Leggere Burri
con Heidegger:
Metamorfotex
di Laura Polidori
"Ci avvicineremo invece a ciò che è, solo procedendo al rovescio,
posto che abbiamo occhi per vedere come tutto avvenga al rovescio..."
Heidegger
"Metamorfotex" è il titolo
di una serie di nove enormi dipinti rettangolari, in successione.
Ciascun dipinto è un pannello diviso in tre grandi partiture verticali,
scandite in vaste superfici anseate, lucide o opache. I pannelli non sono semplicemente l'uno accanto
all'altro, come per le altre grandi serie di Burri. Sono invece vicinissimi,
a volerne sottolineare la continuità. Il
primo è completamente color ocra, caratterizzato dall'equilibrio delle
forme arcuate al suo interno che si distinguono
per via della superficie lucida oppure opaca. Nel secondo, che come
tutti gli altri presenta la stessa partizione
di forme, una piccola forma a destra è divenuta nera rispetto al primo
pannello; nel terzo, oltre a quella a destra, anche un'altra forma
verticale a sinistra si è annerita. Nel quarto le forme nere sono
divenute tre: si alternano a quelle ocra
nelle grandi scansioni dilatate; nel quinto il nero comincia a prevalere,
nel sesto e nel settimo si fa via via sempre più dominante, sino all'ultimo
pannello, ormai completamente nero, ma identico al primo e a tutti
gli altri.
Mentre scorre lo sguardo, si compie il
movimento. Le grandi campiture si riempiono lentamente di nero. E' un movimento particolare: l'ultimo pannello è esattamente uguale
al primo, tuttavia è completamente diverso: è nero.
L'idea è molto semplice, e l'impressione
è quella di partecipare ad un gioco[1][1].
"E' pittura, punto e basta!"[2][2]
ha sempre sostenuto l'artista, nelle rare dichiarazioni in merito
alle proprie opere.
Burri è stato
artista emblematico sotto molti aspetti:
ha costantemente rifiutato qualsiasi spiegazione o parafrasi dei propri
lavori. A proposito di Brandi ebbe a sostenere che, come aveva fatto
quest'ultimo, il critico, analizzando un'opera, dovrebbe
sempre cercare di seguire un discorso parallelo, una creazione autonoma
rispetto all'opera stessa[3][3].
Ma il rischio
di chi si accinge a tentare la lettura di un'opera d'arte, ed a maggior
ragione, il rischio di chi cerca di farlo seguendo il filo conduttore
d'un tema heideggeriano, lungi dall'esser quello di ridurre l'opera
a semplice occasione di un percorso di pensiero suo
proprio, estraneo all'opera oggetto di riflessione, pare piuttosto
quello di non riuscire ad evitare lo schema interpretativo, la struttura
che si rivela restrittiva perchè legata ad un sistema generale precostituito.
Si tratta insomma di riuscire a non usare violenza all'esperienza
artistica in quanto tale, anche se ogni comprensione, come ha chiarito
Gadamer sviluppando autonomamente uno dei fondamenti del pensiero
heideggeriano,[4][4]
è fondata su una precomprensione, su pregiudizi che non sono ingenuamente
da rifiutare in quanto tali, ma costituiscono la condizione di possibilità
della comprensione, sono il suo orizzonte.[5][5]
Si tratta del circolo proprio di ogni comprensione.
L'opera di Burri
è stata oggetto di vastissima letteratura critica, e le riflessioni
che seguono non hanno alcuna pretesa di priorità. Intendono essere
occasione di confronto su uno degli ultimi lavori dell'artista,
un esercizio di lettura, appunto. E' possibile leggere un'opera di
Burri alla luce di alcuni temi del pensiero
di Heidegger, il pensatore del Novecento che ha attribuito proprio
all'opera d'arte una funzione fondamentale rispetto alle questioni
filosofiche a lui care dell'essere e della verità? E' possibile leggerla
senza correre il pericolo di forzarla, costringendola a corrispondere
alle istanze heideggeriane, che dovrebbero
invece aiutarci a comprenderla? E con quali esiti?
