Risposta a Fausto Garbin (Parol 11, 1995)
di Franco Ballardini
Caro Garbin,
sono ormai alcuni mesi che
mi riprometto di scriverle, e cioè da quando
Luciano Nanni mi ha fatto conoscere il suo intervento a proposito
della mia "Lettera sul signifìcato nella musica" apparsa sul settimo numero
di Parol. Le scrivo innanzitutto per ringraziarla
dell'attenzione che ha dedicato a quelle mie riflessioni e per le
osservazioni che vi ha aggiunto, alle quali vorrei qui brevemente
rispondere nel desiderio di proseguire un dialogo che mi sembra iniziato
in maniera molto promettente.
Nulla da eccepire sulla sua sintesi di ciò che ho scritto - che mi è parsa efficace e fedele. Una sola precisazione al riguardo: a Stefani e a Nattiez, in realtà, non rimprovero di sostenere la asemanticità e aconcettualità della musica - che sono (o furono) sostenute da altri (citati ad esempio da Fubini) - bensí di ritenere la teoria musicale una pura organizzazione del significante priva di significati (un
s-codice, insomma, anziché un vero codice) - come per altro anche lei riferisce piú avanti, accomunando a loro in ciò anche Fubini (che io non avevo - a questo proposito - citato, ma che in effetti affermò cose simili in alcuni suoi scritti dei primi anni '60).
Ma vengo subito alle sue principali obiezioni, che mi pare siano soprattutto tre: la prima - di metodo - relativa ad una mia insufficiente esplicitazione dell'"intentio culturae" pragmatica della langue musicale presa in esame; la seconda - ancora di metodo - circa una mia imprecisa delimitazione dell'orizzonte storico di controllo di tale langue, la cui validità sarebbe anzi sconfermata o ridotta; terza obiezione - di merito - dalla rivale "teoria degli affetti" sei-settecentesca che io stesso affiancavo alla filosofia della musica di tradizione pitagorica.
Ritengo tuttavia che - prima di entrare nel vivo delle tre questioni - sia opportuna (e doverosa) da parte mia una premessa: e cioè che condivido interamente quanto lei ha scritto in chiusura del suo intervento a proposito del carattere solo introduttivo o addirittura preliminare dei miei ragionamenti. La "Lettera", infatti, è nata appunto in quanto "lettera", con tutto quel che di incompleto e asistematico ciò comporta. Aggiungo inoltre che suo nucleo principale (nella piú ampia parte che si riferisce alla musica) voleva essere soltanto la discussione critica di alcune nozioni deboli o imprecise sulla significazione musicale (asemanticità, aconcettualità), per abbozzare infine l'ipotesi che anche la teoria musicale costituisca un codice di signifìcazione (e codifichi magari proprio quei significati musicali piú astratti, sulla cui esistenza ha insistito una lunga tradizione estetico-musicale, ma la cui difficoltosa definizione ha probabilmente prodotto le nozioni deboli o imprecise di cui sopra). Considerazioni dunque che non ambivano certo alla descrizione di un'intera langue, ma tutt'al piú riconducibili nell'ambito di una preliminare "fenomenologia del segno musicale": rispetto alla quale il duplice e parallelo excursus storico-filosofico doveva servire come puro repertorio di exempla (di significazioni musicali cioè, di volta in volta diverse, referenziali o meno, sempre iconiche, e via dicendo). Tutto ciò per altro non mi esime dal rispondere agli interrogativi da lei posti, sia perché una definizione del segno si lega pur sempre a una qualche langue, sia perché alla fìne della "Lettera" accennavo in effetti a una precisa langue costituita dalla teoria musicale dell'armonia (sia, infìne, perché sono interessato ad approfondire l'argomento).
