Arte e critica: libertà come pertinenza
("il Verri" n° 12, 1990)
di Luciano Nanni
1. Significazione vs comunicazione
3. Verità: il doppio livello della coerenza
1. Significazione vs comunicazione
A voler ben guardare gli odierni fatti dell'arte e in particolare, tra essi, il modo di darsi a conoscere (di vivere) della poesia e dell'opera d'arte in genere, mi sembra sia inevitabile l'accordo sul fatto che il modello descrittivo ad esso (ad essi) più congruo, più adatto insomma a darcene adeguata comprensione, non pare proprio essere quello della comunicazione, ma semmai quello della significazione. Sappiamo, in stretto senso semiotico, significazione come produzione (costituzione) di segni; in senso più lato - ed è questo il senso cui qui si intende fare riferimento, cognitivo o epistemico che sia - produzione (costituzione) di ciò che il segno, nella sua completezza, dovrebbe ingabbiare e trasportare e cioè del solo significato.
All'esperienza infatti, che quotidianamente abbiamo dell'opera d'arte in quanto tale, non pare proprio che essa si mostri come un atto in senso stretto comunicativo, referenziale per dirla con Jakobson o strumentale nella terminologia di Barthes, come un'entità insomma dove un significato, già del tutto costituito dalla parte dell'emittenza, tenta in qualche modo di arrivare tale e quale - ogni sua modifica sarebbe appunto un fraintendimento in linea di principio da eliminare - dalla parte dei destinatario, lettore o fruitore che sia.
Conviene rappresentarcela, l'identità dell'opera d'arte, ricorrendo ad altre immagini, magari a quella di un grumo energetico che, incontrando le diverse culture dei suoi fruitori (in essi compreso il suo autore) , liberamente reagisce con esse, portando se stesso, da un lato, a significati inevitabilmente diversi e, dall'altro, queste stesse culture a una loro inevitabile e profonda, per quanto a volte soltanto intuitiva, consapevolezza. Il fruitore dell'opera d'arte, conoscendo l'opera, conosce se stesso e, conoscendo se stesso attraverso l'opera, conoscerà dell'opera soltanto quanto di essa si presenta congruo alla sua (del fruitore) realtà o appunto cultura, come fino ad ora ho inteso dire usando il termine "cultura" nella sua accezione più pregnante . [In senso antropologico la cultura va sempre letta secondo il suo etimo (da colo, -is, colui ecc.): coltivazione del mondo (materiale o mentale che sia) e perciò inevitabilmente pregna concettualmente di realtà]. Mai allora totalmente, che è come dire secondo una sua (dell'opera) verità ultima, tale da consumarla al suo apparire (non si dimentichi quanto a lungo si è parlato, nel Novecento, della sua inconsumabilità), come invece accade, appunto, alla verità quotidiana, per così dire, di ogni nostro atto comunicativo in senso stretto. Una volta ottenuto dal barista il caffè, della frase di cui ci siamo serviti per avere il caffè non sappiamo più che farcene: essa è stata del tutto consumata dal fatto di essere stata al bar, come frase da bar, del tutto compresa e di conseguenza può dileguarsi, in quanto tale, per sempre.
E' l'esperienza diversa dell'opera d'arte, ormai così inevitabile che, in mancanza di concetti analiticamente più articolati e meglio mirati, s'è arrivati addirittura, in alcune recenti posizioni della critica americana, cui giustamente per altro la cultura italiana ha creduto di porre attenzione, s'è arrivati, dicevo, a teorizzare la legittimità del fraintendimento tout court. Ma un fraintendimento legittimo non è più un fraintendimento: è significazione, come questa inevitabilmente disseminato e fenomenologicamente parziale (regionale). Una significazione può essere detta fraintendimento soltanto a partire dalla presupposizione del passaggio lineare obbligato, anche nell'esperienza dell'arte, di un significato da un emittente a un destinatario e ciò continua a dirla lunga su quanto sia teoreticamente deleterio continuare a tentare di rappresentarci la vita dell'opera d'arte sullo sfondo della comunicazione strettamente intesa. Tanto più che ciò che chiamiamo comunicazione si presenta a sua volta anch'essa, a ben guardare, come significazione.
