A ritroso, sulle tracce di una leggenda
di Leonardo Conti
Premessa
Nei gelidi cieli dei giorni più freddi dell'inverno, la leggenda racconta che la merla candida e bianca ed i suoi piccoli, stavano volando ormai allo stremo della resistenza. Già più volte avevano cercato riparo senza successo e stavano ormai soccombendo al gelo implacabile. D'improvviso mamma merla vide un fumo nero salire da un camino e decise di condurre i suoi piccoli in quella direzione, in cerca di un po' di calore. Finalmente in un caldo rifugio la merla riuscì così a salvare la famiglia, divenendo nera a causa della caligine che usciva dal camino. Da allora la leggenda racconta che i bianchi merli, in segno di gratitudine, hanno accettato di restare neri. Da quel momento i giorni più freddi dell'inverno sono detti "giorni della merla".
"Nei giorni della merla: anatomia di una leggenda" è il nome dell'ultimo ciclo di opere di Nanni Menetti, nel quale, com'è sua consolidata abitudine, egli costruisce aneddoti visivi che in questo caso amplificano le possibilità metaforiche della leggenda in direzioni inaspettate.
Ma prima di analizzare alcune opere, credo possa essere utile collocarle brevemente nell'ampio contesto della produzione dell'artista. E' non superfluo ricordare come Nanni Menetti, a nome Luciano Nanni, sia anche un noto (forse non abbastanza[1]) professore di estetica. Sarebbe riduttivo, del resto, affacciarsi sulle opere di Nanni Menetti senza essere a conoscenza dell'esistenza di questo doppio, il quale più che il Doctor Jackil e Mr Hide ricorda i sogni e gli specchi di Borges e la "sola moltitudine" di Pessoa. A proposito, Nanni Menetti non è Luciano Nanni, e nella mia affermazione non c'è una negazione di troppo: Luciano Nanni, il professore, non avrebbe mai potuto fare opere d'arte senza cessare di essere ciò che è e cioè un rigorosissimo estetologo. Uno degli assunti imprescindibili di Luciano Nanni, l'unico che citerò in questo luogo, è che l'estetica come scienza deve occuparsi in modo disinteressato[2] dei fenomeni dell'arte e, dunque, non può e non deve mescolarsi con coloro che l'arte la fanno (con gli artisti), pena la perdita del necessario distacco dell'occhio dello scienziato. L'artista è appunto Nanni Menetti che, quando Luciano Nanni è assente, produce opere d'arte.
Prima, molto prima di quest'ultimo ciclo di opere, è cominciata un'attività creativa di cui credo sia importante affrontare brevemente alcuni temi, utili per una comprensione più corretta della poetica dell'artista, che nel tempo si è venuta stratificando per aggiunte successive.
Gli esordi
Nel 1992, nel momento in cui ritorna più intensamente all'attività artistica, iniziata per altro già negli anni Sessanta (i polittici "Antinomia" e "Preghiera" risalgono al lontano 1966), Menetti ha alle spalle anche una trentina d'anni di attività come poeta[3]. Nelle poesie, spesso caratterizzate da una generalizzazione impersonale di situazioni quotidiane, quasi in un tentativo di radicalizzazione dei procedimenti dell'École du regard, il poeta aveva manifestato il suo primo interesse per le "microviolenze" che si producono nei rapporti tra le persone. Microviolenze sono quei fraintendimenti, incomprensioni e persino soprusi che si verificano nella comunicazione, dovuti talvolta ad innocenti leggerezze, talvolta a colpevoli ipocrisie e all'assenza di quelle piccole o grandi attenzioni così importanti nelle relazioni quotidiane. Nell'analisi menettiana le situazioni in cui le microviolenze accadono sono ridotte alle loro strutture concettuali soggiacenti. Anziché infatti creare personaggi e ambientazioni narrative a cui far vivere i diversi episodi "microviolenti", ai personaggi vengono sostituite delle variabili, rappresentate da lettere dell'alfabeto, che dicono e fanno gesti quasi raggelati in un manuale d'istruzioni: è soltanto la capacità d'immedesimazione del lettore che può produrre un senso realmente vissuto alle scarnificate vicende poetiche. Mi sembra che ci sia in questi esperimenti la volontà di trasformare il linguaggio in strumento scientifico di osservazione. Tale procedimento produce un diverso atteggiamento da quello dell'affettività e compartecipazione cui siamo abituati oggi soprattutto nell'esperienza cinematografica: nella poesia sperimentale di Nanni Menetti non ci sono situazioni specifiche perché ogni situazione fa parte di una situazione tipo e credo che il risultato più importante sia di produrre, attraverso il distacco dall'affettività, un nuovo sguardo consapevole sulla realtà, per non andare alla deriva nel flusso delle cose.