Al primo interrogativo, per la verità, (quale "intentio culturae"?) trova risposta lei stesso in alcuni passi della "Lettera": là dove scrivo che ne è oggetto non il significato (i significati) che la musica (o il singolo testo musicale) può assumere nelle interpretazioni metaliguistiche (poetiche, critica) della pratica artistica, bensí la "significazione originaria" (meglio: primaria) della musica in quanto "linguaggio discorsivo" (o comunicativo). Che poi non mi sia soffermato su questo punto, facendo esplicito richiamo alle nozioni di "intentio culturae" o di "pragrnatica" della lingua, non mi pare rilevante (e posso spiegarlo sia con il carattere colloquiale della "Lettera", sia con una mia contrarietà a scindere la langue dal suo aspetto pragmatico). Rimane allora il secondo problema: quale orizzonte storico di controllo? Anche qui credo sia necessario distinguere: se la "Lettera" era (voleva essere) soltanto (o soprattutto) un inventario di diverse teorie sul significato musicale, il problema non si pone; si pone invece se si vuol mettere alla prova tali teorie, oppure se ci si riferisce all'ipotesi finale contenuta nella "Lettera" - quella appunto sulla teoria dell'armonia come vera e propria langue. Nella "Lettera" - come ho detto la cosa era poco piú di uno spunto; ma nella prospettiva di riprenderlo, posso qui aggiungere che tale langue (l'armonia tonale, intendo) è solitamente considerata valida per il periodo storico che va dagli inizi del '600 fìno alla fine dell'800 - nel senso cioè che le categorie "grammaticali" (per me semiosiche) da essa definite sono state sostanzialmente rispettate nei tre secoli indicati. E non direi - terza questione - che una simile langue si sia trovata in concorrenza con l'Affektenlebre sei-settecentesca, poiché quest'ultirna si è per lo piú avvalsa di quella, aggiungendovi signifìcazioni ulteriori. Il rapporto cioè fra armonia tonale e Affektenlebre corrisponde - in termini linguistici - a quello fra grammatica e retorica, o in certi casi (di realizzazione idiolettale dell'"affetto") a quello - in termini estetologici - fra la lingua e una poetica (ma in un universo culturale in cui le due cose non erano in contrasto).
Credo però di avere contribuito io stesso ad ingenerare l'impressione che le due teorie fossero in conflitto (cosí come ammetto con rammarico una certa "oscurità" del passo della "Lettera" su Rameau, anche da lei giustamente segnalata). Vediamo.
La prima linea estetico-musicale da me sommariamente ripercorsa nella "Lettera" (quella da Pitagora a Schónberg) può essere suddivisa in due fasi: da Pitagora fìno a Descartes (o Leibniz) infatti il discorso si basa su argomenti esclusivamente matematici (semplicità e "armonia" dei rapporti numerici corrispondenti agli intervalli musicali); da Rameau in avanti, invece, sul fenomeno fisico dei "suoni armonici" (quel fenomeno acustico cioè - definito scientificamente nel 1701 dal fisico Joseph Sauveur - per cui ogni suono è in realtà il risultato di una vibrazione complessa, costituita da una vibrazione principale e da altre vibrazioni secondarie aventi frequenze multiple della principale - e non percettibili distintamente come "suoni" di altezza definita, ma decisive nel determinare quella caratteristica del suono che viene percepita come suo "timbro"). Ora: entrambi i discorsi (o gruppi di teorie), in realtà, si propongono non come "ideazione primaria", come "pertinentizzazione" dell'universo musicale, ma piuttosto come teorie di secondo grado, come tentativi cioè di individuare i fondamenti (matematici o fisici) della teoria (in senso tecnico-pratico) musicale. Nel primo caso la "legalità" delle sue categorie viene ricondotta a proporzioni matematiche semplici (da cui la consonanza o meno degli accordi musicali risultanti), nel secondo caso alla consonanza fisica esistente (nel fenomeno acustico dei suoni armonici) fra vibrazione principale e vibrazioni secondarie. In entrambi i casi, però, tali metateorie falliscono il loro obiettivo, sia per contraddizioni interne, sia soprattutto perché smentite dal controllo dei fatti che vorrebbero spiegare. La teoria pitagorica si scontrò - già nell'antica Grecia - con altre teorie matematiche concorrenti, fu in seguito messa in crisi dalla pratica musicale polifonica e di conseguenza riformulata da Zarlino, il quale per altro non ottenne maggior consenso dai "musici pratici" di fìne '500. La teoria degli armonici, a sua volta, è servita come "fondamento naturale" di teorie armoniche opposte - quella tonale e quella pantonale schonberghiana - e in realtà non spiega completamente nessuna delle due. Di qui la duplice conclusione che se ne può ricavare:1) tali metateorie si rivelano in effetti come "ideologici" tentativi di "naturalizzazione" della teoria musicale cui si riferiscono; 2) il fallimento di codesta naturalizzazione e la variabilità storica della stessa teoria musicale ne suggeriscono il carattere di "oggetto di pensiero" o "storico" appunto, di "conoscenza pertinenziale della realtà materiale" a partire da "punti di vista" diversi e costituenti veri e propri codici - per quanto impliciti o intuitivi, e non sempre trasparenti nelle formulazioni normative e precettistiche delle grammatiche musicali.