Non se ne accorgono ovviamente coloro che pensano che, nella così detta comunicazione, ci sia passaggio da un emittente a un ricevente o da un destinatore a un destinatario, che dir si voglia, di un messaggio tout court, cioè a dire di una stringa metonimicamente coerente di segni nella loro interezza (dalla nostra bocca non escono, mai, concetti e quindi segni strettamente intesi), ma non se ne accorgono nemmeno tutti coloro che - e sono molti - pur sapendo che dal nostro corpo e dal fisico in genere possono partire verso il ricevente soltanto segnali a loro volta fisici, e quindi solo parti di segno e cioè significanti, pensano poi che il ricevente stesso possa pescare dalla propria mente i concetti (o, meglio, debba pescare in essa i concetti), che volevamo "inviargli", unicamente in virtù del codice che abbiamo usato per confezionarli appunto in messaggio. Se ne accorgono invece tutti coloro che si rendono conto che la così detta comunicazione avviene non in virtù di questo codice, ma in virtù di un suo particolare meta-codice d'uso, cioè a dire delle istruzioni o convenzioni d'uso simbolizzate (solidificate) dal luogo (bar, aula universitaria e affìni) dove l'atto linguistico, o semiosico che sia, avviene.
Prendiamo la frase "mi dà un caffè?". Essa, in sé intesa, è un'entità a più e diversi livelli di realtà, fisica, chimica, mentale ecc. li "bar" ne porta a signifìcato, appunto per convenzione d'uso, unicamente il suo livello concettuale, denotativo, lasciandone inattivati tutti gli altri livelli. Il "teatro" invece, supponendo venisse pronunciata su un palcoscenico, o la "galleria d'arte", supponendo venisse esposta in essa come opera d'arte, attiverebbero, al contrario, tutti i suoi livelli di realtà, compresi quelli simbolici. [ Tutte analisi, queste, che attivano l'opera nella sua artisticità, sia perché ciascuna di esse "vede" l'opera sullo sfondo, sempre, di un suo proprio, non importa se esplicitato o meno, orizzonte estetico o teoria dell'arte che dir si voglia e sia in fine perché, ponendosi come parziali, tendono implicitamente a trascendersi, dialettizzando di fatto questi loro presupposti estetici secondo una teleologia unitaria non ideologica, giacché criticamente (dialogicamente) controllata. Pensarle diversamente, come analisi esterne all'"oggetto estetico" cioè a dire prive di rapporto diretto con l'artisticità dell'opera in senso proprio, come vorrebbe ad esempio Bachtin, (1979, pp. 42/43), signifìca ancora, a mio parere, dare implicitamente corso e una visione a-storica, separata e, malgrado ogni dichiarazione contraria, metafisica dell'arte e della sua "essenza".] In conclusione l'opposizione comunicazione-signifìcazione si converte a mio parere più correttamente in una distinzione del tutto interna, appunto alla signifìcazione: significazione monosemica, quella che normalmente diciamo comunicazione, e significazione polisemica o plurale quella che usualmente diciamo signifìcazione tout court. Significazione, quest'ultima, che, in linea con quell'estetica del Novecento che reputo meno inquinata dall'ideologia, vengo appunto anch'io proponendo a modello di comprensione (descrizione) dell'identità dell'opera d'arte.
Interrogandosi su questo fenomeno che ho detto della significazione, la riflessione sull'odierno statuto della critica tende a distribuirsi su posizioni diverse: anarchica, dogmatica e, ma questa volta ovviamente in senso kantiano, critica. Ora, lasciati cadere i filoni dell'anarchia e del dogmatismo, giacché entrambi orientati più a dirigere che a comprendere, più normativi insomma che descrittivi, vorrei qui considerare il terzo filone, quello delle posizioni che ho indicato come "critiche" e che potremmo definire intermedie, consapevoli come appaiono della necessità di ricorrere a un modello descrittivo capace di coniugare le ragioni dell'opera e quelle del critico in stretta connessione, per discuterne brevemente i concetti, tutti a mio parere insoddisfacenti.
