Ball utilizzando suoni e ritmi negri per il recupero di una primordialità e corporeità che i popoli africani avevano esaltato.
4) “Poesia Ginnica”: la stessa denominazione esalta la dinamicità del corpo e la sua forza comunicativa anticipando le performances.
5) “Concerto di vocali”: sono declamate le vocali.
1.3 Tipografia creativa
Il valore fonetico attribuito alla declamazione poetico-teatrale sollecita la ricerca di una grafica che accordi l’impostazione ottica della pagina all’effetto sonoro della recitazione attivando un corto circuito tra percezione visiva e senso acustico che annovera la tipografia Dada, per la specifica pertinenza alla stimolazione polisensoriale, nel dominio del Gesamtkunstwerk.
La prima poesia teatralizzata, Karawane scritta da Ball, dopo la stesura del manifesto nel ’16, è un’opera priva di contenuto semantico, l’ordine delle parole non segue una logica paratattica ma un accostamento casuale che produce un non-senso, voluto, in realtà, per oltrepassare la soglia della superficie apparente degli eventi e avviare l’introspezione diacronica: nella pagina questa precisa indicazione è trascritta con caratteri di diversi spessori, grandezza e colore accostati senza ordine in un’anarchia dispositiva che esprime il principio poetico Dada del rifiuto della convenzionalità.
Sulla scia del testamento futurista la struttura della pagina gutemberghiana[71] cede a favore di una libera espansione policentrica e discontinua dello spazio che, scardinando la lettura monocentrica e lineare dell’età moderna, determina la crisi della comunicazione occidentale e il progressivo spostamento verso il polo mediatico definito, dal sociologo canadese McLuhan, freddo: la pagina non corrisponde più alla “griglia-contenitore” omologa allo schema della prospettiva rinascimentale ma diventa uno spazio dinamico, da partecipare attivamente con la complicità dello spettatore che deve essere sollecitato sensorialmente per mezzo di media:
“Che procurano uno sviluppo armonico e globale della superficie mediale di contatto, in modo che alle nostre facoltà sensoriali sia consentito un esercizio fondamentalmente sin-estetico.”[72]
Una progressione in senso sinestetico avviene con Hausmann che dalla poesia onomatopeica evolve verso un’analisi sonora con i “Poemi Otto-Fonetici”, poesie che hanno valore per il loro aspetto fonetico ma che, ugualmente, trovano un correlativo oggettivo nella trascrizione visuale per mezzo di una scrittura che viola il rispetto della parola scomponendo le lettere, isolandole le une dalle altre e decretando la loro indipendenza con colori diversi, accostando caratteri con grandezze disomogenee, e con tipologie grafiche di periodi storici differenti stravolgendo l’equilibrio visuale della pagina convenzionale.
Le prime sperimentazioni tipografiche nel Novecento trovano origine nel pensiero futurista[73] ma è il Dadaismo che radicalizza i postulati del movimento italiano verso la ricerca della:
“Rappresentazione e della percezione in un processo che scardina l’ordine visivo preesistente”,
dichiarando, nel n° 3 della rivista “Dada”, la consapevolezza dell’uso creativo della tipografia in un epoca dal dominio incontrastato dai mass media e determinando, nel ruolo attivo della tipografia,
“Il problema dell’innesto tra mente e media”[74]
colto nell’ l’esatta valutazione della possibilità espressiva e comunicativa offerta dalla:
“Creatività grafica e linguistica non […] come fine della propria ricerca, [come fu per i futuristi], ma come mezzo per una presa di contatto più immediata con il loro pubblico, […] nell’ambito di una sperimentazione che non lascia spazio alla demagogia”[75]
e che incita
“Il poeta [a] mescolarsi agli altri uomini in quanto la poesia non risiede soltanto nelle parole; essa è nell’azione, nella vita stessa”[76]
calcando l’utopia wagneriana del dramma come:
“Arte umana”[77]
e di un’opera d’arte del futuro come:
“Immediato atto vitale.”[78]
Se “In principio era il verbo”[79] Dada estremizza anche il ritorno alle origini negando il valore della parola per:
“Lasciar morire la lingua”[80]
e se per il linguista Giorgio Fano:
“Si può pensare, senza adoperare neppure mentalmente delle parole fonetiche”[81]
perché lo sviluppo del pensiero non richiede l’uso di parole “parlate” ma
“E’ comunque indispensabile l’uso del segno espressivo”[82],
Dada nega anche il valore del segno con l’estrema provocazione di Man Ray che nel 1924 crea un “non-testo”, Lautgedight, privo di parole anticipando concettualmente le cancellature di Isgrò.
1.4 Antropofoto-grafia
La fotografia dadaista, nella particolare concezione dall’artista americano Man Ray, si distingue per un particolare uso del mezzo meccanico conforme alla tendenza del Gesamtkuntwerk nell’integrazione delle arti e nel rapporto arte-vita.
