Un frammento dall'opera omnia: la prima crio-grafia
Di Leonardo Conti
Ineluttabile
modalità
del visibile. Almeno questo
se non altro. Il pensiero
attraverso i miei occhi.
J.Joyce
"Un piacere consimile gli davano i fiori di ghiaccio e nelle giornate invernali, quando queste precipitazioni cristalline coprivano le piccole finestre rusticane della casa di Buchel, egli era capace di indugiare per mezze ore a studiarne la struttura, e ad occhio nudo e con la lente d'ingrandimento ,.quei prodotti,.imitavano con una certa impudente ciarlataneria il regno vegetale, riproducendo graziosissimamente flabelli di felci, erbe, calici e stelle di fiori,.servendosi del gelo invadevano da dilettanti il campo organico.Queste fantasmagorie, si chiedeva, sono modelli o sono imitazione delle forme vegetali? Né l'uno né l'altro avrà risposto a se stesso: sono formazioni parallele. La natura creatrice e sognante fa qui e là il medesimo sogno."[1]
Così Thomas Mann, descrivendo le molteplici forme create dalla natura, constata analogie che divengono una coincidenza estetica. Dov'è l'elemento rivelatore di questa coincidenza? Nella natura? E' nella creatività dello scrittore che, cogliendola, ne ristruttura la valenza poetica con la metafora del "sogno". Poiché il sogno si colloca in una spazialità mediana tra il mondo sensibile e colui che ne fa esperienza, ne consegue che il sogno della natura e la creatività dello scrittore risiedono nello stesso luogo: nell'ipotetico e paradossale punto d'incontro delle due ("formazioni") parallele all'infinito. In altre parole: ciò che si manifesta in natura acquisisce senso in funzione del paradigma[2] culturale che lo considera.
Thomas Mann descrive nel suo testo le "precipitazioni cristalline" che il gelo traccia sul vetro delle finestre della casa rusticana. Il loro aspetto, facilmente visibile nella mente del lettore, viene paragonato alla forma di alcune piante: immediatamente le piante sono poste come modelli, poiché nella loro forma si concretizza l'identità della vitalità naturale; i "fiori di ghiaccio" non sono altro che imitazioni, rappresentazioni estemporanee e caduche, di quella vitalità. Chi legge ha appena il tempo di ritrovare nella propria memoria la verifica di quell'affinità, che Mann pone una domanda che rimette in discussione le gerarchie delle forme. Non potrebbe essere il contrario? In quanto tracciate anch'esse dalla natura, non potrebbero essere le gelate "fantasmagorie" i modelli e le piante le imitazioni? Nello stallo, al culmine dell'indecidibilità, sorge l'invenzione poetica. Non esiste un modello ed un'imitazione, perché nell'uno e nell'altro caso la natura fa "il medesimo sogno".
Che ne sarebbe stato del testo di Thomas Mann senza il gelo sulla finestra e senza le felci? Che ne sarebbe di gelo e felci senza il testo di Tohmas Mann? L'osservazione della natura è la scintilla da cui si dipana la scoperta poetica dello scrittore e, ad anello, dalla poesia la natura acquisisce un senso che la trascende. Dunque: da ars imitatio rei ad ars significatio rei.
Nel 1999 Nanni Menetti inizia un ciclo tematico intitolato "Criografie": grafie tracciate dal gelo.
Sono gli stessi "fiori di ghiaccio" di cui parlava Mann. Ma, a differenza dello scrittore tedesco, Menetti utilizza il gelo, decoratore di vetri invernali, per sintonizzarsi con la dimensione della memoria.
