Una teoretica
corretta, e avanzata? Ripensiamo la linguistica e la semiologia (la
semiotica)
(Parol on line, dicembre 1999) di L. J. Prieto. A cura di Lorenza
Mazzei
Nemmeno l'avessimo fatto apposta, magari guidati da provvidenziali previsioni medianiche. Fatto sta che in questa conferenza, tenuta nel 1989 all'Università di Bologna, Prieto ripensa la linguistica e la semiologia ( la semiotica ) del Novecento proprio secondo gli intenti da consuntivo critico, che hanno guidato la confezione di questo numero di Parol. E lo fa da un punto di vista particolare, quello della teoria della conoscenza che, più o meno nascosta, costituisce il collante di tutto il fascicolo.
La conferenza, inedita e tenuta più precisamente all'interno dell'insegnamento di Estetica DAMS, si lega idealmente e praticamente a quella che abbiamo pubblicato nel numero precedente. Praticamente, perché fu la seconda delle conferenze tenute da Prieto nei due giorni che passò a Bologna, ospite dell'Università. Idealmente, perché i temi delle conferenze sono ad evidenza connessi, con in più, nella presente, l'accentuazione di quel taglio storico-critico di cui s'è detto. Oggetto della revisione è sia il personale percorso di ricerca di Prieto stesso, sia la vicenda teorica, appunto nel suo complesso, della linguistica e della semiologia ( semiotica ) novecentesca, ivi compreso il cosiddetto strutturalismo. Vicenda che Prieto si preoccupa di depurare dai dogmatismi degenerativi, per esempio di C. Lévi Strauss, seguiti alla impostazione ( questa sì invece, per Prieto, sensata e corretta ) data a queste questioni da Ferdinand de Sassure, nelle sue linee di fondo, e successivamente perfezionata dalla scuola di Praga cui, secondo Prieto, è bene ritornare.
Tutto ciò ovviamente nello spazio ristretto, e nei modi , di una conferenza, quindi più per semplici accenni piuttosto che per argomentazioni distese e con movenze linguistiche piacevolmente personalizzate ( la conferenza fu tenuta da Prieto direttamente in italiano ) che, fatta salva la comprensibilità, è stata nostra cura conservare.
Prieto - Vorrei giustificare come e con che diritto un linguista parla di teoria della conoscenza. E' abbastanza facile da capire. La fonologia praghese, di cui Nanni ha parlato, non studia i suoni, malgrado l'etimologia del termine (fonologia = teoria del suono), non studia i suoni , studia la maniera in cui il parlante conosce i suoni. Questo spiega come a partire dalla Scuola di Praga si giunge a problemi che si pongono non nel campo della linguistica in senso stretto, ma direttamente nel campo di una teoria della conoscenza in generale. E' tuttavia una teoria della conoscenza un po' particolare che non fa doppio impiego, che non fa doppione. si può dire "doppione" ?
Nanni: Beh, doppione. vuoi dire " che non ripete esattamente".
Prieto: Sì. Una teoria che non ripete esattamente la teoria classica della conoscenza. Anche se può sembrare accademico comincerei con un esempio che è quasi uno scherzo, ma che ha un certo interesse per quanto ho intenzione di esporre. Supponiamo che abiti vicino a me un dentista piemontese e che io, una sera, abbia un ospite che ha male ai denti. Se dico per esempio a questo mio ospite: "peccato che il mio vicino di casa non sia dentista" gli trasmetto una conoscenza che non è valida perché falsa: il vicino è un dentista. uindi la verità è una condizione necessaria per la validità di una conoscenzaQuindi la verità è una condizione necessaria per la validità di una conoscenza. Ma supponiamo che io dica: "per fortuna il mio vicino di casa è piemontese". Questa conoscenza è vera perché il mio vicino è, oltre che dentista, piemontese e tuttavia questa conoscenza per il mio ospite, che ha male ai denti, non è più valida della prima. Quindi la verità, che è condizione necessaria della validità di una conoscenza, non è sua condizione sufficiente, perché se fosse sufficiente, dicendo al mio ospite che per fortuna il mio vicino è piemontese, egli avrebbe avuto una comunicazione di una conoscenza utile per lui. E invece non è così; quanto io gli ho comunicato non gli serve a niente perché la validità di una conoscenza dipende certamente dalla sua verità, ma dipende anche dalla sua pertinenza. Con questa affermazione mi pongo in una posizione un po' diversa da quella esposta in Pertinenza e pratica e mi piacerebbe fare alcune precisazioni riguardo alcuni punti, dal momento che Nanni mi fa l'onore di utilizzare il mio libro.