Non soddisfa il ricorso di alcuni alla nozione di "nominalismo", giacché ancora troppo compromessa con quel soggettivismo anarchico che, per altro, si vuole fuorviante, ma non soddisfa neppure, a mio parere, il ricorso al termine "libertà" tout court, con cui, per esempio, altri credono di potere uscire tranquillamente dall'impasse. Libertà? Nozione ancora troppo vaga. Presuppone determinato e conosciuto ciò che, invece, va precisato: limiti e libertà, per così dire, della libertà stessa. Non soddisfa poi nemmeno quella nozione di "decostruzione", così legata alla critica del "fraintendimento" poco fa citata. Di suo troppo schiacciata, se dalla nebulosità del suo significato si vuole estrarre quella sua occorrenza che pare più comune, sull'oggetto (sull'opera) a scapito di un'attività del soggetto, che, in quanto reale, va nel caso teoreticamente salvata.
Nell'interpretazione di un'opera d'arte è in atto una reciproca determinazione dell'oggetto (dell'opera stessa) e del soggetto (della cultura del critico) che, a mio parere, soltanto il ricorso a una nozione diversa può permetterci di darne adeguata immagine teoretica, senza alcun letale, in linea di principio, tradimento di fondo. Alludo alla nozione di pertinenza e al ruolo che ad essa ha assegnato la linguistica e in particolare la Scuola fonologica di Praga. Ruolo poi di recente meritoriamente esteso al problema della conoscenza in generale da L. J. Prieto. Il critico non può dire dell'opera ciò che vuole, secondo un volere incondizionato e assoluto (anche questa ideologia della libertà di tono idealistico è ben dura a morire), ma ciò che vuole secondo un volere storicamente determinato e quindi più propriamente ciò che può. Il suo volere assoluto è condizionato (limitato) dalla storicità (dalla parzialità) della cultura che la costituisce, da un lato e, dall'altro, dalla realtà dell'opera, da quello che altrove ho chiamato il non-corpo-reale dell''opera', [L. Nanni, Per una nuova semiologia dell'arte, Milano, Garzanti, 1980,passim.] che il critico si trova a interpretare. Les Demoiselles d'Avignon non sono la Gioconda; I promessi sposi non sono Laborintus di Sanguineti. Ovvio. Solo un teorico dalla testa paurosamente campata in aria, un teorico che non guarda e quindi che, alla lettera, non è un teorico (si pensi all'etimo profondo del termine) potrebbe sostenere più o meno palesemente il contrario. Ne sono convintissimo ed è sull'onda di tale convincimento che, fìn dagli ormai lontani anni '70, ho fatto ricorso, per darmi ragione di queste particolarità della vita dell'opera d'arte, appunto alla nozione di pertinenza.
E nozione centrale al riguardo, giacché permette di dare ragione della creatività della critica e insieme, senza forzatura alcuna, dell'inevitabile vincolo dell'opera. Si sa. Ogni lingua, costruendo il suo sistema fonologico, ritaglia dalla banda sonora, per stare ai termini di Saussure, determinati tratti secondo se stessa, secondo i propri bisogni, e quindi in modo diverso l'una dall'altra, ma ciò non significa che ognuna di esse possa inventarli a suo piacere. Creativo è il ritaglio, ma la realtà ritagliata è cosa, diciamo, reale, già data. Il suono viene a realtà nella lingua parzialmente, ma non, mi si conceda, irrealisticamente. I tratti "visti" da un sistema fonologico possono non essere "visti" da un altro, ma ciò non significa che i tratti "visti", giacché parziali rispetto alla totalità dei tratti del suono, siano creati dal nulla. In questo senso la realtà del suono condiziona la libertà di nascita dei sistemi fonologici. Se e solo se i tratti di cui un sistema fonologico ha bisogno sono nel suono, il sistema fonologico stesso può costituirsi e la lingua può nascere e, per altro, se e solo se un sistema fonologico in potenza ha bisogni di essi (li calamita, per così dire), essi possono emergere dal naturale e diventare realtà, cultura. Un rapporto insomma di necessità, che potrebbe essere detto anche simbolico: come nel simbolo anche nella pertinenza le due entità che la costituiscono si portano reciprocamente (per intrinseco e quindi internamente motivato richiamo) a realtà.