Questi brevi cenni sugli esordi poetici dell'artista bolognese possono essere utili per avvicinarsi ai tratti creativi che si attueranno nella successiva produzione visiva[4]: microviolenza è il nome che, dal 1992, stabilmente ricorrerà in tutte le opere di Nanni Menetti.
Dalla scrittura o da ciò che resta della sua pratica
Sin dalle prime analisi critiche delle opere di Menetti si è parlato spesso di scrittura. Lo stesso artista, in una delle sue prime dichiarazioni di poetica intitolata "Dipingere con la scrittura: autolessico 1" ha approfonditamente inquadrato, seppur per frammenti, la sua posizione nei confronti della scrittura: "La scrittura, schiodata dalla comunicazione, ritorna materia". Da qui credo si debba partire per inoltrarsi nella consapevolezza che "non resta che fare del segno un corpo", perché la scrittura è "lo specchio abissale dove precipitando ci si salva".
Sulle tracce di una collocazione storica e di un'affiliazione di massima ad una corrente artistica, credo che l'imprinting decisivo nella poetica di Menetti sia da attribuire, oltre a certe assonanze con la Nuova scrittura[5], alla lezione dadaista e soprattutto alla figura di Marcel Duchamp. Questi, com'è noto, con i suoi ready-made ha innescato la consapevolezza che gli oggetti del mondo possono cambiare identità se immessi nel mondo dell'arte. Un qualunque oggetto d'uso può divenire un'opera d'arte se inserito nel funzionamento di quest'ultima, perché il potere alchemico dell'arte non solo può plasmare e trasformare la bruta materia in capolavoro, ma può rendere arte anche quegli oggetti comuni che già hanno un'identità sociale. La provocazione duchampiana di trasformare in opera d'arte uno scolabottiglie è soltanto uno degli esempi di quest'alchimia. Ovviamente, da quando questo primo gesto è avvenuto, quasi un secolo fa, di violente polemiche se ne sono accese innumerevoli, ed anche se ancora oggi molti si rifiutano di considerare arte i ready-made, tuttavia la lezione duchampiana non è tramontata e le catene di recinzione dell'arte "bella" sono spesso, per fortuna, saltate. E' a Marcel Duchamp che anche l'avventura visiva di Nanni Menetti deve la sua consapevolezza di libertà creativa. E' in quest'ottica che credo vadano osservate le illeggibili carte colme di scrittura, l'adagiarsi sulla masonite di questi corpi sinuosi segnati dal tempo e ritrovati dell'artista negli esatti smarrimenti di cassetti dimenticati. Se guardiamo la scrittura di una pagina siamo abituati a metterne a fuoco una qualche concatenazione di parole per indovinarne il significato, trattiamo cioè la scrittura nella sua funzione di puro rimando. In quest'uso, come ha osservato Gadamer, per noi la scrittura è senza immagine, perché è una costruzione schematica che deve rimandare ad altro da sé. Per comprendere questo funzionamento si può pensare alla lettura del cielo di un navigatore notturno: se deve orientarsi, gli astri sono segnali che, ad un rapido sguardo, gli indicano la direzione della rotta, ma se si adagia nella contemplazione delle stelle è colto dall'immagine del cielo e rimane come trattenuto da esso: "l'immagine ha il potere di trattenere presso di sé". La scrittura, evaporati i suoi significati, ha una fisicità spesso scalfita: è come un sensale spogliato e silente che si aggira tra conviviali addobbi. Come è possibile pensare ad una scrittura che riconosciamo come scrittura, anzi che sentiamo come la nostra scrittura, ma di cui non percepiamo più se non l'immagine riflessa nel muto specchio? Come si manifesta questa scrittura? Non si tratta di antiche parole perdute, né di simboli appartenenti a lontane civiltà: la scrittura di Nanni Menetti è quella che scrive su se stessa, è quella che s'ingolfa, s'incastra e straripa quando il foglio non è abbastanza vasto per contenerla: così avviene, anzi avvenne ormai, sulla cosiddetta carta carbone, di vario colore a seconda degli usi cui era destinata. Ebbene quegli usi, com'è noto, avevano una finalità duplicativa