La semiologia - la semiologia derivata dalla Scuola di Praga - non è un "doppione" della teoria classica della conoscenza, perché introduce una nozione importante, la nozione di "pertinenza" e con questa cerca di spiegare non la conoscenza, ma la ragione d'essere della conoscenza, la raison d'être della conoscenza, e, più esattamente, la raison d'être della conoscenza della realtà materiale. Questa semiologia si costituisce attorno al principio che la validità di una siffatta conoscenza dipende non soltanto, come viene di solito ammesso, dalla sua verità, ma anche dalla sua pertinenza. Ritornando all'esempio precedente, è vero che il mio vicino è dentista così come è vero che egli è piemontese: tutte queste sono conoscenze vere; ma allora perché una è valida e l'altra non lo è ? Perché per essere valida una conoscenza ci vogliono entrambi i criteri: verità e pertinenza. La verità è un rapporto della conoscenza col suo oggetto, mentre la pertinenza è un rapporto della conoscenza col soggetto che se ne serve, per definizione storico-sociale. La semiologia che prende come punto di partenza il principio secondo il quale verità e pertinenza concorrono alla validità di una conoscenza può essere caratterizzata anche come lo studio delle conoscenze della realtà materiale, che tengono conto del soggetto, e che le considera quindi in ciò che esse comportano di storico-sociale.
E questo mi sembra un passo abbastanza importante per una teoria della conoscenza in generale. Perché dico questo? Perché un ostacolo importante contro il quale urtano le teorie delle conoscenza, le epistemologie, che fanno della verità l'unico criterio di validità di una conoscenza è quello della cociliazione dell'esistenza della realtà materiale, come indipendente dalla conoscenza, col carattere storico-sociale della conoscenza stessa. Infatti, se noi possiamo affermare che la realtà, parlo della realtà materiale, esiste indipendentemente dalle conoscenze che l'uomo costruisce è perché questa esistenza viene provata dal principio di non contraddizione. Cosa dice il principio di non contraddizione? Dice che, data una certa realtà, due conoscenze contraddittorie di questa realtà non possono essere entrambe vere. Quindi se dico che questa realtà A è "rossa" e "non rossa" dico qualcosa che non ha senso: A è rosso, A è non rosso. Se A è la stessa realtà allo stesso momento è impossibile che queste due conoscenze siano ambedue vere: possono essere ambedue false, possono essere l'una vera e l'altra falsa o l'una falsa e l'altra vera, ma mai ambedue vere. E questo è l'ostacolo, il limite, che la realtà pone alla conoscenza e che dimostra giustamente la sua esistenza indipendente dalla conoscenza. E' la realtà che non si lascia conoscere in maniera contraddittoria. Una realtà può essere conosciuta in un numero infinito di maniere diverse, ma ci sono maniere di conoscerla che non vengono accettate, che non sono possibili. E questo limite, che la realtà pone alla conoscenza di se stessa, questo limite è la dimostrazione della sua esistenza indipendente. Se prendiamo allora la verità come unico criterio di validità cosa succede? Succede che l'unica maniera di dire che la conoscenza è condizionata storico-socialmente consisterebbe nel dire che una conoscenza, che è vera in un posto è falsa in un altro. In questo caso il principio di non contraddizione non funziona più e la realtà svanisce. Non si può di conseguenza affermare che una conoscenza, vera in un contesto storico-sociale determinato, possa essere falsa in un altro, senza abolire questo limite e senza eliminare con esso la realtà. Soltanto rispettando il principio di non contraddizione si riconosce l'esistenza della realtà. Ma se diciamo, invece, che ciò che è vero in un posto è necessariamente vero in ogni altro posto dove si trova allora il carattere storico-sociale della conoscenza? Conciliare la realtà materiale con il carattere storico della conoscenza risulta impossibile nella misura in cui si prende la verità come unico criterio di validità. In seguito vedremo come è possibile uscire dall'impasse tramite il principio di pertinenza.