Del pari, nel rapporto opera d'arte e critica o interpretazione in senso lato (fruizione), che dir si voglia. Si dà un reciproco condizionamento tra realtà dell'opera e cultura dell'interprete, che solo il termine non proprio usuale di pertinentizzazione (ma ormai possiamo dire di simbolizzazione) mi pare possa trascrivere a coscienza senza tradimenti, salvando insieme le ragioni del soggetto, dell'interprete (sempre culturalmente strutturato, si capisce) e dell'oggetto, dell'opera tout court. Le ragioni dei soggetto, perché come non può il suono imporre di suo uniformemente a tutti i sistemi fonologici possibili tutti i suoi tratti, così anche l'opera non può imporre a tutti i paradigmi critici (a tutte le visioni del mondo), che, tramite l'interprete, la leggono, tutti i suoi livelli di realtà. Le ragioni dell'oggetto poi, perché come non sono i sistemi fonologici a potere inventare a piacere tratti che nel suono già non siano, così anche ai paradigmi critici, e proprio per quel loro rapporto simbolico con l'opera di cui s'è detto, non è possibile trarre dall'opera stessa verità che in essa già non siano. E' in potere della cultura che legge l'opera portare l'opera all'evidenza secondo la propria prospettiva di lettura, ma è in potere della realtà dell'opera rendere tale cultura cosciente di sé, far sì che essa porti alla propria coscienza, in una sorta di inevitabile autoanalisi il cui livello varierà ovviamente volta a volta a seconda del critico, i suoi aspetti fino a quel momento più sconosciuti e, attenzione, i suoi limiti più radicali. Una tra le tante prove che la realtà dell'opera controlla le proprie letture, da aggiungere all'indubbio fatto, sottolineato ad esempio da Luperini, che la diversa ricostruzione filologica di un testo modifica in qualche settore l'orizzonte dell'interpretazione [R. Luperini, Ermeneutica e testo letterario in "Parol", n. 5.] la si ha tutte le volte che qualcuno (che una qualche cultura), non riuscendo a trovare nell'opera tratti a se stessa pertinenti, ammette onestamente di non pensare nemmeno lontanamente di provare ad inventarli. E' il caso, in conclusione, ricorrente di fruitori che ammettono candidamente che certe opere a loro non dicono proprio nulla. Ora, non dicono nulla a partire da chi e da che cosa? Dall'opera? Dalla cultura dei fruitori stessi? Certamente, a mio parere, da entrambe. Dalla cultura del fruitore, giacché incapace di calettarsi produttivamente sull'opera, di trovare nell'opera tratti che in qualche modo la simbolizzino, ma anche a partire dall'opera stessa, che, tramite ciò che essa non è (il suo non-corpo-reale, dicevo) impedisce alla predetta cultura di ectoplasmarla, per così dire, in vaniloquio, lasciandola più onestamente nel silenzio. La seguente affermazione di L, J. Prieto "se un suono può essere conosciuto come "sonoro", esso non può in nessun caso essere conosciuto come "non sonoro", mentre può invece non essere conosciuto come 'sonoro' "[L.J. Prieto, Pertinenza e pratica, Milano, Feltrinelli, 1976, p. 139.] ben sintetizza, fuori da ogni realismo ingenuo e da ogni relativismo assoluto e idealismo pseudo-onnipotente, quanto sto qui tentando di dire.