Ovviamente, "queste
osservazioni sull'arte, sullo spazio, sul gioco di rapporti che li
coinvolge entrambi, anche se espresse in forma affermativa, sono e
restano problemi."[6][6]
Non sarà dunque possibile rispondere in modo esaustivo a queste domande.
Si cercherà piuttosto di riprendere brevemente alcuni fondamenti del
pensiero heideggeriano per cercare una prima risposta, sulla
base di una lettura della trattazione dell'opera d'arte in
L'origine dell'opera d'arte.
Heidegger ha trattato molti temi,
ma tutti sono da ricondurre alla questione dell'essere. Dopo avere
scritto Essere e tempo, che costituisce la tappa principale
della cosiddetta prima fase del suo pensiero, egli ne approfondisce i temi fondamentali focalizzandoli proprio
attorno al problema dell'opera d'arte. Certamente la sfera dell'esperienza
estetica in quanto tale viene trascesa,
e vedremo in che modo, tuttavia essa rimane il punto di partenza.
In: L'origine dell'opera d'arte,
il saggio comprendente la rielaborazione
di tre conferenze tenute dal filosofo a Francoforte nell'autunno del
1936, Heidegger si interroga sul senso dell'essere e sul significato
di verità relativo a questa interrogazione. Questo problema viene discusso proprio alla luce della realizzazione dell'opera
d'arte.
La prima via che Heidegger segue
nel tentativo di cogliere l'opera d'arte
è quella che la comprende come cosa (Dingsein). L'opera d'arte, infatti,
è innanzitutto una "cosa". La tradizione filosofica ha interpretato
la cosa come sostanza degli accidenti[7][7],
come unità d'un molteplice di dati sensibili,[8][8]
oppure come sintesi di materia e forma.[9][9]
Fedele all'assunto fenomenologico
che anche a proposito dell'arte, propone "una radicale sospensione
di ogni atteggiamento naturalistico, di ogni ingenua credenza
in un mondo "già là", tutto dato..."[10][10],
Heidegger cerca delle determinazioni originarie ma si trova costantemente
di fronte a delle "sopraffazioni della natura della cosa".[11][11]
In effetti la prima concezione risente della costituzione della proposizione
(e non della cosa), la seconda privilegia percezione e sensibilità
(e non immediatamente la cosa), la terza rivela non l'essenza della
cosa ma quella del mezzo, ciò di cui ci serviamo quotidianamente.
"L'unione di materia e forma che qui si riscontra è sin da
principio regolata da ciò cui brocca, scure e scarpa devono
servire".[12][12]
Già
in Essere e tempo, nell'Analitica esistenziale, Heidegger
si concentra sull'ente. Vuole escludere che il primo approccio, quello
immediato, sia la riflessione, l'atteggiamento teoretico. La quotidianità
ci pone invece immediatamente in contatto con le cose e questo rapporto
con ciò che ci è necessario costituisce il mondo, unità di significati
diretta dall'agire quotidiano. Il nostro primo approccio con le cose
non ci pone a contatto con oggetti privi di qualsiasi determinazione,
come pretenderebbe la scienza, bensì innanzitutto con ciò che è
necessario al nostro agire quotidiano, con i mezzi.
Ora Heidegger, per comprendere l'essere
della "cosa", ovvero l'utilizzabilità del mezzo, si muove
a partire dall'opera intesa come opera d'arte.