Gli epistemologi, principalmente gli epistemologi marxisti, hanno cercato di conciliare le due cose, perché evidentemente per il marxismo è un punto chiave conciliare l'esistenza reale, effettiva, della realtà col carattere storico-sociale della conoscenza. Io non sono uno storico della filosofia e quindi non so esattamente dove si trova l'origine di questa idea, ma Lenin la espone abbondantemente e consiste nel distinguere due tipi di conoscenza: la conoscenza "totale" dell'oggetto e le conoscenze "parziali": delle conoscenze "totali" di un oggetto materiale ce n'è soltanto una vera, mentre di conoscenze "parziali" ce ne possono essere un'infinità. Lenin dice, più o meno, che la conoscenza totale è l'unica perfetta, che è indipendente dalla società, perché l'oggetto non può essere totalmente conosciuto che in una sola maniera, ma questa conoscenza, che sarebbe l'ideale secondo Lenin, è inaccessibile al cervello limitato dell'uomo, che è capace di costruire conoscenze che sono soltanto parziali. Dal momento che sono parziali niente impedisce che una società costruisca una conoscenza parziale e vera di un certo oggetto, diversa dalla conoscenza ugualmente vera e ugualmente parziale, ma diversamente parziale in quanto riferita ad un'altra parte dell'oggetto, e che queste due conoscenze diverse dello stesso oggetto differiscano in funzione della società che le ha costruite. E' indubbio che il carattere storico-sociale delle conoscenze presuppone la possibilità di costruire, di uno stesso oggetto, conoscenze diverse e che siano ciononostante tutte vere.
Per spiegare però tale carattere bisogna ancora stabilire, da una parte, perché si costruiscono conoscenze "parziali" e, dall'altra, perché, costruendole, si prende in considerazione una data parte dell'oggetto anziché un'altra. Considerando la verità come unico criterio di validità delle conoscenze, la costruzione di conoscenze "parziali" e la loro diversità non può essere attribuita a nient'altro che alla limitatezza dell'intelligenza dell'uomo. La conoscenza perfetta di un oggetto sarebbe la sua conoscenza totale e vera. Ma due conoscenze totali e vere di uno stesso oggetto non potrebbero evidentemente mai essere ambedue totali e ambedue vere e così la conoscenza totale e vera di un oggetto, poiché sarebbe unica, si situerebbe al di là della sua relatività storico-sociale. Tale conoscenza non sarebbe tuttavia che un ideale al quale si mira senza mai raggiungerlo. L'uomo riuscirebbe a costruire solo delle conoscenze parziali, le quali, a seconda del contesto storico-sociale, si avvicinerebbero più o meno e in maniera diversa all'ideale della conoscenza perfetta. Questa è la teoria della approssimazione perpetua" di Lenin, consistente, più o meno, in questa ricerca dell'ideale della conoscenza, che tenderebbe a costruire la conoscenza totale dell'oggetto e quindi ad esaurire l'oggetto; ideale che però non viene mai raggiunto. In questo avvicinamento perpetuo le società avrebbero fatto progressi e regressi e nulla più.
Presentato in questo modo il carattere storico-sociale della conoscenza appare come un fatto puramente negativo: le conoscenze sono storico-sociali semplicemente perché il cervello dell'uomo non è in grado di costruire conoscenze che non lo siano. Personalmente non sono d'accordo. Io ritengo, al contrario, che il carattere storico-sociale delle conoscenze sia positivo e che, inoltre, sia presente, necessariamente, in ogni conoscenza, anche in questa pretesa conoscenza ideale. E perché? Perché la validità della conoscenza dipende non soltanto dalla sua verità ma anche dalla sua pertinenza. Ho definito precedentemente la pertinenza come il rapporto tra la conoscenza e il soggetto. Soggetto che è condizionato dai suoi interessi e dai suoi desideri ed è condizionato in questi desideri e in questi interessi dal gruppo sociale cui appartiene. E' allora a causa del fatto che la pertinenza (il soggetto) interviene necessariamente nella costruzione della conoscenza che ogni conoscenza è storico-sociale. La pertinenza appare anzi come un criterio di validità logicamente anteriore a quello costituito dalla verità, poiché, come l'esempio del dentista dimostra, la questione della verità di una conoscenza si pone soltanto per una conoscenza considerata già come pertinente. Per il mio amico, che ha male ai denti, che sia vero o falso che il mio vicino sia piemontese è indifferente. Soltanto per la conoscenza pertinente ci poniamo la questione di sapere se è vera o falsa. Due allora i criteri di validità, pertinenza e verità, ma la pertinenza è il criterio logicamente precedente.
Quanto detto ci consente di dare un giudizio diverso del carattere parziale delle conoscenze. Per Lenin, per gli epistemologi di cui parlavo, la parzialità della conoscenza è una tara che consegue dalla limitatezza del cervello umano, ma io credo che sia esattamente il contrario: l'intelligenza dell'uomo si manifesta giustamente nella capacità di costruire conoscenze parziali. D'altra parte che ce ne faremmo della conoscenza totale di ogni oggetto? Assolutamente nulla, perché noi conoscendo l'oggetto parzialmente ne riteniamo la parte che è pertinente per i nostri interessi. Quindi la parzialità non è un difetto della conoscenza: le conoscenze sono schemi della realtà, schemi pertinenti e quanto interessa è giustamente in questa parzialità. In Storie dell'eternità Borges, lo scrittore argentino anche qui - penso - ben noto, racconta che in un dato impero la geografia fece tali progressi che si riuscì a fare la carta dell'impero grande quanto una città. Continuando a progredire, i bravi geografi di questo stato arrivarono a tracciare la mappa dell'impero grande quanto una provincia e alla fine riuscirono nel loro ideale: costruire la mappa dell'impero grande quanto l'impero stesso. Ma la carta dell'impero grande quanto l'impero non serve affatto a niente. La conoscenza non può essere una riproduzione del reale: la conoscenza è uno schema del reale, uno schema pertinente.