In questo senso ha ragione Prete a parlare d'esperienza, piuttosto che di metodo, nell'interpretazione dell'opera d'arte. [A.Prete, L'interprete come autore in "Parol", cit., passim.] Il metodo esige una pre-coscienzializzazione che nell'interpretazione dell'opera avviene soltanto durante l'esperienza. Il metodo, nel caso, consegue all'esperienza, non la precede (la vita precede sempre Il proprio metodo): sono, per conto mio, così convinto di ciò che ho tolto il problema del metodo dal titolario delle questioni critiche per assegnarlo a quello dell'estetica, dopo aver fatto dell'estetica, almeno nelle mie intenzioni, una scienza, vale a dire un'ideazione secondaria, che se ha influenze sull'esperienza le ha comunque indirettamente e di ritorno. Tutte questioni che la nozione di pertinenza bene raccoglie e, senza fuorvianti sbavature, sintetizza, confermando quanto con i termini di nominalismo, decostruzionismo, libertà ecc. si voleva giustamente affermare e liberandoli, appunto, di quanto tramite essi non si voleva proprio dire.
3. Verità: il doppio livello della coerenza
Inevitabile che su questa linea l'unico tipo di verità, cui rapportare l'interpretazione, sia quello della verità concepita come coerenza. Lo sottolinea chiaramente Prieto, in campo epistemologico generale, [Luis J. Prieto, Pertinenza e pratica, cit., p. 124: " E' in base alla sua adeguatezza non all'oggetto, ma al punto di vista da cui questo viene considerato e dal quale deriva la sua pertinenza che si misura la verità di un concetto, vale a dire che un concetto è più o meno vero a seconda che si approssimi più o meno all'ideale che consiste nel ritenere dell'oggetto tutto ciò che in esso è pertinente dal punto di vista su cui tale concetto si fonda, e soltanto ciò che è pertinente da questo punto di vista".] e l'ha sottolineato altrettanto chiaramente R. Barthes in rapporto all'arte. [R. Barthes, Critica e verità, Torino, Einaudi,1966, p. 44: "Il Diario intimo è stato trattato in due modi molto diversi dal sociologo Alain Gírard e dallo scrittore Maurice Blanchot. Per il primo, il Diario è l'espressione di un certo numero di circostanze sociali, familiari, professionali, ecc.; per il secondo, è un modo angoscioso di differire la fatale solitudine della scrittura. Il Diario possiede quindi per lo meno due sensi, ciascuno dei quali è plausibile perché coerente".] E' posizione che, armonica al mio vedere, come in più luoghi ho dichiarato e argomentato, sarebbe fuori luogo riprendere qui da capo. Meglio approfittare dell'occasione per correggere un suo ricorrente fraintendimento, per altro del tutto connesso al problema della percezione di cui qui si sta trattando.
E frequente il caso in cui questa verità dell'interpretazione, circoscritta alla coerenza interna del discorso interpretativo stesso, viene letta come la legittimazione dell'anarchia più totale e, in essa, addirittura della menzogna. Se basta la coerenza interna al discorso che parla dell'opera per far vero, e quindi per attribuire all'opera, quanto nel discorso interpretativo stesso si afferma dell'opera, perché coerentemente, si può veramente dire, ciò che si vuole, anche il falso. Se la verità critica come coerenza della critica fosse veramente del tutto riducibile a questo suo, come dire, livello intensivo, sintattico-semantico, ci sarebbe ben poco da obiettare a simile, devastante, rilievo. Ma è qui il punto. Chi parla di verità come coerenza interna al discorso critico (intendo alla critica in senso lato - si capisce -) non intende parlare soltanto di questo tipo di coerenza, ma anche di una coerenza per così dire estensiva (referenziale) senza la quale la verità indicata non sarebbe nemmeno verità. Così almeno io penso o, meglio, in tali termini io, almeno, ne parlo. Certo, coerenza estensiva da recuperare ancora tramite quella intensiva, ma pur sempre, rispetto a questa, di natura diversa o, meglio, a suo sostrato e matrice.
