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Del fumetto: conversazione di Otto Gabos e Menotti (Parol 10 - marzo 1994)

a cura di Menotti

Conversazione tenuta al D.A.M.S. Dell'università di Bologna,all'interno del corso di estetica del prof. Nanni nella primavera del 1993

Nanni - A questa conversazione parteciperanno tre ospiti. Abbiamo innanzitutto il dott. Daniele Barbieri, autore di diverse pubblicazioni tra le quali I linguaggi del fumetto, edito da Bompiani. Egli è presente come fumettologo, ossia, farà la presentazione ad altri due personaggi che sono invece produttori di fumetti, "fumettisti" o "fumettari" - non è ben chiaro. Si tratta dei due giovani che stanno al centro, già allievi del DAMS e quindi miei allievi. Uno di loro, Roberto Marchionni, in arte Menotti, si è addirittura rovinato del tutto laureandosi con me. L'altro ospite è Mario Rivelli, in arte Otto Gabos. Io lascerei subito la parola a Barbieri.

Barbieri - Prenderò la cosa un po' alla lontana, cercando comunque di essere breve. I due autori che vi presento lavorano all'interno di un medium un po' speciale, il medium del fumetto. Dico speciale perché generalmente non ottiene grandi riconoscimenti da parte della cultura ufficiale. Ma il fumetto ha moltissime facce. Ci sono facce decisamente popolari, dove per popolari non si intende necessariamente di bassa qualità, quanto rivolte esplicitamente a un vasto pubblico, e ci sono facce più colte, elitarie, vicine a problematiche culturali legate al mondo dell'arte e della letteratura. Vorrei spiegare, per arrivare a capire chi sono questi autori, che cosa è successo nel mondo del fumetto italiano verso la fine degli anni Settanta. Fino ad allora, in Italia, il fumetto era stato soprattutto un medium storicamente rivolto a ragazzi e adolescenti. Questo è stato assolutamente vero fino al 1965, allorché nacque "Linus", la prima rivista di fumetti a lanciare una proposta decisamente culturale - tanto che all'inizio veniva letta soprattutto da intellettuali, magari un po' snob - e lo è rimasto a grandi linee fino al 1975 circa, a dispetto di "Linus" e poche altre riviste del genere.

Cosa succede in questo momento? Succede che per una serie di coincidenze storiche, le quali guarda caso fanno capo proprio a Bologna, tutto un ambiente di giovani con desiderio di esprimersi artisticamente decide che il fumetto è il mezzo di espressione più adatto ai loro scopi. Questo perché, fino a quel momento, dal punto di vista culturale il fumetto non esisteva, non aveva una storia riconosciuta ufficialmente, non c'era insomma un establishment culturale che lo avesse condizionato. In quel momento (non so se avete presente cosa succedeva nell'università italiana attorno alla metà degli anni Settanta) questo era un vantaggio che nessun altro mezzo di comunicazione possedeva, poiché tutti gli altri erano stati costruiti, riconosciuti e quindi in qualche modo più o meno vincolati da tutto il sistema dell'industria culturale.

C'è quindi tutta una generazione di autori - forse i nomi di Pazienza e Mattotti, insieme a quelli dei fondatori di "Frigidaire", Tamburini, Liberatore e Mattioli, vi dicono qualcosa, - che comincia a fare un fumetto completamente diverso dal precedente, volto a un pubblico decisamente nuovo. Il pubblico che compra questi fumetti è un pubblico universitario, piuttosto colto, che cerca e ritrova in essi discorsi che non erano sicuramente presenti nei fumetti prodotti fino ad allora, salvo alcune rarissime eccezioni. Questi autori si mettono dunque a fare un fumetto con forti propensioni estetiche. Nei primi tempi, fino agli inizi degli anni Ottanta, c'è una grande risposta di pubblico. Si tratta di un pubblico ideale per recepire questo fumetto, poiché appartiene agli stessi ambienti culturali cui appartengono gli autori che lo producono. Il fenomeno, dal punto i vista delle vendite, comincia a ridimensionarsi nei primi anni Ottanta fino a scomparire quasi del tutto attorno all'85. In questo periodo un gruppo di quegli autori fonda a Bologna il centro di applicazione Zio Feininger, "scuola del fumetto e delle arti grafiche", presso il quale insegnano persone come Igort, Brolli, e all'inizio lo stesso Pazienza. Da questa scuola nasce una seconda generazione di autori dalla poetica piuttosto simile, concordi nel tentativo - come sosteneva Mattotti - di "dire col fumetto ciò che col fumetto non si era mai detto", ciò che col fumetto sembrerebbe impossibile dire.

A questa seconda generazione di autori del cosiddetto "nuovo fumetto italiano" appartengono Menotti e Otto Gabos. Essi però si trovano in una situazione molto diversa da quella in cui si erano trovati i loro predecessori, una situazione in cui è scomparso l'ambiente culturale cui appartenevano i lettori della prima generazione. Si tratta di fumettisti "nati" in un periodo in cui in Italia non si vendevano quasi più fumetti. La ripresa che ha avuto luogo in seguito si è verificata su tutt'altre basi: sul fumetto popolare, sul comic book americano, sul fumetto di supereroi; con molto meno spazio per il tipo di produzione cui questo genere di autori tendeva. La loro posizione è quindi molto più difficile di quella dei loro maestri. Essi si trovano nella situazione di fare produzione estetica all'interno di un linguaggio che ha pochissimi riconoscimenti critici, quindi con scarsissime possibilità di trovare un riscontro critico a quello che fanno. L'intenzione di confezionare prodotti estetici si scontra cosi con la difficoltà di parlare a un pubblico che solo in minima parte è formato da persone appartenenti a un ambiente culturale analogo al loro; un pubblico, quindi, che solo in minima parte è quello ideale per ciò che essi fanno o intendono fare. Esiste un problema di mercato, un problema di vendite. Le riviste che pubblicano le opere di questi autori sono riviste che hanno una vita difficile poiché il pubblico di fumetti cerca altre cose. Oggi in Italia la cultura del fumetto d'autore è piuttosto scarsa.

Detto questo, qualche cenno su Menotti e Gabos, prima di dare la parola a loro. Abbiamo già detto che sono "nuovi fumettisti" di seconda generazione, usciti dalla scuola Zio Feininger. Direi che la cifra comune su cui le loro produzioni sono fondate è un certo uso del "grottesco". Questa è una cosa che hanno in comune, ma per entrare nei particolari si tratta di un uso del grottesco molto diverso per l'uno e per l'altro.