Paradossalmente
- stiamo leggendo un saggio filosofico - non è una
indagine, un approfondimento teorico che ci presenta il carattere
di usabilità del mezzo, ma é proprio l'opera d'arte, un quadro di
Van Gogh, a porci in condizione di fare esperienza di un paio di scarpe
da contadino. "Fin che noi ci limitiamo a rappresentarci un paio
di scarpe in generale o osserviamo in un
quadro le scarpe vuotamente presenti nel loro non impiego, non saremo
mai in grado di cogliere ciò che, in verità, è l'esser mezzo del mezzo."[13][13]
"Nell'orificio oscuro dall'interno
logoro si palesa la fatica del cammino percorso lavorando. Nel massiccio
pesantore della calzatura è concentrata la durezza del lento procedere
lungo i distesi e uniformi solchi del campo,
battuti dal vento ostile. Il cuoio è impregnato dell'umidore e del
turgore del terreno. Sotto le suole trascorre la solitudine del sentiero
campestre nella sera che cala. Per le scarpe passa
il silenzioso richiamo della terra, il suo tacito dono di messe mature
e il suo oscuro rifiuto nell'abbandono invernale. Dalle scarpe promana
il silenzioso timore per la sicurezza del pane, la tacita gioia della
sopravvivenza al bisogno, il tremore dell'annuncio della nascita,
l'angoscia della prossimità della morte. Questo mezzo appartiene alla
terra ed il mondo della contadina lo custodisce. Da questo appartenere
custodito il mondo si immedesima nel suo
riposare in se stesso".[14][14]
Con il quadro di Van Gogh, sostiene
Heidegger, non abbiamo semplicemenete "compreso" meglio
ciò che il mezzo è, non lo abbiamo osservato, piuttosto siamo riusciti
ad accedere all'esperienza che usualmente facciamo del mezzo[15][15].
Non l'osservazione, dunque, non l'atteggiamento di ricerca, quello
scientifico, ma qualcosa di completamente diverso: è stata un'opera
d'arte a permetterci di fare esperienza dell'ente nel non nascondimento,
nella non sopraffazione del suo essere. Questo è ciò che i greci chiamavano
alétheia, verità.[16][16]
L'intento di Heidegger è quello di
porre in evidenza il problema più dimenticato: quello dell'essere,
ma la questione è posta da un ente in particolare: l'uomo, il quale
è caratterizzato proprio dalla possibilità di porre questa questione.
Ma come comprende l'uomo l'essere dell'ente? L'esser mezzo
o 'semplice presenza' esauriscono l'essere dell'ente? Secondo Heidegger,
"l'opera d'arte apre a suo modo l'essere dell'ente. E' nell'opera
che ha luogo questa apertura, cioè lo svelamento,
la verità dell'essere dell'ente. Nell'opera d'arte è posta in opera
la verità." [17][17]
"Metamorfotex" occupa la
parete finale dell'ultimo dei giganteschi capannoni di Città di Castello,
capannoni che erano un tempo adibiti ad
essiccatoi del tabacco. In queste aggregazioni
tipiche del lavoro industriale[18][18],
undici edifici in successione, di diverse dimensioni ed orientamento,
Alberto Burri trovò la soluzione per esporre le sue grandi opere dalla
difficile collocazione. Gli ex essiccatoi del tabacco sono così divenuti
spazi espositivi dell'artista sin dal 1989.
Certamente le ultime grandi opere
di Burri, come appunto "Metamorfotex", necessitavano
di una ambientazione particolare [19][19].
Ma non era solo un problema di dimensioni:
entrando nei grandi spazi museali ci si rende subito conto che non
si tratta di semplici contenitori. Le scale di servizio, gli enormi
contrafforti, le strutture di lavoro in disuso non solo non costituiscono
un elemento di disturbo per il visitatore, ma offrono le condizioni
più adatte per esperire le opere. Tutti i capannoni sono dipinti di
nero, l'atmosfera è uniforme e non si percepisce quel disagio che
sembrerebbe naturale visto il fine del tutto diverso per cui furono costruiti questi ambienti giganteschi. Ogni
capannone costituisce lo spazio che, ospitando le enormi opere di
Burri, si pone in relazione con esse, "assegna
loro la misura"[20][20].
"Metamorfotex" è l'ultima.