Fin qui, credo, nessun problema: l'itinerario è, né piú né meno, quello prietiano. Il "guaio" è che la "Lettera" contiene un ulteriore passaggio, forse non troppo lineare e fonte di qualche confusione (anche mia). Dopo aver denunciato infatti il carattere "ídeologico" di quelle metateorie, nella "Lettera" mi chiedo se non sia possibile recuperarle - loro malgrado - come atti di "ideazione primaria": o meglio, se non sia possibile rintracciarvi utili indizi di quella pertinenza storica che - nel tentativo (fallito) di naturalizzarla - lascerebbero involontariamente trapelare. Non è certo un caso, in effetti, che la tradizione pitagorica colleghi l'armonia musicale all'"armonia delle sfere" dell'universo tolemaico, o che Rameau cerchi nei suoni armonici conferma delle attrazioni centripete stabilite dall'armonia tonale fra i suoni della scala e fra gli accordi musicali. In entrambi i casi la "deduzione" è errata - perché le sfere tolemaiche non spiegano l'armonia musicale, e i suoni armonici non presentano alcuna attrazione gravitazionale reciproca - ma emerge con evidenza una particolare attenzione per determinate relazioni cinetiche o dinamiche (nel senso della fisica: vale a dire moti e/o attrazioni fra corpi). E forse proprio questa è la pista da seguire per portare alla luce i veri codici - pertinenziati, storici - "rimossi" dalle ideologie in questione: non i rapporti matematici esistenti fra due vibrazioni acustiche, non la consonanza fisica fra due suoni, ma un certo modo di concepire e organizzare il movimento dei suoni nello spaziotempo musicale è dunque all'origine - probabilmente - delle teorie musicali (in senso linguistico-grammaticale) in predicato di naturalizzazione, e ne costituisce l'universo semantico.
L'ipotesi pare confermata dal passo successivo (posticipato, nella "Lettera", alle ultirne pagine): l'analisi cioè della teoria musicale (nella fattispecie di una, specifica, teoria: quella tonale) e di alcune sue nozioni centrali come l'opposizione fra "consonanza" e "dissonanza": le quali, in effetti, sembrano avere proprio un contenuto di tipo "topologico". Ma anche su questo punto è necessaria qualche parola in piú, perché il discorso contiene qui un altro passaggio ulteriore rispetto al precedente svolgimento prietiano. Secondo la tradizione teorico-musicale corrente infatti (confermata anche dalla semiologia di Stefani e Nattiez) tali nozioni individuerebbero una caratteristica materiale dei suoni. La differenza fra una loro concezione "ideologica" (basata sulla tradizione pitagorica o sulla teoria dei suoni armonici) ed una invece epistemologicamente piú avvertita (ad esempio in Stefani e Nattiez) consiste - come sappiamo - nel fatto che la prima ritiene siffatte nozioni del tutto deducibili dalla materialità dei suoni, la seconda invece le considera come conoscenze parziali e selettive di tale materialità. A me pare invece che la mancata corrispondenza tra consonanza/dissonanza fisiche e consonanza/dissonanza musicali, nonché la variabilità storico-culturale di queste ultime, non solo ne faccia fallire qualsiasi "naturalizzazione", ma addirittura le privi di un contenuto materiale (sia pure parziale e selettivo), spostandole sul versante del "significato" musicale (per quanto astratto o elementare esso sia, e benché ancora tutto da precisare, sia nelle sue marche semantiche che nei tratti pertinenti del relativo significante). Le nozioni musicali di consonanza e dissonanza - in altre parole - sia perché non coincidenti con i fenomeni fisico-percettivi della consonanza/dissonanza, sia perché storicamente mutevoli (si pensi al bicordo di terza maggiore, dissonante per l'armonia modale medievale, consonante per quella tonale moderna, e cosí via), non individuerebbero una caratteristica materiale dei suoni (neppure in modo parziale e selettivo) ma esprimerebbero una relazione logica (o topologica: equilibrio, attrazione/repulsione, ecc.) totalmente derivante dalla specifica organizzazione dello spazio-tempo musicale caratteristica di una certa teoria (lingua, cultura) musicale - di qui dunque l'appartenenza di simili nozioni all'universo del significato.