dei testi, e producevano sulle carte carbone delle incisioni stratificate di scritture sempre più illeggibili, sino all'esaurimento delle funzionalità copiative. L'estrema consumazione della carta/oggetto coincide con il massimo grado d'illeggibilità delle scritture su di essa: chi, del resto, non ha praticato la sovrapposizione di parole diverse, per cancellare definitivamente la percezione d'inconfessabili pensieri sfuggiti alla penna? Eppure, anche nella sua cancellazione, la scrittura resta scrittura. Sui relitti di quelle che furono carte carbone appare un nudo corpo che si mostra. Un corpo che non è solo segno ma è anche la carta cui ora appartiene indissolubilmente, inciso all'origine dalla violenza della penna che scrive. In questo senso va letta la frase di Menetti "la scrittura, schiodata dalla comunicazione, ritorna materia". Quel "ritornare" è possibile soltanto attraverso la consapevolezza duchampiana. Quel ritornare diviene un liberarsi dall'usura alla quale le cose sono sottoposte dall'utilità e l'utilità stessa è la produzione di un bozzolo che prepara e attende la vita. Nanni Menetti sceglie per le sue opere le macerie prodotte dalla pratica della scrittura: per questo è essenzialmente un artista duchampiano.
È inevitabile, poi, che i materiali di cui l'artista si serve per produrre le sue opere siano tutti quelli che derivano dall'uso della scrittura. Per questo motivo già nella prima opera del 1992, A casa diruta, si riconosce un grande brandello di carta assorbente, sul quale, tra le macchie d'inchiostro, s'accampano lacerti di rovine segniche. Anche se in alcune microviolenze potrebbero essere riconosciute talune affinità con esperienze dell'arte europea legate al recupero degli ideogrammi orientali, penso soprattutto alle opere del periodo "asiatico" di Masson ed anche ad alcuni artisti dello Spazialismo veneziano, credo che la caratteristica ineludibile dei segni menettiani sia di conservare uno stato di precarietà e di sostanziale disordine. Non s'intuisce la presenza di una mente ordinatrice delle forze nello spazio, ma soltanto un incontrastato dominio del caso. La sensazione è di trovarsi in presenza di una discarica di segni in cui la carta assorbente ne è il pullulante contenitore. L'operazione compositiva dell'artista non avviene dunque nella produzione di segni, ma attraverso la sistemazione sulla masonite, che è il supporto scelto, dei lacerati resti di carte su cui il segno è rimasto aggrappato. La masonite, soprattutto nei primi anni, rappresenta uno schermo, talvolta dipinto di candida biacca, su cui Menetti compone le sue immagini fatte di cancelleria ritrovata. Questa funzione di supporto, su cui le immagini accadono, rimarrà sempre molto importante, anche pensando alle crio-grafie (scritture fatte col gelo) dell'ultimo periodo, nelle quali ciò che accade è inaspettatamente la natura, o meglio, ciò che l'artista alla natura impone di far accadere. Ma di questo ce ne occuperemo un po' più avanti ed in particolare a proposito di alcune riflessioni sulla prima crio-grafia intitolata Il gelo ha scritto con me l'infanzia che mi nasconde. È del resto proprio all'ampio ciclo delle crio-grafie, iniziato nel 1999, che appartengono le opere de Nei giorni della merla di questa mostra.
Ma procediamo con ordine, introducendo l'uso di altri importanti materiali della scrittura.
È con intento principalmente luministico che la carta velina entra nelle opere di Menetti. Queste diafane superfici incollate offuscano, o accendono, ciò che già era sistemato sulla masonite. Talvolta, poi, la loro funzione è principalmente strutturale, in un bilanciamento delle incombenti censure visive della carta carbone. Interessante è notare come non siano quasi mai più di due i punti in cui le veline sono incollate, per favorire quasi uno "svolazzo", in una promessa d'imminente e forse totale disvelamento, e non posso rinunciare all'analogia, discretamente voyeristica, di una donna tra discinti arredi di veli.