A cosa servirebbe all'Università di Bologna avere una carta di Bologna grande quanto la città? Magari potrebbe servire se fosse tridimensionale ! L'Università avrebbe più spazio per le lezioni, ma in quanto mappa bidimensionale non servirebbe a niente.
Nanni - Magari avessimo più posto !
Prieto - Appunto ! E poi anche una conoscenza totale - ammesso che vi sia un senso a parlarne - sarebbe sempre, si può dire, storico-sociale. E perché? Perché se il soggetto si fosse dato da fare per costruire questa conoscenza totale sarebbe perché la totalità dell'oggetto conterebbe per i suoi interessi e sarebbe quindi storico-sociale. La sua totalità si spiegherebbe, infatti, a partire da interessi del soggetto che non sono imposti dall'oggetto. Bisogna sempre distinguere fra verità e pertinenza. Facciamo un altro esempio: questo gessetto. Esso mi consente di fare la costruzione cognitiva consistente nel riconoscerlo come bianco; ma esso mi consentirebbe anche di non fare questa costruzione cognitiva. Potrei, insomma, non occuparmi di esso sotto l'aspetto del colore. Potrei allora conoscerlo come bianco e potrei non conoscerlo come bianco, ma questo oggetto non consente, però, che io faccia di esso la costruzione cognitiva che consisterebbe nel riconoscerlo come non bianco. Tre sono le posizioni per me fondamentali.
- Posso conoscere A come "bianco"
- Posso non conoscere A come "bianco"
- Non posso conoscere A come "non bianco"
Le proposizioni 1 e 3 mi assicurano che A esiste indipendentemente dalla mia conoscenza. C'è qualcosa nell'oggetto che mi consente una costruzione cognitiva e mi rifiuta l'altra e che esiste indipendentemente dalla mia conoscenza. Questa cosa, che io chiamo la "bianchezza", esiste nell'oggetto ed è una realtà che non dipende da quello che fa la mia conoscenza di questo oggetto: è qualcosa che è nell'oggetto che, mentre mi consente di conoscerlo come bianco, mi impedisce di conoscerlo come non bianco e chiamo questo qualcosa la bianchezza. Le proposizioni 1 e 2 mi assicurano che la maniera in cui io conosco l'oggetto non viene imposta dall'oggetto, ma dipende dai miei interessi. C'è un'infinità di conoscenze possibili vere: quale io costruisca dipende non dall'oggetto, perché nessuna di queste conoscenze viene imposta da esso, ma dipende dall'interesse col quale io approccio l'oggetto. Si può dire approccio ?
Nanni - Beh ! Sì , si può dire.
Prieto - Bene. Se un oggetto, se una realtà non mi interessa, non riesce a essere riconosciuta da me come realtà. Esempio classico: siamo in casa di amici, si chiacchiera, si sente musica, ad un certo punto il padrone di casa si alza ed esce dalla stanza. Che cosa è successo? E' il telefono, ma l'unico a sentirlo è stato lui. Perché? Gli altri sono sordi? Non si tratta affatto di sordità: il fatto è che questa realtà fisica consistente nello squillo del telefono non è una realtà interessante per il soggetto (non è costruita come oggetto) se non per il padrone di casa. Noi soltanto possiamo conoscere o non conoscere: una realtà può rimanere pura sensazione, senza diventare oggetto di conoscenza quando non ci interessa per niente.
Quanto detto non era che un'introduzione per arrivare a queste più classiche, diciamo più vecchie, questioni della mia attività di ricerca: le scienze dell'uomo e le scienze della natura. Io preferisco dire non scienze umane e scienze naturali ma scienze dell'uomo e scienze della natura. Penso che tutte le scienze sono umane. E' molto pericoloso parlare di scienze naturali come se fossero scienze che si pongono al di fuori della storia: non ci sono scienze naturali ma soltanto scienze umane, scienze umane che hanno come oggetto la natura o l'uomo.
Nanni - Spero di aver fatto bene presentandoti: credo di aver detto scienze dell'uomo.