Nel caso di Menotti esso nasce dalla riflessione su un certo modo di fare immagine avente a che fare con il liberty di un Aubrey Beardsley, rivisitato in chiave ironica e naturalmente in termini di linguaggio fumettistico. Quindi Beardsley è un riferimento ma Menotti è un'altra cosa, perbacco. Nel caso di Gabos direi che c'è una ricerca molto più forte della deformazione espressiva. Il suo è un disegno un po' sporco, alla maniera espressionista, per il quale facilmente le persone si trasformano in esseri un po' mostruosi, come del resto è proprio a gran parte della cultura espressionista storica. Perché il grottesco? Per certi versi è una scelta che ha radici nella storia del fumetto ed è ciò che permette all'interno del fumetto di raccontare cose senza cadere da un lato nell'umoristico (che è uno dei mondi del fumetto) e dall'altro nel fumetto realistico tradizionale, d'avventura e non. E' un modo per fare un fumetto serio con una evidente ironia. Però adesso mi fermo qua.

Nanni - E noi ti ringraziamo. Allora, come si dice nei congressi, io darei la parola a Menotti.

Menotti - Solo per ribadire un paio di cose sulle quali eventualmente mi piacerebbe discutere. Una di esse è la questione dell'eredità culturale. All'inizio tutti eravamo presi dalla tradizione dei "Valvoline", il gruppo di autori della "Scuola bolognese" di prima generazione che, se non lo si è ancora capito, sono le persone che hanno trasformato il fumetto in Italia. Barbieri citava giustamente la frase di Mattotti: "parlare nei fumetti come nei fumetti non si era mai parlato". A questo proposito ricordo una lettera pubblicata da "Lanciostory", una rivista popolare, agli inizi degli anni Ottanta. Un lettore chiedeva: "ma perché nei vostri fumetti ci sono sempre ispettori e assassini? Perché le vostre storie sono sempre ambientate in Inghilterra o negli Stati Uniti? Perché in fin dei conti le cose vanno sempre a finire allo stesso modo?" La risposta dell'editore suonava cosi: "beh, un giallo non può che accadere negli Stati Uniti. Ve l'immaginate voi un ispettore che si chiama Dimitri Popoff che abita a Mosca e va in giro con la Zaz?" Ecco, i Valvoline hanno scoperto che un ispettore moscovita di nome Dimitri Popoff è assolutamente credibile, dimostrando così che con i fumetti si possono dire esattamente le stesse cose che si dicono con tutti gli altri media, artistici o meno.

Dunque noi ci siamo ritrovati fra le mani questa magnifica eredità: un mezzo che poteva servire per dire tutto ciò che si può dire - quindi amore, morte, battaglie - ma anche discorsi banali e quotidiani. Il fumetto, in questo senso, è per l'appunto un mezzo, non un genere. In realtà esistono generi diversi anche all'interno del fumetto, dove si può parlare di fantascienza, di umorismo, d'amore come di qualsiasi altra cosa. Per noi, all'inizio, questa consapevolezza è stata estremamente stimolante. Il fatto è che nel momento in cui abbiamo acquisito l'opportunità di servircene, è crollato tutto il sistema che la rendeva concreta. Sono state chiuse delle riviste, altre sono praticamente nate già morte. Adesso ci troviamo nella situazione di pubblicare storie che stanno sulla lama di rasoio tra quello che era una volta il fumetto colto e quello che era una volta ed è tuttora il fumetto popolare, costretti a combattere quotidianamente con editori che censurano di qua e di là, facendo editing sui testi (il che significa cambiarli dopo che sono stati scritti) o sui disegni (cosa ancora più truce); e quindi nella continua necessità di pensare a "ciò che piace al pubblico" col fatto ancora più curioso per cui, mentre si suppone che il fumetto sia (certo lo è stato) un medium di massa, le nostre sono riviste che hanno una diffusione di circa diecimila copie, che corrisponde all'incirca a quella di un libro di poesia di buon successo...

Nanni - Vende meno, vende meno. Al massimo cinquemila copie.

Menotti - ...Beh, ad ogni modo... ai tempi di "Fuego", una rivista sulla quale ho pubblicato, vendere cinquemila copie era considerato non un successo ma quasi. Sicché alla fine ci si trova a dover fare i conti con la necessità di scrivere in modo chiaro, molto referenziale, preferibilmente poco ambiguo, facendo leva su tutta una serie di accorgimenti messi in atto per piacere a un pubblico vasto che poi alla fine non compra i fumetti. In realtà coloro che comprano i nostri fumetti sono le solite diecimila persone. Si tratta così di una situazione per la quale pubblichiamo delle storie dirette a un pubblico che in realtà non esiste. Questo, diciamo, è il nostro status attuale. Ora non è che voglia star qui a lamentarmi, volevo soltanto sottolineare questa curiosa contraddizione: il linguaggio di massa, il linguaggio dei fumetti, è una cosa che si vorrebbe comprensibile a tutti, accessibile a tutti... poi in realtà coloro che ne vengono a contatto sono pochissimi.

Gabos - Anche perché c'è fumetto e fumetto. L'anno scorso a Lucca, in occasione della più grossa convention di fumetti in Italia, c'è stata una ressa colossale con il palasport che traboccava di gente. Non certo per via del fumetto italiano d'autore... semplicemente era presente john Romita, non ricordo se padre o figlio, comunque uno dei più famosi autori di fumetti di supereroi americani.

Si parlava di spazi che vengono a mancare. Nel 1990, un gruppo di persone tra cui io, Igort, Gibertini e la Marzocchi si era decisa a crearne uno dando vita a "Fuego". L'intenzione era quella di coniugare le prerogative di un fumetto d'autore attento a problematiche di tipo artistico e culturale, ma tutto sommato elitario, con un mezzo di espressione decisamente più popolare. Abbiamo così cominciato ad occuparci del racconto di genere. L'esperimento, durato sei numeri, è andato maluccio dal punto di vista delle vendite e bene da quello della critica. Adesso il nuovo tentativo si chiama "Cyborg". Si tratta di una rivista ideata da Daniele Brolli nella quale sono direttamente coinvolto in qualità di collaboratore assiduo, redattore e sceneggiatore. L'intenzione è sempre la stessa: incarnare l'idea del fumetto d'autore per gli anni Novanta, tenendo ben presente la narrativa di genere, - che beninteso è quella che si occupa di fantascienza, horror, western, gialli polizieschi e così via - per trattarla però con un approccio completamente diverso. Farlo è interessantissimo. Ora come ora possiamo solo attendere il responso del pubblico, che è poi il solo fattore determinante allo scopo di decretare il successo o la catastrofe di una rivista. Una rivista, si sa, per esistere ha bisogno di vendere, né valgono a salvarla, in caso contrario, le lettere del fan accanito, le recensioni favorevoli del critico o incontri interessanti come questo. Alla fine i veri giudici, o carnefici, di una rivista, sono sempre i lettori.