"Velata" è il titolo di un'opera del 1992, importante per la sua essenzialità in cui, sopra un rettangolo di nero carbone, parzialmente s'accampa, e obliquamente, un altro rettangolo di bianca velina, producendo nella sovrapposizione una campitura condivisa. Nel gioco di angoli, creati dal forte contrasto, si manifesta una valenza potentemente formale e l'evidente rimando di quest'opera al Quadrato nero su fondo bianco di Kazimir Malevič rappresenta l'appropriazione di Menetti dell'essenzialità della forma attraverso la citazione, e la citazione è forse uno strano caso di ready- made della memoria. Il rigoroso equilibrio di "Velata" dimostra come la costruzione delle immagini di Menetti sia guidata da una predisposizione strutturale, spesso giocata sulla rotazione delle forme e dei piani, di cui un esempio notevole sarà Velata, a bateau ivre del 1993.
Anche le puntine da disegno, i tratteggi a pennarello, il bianchetto, le carte carbone e assorbenti, gli evidenziatori e tutti gli altri elementi appartenenti alla pratica della scrittura, progressivamente aggiunti nelle opere, saranno misurati in una rigorosa armonia compositiva sempre centrale nella ricerca di Menetti. Anche quando la finalità non sarà principalmente strutturale, ma volta all'evocazione mitica, leggendaria o filosofica. Presto infatti i titoli delle sue opere presenteranno degli inequivocabili rimandi ai temi, che saranno poi ricorrenti. Già dal 1992 in Semivelata a torello, a Nike, compare per la prima volta il richiamo alla Nike di Samotracia, la cui immagine alata tornerà spesso nelle declinazioni creative dell'artista. Sempre del 1992 è la prima opera del ciclo delle "sfingi" intitolata Anche a sfinge, da lontano, nella quale Menetti introduce uno dei temi centrali della sua riflessione filosofica, riguardante l'impossibilità della comunicazione di cui il mito di Edipo e la Sfinge è paradigmatico. In un approfondimento di questo tema dal 1996 al 1999 Menetti si dedicherà, tra l'altro, ad un ciclo di opere il cui sottotitolo sarà The conversation e caratterizzato da una piccola icona rotonda collocata in basso a destra delle opere, raffigurante Edipo di fronte alla Sfinge. Dal 1993 al 1995 è il ciclo dedicato al dio Theuth, responsabile, secondo la mitologia, dell'avvento della scrittura a discapito della lingua parlata, con grande disappunto di Platone che se ne occuperà ampiamente. Anche del 1993 è la prima opera in cui l'artista cita Ermes il messaggero, tradizionalmente considerato colui che trasmette il pensiero e dunque garante della comunicazione: nell'opera A Ermes, dei barbari è curiosamente raffigurato un nero monolito di carta carbone, simbolo menettiano della scrittura perduta, trasportato da due ali di carta assorbente, abbondantemente macchiati d'inchiostri neri e rossi. Ma al di là dell'interpretazione di ogni singolo tema, che comunque bisognerà affrontare in altro luogo, ai fini di questo breve testo, mi sembra interessante sottolineare come nelle opere di Nanni Menetti sia sempre presente una forte referenzialità ad un contenuto filosofico, di cui sono rintracciabili i simboli che ne guidano la comprensione. Nonostante, come si sa, l'arte viva oggi un'esistenza polisemica, l'artista bolognese sembra tentare un'inaspettata via di fuga per arginare la diffrazione interpretativa delle sue opere. Le sue sono come degli aforismi visivi o rebus metaforici e i titoli che le accompagnano rappresentano delle tracce per avviarsi nella complessità del senso. Quasi per evitare una critica che descriva all'infinito un'opera che non esiste, i titoli, coniati quasi didascalicamente, sono parte integrante delle opere cui sono assegnati. Non si deve però credere che le opere di Menetti siano leggibili o decifrabili come se fossero semplici rebus, piuttosto indicano un tema di fondo destinato a contenere la libertà interpretativa di chi guarda all'interno di un ambito definito. L'immagine complessiva di queste opere, fatta spesso anche con le leggibili parole dei titoli, prevede una lettura olistica e non prosodica, in cui la forza del pensiero che le accompagna deve emergere per una corretta fruizione. Nei leggii illeggibili, ad esempio, che sin dall'inizio appaiono numerosi, già nel titolo generale è dichiarata la contraddizione di cui l'autore si occupa secondo varie declinazioni. Menetti monta queste opere con la parte inferiore sporgente rispetto a quella superiore, proprio come nei leggii. Questo