Vorrei provare a spiegarmi con un esempio. Supponiamo che un'opera d'arte venga portata a significato critico tramite un paradigma di tipo psicoanalitico, in parole povere che venga letta in chiave psicoanalitica: come potremo giudicare della verità di quanto si afferma circa l'opera stessa? Indubbiamente controllando che il discorso che si fa sull'opera non sia internamente autocontraddittorio e quindi che sia coerente (primo livello della verità come coerenza), ma poi anche che all'interno di questa coerenza il paradigma sia chiamato in causa in modo estensivamente coerente (secondo livello della verità promessa), che nulla insomma di ciò che nell'opera si presenta come ad esso congruo sia stato tralasciato, che tutto quanto in conclusione si presenta, nell'opera, come psicoanalitico (sempre dal punto di vista della concezione psicoanalitica chiamata in causa, si capisce) sia stato adeguatamente considerato e tematizzato. Una simile operazione si presenterà indubbiamente come una interpretazione parziale (non verrà certamente visto, nel caso, ciò che nell'opera sarà pertinente a paradigmi diversi da quello psicoanalitico considerato), ma mai come arbitrariamente falsa. Certo, un controllo simile esige il possesso, da parte del controllore, del sapere stesso che intende controllare, ma ciò non succede usualmente? Solo chi già conosce l'elefante, può dire che l'animale che s'avvicina e incombe enigmatico, è un elefante; soltanto chi conosce mio zio può dire che l'uomo che si atteggia istintivamente a difesa è mio zio e così via.
Pluralizzati i significati, è naturale (e inevitabile) che anche la percezione di una stessa opera d'arte risulti pluralizzata. Se percezione significa alla lettera - al di là di ogni sua ideologica connotazione paradigmatica, psicologica o fìlosofica che sia - quanto del mondo (della realtà) prendiamo con i nostri sensi e se questo "prendere con i nostri sensi" va a sua volta pensato, fuori di ogni paleo-empirismo o realismo ingenuo che dir si voglia, inseparabile dalla cultura (dalla mentalità) che l'attiva, "signifìcato" e "percezione" non possono che essere la stessa cosa: un costrutto unico storicamente determinato e mobile con il muoversi della storia stessa che lo costituisce. "Significato", quando lo si legge sullo sfondo della cultura, della soggettività (dell'intersoggettività) che appunto lo forma; "percezione", quando si pone, invece, l'accento su quanto della realtà (del mondo) la stessa predetta soggettività preleva. Che poi "Significato" e "percezione" risultino a loro volta "pertinenza", denotino insomma ciò che, per altro verso, diciamo "pertinenza", è facile vedere. Pertinenza, etimologicamente da "appartenere" e allora anch'essa un costrutto, un "ritaglio di caratteristiche" che, dalla parte delle "caratteristiche", appartiene alla realtà, da cui le caratteristiche stesse vengono prelevate, e che invece, dalla parte del ritaglio, appartiene alla pratica, al punto di vista (alla cultura) che l'attiva. [Il mio ricorso all'etimologia non va inteso in questo e in ogni altro caso in senso antistorico, come se nell'etimo delle parole fosse inserito una volta per sempre il loro "vero" significato, ma proprio in senso contrario, storico: ricorro all'etimo, giacché penso che, in certe situazioni, soltanto un suo ricupero riesca a dire ciò che voglio dire.] E non è questo volto doppio anche quello del "significato" o "percezione" ormai, che dir si voglia? Tutto abbastanza ovvio. Ciò che può risultare invece meno ovvio è il fatto che un modello che intenda correttamente darci, oggi, ragione dell'identità (sempre cognitiva s'intende, mai etica) dell'opera d'arte, la debba per essa pensare, questa pluralizzazione, sincronica e non diacronica. E qui sta, pare, il difficile: che i segni nel corso del tempo cambino significato è convinzione abbastanza acquisita e non difficile da accettare. Che essi, invece (l'opera d'arte è pur sempre fatta di segni, parole, immagini o materia segnata che sia), possano accedere a una pluralità sincronicamente indeterminata di significati, e quindi arrivare a comportarsi come se non fossero segni, è cosa ben più difficile, per i più da accettare. Concedendo concedendo, si arriva in alcuni casi ad ammettere che un testo (parlando di opera d'arte non si parla mai, tra l'altro, di segni a livello di langue, ma sempre di segni ben più strettamente legati in testo appunto, in parole) possa mutare, sottilmente disquisendo, significato diacronicamente, ma sincronicamente no, mai. Sarebbe come dare identità alla tela di Penelope, in azzeramento del tempo. Ma - e il lettore che mi ha seguito attentamente sarà d'accordo - ciò succede se ci si ostina ancora a pensare l'identità dell'opera d'arte in rapporto - siamo sempre lì - al modello della comunicazione da cui siamo partiti. Tolto di mezzo questo pregiudizio, la polisemia in questione non si configurerebbe poi tanto paradossale. Tutta la realtà extrasemiosica funziona per noi, oggi, così. Che cosa può impedire allora alla storia di riconvertire i segni in materia? In energia appunto, come si diceva? Niente credo, se non i nostri pregiudizi.