Davanti allo spettatore, il ciclo
monumentale si impone non solo per le dimensioni,
ma per il ritmo, per lo svolgersi del bipolarismo cromatico. La presenza
immediata della materia ocra si offre senza mediazione. E' una sostanza
anonima, artificiale, senza allusioni, tuttavia calda, pastosa. Questo
contatto diretto, ingiunto a chi guarda, rinvia ad un secondo ordine
la forma, definibile solo per via delle grandi campiture lucide o opache. Il colore è indotto dal gioco della luce che si
riflette.
I pannelli che costituiscono "Metamorfotex",
così come le altre ultime grandi opere dell'artista, sono costituiti
da un prodotto industriale ottenuto da segatura pressata, tenuta insieme
con un collante: il "cellotex". Il colore, piuttosto compatto,
è ocra e Burri manipola questa materia spellandola, per esempio, in
modo che assuma opacità o lucidandola con l'ausilio di sostanze viniliche.
Oppure la tinge di nero, (acrilico con aggiunta di pietra
pomice), ottenendone una superficie molto particolare, anch'essa più
o meno opaca. La relazione lucido/opaco
si carica di una valenza fondamentale, si fa essa stessa colore[21][21]
nei grandi spazi esteriormente monocromatici della pittura.
La sequenza di "Metamorfotex"
è completamente giocata tra cellotex ocra e cellotex nero. Seguendo
la serie di pannelli, assistiamo al lento trasformarsi delle grandi
forme ocra, al loro manifestarsi, sostanza e colore insieme, in una
dimensione completamente diversa. Alla fine, ma esattamente come all'inizio,
le sagome arcuate formano un tutto compatto, vivificato solo dalla
riflessione della luce nel gioco tra lucido e opaco. Sembra di osservare
lentamente una infiltrazione graduale del
nero nell'ocra, ma potremmo dire con lo stesso diritto che è l'ocra
ad inserirsi nel nero. Qualcuno ha parlato, forse per via del gioco
positivo/negativo, di "sequenza cinematografica"[22][22].
Il fenomeno della descrizione è stato
oggetto nel nostro secolo di grandi questioni critiche[23][23].
E quella che riguarda la pittura è una
delle più complesse. "Accogliere" un fenomeno non significa
studiarlo, renderlo oggetto di una analisi
particolare che lo isola da tutto ciò che per la stessa analisi è
irrilevante, bensì descrivere ciò che vi si manifesta, husserlianamente
indagarlo nel modo in cui si dà, nelle possibilità, ma anche nei limiti
della sua manifestazione. A questo proposito è importante prendere
in considerazione alcune posizioni, alcuni schemi interpretativi che
hanno pesato sulla comprensione dell'operato
di Burri, determinandone la ricezione. Per esempio quello
riguardante i materiali e l'uso che ne ha fatto l'artista.
Per secoli la materia è stata subordinata
alla forma. In ambito artistico ha "finto"
la realtà, l'ha rappresentata. Quando apparvero le prime opere di Burri, subito dopo la seconda
guerra mondiale, il suo uso di sacchi, stracci, spago, toppe di juta
etc., "materiale devitalizzato depauperato imputridito consunto
e già coartato dal deperimento",[24][24]
aveva fatto pensare a molti d'esser di fronte a simbologie sociali
o indicanti vissuti del tutto personali: "Invece che la poetica
del 'bello', la poetica del 'brutto' nel senso che tutto ciò che è
usato, sformato, narra silenziosamente la vita che ha vissuto e che
lo ha ridotto così. Come il viso di un vecchio con le devastazioni
dell'età è tanto più colmo di umanità di
quello di un giovane (certo obiettivamente più bello), così il sacco
di Burri possiede, più di qualsiasi tela nuova, una sua forza espressiva."
[25][25]
E ancora: "Se le slabbrature dei sacchi di Burri, (...) si trascinano
memorie di una antica professione medica
dell'artista, la chirurgia di Burri è praticata sulla stessa corteccia
del mondo, in interventi supremamente lucidi che, per essere salvifici,
sanno esprimere pietà tenera eppure impassibile." [26][26]
Tuttavia i materiali di Burri non
erano più referenti, non erano metafore, analogie, allusioni. Non
rinviavano ad alcun significato.[27][27]
"Ho scelto materiali poveri per dimostrare che possono ancora
essere utili. La povertà del materiale non è un simbolo: è un pretesto
per dipingere"[28][28].