Prieto - Sì. Sì. E sono stato contento. C'è una realtà materiale che esiste indipendentemente dalle nostre conoscenze; l'uomo con la sua attività cognitiva costruisce conoscenze di questa realtà e crea a fianco di questa realtà, prima e naturale, un'altra realtà, seconda e storica, costituita da queste stesse conoscenze. Una conoscenza della realtà materiale costituisce una realtà che è suscettibile di diventare a sua volta l'oggetto di una conoscenza. Conoscere la conoscenza è una maniera di conoscere l'oggetto. Non ci sono due realtà diverse: c'è la realtà dell'oggetto che include quella della maniera in cui viene conosciuto. Le conoscenze non si spiegano interamente partendo dall'oggetto materiale, perché in questo modo può spiegarsi la verità, ma non la pertinenza. C'è un'infinità di conoscenze possibili di questa realtà: ma perché una e non un'altra non può essere spiegato a partire dalla realtà materiale stessa. La realtà storica non è un semplice prolungamento della realtà materiale, ma costituisce un'altra realtà; e dal momento che costituisce un'altra realtà è suscettibile di diventare, a sua volta, l'oggetto di una conoscenza. Abbiamo, allora, le conoscenze della realtà materiale e le conoscenze delle conoscenze della realtà materiale. Queste conoscenze, che l'uomo ha costruito dalla realtà materiale, costituiscono la realtà storica e questa realtà storica è l'oggetto di queste conoscenze che io chiamo le scienze dell'uomo. Le scienze dell'uomo sono, quindi, le conoscenze il cui oggetto appartiene non alla realtà materiale, ma alla realtà storica costituita dalle conoscenze della realtà materiale.
L'esempio generatore della teoria è l'esempio della fonologia di Praga. Ci sono i suoni, la realtà materiale; c'è il parlante e c'è la conoscenza che egli ha dei suoni: questa conoscenza è il fonema. Conoscere l'oggetto significa conoscerlo come membro di una classe, cioè riconoscerne certe caratteristiche soltanto e riconoscerlo quindi come differente soltanto dagli oggetti dai quali differisce per queste caratteristiche. Se Nanni dice "casa" e io dico "casa", i suoni fisicamente sono diversi, tuttavia voi direste che abbiamo pronunciato gli "stessi" suoni. "Stessi" cosa vuol dire in questo caso? Non gli stessi materialmente, né numericamente, né per identità specifica assoluta; "stessi" significa: appartenenti alle stesse classi pertinenti per noi italofoni. Questo vuol dire "stessi". Numericamente ( materialmente, insomma ) non sono gli stessi, ma neanche qualitativamente, perché queste pertinenze linguistiche non sono le sole che possono capitare. Supponiamo che qualcuno dica: "questo signore viene dal sud", oppure "questo viene dal nord", o "è straniero". Voi direte che questo è davvero straniero e applicate oltre alle pertinenze linguistiche dell'italiano altre pertinenze relative a certe maniere di pronuncia diverse ecc. Se, per esempio, una signora gelosa riceve una telefonata in cui una signora domanda di suo marito non dovrebbe esserci problema eppure la signora diventa un po' nervosa. Questo vuol dire che questa signora riconosce la classe linguistica cui appartengono i suoni, ma anche una classe non linguistica che suscita la sua reazione di gelosia. Conoscenza vuol dire stabilire, riconoscere l'identità, e il parlante riconosce certe identità dei suoni, quelle che sono per lui pertinenti: scopo della fonologia è cercare di spiegare la pertinenza di questa maniera di conoscere i suoni. Questa conoscenza che non si confonde, ma che costituisce una realtà diversa dalla realtà materiale dei suoni, può diventare a sua volta l'oggetto di un'altra conoscenza: nel caso la fonologia. La fonologia non studia i suoni, ma studia la maniera di conoscere i suoni propria del parlante. Cosa vuol dire studiare una conoscenza? Significa esplicitare la ragione della sua pertinenza, perché è questa categorizzazione e non un'altra quella che fa, nel caso del parlante, il fonema. Questo è il problema, mi sembra, che si pone ogni semiologia, ma direi ogni scienza dell'uomo. In questo senso io dico che ogni scienza dell'uomo è semiologica e dico che lo si può dire senza imperialismo: non voglio dire che tutti devono fare una semiologia, voglio dire che il problema che si pone a ogni scienza dell'uomo è un problema di tipo semiologico, in quanto è compito di ogni scienza dell'uomo spiegare la pertinenza di una conoscenza. E' per ciò che questa teoria della conoscenza, derivata dall'esempio praghese, non fa "doppione" con la teoria classica della conoscenza. La teoria classica della conoscenza non si pone il problema del perché di una conoscenza: considera, io direi, quasi naturali le conoscenze. La semiologia di cui parlo, invece, si pone come problema il perché di una conoscenza e se lo pone nell'infinità di conoscenze possibili.