Nel titolo della prima opera di questo ciclo, Il gelo ha scritto con me l'infanzia che mi nasconde, compaiono alcune parole chiave per una possibile (?) indagine critica. Il primo sostantivo è "gelo": è lo sfondo, l'ambiente (humus) in cui le criografie sono collocate nella fase iniziale della loro "coltivazione" artistica[3]. L'altro sostantivo è "infanzia": è l'orizzonte poetico dell'artista. L'infanzia è per Menetti, come per ogni uomo, ciò che il gelo rappresenta per queste opere: è lo sfondo, l'ambiente della sua stessa coltivazione culturale. Gelo ed infanzia hanno un legame nella mente dell'artista. Quale? E' attraverso il gelo, o meglio, attraverso le fantasmagorie da esso tracciate sulle finestre, che nella mente appare l'infanzia. Il procedimento, si sa, è eternato dalle pagine sulla madéléine di Proust, scintilla della "Recherche du temps perdu". Proust ha sentito un sapore: attraverso l'attimo di memoria balenato con quel sapore, ha scritto la sensazione di una vita intera. Le crio-grafie hanno lo stesso tipo di incipit, soltanto che al posto di un sapore, c'è un'immagine. Menetti, come Proust, non si ferma sulla soglia del pertugio apertosi nella memoria. Vuole catturare l'intero. Vuole fissare l'immagine che venendo da un lontano ma nitido punto, posto nell'indeterminato passato, giunge sino all'affine punto collocato nella sensazione del presente. I due punti sono gli estremi del segmento passato-presente: è come se l'artista, come lo scrittore, piegasse quel segmento fino a farli coincidere. Il cerchio risultante è dominio della memoria, e dell'arte. "Il gelo ha scritto con me l'infanzia che mi nasconde": scripta manent. La scrittura, anche se illeggibile, è ciò che resta, ed l'artista lo sa: "Tu lo sai che della realtà, nella scrittura, non c'è che la sua traccia", ha scritto altrove[4]. Ecco presentarsi una nuova coincidenza. Tra la scrittura del gelo e quella di Menetti. Perché l'artista, nelle giornate invernali, prepara le sue tavolette di masonite con biacca e collanti e le affida al gelo notturno. E ancora una volta il "medesimo sogno" della natura appare. I candidi fiori di bruma non sono più sulla finestra ma fissati nell'arte.
Osservando il secondo quadro del dittico, la carta velina, carica d'illeggibile scrittura, è posta nell'angolo in basso a sinistra. Essa indica lo stratificarsi delle esperienze della vita: sono le esperienze della scrittura che la carta ha registrato nelle loro disseminate attualità e poi ha perso nell'avanzare del tempo incessante. L'ordine lineare dei caratteri, un tempo intelligibili, si è trasformato in un coacervo-sovrapporsi di segni. La scrittura, cancellando se stessa, diviene muta cantando la propria maestosa presenza. Anche la lettura, poi, da progressiva diviene monolitica. Il significante resiste al significato e il groviglio si opacizza. E' ciò che ha indotto la Borgogelli a parlare di "voluta perdita di senso"[5]. Credo però che ciò che si perde sia soltanto il senso analitico ma non quello sintetico. Questa "scrittura intera", infatti, nel sistema di simbolizzazione menettiana, assume l'identità d'immagine[6]. Immagine sintetica appunto che, dopo uno sguardo antologico alle opere di Menetti, quasi ritorna modulare, funzionale alla costruzione dei suoi percorsi visivi. Simmetricamente, nell'angolo in alto a destra di questa tavola, l'angolo più leggero e immateriale[7], l'artista ha collocato una figura di fanciullo, simulacro dell'infanzia <<ritrovata>>. Il fanciullo, poi, è inquadrato e fissato da quattro puntine da disegno rosse (di nuovo gli strumenti della scrittura).