Quanto alla condizione di autori di seconda generazione, posso parlare dal mio punto di vista. Benché io e Menotti abbiamo avuto un inizio simile e a volte abbiamo anche lavorato assieme (due storie per "Dolce Vita"), è chiaro che oggi le nostre poetiche sono diverse. Daniele Barbieri ci ha accomunato dal punto di vista dell'uso del grottesco. Quanto a referente mi ci ritrovo abbastanza... Si parlava dell'uso della deformazione, sulla scorta di una certa tradizione espressionista. Tuttavia quello che qui mi interessa affrontare non è tanto un discorso sul disegno, quanto sulla narrazione, che in un fumetto ritengo l'aspetto più importante. In effetti se io faccio fumetti è principalmente per raccontare, e per farlo ho scelto il fumetto perché mi sembrava il mezzo più naturale. A casa c'erano tanti fumetti, il mio babbo leggeva e disegnava fumetti e mi è sembrato normalissimo continuare, come Paolo Maldini gioca a pallone perché suo padre era calciatore. Mi piacerebbe anche approfondire il discorso sulle influenze che provengono da ambiti diversi da quelli del fumetto. Personalmente ho subito il fascino intensissimo di una certa musica. Nel fare fumetti mi comporto come se fossi un musicista, solo che al posto di usare la chitarra, la tastiera e la voce uso la matita e il pennino. Nel mio intimo ho un atteggiamento decisamente musicale - del resto molto spesso i temi che tratto hanno a che fare con la musica e il suo ambiente. La mia scommessa d'autore è di coniugare nei fumetti ciò che amo in campo musicale. E qui mi riferisco a un tipo di musica ben determinato: personalmente ho preso coscienza, per così dire, quando è venuto fuori il punk, nella seconda metà degli anni Settanta, poi ho proseguito con la new wave e via discorrendo, ora ascolto quello che 'è e continuo a crescere con questo. Un'altra importante influenza è quella delle produzioni di genere drasticamente basso. Quando disegno tengo la tv sempre accesa, e quindi mi capita di sorbirmi in maniera totalmente passiva tonnellate di programmi televisivi, dai più carini fino ai peggiori, tipo Il gioco delle coppie, Ok il prezzo è giusto e le telenovelas. In più, a causa di una scomodità casalinga il mio televisore è posto in modo tale che dal tavolo non posso vedere il video, sicché mentre disegno ascolto solo l'audio e mi giro quando c'è qualche scena che mi interessa. Pian piano, ascoltando (proprio ascoltando) questi programmi mi è capitato di imbattermi in personaggi che definire fantascientifici è poco, tanto che ho sviluppato un crescente interesse per spettacoli ancora più bassi, tipo Cronaca Vera, che per me rappresentano una fonte di stimoli inesauribile. La mia ricerca consiste nell'estrapolare gli elementi più interessanti sia dal punto di vista narrativo che da quello linguistico. Ad esempio, vi sarete accorti che una giornata di Beautiful rispetto al tempo reale dura un mese, dando luogo a una sorta di paradosso narrativo. Mentre di solito in ogni narrazione esistono ellissi per cui si tagliano di fatto molte scene, in questo caso le scene vengono dilatate. Un po' quello che accade nei manga, i fumetti giapponesi. Ecco dell'ottima materia per riflettere sui fumetti sia in termini fattuali che metalinguistici.

 Dibattito

Nanni - Adesso loro sono a vostra disposizione per rispondere a delle domande e curiosità. Naturalmente c'è sempre una minima fase in cui tutti stan zitti, poi alla fine tutti quanti alzeranno le mani e sarà un problema frenarli... Beh, insomma, ecco una mano, andiam bene, siamo fortunati...

Studente - Menotti ha detto prima che non esiste un vero e proprio pubblico che legge i fumetti popolari, cioè le riviste di larga diffusione. Ma allora mi chiedo: come fanno gli editori ad essere così idioti da non accorgersi che manca questo pubblico e ad ostinarsi a tagliare i fumetti d'autore? Tra l'altro non sapevo che si operassero censure persino sui disegni, mi sembra una cosa allucinante... Non credevo che si facessero cose del genere...

Menotti - Si fanno, si fanno... Comunque, forse mi sono spiegato male: il pubblico del fumetto popolare esiste. Dylan Dog e Nathan Never sono cose che si vendono. Si tratta di prodotti della Bonelli, forse la più grande casa editrice italiana di fumetti, e il suo pubblico di solito si definisce popolare. E' il pubblico d'autore, prima abbastanza congruo, che non esiste più. E "Frigidaire" dei tempi d'oro vendeva oltre ventimila copie e - forse anche sull'onda della moda radicalchic - c'erano molti intellettuali che si divertivano a leggere fumetti. Adesso non ci sono più. Per esempio, le mie storie escono su "Comic Art", una rivista il cui stesso nome dovrebbe dare l'idea di un prodotto d'autore, mentre in realtà è un vero e proprio contenitore delle cose più disparate. Ormai sulle copertine ci sono disegni di autori della Bonelli e ogni numero di "Comic Art", proprio per invogliare il pubblico, contiene una storia che è già stata pubblicata dalla Bonelli. Mi si dice che questo fa alzare le vendite. Per il resto vi si trova un po' di roba francese che, in quanto frutto di scambi, all'editore non costa quasi nulla, e infine le storie di alcuni poveri derelitti italiani, tra i quali io stesso, che magari hanno poetiche totalmente diverse. Quindi in realtà "Comic Art" non è una rivista dalla struttura precisa come l'aveva in passato "Frigidaire", che in qualche modo rappresentava una proposta unica. Peraltro si tratta dell'ultimo salvagente al quale si appigliano autori come me...

Studente - Le censure ... ?

Menotti - Sì, ne ho avute, benché non possa dire che siano dovute a cattiveria... C'erano un paio di tavole che sono stato costretto a cambiare perché l'editore era già stato condannato a qualche mese negli anni Settanta a causa di un membro virile che si era scorto tra le pagine della rivista. In una tavola avevo riprodotto quasi alla lettera (si trattava più di un plagio che di una ispirazione) dei disegni di Beardsley risalenti al 1896, dove ci sono dei personaggi dotati appunto di falli giganteschi... ma proprio per questo palesemente finti. A ragione si parlava prima di grottesco, perché è certo che in quella tavola non c'era nulla di particolarmente pornografico. Nonostante questo mi son ritrovato a dover trasformare questi piselli... in carciofi... per salvare la metafora ortofrutticola... (risate)

Nanni - Tu hai qualcosa da aggiungere?

Gabos - L'amico chiedeva perché l'editore fosse talmente imbecille da non crearsi delle riviste e quindi anche un pubblico... Innanzitutto un editore non fa beneficenza. Fare una rivista costa molto, e dato il periodo di crisi si preferisce investire, piuttosto che sui fumetti italiani, in prodotti stranieri che costano molto meno e vendono di più. Inoltre Il pubblico non si inventa: tutto

sommato dall'altra parte deve pur esistere una qualche richiesta e quando tante produzioni chiudono i battenti ci si pensa due volte prima di arrischiarsi sul mercato con una rivista super-intellettuale. E' molto più facile vendere con riviste ad imitazione della Bonelli, con un certo tipo di fumetto erotico o umoristico (nei periodi di crisi l'umorismo sembra la panacea di tutti i mali) che con delle proposte più azzardate.