Ancora un esempio. Supponiamo di avere delle cartoline colorate e che vi sia un bambino. Supponiamo inoltre che le identità rossa e blu siano le identità che contano per il bambino, perché gli servono magari per scoprire delle caramelle. Queste due identità non sono le uniche possibili; possiamo, infatti, trovare altre loro caratteristiche riguardanti ad esempio la forma, rotonda o quadrata: le identità diventano così quattro: rotonda rossa, quadrata rossa, rotonda blu, quadrata blu. E queste non sono che alcune delle loro caratteristiche: sicuramente la carta non è la stessa per tutte le cartoline, ad esempio può variare nello spessore. Insomma si potrebbe trovare un'infinità di classificazioni possibili e di conseguenza un'infinità di identità che sarebbero tutte vere, e che potrebbero tutte essere riconosciute a questi oggetti. Tuttavia il comportamento del bambino ci mostra che quella che ha significato è la classificazione che conta per lui. Questo è il tipo di problema che si pone la fonologia praghese e credo sia il problema di ogni scienza dell'uomo: un soggetto assume un comportamento che ci mostra che una certa identità è quella pertinente per lui. Ma perché questa e non un'altra? La spiegazione viene sempre, mi sembra, dal rapporto tra questi oggetti e altri oggetti che appartengono ad un altro universo di discorso, l'universo dei significati. Il modo in cui un soggetto conosce un oggetto materiale qualsiasi possiede sempre una pertinenza e questa pertinenza, poiché risulta sempre dalla corrispondenza tra classi appartenenti a due universi di discorso, presuppone sempre un modo particolare di conoscere un altro oggetto appartenente ad un altro universo di discorso. Il tipo di rapporto che si stabilisce tra due universi di discorso ( oggetti materiali e significati ) è un rapporto che Saussure chiama "di scambio".
Approfitto per parlare un po' dell'amico Lévi-Strauss. Lo strutturalismo praghese, saussuriano, e dopo lo strutturalismo delle scienze dell'uomo negli anni '60-'70 sono lo stesso strutturalismo, ma nel corso di questi anni tale strutturalismo ha perduto l'essenziale della sua sostanza. La novità fondamentale del pensiero, dello strutturalismo, saussuriano, il contributo più importante del suo insegnamento consisteva nello spiegare la pertinenza o la non pertinenza dei rapporti di confronto tenendo conto dei rapporti di scambio. De Saussure distingue tra il rapporto "di confronto", che collega tra loro "cose simili", dice lui ( oggetti appartenenti, traduco io, a uno stesso universo di discorso, a uno stesso ordine di fatti ), e il rapporto "di scambio", che collega tra loro "cose dissimili" - oggetti appartenenti a universi di discorso diversi. De Saussure era stato influenzato da Pareto ( aveva letto la sua "economia") e la nozione di scambio, di valore, almeno a livello terminologico, ha peso sui termini saussuriani: il rapporto di scambio collega tra loro oggetti dissimili, dice Saussure, e cioè oggetti con altri oggetti che appartengono ad un altro universo di discorso, ossia ad altro ordine di fatti. Torniamo all'esempio delle cartoline: supponiamo che il bambino si sia reso conto che la mamma ha messo delle caramelle sotto le cartoline rosse, e dei sassolini sotto le cartoline blu. Egli allora, una volta che ha stabilito il codice, direbbero alcuni, che ha stabilito insomma un sistema, vivrà tutte le cartoline rosse come equivalenti e opposte a quelle blu. Vi è opposizione quando la differenza è pertinente. Nella differenza non pertinente c'è anche differenza ma non c'è opposizione: la differenza in questo caso esiste solo al livello dell'oggetto non a livello delle classi. L'opposizione sarebbe la differenza a livello delle classi. Torniamo ora a Lévi-Strauss.