Credo sia a questo punto possibile ribaltare la sintassi del titolo, in funzione di una lettura visiva dell'opera: "L'infanzia ha scritto con me il gelo che mi nasconde". L'infanzia, l'immagine dell'infanzia, è diventata il nuovo soggetto dell'opera e da essa, a ritroso, parte una linea tratteggiata che, passa (transit) sul gelo (oggetto) e tende, senza raggiungerla, alla scrittura dell'esperienza. Anche la "grafia" gestuale, delineata con tratti rapidi in alto a sinistra, è messa in relazione, tramite un gesto curvilineo, all'immagine del fanciullo. Ne risulta una lettura strutturale della tavola a triangolo, il cui verso dinamico è fanciullo-scrittura-grafia-fanciullo. E' proprio in virtù di questo dinamismo, totalmente visivo, che il ruolo oggettivo di "infanzia" del titolo, nell'opera diviene soggetto. E' come se attraverso l'esperienza visiva concretizzata nel quadro, Menetti ritrovasse la sua consapevolezza d'artista, attraverso lo sguardo dell'infanzia. Badando che quella consapevolezza non ha più un determinato luogo nel tempo, che sarebbe sul segmento iniziale passato-presente, ma è un "intero visivo", delimitato dal cerchio della coincidenza temporale.
Se la tavola del dittico appena descritta ha una funzione ideativa, l'altra ha una funzione principalmente pratica. Intanto la collocazione spaziale, a sinistra, la rende precedente (secondo le regole della lettura) rispetto all'altra. In realtà è successiva da un punto di vista poetico. Vediamo perché. La carta lucida, delimitata dalle puntine da disegno, occupa obliquamente tutta la parte in basso a destra della tavola. Vi compare un'incombente costruzione a piramide rovesciata (il triangolo!), simbolo, nella sua leggibilità, di un immaginario più legato ad una dimensione quotidiana. In alto, la rappresentazione stilizzata di un'"elichetta" (di quelle che si mettono sui berrettini dei pargoli), sostiene, per mezzo di un segmento tratteggiato, la parte sinistra dell'immagine in bilico della costruzione. La natura, così come ha fatto la crio-grafia, ha fatto la costruzione e il berrettino (attraverso l'attività dell'uomo): anche se questi oggetti assumono gradi e identità differenti, la natura è unica matrice. In questa tavola verticale ci sono la criografia, la carta lucida, l'"elichetta" e il segmento tratteggiato, ma sembra mancare la connessione alla rivelazione artistica. Quest'ultima si realizza ad un livello sovra-dimensionale rispetto alla superficialità del medium pittorico. Dal vertice in alto a destra, infatti, si diparte un tratteggio tridimensionale, che giunge sino al bordo esterno destro del dittico. La funzione di questo terzo tratteggio (ora "scultoreo"), è di mettere in contatto l'opera con l'ambiente circostante. La scultura, infatti, a differenza della pittura, occupa non concettualmente ma fisicamente la realtà di chi guarda, vive nel suo spazio pretendendone per sé. Per mezzo di questo escamotage, Menetti lega indissolubilmente la sua ideazione poetica alla dimensione pratica, colloca l'arte nella storia che si fa. Si verifica una nuova circolarità dinamica che va dalla tavola di destra a quella di sinistra per poi rigirare a destra, lungo il tratteggio, verso l'esterno, verso chi ne "specifichi", rientrando, l'identità. Ma perché ciò riesca, perché il circolo si chiuda, l'artista ha bisogno di una nuova ideazione, che però non è in grado di esprimere da solo, poiché trascende i limiti dell'opera per abbandonarsi allo sguardo dell'altro, che non conosce. Quest'ultimo, d'altronde, potrebbe anche scoprire che i quattro tridimesionali rossi altro non sono se non rappresentazioni dei fori di una pellicola fotografica, svelando che le tavole del dittico, da me interpretate come opera strutturata, non sono altro che due frammenti di un più ampio discorso, non comprensibile senza il recupero dei fotogrammi perduti. Chi sono dunque io e chi è l'altro?
Eppure la struttura da me delineata mi sembra convincente, soprattutto
perché in questa luce manifesta caratteristiche assolutamente originali
e, credo, inedite. Mi spiego.
Se l'opera è costituita così come io la vedo e la leggo, viene ad assumere una valenza meta-artistica: nell'opera prende forma la dimostrazione estetica e dunque analitica[8] del funzionamento generale dell'opera d'arte nella nostra cultura.