basculamento ad altalena produce un avvicinamento percettivo verso chi guarda, in una fuoriuscita dall'alveo superficiale in cui siamo soliti osservare le opere. Anche noi tendiamo a sporgerci verso l'opera, ci accomodiamo verso la lettura, anche se poi questa si rivelerà "illeggibile". Credo che qui sia fortissimo il carico concettuale che forza l'opera al di fuori dei margini della sua identità conosciuta. Ancora più intensamente del procedimento fisico di scavalcamento dei limiti imposti alla pratica della pittura, il salto di Menetti avviene attraverso un procedimento del pensiero. Le opere contengono le tappe di un percorso concettuale destinato ad attuarsi in uno sguardo molto ampio, che deve espandersi oltre la loro individualità. Ognuna di esse è come una lezione di un lungo corso, con i suoi particolari esempi e suggestioni che ci richiedono però costanza per inoltrarci nel livello più profondo della loro comprensione. Ecco che allora ci si può trovare di fronte ad un ribaltamento in cui l'illeggibilità torna leggibile, anche secondo molteplici gradazioni di piacevolezza e divertimento compositivo.
Di fondamentale importanza nell'avvicinamento ai "giorni della merla", soprattutto per il rapporto con il colore, è il ciclo della Sfinge e soprattutto quelle opere in cui compare come sottotitolo "The conversation". La carta assorbente, usata in questi piccoli pezzi nati nel 1995, è caratterizzata da un'accesa violenza cromatica, con un uso del colore che ricorda le diluizioni coloristiche di artisti americani come Helen Frankenthaler, Morris Louis, Sam Francis e Paul Jenkins. Tra le rovine del senso, nel luogo in cui ciò che abbiamo scritto o detto ormai ci sfugge, Edipo e la Sfinge si guardano in silenzio, ed il colore si accampa cantando laddove le parole tacciono. Ritorna la pittura o almeno la sua eco edificante: il colore è come il canto di Orfeo, la luce che temporaneamente conquista le tenebre. Ovviamente i colori che entrano nelle opere menettiane non sono colpi di pennello, di spatola o sciabordanti sgocciolature, bensì nascono laddove la carta assorbente ha recuperato l'eccedenza del colore usato per scopi ormai dimenticati. Questo recupero del colore, di un particolare colore che tende ad espandersi, prepara la ricerca dell'artista bolognese ad un'uscita dalla nera e rettangolare censura della carta carbone.
Il calore nel gelo, il colore di una leggenda
È "Nei giorni della merla" che il colore diventa elemento fondante nella creatività immaginativa di Nanni Menetti. In quest'ultimo ciclo delle crio-grafie l'artista ha abbandonato le variazioni timbriche degli inchiostri assorbiti. Ora il colore si presenta in un assolo monocromo. È l'arancione che di volta in volta le opere permea come sfondo, oppure come segno scivola su tenebrosa plaga. Quest'uso cromatico incomincia proprio con le prime crio-grafie del 1999, nelle quali Menetti amplifica il concetto duchampiano di ready-made. Ciò che viene ricuperato non è più l'oggetto del qualunque uso quotidiano ma è una manifestazione della natura attraverso il gelo: quella fine arabescatura dalla forma quasi di ali o di minuta felce che alle volte in inverno scorgiamo sui vetri delle finestre la mattina, e che già aveva colpito l'attenzione di Michel Butor quando scriveva che "i vetri si sono ricoperti di vapore e ghiaccio, e questo panorama di valli e villaggi che hai appena visto scomparire nel crepuscolo, s'è nascosto dietro una bianca, fitta foresta su cui l'unghia d'un bimbo tracciava lettere e figure"[6]. Menetti, con proustiana memoria, riconduce quelle immagini effimere, destinate a sciogliersi in gocce, alla sua infanzia lontana, nei freddi casolari montani, che cerca di ritrovare e ricondurre a sé. L'artista deve a questo punto escogitare uno stratagemma, per costringere il gelo invernale a lavorare sulle sue tavolette e fissare poi con invisibili collanti le arabescature sulla faesite. È così che nascono le "crio-grafie", o scritture con il gelo, nel cui nome sono presenti gli elementi portanti dell'ultima fase della ricerca del maestro. Da un lato la scrittura (-grafie), che ormai sappiamo quanto sia importante in tutto il suo percorso, dall'altro il gelo (crio-), che è l'elemento attraverso il quale, tramando, Menetti ri-usa duchampianamente la Natura per ritrovare il passato. Portando, infatti, le sue tavolette di faesite, "ben tagliate per pezzature varie"[7], nell'invernale montagna di Monzuno, sugli Appennini