R. Jakobson e C. Lévi-Strauss si ritrovano tutti e due alla Scuola Pratica degli Alti Studi a Parigi. Quando Parigi viene occupata dai tedeschi alcuni professori parigini fondano a New York la Scuola Libera degli Alti Studi. Qui Lévi-Strauss frequenta le lezioni di Jakobson e rimane sedotto dall'idea dell'opposizione: un fonema si definisce per opposizione ad un altro. Ma prende soltanto questa nozione. Ma non è questo il contributo fondamentale dello strutturalismo saussuriano. Che ogni fonema, cioè ogni classe possa essere definita in opposizione ad altre classi è la vecchia storia della logica. Poteva essere una novità per la linguistica, ma non per la teoria della conoscenza. Boole, alla fine del secolo scorso, già parlava di classi complementari ecc. Il contributo essenziale dello strutturalismo consiste, invece, nel tentativo di spiegare queste opposizioni. Perché queste e non altre ? E si può fare una generalizzazione molto vasta di questi rapporti. Questi rapporti sono in definitiva dei rapporti che esistono tra un universo di discorso e un altro universo di discorso. Sarebbe a dire che la maniera pertinente, la maniera cioè in cui viene conosciuto un oggetto da parte di un soggetto storicamente determinato, risulta dalla utilizzazione che il soggetto in questione fa di questo oggetto in una pratica. Il punto di vista da cui risulta la pertinenza di una conoscenza della realtà materiale è sempre connesso ad una "funzione" cioè ad uno scopo: alla base del modo in cui si conosce una realtà vi è sempre una prassi. Accanto ai rapporti tra "cose simili" vengono presi in considerazione i rapporti tra "cose dissimili". Questi rapporti non sono altro che quelli che uniscono tra loro i mezzi e gli scopi di una pratica.
Le scienze dell'uomo dovrebbero porsi come problema l'individuazione della pratica che spiega la maniera di conoscere che costituisce il loro oggetto. I suoni non costituiscono l'oggetto della linguistica, ma esso è costituito dalla maniera in cui il parlante conosce i suoni. E la maniera in cui il parlante conosce i suoni si spiega esplicitando la pratica comunicativa; tenendo cioè conto dei rapporti che collegano i suoni con lo scopo di questa pratica: il senso. Io penso che il senso della comunicazione sia la conoscenza che l'emittente cerca di far diventare anche una conoscenza del ricevente. La scienza dell'uomo, la linguistica, mostrando questa pratica e lo scopo di questa pratica, che è il senso, spiega la maniera di conoscere i suoni propria del parlante. La lingua è la conoscenza dei suoni e dei sensi che il soggetto parlante costruisce tenendo conto del rapporto tra mezzo e scopo nel quale gli uni si trovano riguardo agli altri. La linguistica, che è la scienza che ha per oggetto la lingua, è di conseguenza una conoscenza il cui oggetto è a sua volta una conoscenza. La particolarità della fonologia e della linguistica di avere per oggetto non un oggetto materiale, bensì la conoscenza di un oggetto materiale, non si ritrova tuttavia soltanto in queste discipline, essa è comune a tutte le scienze dell'uomo. Per la linguistica, come scienza dell'uomo, mi pare che tutto ciò sia evidente. Ma io vorrei mostrare, infine, alcuni esempi per giustificare la generalizzazione di questo principio a tutte le scienze dell'uomo.
Un esempio, che mi sembra abbastanza interessante, dimostra come nelle scienze dell'uomo, oltre alla conoscenza che costituisce questa scienza, vi è sempre coinvolta un'altra conoscenza. Nell'etnologia, ad esempio, si parla di etnocentrismo. L'etnocentrismo ha a che fare con il fatto che, oltre alla conoscenza dell'indigeno, conoscenza che costituisce l'oggetto della disciplina etnologica, c'è sempre anche un'altra conoscenza, quella del ricercatore. L'etnocentrismo consiste nel sostituire la conoscenza dell'oggetto con la conoscenza del soggetto (del ricercatore). Sappiamo: esistono vari suoni: "i", "e", "e" aperto, "a", "o" ecc.: questi suoni esistono in italiano ed esistono in eschimese. Per l'italofono queste distinzioni sono significative, non per l'eschimese. Immaginiamo un missionario che vada dagli eschimesi e stabilisca che anche i fonemi dell'eschimese sono cinque. Ma per l'eschimese sono tre i fonemi che contano. I suoni sono gli stessi materialmente, ma per l'italofono sono distribuiti in cinque fasce e per l'eschimese, invece, sono distribuiti solo in tre. I suoni esistono per entrambi, ma alcuni per l'eschimese sono equivalenti: pronunciare uno o l'altro è lo stesso. Dal momento che non sono distintivi, cioè non cambiano niente per lo scopo della comunicazione, l'eschimese li pronuncia nella maniera che gli è più comoda nel contesto degli altri suoni. Se l'oggetto dell'etnologia fosse un oggetto materiale, l'etnologo non rischierebbe di peccare di etnocentrismo, giacché questo consiste, nel suo caso, nel sostituire la conoscenza che egli ha di un certo oggetto materiale a un'altra conoscenza di questo stesso oggetto, quella dell'indigeno, la quale costituisce appunto l'oggetto della sua disciplina. Un analogo discorso può essere fatto per l'archeologo.