La materia in sè si affermava come elemento autonomo, diveniva forma,
offuscava ogni distinzione tra cosa e opera.
E' infatti
nell'opera d'arte che la materia viene in primo piano: "I metalli
si fanno lampeggianti e rilucenti, i colori splendenti, i suoni risonanti,
la parola dicente. Tutto ciò si fa innanzi perchè l'opera si ritira
nella massa e nel pesantore della pietra, nella saldezza e nella flessibilità
del legno, nella durezza e nello splendore del metallo, nella luce
e nella oscurità del colore, nella tonalità
del suono e nella forza nominativa della parola."[29][29]
Giulio Carlo Argan, nel catalogo
della Biennale di Venezia del 1960, risolve la questione con "chiarezza
esemplare, riconoscendo a Burri il merito di aver toccato l'ultima
Thule delle possibilità espressive della materia:
' E' come un quadro, o se si vuole, la finzione di un quadro,
una sorta di trompe-l'oeil a rovescio, nel quale non è più la pittura
a fingere la realtà, ma la realtà a fingere la pittura' "[30][30].
Insomma, semplicemente: l'opera non è più rappresentazione, e paradossalmente:
"i materiali non hanno importanza"[31][31]
nel senso che non rimandano ad ulteriori significati, ma sussistono
per se stessi. Cade anche l'antinomia materia/forma. Il punto di vista
tradizionale, secondo il quale materia e forma
sono antagoniste, viene superato. E' così possibile comprendere
altrimenti la materia che assume un ruolo fondamentale usurpando di
volta in volta la funzione della forma o addirittura del colore. "Sono
materie vere, ma non imitano altre materie, si danno bensì in persona
ma per divenire altre, trasformarsi a caldo nel contesto del dipinto. In quanto
sono quel che rappresentano, non indiziano un simbolismo nascosto:
il loro essere simboliche rientra nell'atto simbolico del costituirsi
come oggetto, ma non di quelle materie isolatamente, di tutto il dipinto."
[32][32]
La materia dunque è se stessa e deve rimanere tale, è punto d'arrivo
e non di partenza, è autonoma rispetto a tutte le contaminazioni e
dunque anche rispetto a quella che non sa vederla se non complementare
alla forma. "La distinzione di materia e forma, nei suoi ruoli
più diversi, è proprio lo schema concettuale
classico di ogni teoria dell'arte e di ogni estetica. Ma questo fatto
incontestabile non dimostra che la distinzione di materia e forma
sia sufficientemente fondata, nè che essa,
originariamente, appartenga al dominio dell'arte e dell'opera d'arte"[33][33]
In L'origine dell'opera d'arte
Heidegger esamina anche un'altra concezione indotta dalla tradizione:
quella che spiega l'opera d'arte come ente creato da un artista.
"La tendenza a intendere la costituzione di ogni essere nel quadro di
materia e forma riceve poi un'altra notevole spinta dal fatto che
si tende a concepire il tutto dell'ente come ente creato (cioè, qui,
fabbricato), per effetto di una particolate fede, la biblica".[34][34]
Ma il produrre in quanto creare ha un fine, mentre l'opera d'arte
non è un prodotto ottenuto per raggiungere un determinato scopo. La
materia, nel prodotto, è sempre subordinata al fine cui il prodotto
dovrà servire, mentre abbiamo visto che, nell'opera d'arte, la materia
non si pone in alcuna relazione di subordinatezza. Heidegger evita
inoltre il ricorso al concetto di genio, tipico dell'estetica classica.[35][35]
Non è alla soggettività del suo creatore, come hanno sostenuto le
estetiche del Romanticismo in particolare, (ma, secondo Gadamer, soprattutto
Kant nella "Critica del Giudizio"[36][36])
che dobbiamo l'opera d'arte. Non è l'artista che "inventa"
l'opera. In realtà egli partecipa del costituirsi di essa[37][37].