Altra cosa è invece (rispetto a questo percorso) "la seconda linea" estetico-musicale riportata nella "Lettera" (quella dall'ethos greco al sentimento romantico): non metateorica ma "primaria", e tuttavia "secondaria" rispetto alla "lingua". In questo caso cioè non sembra trattarsi di una riflessione sui fondamenti della lingua musicale comunicativa, bensí di una codifìcazione primaria, di una pertinentizzazione insomma della realtà materiale costituita dai suoni musicali; e d'altra parte di una pertinentizzazione successiva o ulteriore (e spesso "parassitaria") rispetto a quella linguistico-comunicativa (nel senso in cui ne utilizza, ad esempio, l'astratta significazione grammaticale di "consonanza" o "dissonanza" per associarvi determinati "affetti" o contenuti "sentimentali", ecc.). Un'obiezione è però ancora possibile: in alcuni momenti della civiltà musicale eurocolta, infatti, questa seconda signifìcazione è stata respinta contrapponendole la prima (ad esempio da Hanslick, Stravinskij, lo stesso Schonberg, e altri: tutti convinti sostenitori del significato "astratto" della musica, in opposizione ai suoi possibili significati affettivi o sentimentali); in queste circostanze dunque i due codici si sono effettivamente trovati (contrapposti) sullo stesso piano. Ma ciò è avvenuto, in effetti, al livello delle poetiche, e ha certamente messo in discussione (almeno per alcuni) il valore del secondo codice, senza per altro scalfire (per nessuno) la validità del primo (quello grammaticale) - almeno fino alla sua crisi prodotta dalle avanguardie del primo '900.
Ecco: il punto debole che vedo nella "Lettera" (rileggendola alla luce delle sue osservazioni) è soprattutto questo: l'insufficiente distinzione fra le due linee estetico-musicali che vi sono citate, soprattutto per quel che riguarda il loro diverso statuto epistemologico. Riconosco inoltre che la ricerca di ideazioni primarie fra le righe della prima linea (quella metateorico-ideologica) è operazione un po' tortuosa e forse inutile - probabilmente si possono ottenere gli stessi risultati analizzando direttamente lateoria musicale (in senso grammaticale). Un po' forzata, in particolare, è inoltre (nella "Lettera") l'applicazione delle categorie semiologiche (significante, significato, tratti pertinenti) ai ragionamenti pitagorici o di Rameau. Piú in generale la "Lettera" oscilla fra i suoi obiettivi minimi dichiarati (quale terminologia per definire la significazione musicale) e altri, piú ambiziosi, desideri (la descrizione di un'intera langue musicale) - che hanno originato (credo) le sue aspettative deluse.
Non so se con questa seconda lettera ho fornito risposte adeguate ai suoi interrogativi, ma posso assicurarle che essi mi sono stati di grande stimolo per cercare almeno di chiarire a me stesso certi nodi irrisolti o un po' ingarbugliati. Aggiungo solo che è mia ferma intenzione proseguire simili ricerche, e che spero di avere presto il piacere di incontrarla e conoscerla anche di persona. Cordialmente
Franco
Ballardini
Riva del Garda, 28 febbraio 1993