Abbiamo le conoscenze della realtà materiale, e abbiamo le conoscenze delle conoscenze della realtà materiale. Una domanda che mi sono sempre posto è la seguente: "Si può pensare a una disciplina scientifica che abbia come oggetto le conoscenze delle conoscenze della realtà materiale?" Direi di no, anche se ad essere proprio sincero devo dire che mi pare di doverci pensare ancora e meglio. Queste conoscenze non si costituiscono come una realtà diversa da quella che abbiamo detto propria delle scienze dell'uomo, perché le scienze dell'uomo, a mio avviso, non fanno altro, anch'esse, che esplicitare qualcosa che si trova già nella nostra conoscenza.
Ma torniamo per un attimo alla realtà materiale. Essa è captabile solamente nella misura in cui diviene conoscenza. Questo è una specie di abisso: si sa fino a dove si conosce, poi cosa c'è dietro non si sa. Forse abbiamo esaurito questa realtà, ma anche se così fosse non ce ne potremmo rendere conto, perché per sapere che è esaurita ci vorrebbe una realtà diversa da quella della conoscenza. Noi possiamo avventurarci in questo abisso, ma non sappiamo dove va. Tutto questo è già nella testa del soggetto. L'oggetto è stato costruito da lui stesso. Io posso dire che una volta che ho determinato la comprensione di una classe, l'intensione della classe, e la sua pertinenza ho esaurito l'oggetto. Di due concetti non posso dire: fino a qui mi sembrano identici, ma non so che cosa c'è dietro. No! Due concetti se hanno la stessa comprensione (intensione) e la stessa pertinenza sono lo stesso concetto in maniera assoluta. Abbiamo, ripeto, le conoscenze della realtà materiale, e abbiamo le conoscenze delle conoscenze della realtà materiale. Le scienze dell'uomo, allora, non cambiano niente; creano, bensì, le condizioni del cambiamento, facendo apparire relativa quella conoscenza che viene vissuta dal soggetto come necessaria.
Si può cogliere l'analogia con certe forme della psicoanalisi: la psicanalisi non cambia niente dell'ambiente, non modifica la realtà; ciò che fa è mostrare la non necessità di certe conclusioni del soggetto. Così facendo crea le condizioni nelle quali il paziente, se vuole, può cambiare. In sostanza della costruzione cognitiva, che già pare al paziente (al soggetto) come necessaria, fa apparire, invece, il suo carattere non necessario. E non mi pare proprio poco !
Studente - E il musicista ? L'artista ?
Prieto - L'artista cerca di dire le cose, di fare le cose come conviene rispetto a un certo scopo. L'esplicitazione di questo scopo sarebbe l'oggetto della semiologia. Ritengo che questa non sia una realtà determinabile all'infinito, come è la realtà materiale. Si può avere un rapporto con un oggetto esauribile, ma non un rapporto con un oggetto inesauribile. L'oggetto di pensiero, dal momento che è costruzione dell'uomo, non può essere infinitamente determinato. Se noi arriviamo a servirci dei concetti è perché non sono determinabili all'infinito. Gli oggetti di pensiero non hanno identità numerica ( inesauribile ): il fonema "t" pronunciato da Nanni e pronunciato da me non sono due esemplari dello stesso fonema, ma lo stesso fonema, perché non ci sono esemplari degli oggetti di pensiero. Il concetto non è un oggetto di percezione: è l'identità sotto cui il soggetto conosce un oggetto della percezione. Io percepisco la realtà materiale attraverso i concetti. Oggetti di pensiero sono i fonemi: i suoni sono diversi tra loro, ma questi suoni sono conosciuti attraverso oggetti di pensiero. Allora se il fonema "t" di Nanni è diverso dal mio è perché è diverso come suono, ma non come fonema. Questo perché abbiamo gli stessi tratti del fonema e la stessa pertinenza, cioè riconosciamo che "t" è un suono occlusivo, apicale e sordo. Queste sono tre qualità fonologiche del fonema. Ogni produzione fonica che sia occlusiva apicale e sorda è una "t". Ma perché questa pertinenza e non un'altra? Perché questa conta in rapporto al significato linguistico e un'altra no. Non abbiamo esemplari diversi, perché non esistono esemplari di concetti. Dati, ad esempio, questi due fogli essi sono per me due esemplari di oggetti identici. Questo non vale per i fonemi.
Nanni - Beh ! Credo proprio che basti. Non ci resta che ringraziare Prieto di tutto quanto ci ha detto e lo facciamo di cuore. Per quanto mi riguarda, direi anche con affetto, con affetto fraterno. Grazie. Grazie tante.