Studente - Io vorrei sapere come inizia e come si sviluppa una storia a fumetti.

 Gabos - Dipende innanzitutto dal metodo con cui si lavora, un metodo che varia da autore ad autore, da scuola a scuola, che varia da autore ad autore, da scuola a scuola, rivista a rivista. Inoltre le cose cambiano moltissimo se bisogna inventare una storia con un personaggio nuovo oppure con un personaggio già esistente. Per quanto mi riguarda posso dire come faccio io. Quando inizio a scrivere o a disegnare una storia parto sempre da una certa insofferenza per il metodo precedente, che derivo anche dall'attività didattica che svolgo per alcuni ragazzi. All'inizio la cosa fondamentale è l'idea. A volte ci si sveglia con l'idea in testa, dopo un bel sogno, ma anche queste sono cose che per crescere e diventare valide hanno bisogno di sedimentare. Così prendo degli appunti quando mi capita di incontrare qualcuno o trovare qualcosa di interessante, poi lascio maturare. In seguito attingo e sviluppo. In altre occasioni mi è capitato di fare delle storie "a tavolino", ragionando molto e tenendo conto dei vari ingredienti come se si trattasse di fare una torta. Per "Cyborg", che è una produzione ibrida tra il fumetto popolare e quello autoriale, mi è capitato di sceneggiare a questo modo una storia di fantascienza insieme a Semerano e Brolli. Ci siamo posti secondo un'ottica quasi scientifica. Abbiamo cominciato ad analizzare una serie di fumetti bonelliani e di supereroi, abbiamo visionato una serie di film, da Robocop ai vari 007, e li abbiamo scomposti per recuperare certi meccanismi che potevano servire alla nostra storia. Ma questo è un esempio. Altre volte tutto può cominciare da uno schizzo che ho fatto, da un viaggio, da un libro... In generale non seguo un iter ben preciso. Le cose cambiano moltissimo a seconda di quello che devo fare.

Nanni - Sentiamo Menotti.

Menotti - Io a tavolino riesco malissimo. Ci ho provato una volta ed è stato uno sfacelo. Di solito preferisco partire da ciò che mi piacerebbe disegnare. Quindi vengono prima le idee sul tipo di personaggio, sul tipo di luogo. Che so... penso di disegnare una strada alberata di quelle che si trovano nella campagna romana, attorno agli anni Trenta, e poi ci faccio la storia attorno... Beh, forse ho un po' esagerato, ma spesso mi capita di fare più o meno così. Un'altra maniera molto divertente è quella di lavorare a spalla con altri autori, che non so fino a quanto sia diffuso nell'ambito del fumetto popolare. Io ho lavorato con Gabos, con Gibertini, con Semerano, ed è molto curioso vedere come cambiano e come si compenetrano le poetiche personali di due individui diversi che si mettono a realizzare una storia a quattro mani, sia che uno faccia lo sceneggiatore e l'altro il disegnatore, sia che si sceneggi e disegni effettivamente a quattro mani, con uno che fa le linee a matita perché l'altro le inchiostri. In questo modo ho realizzato delle cose che non avrei mai potuto fare da solo, e delle quali, tuttavia, mi sento autore a tutti gli effetti; cose che probabilmente non sarebbero potute venire alla luce altrimenti.

Studente - Prima hai parlato di "Frigidaire" e hai detto che la scomparsa della cultura "radicalchic" ha causato la dispersione dei lettori. Personalmente, dopo la morte di Pazienza, io ho visto anche un grande cambiamento [in peggio] all'interno di "Frigidaire". Legato a questo discorso c'è un'altra questione: in giro ho visto che è stata ripubblicata molta roba di Pazienza, ad esempio dal Grifo. Si tratta di dieci-quindici pagine alla volta con i soliti disegnini messi in croce, mentre per Tamburini, che stimo molto benché non lo consideri ai livelli di Pazienza, non è stata fatta alcun tipo di operazione.

Menotti - Lascio la parola a Gabos che è molto più competente di me per le questioni editoriali.

Gabos - C'è da dire che "Frigidaire" è cambiato per una serie di motivi. Come hai già detto tu, non ci sono più né Pazienza né Tamburini, che erano due tra i maggiori artefici della rivista. La mente rimasta è il solo Scòzzari; Liberatore disegnava come un dio ma non è mai stato un teorico, Mattioli ha preso un'altra strada pur continuando a fare cose molto belle. Dopo essere stata la rivista leader del settore, "Frigidaire", insieme al suo editore Sparagna, è stata bersagliata da problemi giuridici e altro. Quanto al fuggi fuggi degli autori, la questione è molto semplice: "Frigidaire" non pagava. Una volta saltati tutti gli equilibri la rivista ha continuato a essere fatta a caso, senza quella progettualità che all'inizio era fondamentale. Sparagna ha finito per pubblicare di tutto, senza una strategia ben precisa, e questo ha portato a una disaffezione del pubblico con relativo calo delle vendite. Per la verità è un miracolo che "Frigidaire" esca ancora e tutto sommato, anche se non ci pubblico più da diversi anni, ne sono molto contento. Mi sembra molto importante che vengano proposte retrospettive come Squeek the Mouse ecc.

Per quanto riguarda la domanda sul perché escano tanti libri di Pazienza e niente di Tamburini, bisogna tenere conto della grossa differenza tra i due autori. Pazienza aveva un tipo di linguaggio estremamente popolare, era un superistintivo, un vero genio, un talento naturale. Ho visto dei suoi originali e ne sono rimasto quasi sconvolto: è sempre bello sapere che c'è gente capace di disegnare direttamente col pennarello su un minuscolo block notes, riuscendo a creare storie bellissime e immediate. La forza di Pazienza era questa: essere un grandissimo narratore di grandissimo istinto. Tamburini era un altro tipo di autore, un tipo di genio più concettuale. Mi preme ricordare i suoi esperimenti su "Cannibale" e sui primissimi "Frigidaire" dove lavorava con la fotocopiatrice, utilizzando fumetti di genere di bassa qualità, italiani e americani, che deformava sia nei testi che nelle vignette. Personaggi insignificanti, con i testi cambiati, diventavano demenziali e cattivissimi, consoni alla sua indole (per la cronaca Tamburini era autore delle sceneggiature di Ranxerox), esilaranti e dissacratori. Tamburini può essere considerato un dadaista del fumetto, o giù di lì. Si tratta comunque di un autore molto più difficile la cui produzione, del resto, rimane sensibilmente più limitata. A ciò si aggiunga che non era un grande disegnatore, quindi nemmeno un autore totale: nelle prime storie di Ranxerox, per esempio, le matite sono di Pazienza. Di conseguenza è anche più comprensibile che la gente si sia potuta affezionare meno a Tamburini e che le ristampe delle sue opere siano così rare.