Che poi questa "conversione" sia a sua volta sensato pensarla, fuor d'ogni postulazione per essa di cause incontrollabilmente metafisiche o meta-storiche che sia, come effetto di meccanismi (convenzioni) ancora semiosici, per quanto puramente operativi e inconsci, è un'altra faccenda. Faccenda che avrebbe a che fare con interrogativi circa i meccanismi di costituzione, in questo caso collettiva, dell'artisticità, e non invece con i modelli di descrizione della vita sua concreta, che è appunto ciò di cui unicamente qui ci si sta occupando.
Mi si potrebbe, per altro, fare notare che tutto il mio discorso ha per oggetto quanto succede nello spazio opera-fruizione o spazio della risoluzione, come ho detto altrove, [L. Nanni, Contra dogmaticos, Bologna, Cappelli, 1987, pp. 183/206.] e non tocca invece lo spazio che va dalla realtà tout court all'opera d'arte, cioè a dire lo spazio dell'autore in quanto tale, delle modalità con cui egli inscrive nell'opera il suo modo di percepire il mondo. Mi si potrebbe incolpare di avere, insomma, indebitamente trascurato l'opera, se si vuole, come correlativo oggettivo del rapporto del suo autore (dell'artista) con la realtà (con la vita). Obiezione in astratto sensata: questo spazio genetico esiste, ha un suo volto da non confondersi affatto con quello della risoluzione. [L. Nanni, Contra dogmaticos, cit., passim.] Ma l'obiezione, nel caso e a ben guardare, è accademica se non addirittura fuorviante. Che ci siano percezioni di tal fatta alla base dell'opera è indiscutibile; che esse siano nervature dell'opera anche. Che invece esse, come tali, siano conoscibili e che quindi di esse dall'esterno (teoreticamente), dalla parte dello studioso-descrittore della realtà dell'opera, occorra occuparsi - pena l'incomprensione dell'opera - è da vedere. Lo sarebbe se valesse, per spiegare la vita dell'opera, il modello - siamo sempre lì - della comunicazione. Non si tratterebbe ancora una volta di raccogliere dalla parte della fruizione qualcosa di già costruito - nel caso un particolare tipo di percezione - dalla parte del produttore? Ma è proprio questo modello che io, ripeto, ritengo vada, per fìnalmente avvicinarsi a comprendere la vita reale dell'opera d'arte oggi, tolto di mezzo. E, con esso, anche tutto questo ultimo fascio di questioni.
Nel modello della significazione, la percezione inscritta originariamente dall'autore nella sua opera può sì tornare a lui (e ad altri), in qualità di fruitore della sua stessa opera, intatta, ma si configurerà immediatamente, come una delle tante sue percezioni possibili, come una tra le tante sue (dell'opera) possibili pertinenze. Né meno né più sensata di altre.
Qui la filologia perde anche l'eventuale suo valore d'uso metaforico e finisce per rivelarsi, a quella coscienza critica che ritengo più corretta, niente altro che asfissiante ideologia. Qui, intendo, nella ricerca del significato autentico dell'opera, non per altro.