Ricondurre l'opera all'uomo significa fare dell'uomo il soggetto che
opera in una realtà oggettivata, sua immagine. Invece, anche per
Burri, "l'artista non ha nulla da innovare, essendo lui stesso
a rinascere ogni volta, in parallelo all'arte" [38][38].
L'artista "rinasce" ogni volta insieme con l'opera perchè
l'opera è un "accadimento in cui la verità stessa accade
e con essa l'uomo nella sua propria verità"[39][39].
Si tratta di un evento. Anzichè essere un oggetto prodotto da un soggetto,
l'opera è un evento in grado di liberare l'uomo dai limiti della
condizione di soggettività nella quale
è imprigionato.
Ora, ferma restando
la cautela con la quale lo stesso Burri ha evitato ogni interpretazione
delle sue opere, ("le parole non mi servono quando provo ad esprimermi
sulla mia pittura. Perchè essa è una presenza irriducibile che rifiuta d'esser
convertita in qualsiasi altra forma d'espressione"[40][40]),
ma tenendo presente che l'opera "deve mostrarsi da se stessa",[41][41]
percorriamo le grandi campiture di "Metamorfotex", cercando
di seguire l'ordine secondo cui si muovono le forme. Assistiamo inizialmente
ad un'apertura di spazi. Qui essi hanno acquisito la loro definizione,
la loro fisionomia. Che tuttavia, subito, è minata.
Nel secondo pannello si insinua già una
resistenza, ancora minima: una delle forme, nei pannelli tutti completamente
ocra, è divenuta nera. La cesura tra le grandi forme ocra e quelle
nere manifesta sempre più chiaramente,
man mano che scorriamo i pannelli ed un numero sempre maggiore di
grandi forme si annerisce, la reciproca appartenenza dei due processi:
distinguiamo il nero delle forme solo perchè è condizionato, originato
dall'ocra delle forme stesse. Il nero, che sembra materializzarsi
nel contrasto, si fa sempre più esteso, sempre più consistente.
E' proprio nel contrasto che i due contendenti si determinano. Il
nero opaco si è esteso ormai sino ai contorni di
ogni forma, ai limiti di ogni apertura. La visione iniziale,
così tradita, non è più depositaria di alcuna definitiva chiarezza, viene sospesa nella sua pretesa
di verità. Infine l'impenetrabilità è divenuta dominante, esaustiva.
Durante il percorso l'apertura iniziale
si è costantemente ripresentata: opaca, ripulsiva, nell'ultimo pannello
è ormai completamente nera anche se è sempre la stessa. Al dischiudersi
di una forma come armonia, corrisponde il nascondimento della presenza.
Abbiamo visto con Heidegger che l'opera
d'arte apre l'essere dell'ente. "Nell'opera d'arte è posta in
opera la verità dell'ente".[42][42]
Che cosa si intende con questa espressione?
Nel saggio sull'opera d'arte, Heidegger
si serve di due termini per comprendere, nel senso greco di aletheia, la valenza di verità dell'opera: si tratta
del "mondo" e della "terra". Il mondo non è, come
era già stato chiarito in Essere e tempo, l'insieme
delle cose presenti, ma l'unità di significati aperta dall'uomo nel
suo agire quotidiano. La terra è ciò che copre e custodisce il mondo.