Barbieri - Volevo aggiungere una cosa. Da quanto ha detto Gabos sembra che tutte le colpe dell'affondamento di "Frigidaire" siano state di Sparagna. Per molti versi è vero, però bisogna anche dire che "Frigidaire" ha pagato lo scotto di essere una rivista decisamente "contro". Per anni non ha ricevuto i finanziamenti per l'editoria, e quando li ha riottenuti era ormai allo scatafascio, per cui se non pagava gli autori qualche ragione c'era. Quindi ha pagato: 1) la sua opposizione politica e 2) il fatto che si sia disperso il pubblico e contestualmente siano calate le vendite. Si è creato insomma un circolo vizioso: le vendite sono calate perché il giornale peggiorava e il giornale peggiorava perché non c'era più il pubblico che lo acquistava. Quindi, Sparagna ha le sue responsabilità, però c'è dietro una situazione oggettiva di fronte alla quale difficilmente la storia avrebbe potuto essere molto diversa da quella che è stata.

Studente - Vorrei sapere cosa pensa Barbieri della politica editoriale de Il Grifo relativamente alla riedizione di materiale di Pazienza.

Barbieri - Uhm... Tutto quello che dico potrà essere usato contro di me... Quelli de Il Grifo pubblicano disegni e fumetti di Pazienza sfruttandoli a più non posso. Lo fanno un po' coi libri, un po' con una rivista sulla quale mi dispiace che si vedano fumetti di Pazienza perché il contenitore è quanto di più stupidamente snob si possa concepire... Qui l'ho detto... ma non lo nego.

Studente - Ancora sul mercato. Degli anni Ottanta io ricordo che oltre a Frigidaire c'erano pochi altri concorrenti, mentre oggi mi sembra che il mercato si sia molto più frazionato e sia quindi più specializzato. Secondo me questa è stata anche un po' la causa dell'allontanamento del pubblico. Sette anni fa, con "L'Eternauta" e "Comic Art", dunque con pochi rivali, "Corto Maltese" vendeva bene; poi in qualche anno sono nate fanzine di fantascienza che specializzandosi sul genere hanno sottratto a queste riviste molti autori. Nell'85-86 c'erano poche riviste d'autore e quindi si comprava magari "Frigidaire" e qualche altro fumetto, mentre adesso occorrono almeno 20 o 30 mia lire al mese per seguire dappertutto i propri autori preferiti...

Barbieri - Sì, sì, ma l'85-86 era proprio il periodo peggiore. Prima si parlava dell'82. Allora su dieci-quindici riviste la maggior parte erano riviste d'autore e pubblicavano delle bellissime cose, mentre adesso le riviste di questo tipo sono davvero poche. Adesso ci sono molte più riviste di fumetti ma per la maggior parte sono di altro tipo. Nei primissimi anni Ottanta, in Italia, il fumetto d'autore era quello che andava per la maggiore ed è vero che alcune riviste pubblicavano molto materiale francese, ma era bel materiale francese. Quando è nato, "L'Eternauta" pubblicava materiale argentino, ma bellissimo materiale argentino... Io ho avuto problemi economici a comprare tutto, molti più di adesso! Ora come ora essere un lettore di fumetti d'autore in Italia costa molto meno, quindi non è proprio tanto esatto quello che dici.

Studentessa - Prima si diceva che il fumetto non è un medium riconosciuto dalla cultura ufficiale, però l'anno scorso il fatto che al Maus di Spiegelmann sia stato attribuito lo Special Award del Premio Pulitzer ha fatto notizia...

Barbieri - Appunto. Il fatto che sia stato premiato un fumetto ha fatto notizia.

Nanni - Si potrebbe partire da questa domanda per parlare del rapporto dei fumetti con la critica, più che con il mercato, oppure intrecciare i due rapporti.

Menotti - Intanto sono molto contento che Maus sia stato premiato. Non so chi di voi lo conosca, ma è uno dei pochi fumetti leggendo i quali non ho avuto l'impressione di perdere tempo. In realtà non sono uno che legge molti fumetti, per cui nell'ambiente vengo spesso tacciato di snobismo o ignoranza. Tra gli autori sono una pecora nera. Comunque, a prescindere da tutti i problemi di riconoscimento, trovo che vuoi per motivi di mercato, vuoi per altro, spesso i fumetti che si fanno adesso sono veramente banali. Maus, che racconta la vicenda di una ebreo durante il periodo del nazismo, è un fumetto che possiede tutte le qualità necessarie a una qualsiasi opera di qualsiasi disciplina per essere una grande opera. Purtroppo il riconoscimento interviene in corrispondenza di questi picchi di perfezione, mentre normalmente i fumetti vengono relegati nel gran calderone del linguaggio popolare. Ma parlare di linguaggio dei fumetti è sbagliato, perché i fumetti sono tanti. E' come parlare di musica senza pensare che esistono molti tipi di musica, e questo vale per qualsiasi mezzo espressivo. Ora io non so effettivamente che cosa faccia sì che i fumetti non vengano presi sul serio, però sono convinto che in essi esistono cose sulle quali varrebbe la pena di riflettere, a prescindere poi dal loro valore artistico. Per quanto mi riguarda, disegnando un fumetto io mi comporto come mi comporterei se dovessi lavorare a una sceneggiatura di un film o all'esecuzione di un quadro. Curiosamente, se io dipingo un quadro e lo espongo in una galleria, trovo gente che si occupa di questo quadro, magari stroncandolo, ma se ne occupa. Al contrario, facendo fumetti, magari molto più onestamente di quanto farei se dipingessi quadri sul serio, accade che il mio lavoro finisca praticamente nel vuoto. Questa è a grandi linee la situazione. I critici di fumetto sono pochi, alcuni sono anche molto competenti, eppure anche loro (basta guardare all'interno delle riviste di fumetti) scrivono sempre con quel tono da fanzine, da giornale dei radioamatori... "noi e i nostri piccoli lettori", "il nostro giornalino"... E' un po' come stare in un ghetto.

Gabos - A parte quei pochissimi c'è poi tutto il settore della critica "interna", ossia il mondo delle fanzine: una vera e propria giungla densa di faziosità tra gruppo e gruppo tra genere di fumetto e genere di fumetto, al cui interno diventa estremamente difficile orientarsi. Personalmente ho deciso di non dare più alcun peso a questo tipo di critica e di andare avanti con la mia ricerca col mio lavoro e basta. Penso che sia poco interessante confrontarsi con qualcosa che tutto sommato è evanescente, poco concreto.

Studente - Volevo sapere quali sono i criteri per distinguere tra fumetto d'autore e fumetto popolare.