bolognesi, egli attende che sulla tempera mescolata con diversi collanti appaiano quelle immagini desiderate e provocate, che il gelo, secondo imprevedibili forme ed intensità, viene scrivendo. In quel momento Menetti, proprio come da bambino, come il bimbo di Butor, traccia con il dito alcuni segni (chiro-grafie) come il giogo e la scala[8], connessi ad oggetti della sua giovinezza contadina; poi riesce ad intrappolare ed a bloccare l'immagine risultante nella presa dei suoi delicati collanti. Così l'artista costringe il gelo, e dunque la Natura, a lavorare per la sua arte. Nel suo Autolessico 3 o delle crio-grafie, come in una programmatica dichiarazione di poetica, quasi in una ricetta, scrive: "Tu stendi veloce la tempera e il gelo te la lavora, te lo scrive e tu lo vedi e, magari, l'aiuti con la punta del dito o altro, all'impronta: ready-made! Ready-made, non trovato solo, non modificato, ma provocato!"[9]. Non a caso nella recente mostra En plein air, dopo Duchamp, curata da Valerio Dehò al Museo Bargellini, Menetti esporrà un grande polittico del 2000 intitolato "Io Erone-Dada ho costretto la Natura-Sileno a specchiarsi nei suoi segni", che riassume il proposito estetico dell'artista, impegnato nella lotta con il mitologico saggio Sileno, qui genericamente identificato con la natura, che rivela la sua saggezza solo se costretto. Lo stratagemma ha funzionato e l'artista, mai pago, instancabilmente ricomincia il suo strutturale costruire su di uno sfondo oramai divenuto paesaggio della memoria. Se nella fondamentale prima crio-grafia, del 1999, Il gelo ha scritto con me l'infanzia che mi nasconde domina un innevato candore, già nel 2000, in opere come Criografia a destino, con bambino o Anche il gelo, se lo desideri, ti regala miraggi, si sente l'esigenza di trasfondere nelle recenti creature l'esperienza maturata nel colore. È così che particolari terre mescolate alla biacca producono le azzurrine tonalità di molte crio-grafie, quasi per mimare certi montani riflessi della neve. Con questo iniziale timido ingresso del colore, senza rinunciare alle sapienti costruzioni di collage, l'artista si fa pittore, nel tentativo di amplificare il potere referenziale delle opere. Nel colore egli coglie l'aura di un'indelebile emozione, non modulando i suoi timbri, isolati come canto sospeso, quasi in una sensazione di musica appena terminata, che persiste nell'apparenza del suo silenzio. Quell'azzurro è poco più che bianco come certi cieli invernali sono poco più che neve. Ma presto o tardi un pungente sole trafiggerà la coltre di lana imbrogliata ed un vasto tramonto di calore colorerà i ghiacci. Così "Nei giorni della merla", nell'ultimo ciclo, il colore esplode. L'arancione, ora, più che sorgere da una pittorica colorazione, sembra apparire per emanazione, sia quando occupa il campo dell'opera, sia quando invece trafigge il nero come lampo: in opere come Il trespolo della memoria, L'origine di tutti i racconti o Due curiosi guidati alla metamorfosi, felici?, nelle quali i di-segni del ghiaccio s'incidono più o meno marcatamente sul dominante arancio, non è possibile dimenticare i monocromi di Ives Kline e la sua vocazione mistica, volta a interpretare il colore come entità non delimitabile nella forma o imbrigliabile sulla superficie, ma libero di diffondersi nelle cose del mondo. Il mondo è contagiato dal colore con la stessa forza persuasiva di un'idea libertaria nella mente degli oppressi e noi siamo come carte assorbenti, adagiate sull'orlo di un barattolo di china colorata. Oltre all'indimenticabile blu oltremare, battezzato IKB, nella ricerca di Kline, già dalla fine degli anni Quaranta, altri colori avevano "azzerato" l'immagine sulla tela e tra questi proprio l'arancione, tramonto del cessato incendio. Credo di scorgere, nella ricerca di Menetti, assonanze con questa consapevolezza delle proprietà del colore, la cui emanazione percettiva sembra oltrepassare i confini della masonite, anche se qui ad arginarla c'è uno spesso e nero passe-partout, montato intorno alle opere. In questo modo quell'intorno contenente non è qualcosa di diverso dall'opera, ma ne diviene parte integrante in quanto limite. Nell'angolo in basso a destra, infatti, è presente un ritaglio quasi circolare con l'icona di un fanciullo, simbolo dell'infanzia tutelare che veglia. Un effetto simile, ma speculare, creano le opere in cui è il nero che si accampa ed il passe-partout è d'arancio evidenziato.