"La terra non può fare a meno dell'aperto del mondo se deve essa
stessa, in quanto terra, apparire nel libero
slancio del suo autochiudimento"[43][43]
Con il termine "terra", Heidegger non intende l'elemento
naturale o la natura in generale, bensì la dimensione, che rimane
necessariamente in ombra, propria di qualsiasi accezione. Ogni interpretazione
è un'apertura del mondo, ma ad ogni apertura, proprio per il
fatto di essere tale, è relativa una chiusura,
un nascondimento. "Il contrapporsi di mondo e terra è
una lotta. Sarebbe però una banale falsificazione della natura di
questa lotta se la si intendesse come contesa
e rissa attribuendo ad essa solo i caratteri del perturbamento e
della distruzione. Nella lotta autentica i lottanti - l'un l'altro - si elevano all'autoaffermazione della propria
essenza."[44][44]
L'opera non è semplicemente qualcosa di presente, ma un accadimento,
un evento perchè apre e fonda una serie di relazioni. Essa non ci
consente di raggiungere un fondamento, una verità, qualcosa insomma
che era lì da sempre, in attesa di essere scoperto, ma instaura un evento che porta
alla luce il contrasto, la scissione tra mondo (l'apertura di una
presenza) e terra (il nascondimento comportato da ogni presenza in
quanto tale). "L'essere dell'opera è chiaramente costituito da
una tensione tra lo schiudersi ed il celarsi. L'intensità di questa
tensione costituisce il livello formale di un'opera d'arte e produce
la rilucenza attraverso cui l'opera irradia ogni cosa. La sua verità
non è la piatta rivelazione dell'essere, ma l'impenetrabilità e la
profondità del suo senso. Così essa, secondo la sua essenza, è lotta
tra Mondo e Terra, tra lo schiudersi ed il celarsi".[45][45]
In "Metamorfotex" la tensione
tra l'aprirsi ed il celarsi dell'ente, tensione che solo l'occhio,
scorrendovi sopra, è in grado di attivare, è particolarmente evidente.
Questo contrasto caratterizza non solo l'essere dell'opera d'arte
ma l'essere dell'ente in quanto tale. Lungi
dal rivelare semplicemente una presenza, "Metamorfotex"
esprime i limiti di una tale comprensione. Ogni costruzione di senso,
ogni definizione di forme, pure definite, è portatrice di nuove "oscurità",
relative alle condizioni della comprensione, alla finitezza alla quale
non è possibile sottrarsi.[46][46]
L'unica verità è questa lotta, o meglio, le uniche possibilità di
verità sono gli equilibri che di volta in volta si instaurano tra le aperture di senso e le relative, inevitabili,
ombre. Ogni tentativo di oggettivazione
è destinato al fallimento, perchè è rappresentazione di presenza.
"Ogni ente che incontriamo e che ci accompagna sottosta a questa
singolare natura oppositoria dell'esser presente, poichè nel contempo
si ritira nel nascondimento."[47][47]
L'intreccio tra i due momenti, reso con lucidità dal radicale bipolarismo
di ocra e nero, è accentuato non solo dal
ritmo del movimento, ma "dal contrasto lancinante tra l'ostentata
miserevolezza dei supporti e la sontuosità, la squisitezza aristocratica
degli effetti cromatici e luministici (...) un vero marchio che si
trova in tutte le tappe del lavoro di Burri, nonostante il variare
delle materie attraverso cui si esprime."[48][48]
Superato lo schema dualistico, possiamo
pensare all'opera non solo come a quell'accadere
che certamente ha luogo a condizione che l'uomo produca l'opera,
ma al contempo, solo a condizione che l'opera richiami l'uomo a ciò
che è ulteriore rispetto alla presenza.[49][49]
In questo senso è da intendersi la liberazione della soggettività,
cui era stato accennato in precedenza. Nell'opera d'arte ha luogo
la verità. Essa non è privilegio esclusivo della scienza e del metodo
scientifico. Se, come avviene nell'arte, è possibile esperire l'apertura
di un mondo, se questa apertura porta alla superficie quanto di oscuro, di
determinato appartiene inevitabilmente alla sua origine,[50][50]
quest'apertura dunque, dalla quale consegue ogni conoscenza, non sarà
necessitante e bisognerà tener conto della possibilità di equilibri
di verità sempre nuovi.