Menotti - Un fumetto popolare, fondamentalmente, nasce su strutture prestabilire in partenza, che sono praticamente le stesse da anni. Il linguaggio è estremamente referenziale, ridondante e privo di ambiguità. A tale proposito Diabolik è il caso più luminoso: se non si capisce la scena della pagina precedente, in quella successiva c'è sempre la didascalia di raccordo che ribadisce la collocazione logica o l'importanza di quanto è successo. Ecco allora gli "infatti...", i "nel frattempo", etc.. Alla fine viene sempre rispiegato tutto, come se non fosse possibile ricavarlo dalla lettura della storia...

Studentessa - Guarda che spesso è difficile capire i fumetti, per uno che non è abituato.

Gabos - Quali fumetti?

Studentessa - Quelli di oggi. Io non li conosco, ma...

Gabos - E allora come fai a dire che non si capiscono?

A me sembra che questo sia un atteggiamento da partito preso: "ecco, sono intellettuali, non si capiscono". Uno non si sforza nemmeno.

Nanni - Andiamo per ordine, facciamo finire Menotti.

Menotti - Il fumetto d'autore, in breve, è quello che non riesce ad essere categorizzato come fumetto di genere o popolare che sia. E' popolato di spiriti più liberi, relativamente più liberi, che magari cominciano a sondare dei territori diversi da quelli costantemente battuti. Il discrimine è ben individuato dall'episodio della lettera a "Lanciostory" di cui parlavo prima. Un fumetto d'autore può parlare di Dimitri Popoff mentre un fumetto popolare, di genere, non lo può fare, altrimenti non verrebbe acquistato.

Barbieri - Menotti parla dalla parte del fumetto d'autore. Io non sono uno che fa fumetti e vorrei difendere il fumetto popolare, anche perché ho l'impressione che queste siano più che altro denominazioni storiche. Anche all'interno del fumetto popolare ci sono delle cose che non rispondono alla definizione data da Menotti. Negli anni Settanta c'era una bellissima serie chiamata "Ken Parker", più volte ristampata e oggi nuovamente ripresa, che era tutt'altro che fumetto popolare nei termini sopra esposti. Per restare a cose note ai più, provate a leggere qualche storia di "Dylan Dog" e vedrete che ci sono dei problemi ad ammettere che sia tutto spiegato, tutto semplice, perché Tiziano Sclavi è tutt'altro che un autore banale, un autore facile, un autore spiegabile nei termini precedenti. Così, da un certo punto di vista, "Ken Parker" e "Dylan Dog" sono fumetti d'autore, non c'è alcun dubbio, però sono denominati fumetti popolari perché sono nati all'interno di una certa tradizione, sono venduti in un certo formato, sono pubblicati da un certo editore che sono quelli dei fumetti popolari. Per cui, attenzione, a seconda di come definiamo le cose ci troviamo in un campo oppure nell'altro. Poi ci sono i fumetti brutti e i fumetti belli. E non tutti quelli popolari sono brutti né tutti quelli d'autore sono belli.

Menotti - Su questo sono perfettamente d'accordo. Colto e popolare non sono affatto sinonimi di bello e brutto.

Nanni - Torniamo a lei. Tu avevi asserito che non è così semplice comprendere i fumetti.

Barbieri- Ma questo vale per qualsiasi tipo di linguaggio.

Studentessa - Sì, infatti. Il fumetto si identifica col suo linguaggio. Menotti diceva che il fumetto non era un linguaggio, in realtà lo è.

Menotti - Ma non è unico, ce ne sono tanti. Il libro di Daniele Barbieri si chiama I linguaggi del fumetto proprio per questo. Come ho già detto il fumetto è un mezzo , non un genere.

Gabos - Parliamo di rock. All'interno della stessa famiglia esistono molteplici posizioni spesso antitetiche l'una con l'altra non hanno niente in comune se non per il fatto di utilizzare gli stessi strumenti musicali. Nell'ambito del fumetto accade lo stesso. Cosa possono avere i "Peanuts" in comune con "Tex"? Assolutamente nulla, se non che, essendo fumetti, parlano tutti la attraverso i balloon. Allora, è questione di conoscenza di linguaggio e di linguaggi. Nessuno capisce tutto; è necessario introdursi adeguarsi al rispetto di una certa serie di regole fondamentali, che so, relativamente al senso di lettura proprio della cultura occidentale: da sinistra a destra dall'alto in basso e così via. E' chiaro che senza questo terreno comune la comprensione diventa impossibile.

Studente - Che fine hanno fatto gli intellettuali che leggevano "Linus" "Frigidaire"? Cosa è cambiato da allora?

Barbieri - Io credo che in Italia il successo di "Linus" negli anni Sessanta e di altre riviste analoghe, come "Eureka", sorte poco dopo, fosse legato a un certo ambiente di sinistra.

Non a caso il primo numero di "Linus" fu presentato da Oreste del Buono intervistato da Umberto Eco. I lettori di queste riviste, che non erano comunque tantissimi benché sufficienti a tenerle in vita, esistevano perché le riviste stesse appartenevano in qualche modo a una alternativa politica e culturale che negli anni Sessanta aveva una grande importanza, tanto più negli anni Settanta.

A quell'epoca "Linus" è diventata una rivista politicizzatissima. Poi sono arrivati gli anni Ottanta, l'edonismo reaganiano ecc. ecc. Per diversi autori, tra cui molti Valvoline, è stata una fortuna, per esempio, poter fare delle illustrazioni per "Vanity", una bella rivista di moda, comunque quello era per loro l'unico destino possibile. Non c'era più una classe intellettuale che cercasse alternative culturali con quell'intensità che c'era stata nei dieci anni precedenti. Questa è la mia impressione sulla fine degli intellettuali che leggevano i fumetti. Naturalmente non è che siano scomparsi del tutto, è scomparso un certo modo di intendere la cosa, è scomparsa una compagine. Adesso ci sono dei lettori di fumetti d'autore. Non c'è più ambiente che possa essere caratterizzato in maniera precisa come poteva essere allora.

Studente - Non è un problema di mancanza di ricerca ... ?

Barbieri - Non basta la ricerca. Di ricerca nel mondo del fumetto d'autore ce n'è stata e ce n'è tanta, spesso molto più che in altri ambiti. Il problema è che dove non c'è un contatto culturale oggettivo si possono fare fumetti con tutta la ricerca che si vuole, ma se non c'è nessuno che li legge, rimangono lettera morta. Si possono fare le cose più stupende, più meravigliose, ma se le leggono quattro gatti...

Studente - Intedevo dire: ricerca da parte nostra, da parte dei lettori, perché approfondiscano la loro conoscenza degli autori, dei linguaggi.