La macchina fotografica perde lo statuto proprio di ogni mezzo meccanico, inerte e passivo, per appropriarsi della carica energica della vita: concepito come un corpo organico, lo strumento diventa attivo e dinamico grazie alla sensibilità e intelligenza della nuova configurazione che libera la fotografia dall’immobilità concettuale che la tratteneva in un dominio estetico limitato per aprire possibilità espressive illimitate; anticipando la tesi di Marra secondo cui tra arte e fotografia non ci deve essere una preminenza concettuale (“un combattimento”[83]) che pone le discipline su fronti opposti, Man Ray proclama la fotografia come una tecnica tra le altre:
“Una delle accuse principali rivoltemi in seguito dai sostenitori della fotografia pura fu quello di aver confuso la pittura con la fotografia. Verissimo, replicai, ero un pittore”[84]
continua:
“Non mi interessa affatto essere coerente come pittore, come creatore di oggetti e come fotografo. Posso servirmi di varie tecniche diverse, come gli antichi maestri, che erano ingegneri, musicisti, e poeti nello stesso tempo”[85]
oppure:
“Non credo che un mezzo di espressione sia migliore di un altro e non credo negli specialisti che fanno una cosa sola nella vita. Bisogna fare mille cose nella vita”[86].
Sfuggire alla specializzazione significa avere una pretesa totalizzante nei confronti del reale per mezzo di un approccio interdisciplinare che Man Ray giudica come ambizione assoluta:
“Forse lo scopo finale a cui l’artista aspira è la confusione o unione di tutte le arti, così come le cose si confondono nella vita reale”[87]
affermazione che induce Alinovi a interpretare una precisa volontà di:
“Figura totale dell’artista al di là della specializzazione meccanica del lavoro”[88].
Nell’ambito di questa precisa presa di posizione che esalta la compenetrazione delle arti, credo non sia casuale l’interesse di Man Ray per il cinema: tecnica affine alla fotografia, il “cinèpoemè” (“cinepoesia”) è indicato come il mezzo più indicativo della contemporaneità per la sua peculiare caratteristica di raccordare in un'unica espressione audiovisiva la definizione del tempo e dello spazio e perché, contraddicendo la specificità di genere, favorisce la fusione a cui Man Ray aspira:
“Come tutti i compagni dadaisti, era profondamente convinto della necessità di fondere assieme le diverse arti come conseguenza del punto estremo di consapevolezza raggiunto nei confronti delle proprietà inalienabili di ciascuna di esse”[89].
Il rapporto arte-vita nella ricerca fotografica può sembrare scontato: ogni scatto è una presa sul mondo, la macchina organicamente simula la vista perciò ogni porzione di realtà colta dall’obbiettivo entra nel dominio estetico. Man Ray sovverte il “noema” della fotografia dissimulando l’equazione dei due termini e dimostrando che la peculiarità della fotografia non è assoluta registrazione fenomenica. La sperimentazione, che apparentemente si allontana dall’endiadi arte-vita, in realtà si avvicina alla totalità con una finezza concettuale sorprendente quando Man Ray, rifiutando l’istantanea, insiste sul valore della dimensione temporale: le fotografie sottoposte a tempi lunghissimi acquistano il valore aggiunto delle emozioni, delle reazioni psicologiche e affettive che, catturate dalla prolungata esposizione, non solo il sintomo di una ricerca vitalistica, ma l’indice di una tangenza all’opera d’arte totale nonostante Man Ray non abbia mai dichiarato esplicitamente la sua ricerca nelle intenzioni del Gesamtkunstwerk.
1.5 Conclusioni
Contaminazione tra i generi e “spettacolarizzazione delle arti” si sono imposte nella ricerca dadaista come i principi totalizzanti assoluti, in un rapporto con lo spettatore inteso come massa, che realizzano il sogno utopico di Wagner di:
“Arte umana”[90]
con la quale:
“L’egoista diventa comunista, l’uno tutti, l’uomo Dio, i generi artistici l’arte tout court [nella] libera comunità degli artisti […] alla quale in definitiva appartengono tutti gli uomini, il popolo”[91];
la premessa ottocentesca trova analogia con la definizione di “normalizzazione estetica” di Barilli, ovvero:
“Capillarmente estesa e posta alla portata di tutti democraticamente, e non soltanto degli ambienti d’avanguardia e d’elite [e che porta alla] morte dell’arte nel significato di un’arte nobile, difficile, selettiva”[92],
nozione che focalizza il vettore della contemporaneità verso la vita a cui il Dada, con la sua natura sovversiva e iconoclasta, ha dato un impulso determinante e che le parole di Tzara del 1957 confermano:
“Dada ha tentato non tanto di distruggere l'arte e la letteratura, quanto l'idea che se ne aveva. Ridurre le loro frontiere rigide, abbassare le altezze immaginarie, rimetterle alle dipendenze dell'uomo, alla sua mercé, umiliare l'arte e la poesia, significa assegnare loro un posto subordinato al supremo movimento che non si misura che in termini di vita.”[93]