Ogni quadro è come una finestra gelatasi nella giovinezza, ed i segni ed i collage che vi si accampano sono le costruzioni dell'esperienza, di cui l'artista maturo viene annotando e annodando i tratti, filtrati dalle sue riflessioni anche filosofiche. Non può esserci separazione tra paesaggio e finestra su cui esso appare, così come il pensiero è unito indissolubilmente a ciò che pensa. È questo il lavoro dell'artista, che accostando le cose secondo imprevedibili relazioni inventa continuamente il mondo.
"Nei giorni della merla" Menetti viene inventando una carrellata di micro-situazioni, nelle quali tutti gli elementi della sua arte sono presentati non per affermare un'identità ritrovata, ma per recitare le parti diverse di una nuova narrativa per immagini. È così che l'arancione, quando è più intenso, può divenire becco del merlo indiano; e il nero, anche della carta carbone, è fumo che salva i merli dal gelo e che i merli conservano, a ricordo, sul corpo piumato; il bianco, infine, è il gelo minaccioso che fa accadere leggende e ricama fronde minute ed ali leggere, già in volo verso la giovinezza.
Guardandole, ad una ad una le opere vengono alzandosi, svelando come sia uno il pensiero che le volge e rivolge, che si diverte persino e giocherella, inventando immagini che parlano della consapevolezza del mondo. In un'opera come Astrazione con pali, in basso a destra c'è una figura che ricorda un computer portatile, collegato a ritroso, verso sinistra tramite linee tratteggiate, con un'altra figura fatta di pali quasi paralleli e sormontati da elementi vagamente triangolari. Questa seconda immagine richiama la visione un tempio con colonne e trabeazione, su cui una nera puntina sembra fare il punto del pensiero. Altre linee poi prendono il campo: una di queste partita dal tempio verso l'angolo in alto a destra è intercettata da un altro tratteggio che, come uscito dal bordo inferiore della crio-grafia già ha sfiorato il computer. Pensiero antico e contemporaneo s'incontrano così, giocati su un'astrazione di linee che si rincorrono. Forse esiste un luogo dove la materialità monumentale della Grecia classica può incontrarsi con la virtualità del pensiero telematico?
Aveva ragione Bisaccia quando alcuni anni fa, a proposito delle opere di Menetti, aveva parlato di "puzzle filosofici"[10], la cui visione complessiva si rivela come semplice e incommensurabile metafora poetica. L'instancabile artista continua ad osservare gli infinitesimi labirinti in cui, ancora, ci dibattiamo inconsapevoli e con pazienza indica possibili sentieri.
A Monzuno, sulle sue montagne, lo vediamo ancora inerpicarsi col bastone sulla collina e questa sera con soddisfazione accenderà per noi un lume, per mostrarci i nuovi innesti. Chissà perché mi viene in mente che il professor Luciano Nanni, a proposito del suo lavoro di estetologo, spesso ripete ai suoi studenti che "le cose banali vanno ripensate"? Forse perché Luciano Nanni è Nanni Menetti.