Barbieri - Sì certo, ma come si fa? Io posso invitare i presenti a leggere tanti fumetti, ma così non si cambia il modo in cui ci si approccia a questo tipo di letteratura. Non si cambia la sua "concezione pubblica", il "pregiudizio generale" che esiste nei suoi confronti. Queste non sono cose che cambiano da un giorno all'altro, vanno con lo spirito del tempo, sono tendenze generali che non dipendono soltanto dal fumetto, ma da un contesto culturale molto più ampio, su cui nessuno ha il controllo.

Studente - Cosa è successo a "Fuego"? Perché ne sono usciti solo sei numeri?

Gabos - Sei numeri non sono assolutamente bastati ad allargare la cerchia dei lettori, però c'è il solito discorso del circolo vizioso. Una rivista che non vende non può andare avanti, e non andando avanti non si può diffondere. Non potevamo continuare ad oltranza ad investire in una politica suicida.

Studente - Cosa sarebbe accaduto se la rivista avesse continuato a uscire?

Gabos - Non so, magari sarebbe finita sulla bocca di tutti, avrebbe inciso sul pensiero quotidiano, io avrei portato avanti la mia serie all'infinito e sarei stato contentissimo... Certo avrebbe avuto un bacino d'utenza maggiore, il che vuol dire uno scambio maggiore col pubblico e in conseguenza un nostro arricchimento.

Avremmo avuto la possibilità di dire qualcosa in più, di dare conto dell'esistenza di un'altra voce all'interno di un certo panorama. Questo non è avvenuto e ora alcuni autori di "Fuego" lavorano su "Comic Art", altri come me su "Nova Express". C'è stata una distribuzione di autori su varie testate, dettata dalla necessità di lavorare.

Studente - Vorrei un parere su "Dylan Dog", un fumetto molto venduto ma che secondo me non segue i canoni del fumetto popolare in generale.

Gabos - Io compro "Dylan Dog" tutti i mesi. E' un fumetto fatto bene, realizzato da un grandissimo scrittore, Sclavi, e da disegnatori che per la maggior parte sono tra i migliori della Bonelli. In pratica è fare Hollywood a fumetti: è un'operazione notevole, seguita minuziosamente fino alla fine da uno staff eccezionale; è un prodotto confezionato apposta per vendere bene. Ha la fortuna di essere ben realizzato, è divertente, molto ironico, è accessibile a tutti e contiene il giochino molto di moda delle citazioni da libri, film e dischi che diverte molto i lettori. Ma anche lì, per quelli che lo vogliono, è possibile andare a scavare più in profondità. In considerazione di ciò, il successo che ha è giusto.

Nanni - Cosa vuoi dire quando dici "fatto bene"? Alludi alle caratteristiche che hai elencato prima o a qualcosa che non hai detto? 

Gabos - Parlo da un punto di vista tecnico ma anche per quanto riguarda i luoghi e le atmosfere che gli stanno attorno. Inoltre è stato lanciato al momento giusto. "Dylan Dog" viene a rappresentare per noi ciò che è stato "Tex" per i nostri genitori, con tutte le novità adattate a quanto stiamo vivendo. Va al passo con i tempi, funziona anche per questo. E' un fumetto contemporaneo, per questo è molto importante.

Studente - Che rapporto c'è tra fumetto e cinema, se esiste? La crisi del fumetto può essere collegata alla crisi del cinema?

Gabos - Tra il linguaggio del cinema e quello del fumetto esistono moltissime analogie, a partire dalle metodologie di lavoro fino alla terminologia. Quando scrivo una sceneggiatura uso gli stessi termini: si parla di regia, di montaggio, di campi lunghi, ecc. Per contro esistono alcune differenze. Quella fondamentale è che il cinema possiede il movimento e il suono, mentre il fumetto risolve il suono con i balloon e non possiede movimento, il che conduce a soluzioni narrative differenti in un campo e nell'altro. Quanto alla crisi del fumetto e del cinema, il legame è possibilissimo. A me sembra che nel settore della fruizione dell'arte o della cultura in genere la crisi sia generale, ultimamente. Però non darei la colpa alla solita TV e ai soliti cartoni animati. Può essere anche vero ma è vero anche il contrario, perché i ragazzi che oggi hanno diciott'anni sono cresciuti cibandosi di cartoni animati giapponesi e adesso comprano tonnellate di manga.

Menotti - Volevo aggiungere una cosa, non tanto per evidenziare contatti o differenze tra fumetto e cinema in se stessi, quanto per riportare l'attenzione sull'importanza della critica. Il fumetto, che non possiede una vera e propria critica, trova in questa mancanza l'impossibilità di migliorare, proprio per l'insufficienza di stimoli che vengono dall'esterno. Il mondo del fumetto è piuttosto chiuso e attualmente non ha grande incidenza su ciò che accade nel mondo. Alcune serie continuano a uscire da anni senza aggiornarsi. In definitiva c'è pochissimo scambio tra mondo del fumetto e mondo della cultura in generale. A questo proposito la situazione del cinema non è così drammatica; semmai accade il contrario. Certo, c'è stata una crisi negli anni Ottanta, però sono usciti dei film inglesi che sono stupendi. Per fare un paragone azzardato: un "fumettaro" italiano che attualmente è considerato tra i più grandi, se non il più grande in assoluto, è Manara. Pensando al mondo del cinema, io Manara lo paragono a Tinto Brass, che il più grande regista italiano non lo è senz'altro. Questo è il problema. Mancando una critica, mancando gli stimoli esterni, mancando un gruppo in azione, mancando un posto dove si possano leggere delle belle cose tutte assieme, si crea anche, a mio parere, una certa tendenza a scadere di qualità.

Studente - Vorrei sentire qualcosa sulla concezione dell'eroe, il personaggio che alla fine della storia ottiene sempre il successo. Sembrerebbe che un fumetto ne abbia bisogno per diventare popolare.

Gabos - L'eroe nei fumetti come nella narrativa di genere è un classico. E' evidente che per un lettore è più facile e gratificante identificarsi in un personaggio vincente, o nel bene o nel male, che non il contrario, in personaggi troppo vicini a noi, e in conseguenza troppo lontani. Ancora meglio se l'eroe è anche tutto d'un pezzo, come il Ranxerox di Tamburini e Liberatore: cattivo e basta. Non dimentichiamo poi il problema della serialità: i fumetti popolari escono ogni mese, e se ogni mese Tex le prendesse dagli indiani, dai cinesi a San Francisco, da Mephisto ecc. ecc., diventerebbe una macchietta, un fumetto comico del tipo Alan Ford. Di coseguenza verrebbe a mancare una delle prerogative fondamentali della narrativa di genere, che va dai poemi epici fino ai romanzi d'avventura di Salgari e Verne: la presenza di un eroe positivo che vince sempre. La figura dell'antiaeroe è intervenuta successivamente. Per quanto riguarda i fumetti italiani c'è stato Ken Parker, in America si è cominciato con i supereroi della Marvel. Il motto di Stan Lee, il loro creatore, recitava "supereroi con superproblemi". Ciò serviva a differenziarli drasticamente da personaggi come ad esempio Superman, super-forte, invulnerabile, capace di volare e vedere attraverso i muri, privo di qualsiasi punto debole se si esclude il ridicolo handicap costituito dalla kriptonite, un minerale alieno in grado di causargli una sorta di svenimento. Con la Marvel, dunque, viene inaugurata una rassegna di personaggi problematici che diventano supereroi fortuitamente, spesso a causa di incidenti. L'Uomo ragno, ad esempio, prima di acquisire i suoi poteri è un classico nerd, il tonto occhialuto deriso dai compagni; Dan Dale prima di diventare Thor è un medico zoppo; Devil nella vita normale è addirittura cieco. Un'idea che qualche anno fa ha avuto molto successo, anche se poi in tempi più recenti è scaduta nella macchietta, è stata quella di introdurre le cosiddette sub-plot, o sottotrame, spesso di carattere domestico o amoroso, che hanno contribuito ad approfondire lo spessore psicologico dei personaggi per diventare in alcuni casi le cose più interessanti di tutto l'albo.

Negli anni Ottanta uno scarto ulteriore, rivoluzionario per la figura del supereroe, si deve all'opera di Frank Miller, autore della fondamentale miniserie Batman-the Dark Knight in cui il protagonista è visto come uomo malgrado i superpoteri, fonte tra l'altro di grande sofferenza. In questa prospettiva viene rimesso totalmente in discussione il rapporto tra l'uomo e il supereroe che è in lui, rapporto che diventa conflittuale. Il supereroe, si pone così a metà strada tra il paladino della giustizia e il vigilante, spesso a sua volta perseguitato dalla polizia. Il discorso si potrebbe allargare al fumetto giapponese, al manga, in cui non esiste più la figura dell'eroe positivo tutto d'un pezzo, rispondente a una concezione manichea del mondo tipica di un certo fumetto, ma quella di un personaggio ambiguo sia dal punto di vista sessuale che etico, in cui il Bene e il Male interagiscono senza dominare mai completamente l'uno sull'altro, come accade nella vita. Resta il fatto che il pubblico si affeziona molto più facilmente agli eroi positivi.

Menotti - Vero. Io personalmente, invece, gli eroi non li sopporto, figuriamoci i supereroi. La mia serie si chiama Storie tapine, i miei personaggi finiscono sempre piuttosto male e se non muoiono succedono loro cose terribili. L'ho fatto apposta perché non riuscivo ad avere a che fare con persone sempre così forti, così brave, con le quali non mi ritrovo affatto a mio agio.

Nanni - Per questo si è laureato con me. (risate)

Studente - Vorrei un'opinione su Cadelo. Come mai non lavora più in Italia?

Barbieri - Questo per la verità è un male piuttosto diffuso tra gli autori italiani, almeno tra i migliori. Quanti dei presenti conoscono Mattotti? Proprio pochi. Mattotti è un autore straordinario. Se ci fossero dieci libri da salvare, tra tutto ciò che gli italiani hanno fatto in questo secolo, secondo me Fuochi sarebbe senz'altro fra questi, eppure in Italia non lo conosce nessuno. In Francia Mattotti è considerato un dio del raccontare in generale, non soltanto a fumetti, e del fare arte visiva. Mattotti è un grande. Cadelo secondo me non è grande come Mattotti, però è un ottimo autore anche lui. Ha una straordinaria capacità grafica, tale da riuscire a rendere dei colori che si sarebbe detto non fossero mai esistiti prima. Sono vere scoperte visive, cose che a volte purtroppo si perdono in stampa. I suoi originali sono affascinanti proprio per i colori che riesce a inventare. Sinceramente lo preferisco come illustratore che come fumettista, perché è come illustratore che riesce a dare le sue invenzioni più conturbanti. In qualità di fumettista ha fatto delle storie molto belle, come Voglia di cane, la primissima, altre forse un po' troppo barocche; certo si legge sempre molto volentieri.

Studente - Autori come voi, che condividono un'idea "artistica" del fumetto, sarebbero disposti a lavorare per un prodotto seriale come Dylan Dog, ad esempio, magari per cambiarlo dall'interno?

Menotti - Sinceramente per me sarebbe un po' difficile. Non ho avuto proposte da "Dylan Dog", ma sono stato contattato da un'agenzia che lavora per l'"Intrepido" e devo dire che l'offerta era un po' frustrante. Le sceneggiature sarebbero arrivate per posta già belle e pronte e io avrei dovuto disegnare le storie senza possibilità di intervenire sul soggetto più di tanto. Tutto ciò risponde all'idea che la mente è chi scrive, mentre chi disegna è un semplice esecutore. Non riuscirei mai a lavorare così.

Gabos- Io mi cimento in tutti i campi del fumetto: scrivo e disegno per conto mio, disegno storie di altri e scrivo storie che altri disegneranno. Per cui, quanto a lavorare per "Dylan Dog", possibilissimo; molto più difficile, invece, riuscire a cambiarlo dall'interno. Gli schemi narrativi di serie popolari come questa sono ormai così ben collaudati che è quasi impossibile scardinarli. E' già molto, ad esempio, che l'impaginazione di "Dylan Dog" e "Nathan Never" segua lo stile comic book e non il vecchio tipo a "striscia". Per il domani, comunque, non escludo nessun tipo di collaborazione. Tra l'altro sono un classico lettore di fumetti, onnivoro per definizione, che a prescindere dai propri gusti personali non nutre preconcetti verso alcun prodotto particolare. Leggo di tutto, non ho atteggiamenti snob.

Barbieri - A proposito della possibilità di innovazione, c'è sempre da considerare il problema della serialità. Se all'improvviso Groucho diventasse intelligente e mandasse a quel paese Dylan Dog, sorgerebbero grosse difficoltà a far proseguire la serie. Le regole di cui si parlava non sono messe a caso, sono regole che permettono la continuità. Sulla questione di autori "colti" che vanno a fare fumetto popolare, c'è da dire che il fenomeno non è inesistente. Micheluzzi, ad esempio, ha disegnato un numero di "Dylan Dog", e c'è sempre un volume di "Tex" che da tempo immemorabile è in preparazione da parte di Magnus. Si dice che la storia sarà finita fra due anni e ogni tanto, nell'attesa, vengono pubblicate da qualche fanzine vignette bellissime che sono riusciti a portargli via. E' anche vero che Magnus è un autore con un percorso molto particolare. Ha cominciato con Kriminal e Satanik, dei prodotti popolari che più popolari non si può, ed è arrivato a fare dei fumetti estremamente raffinati. E adesso, in questa sua nuova veste, si sta cimentando col popolare Tex.

Nanni - Bene. Occorre chiudere. Ringraziamo i nostri ospiti e ... riflettiamo.

 

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