L'effetto pittorico di "Metamorfotex"
è nel movimento. L'opera di Burri è stata improntata a processi diversi
ma coerenti nella differenza: la lacerazione e il rattoppo dei sacchi,
il trattamento dei ferri, le bruciature delle plastiche, il creparsi
dei cretti. Ciò che viene posto in essere
è una trasformazione, una costruzione. "In realtà il lavoro finiva
per prendermi la mano. Era come se ad un certo punto non contasse
più da che parte andasse..."[51][51]
In "Metamorfotex" vengono ordinate alcune forme. Si definiscono e al contempo
si oscurano. L'opera è un fare, pone in essere la lotta tra la definizione
e la chiusura che le appartiene. Questa esperienza ci porta fuori
dal nostro mondo, dalla rete di relazioni proprie della nostra
vita quotidiana. Aderire a questa nuova apertura significa non poter
più semplicemente tornare alla dimensione originaria. Il nostro "modo
abituale di fare e di giudicare, di conoscere e di vedere"[52][52]
è sospeso. Grazie all'opera i nostri riferimenti al mondo vengono
modificati, e, come se fossimo chiamati fuori, passiamo dall' "imprigionamento
dell'ente all'apertura dell'essere". [53][53]
Essere sensibile a questa apertura significa
per Heidegger "salvaguardarla"[54][54].
Nell'opera ha luogo un evento che non può essere considerato semplicemente
una presenza la quale, una volta manifestatasi, mantiene comunque
la sua funzione.
La verità non può essere neanche
conformità della proposizione alla cosa, nè ciò che si ottiene tramite
una ricerca scientifica, perchè questi rapporti si basano tutti su
dimensioni già aperte e quindi non più originarie in senso fenomenologico,
mentre l'opera d'arte è apertura originaria, fondazione. "Ogni
arte, in quanto lascia che si storicizzi
l'avvento della verità dell'ente come tale, è nella sua essenza Poesia
(Dichtung)."[55][55]
E infatti:
"L'operato di Alberto Burri, il suo tracciato (di fili, di graffi,
di tagli, di spaghi) il suo tracciato, il suo campo accidentale il
suo oltraggiato theatrum di vita ambigua come la danza di un
virus, è da intendere, penso io, come un primo atto: diciamo atto
creazionale, di tipo iniziativo, quindi quasi fosse allegoricamente
ritualistico ..." [56][56].
E ancora: "Burri ha elaborato
l'assurdo e quasi mistico proponimento di evocare, o mettiamo pure
di inventare, i primi principi, i sapori germinali di un organismo
assai grande e non sconosciuto..."[57][57]
Emilio Villa, a proposito degli "imprevisti"
quadri di Burri ebbe occasione di scrivere: "Ecco un'opera che
poteva essere fatta soltanto oggi, ecco un'azione che poteva essere
compiuta oggi soltanto, non ieri, non domani, con una cicatrice segnata
dal tempo soltanto oggi, e chissà cosa sarà domani la (sua) suggestione
forse deperita, forse moltiplicata, sempre però libera dalla
magra e scadente eternità museografica ..."
[58][58]
Questo carattere di contemporaneità
sembrerebbe in contrasto con l'artista, lontano dal pensiero dell'arte
come avanguardia, ("l'artista non ha nulla da innovare, essendo
lui stesso a rinascere ogni volta..."[59][59])
e indifferente al "presente" quale fu
Burri.
Ma l'operato
di ogni artista non può non appartenere al presente. L'avvento della
verità, ha scritto Heidegger, si storicizza, si fa storia. Le materie presso cui Burri si è soffermato, cogliendo momenti "minori"
della nostra vita, gli stessi processi con i quali le ha trattate
sono certamente appelli del nostro tempo, basti pensare ai catrami,
ai ferri, per non parlare delle combustioni e dei cellotex. Ma se "si avanza sempre a ritroso", se "il futuro
in arte è un traguardo negato" sembrerebbe il passato la dimensione
privilegiata del lavoro dell'artista il quale, nella sua costante
evoluzione, non farebbe altro che tornare, approfondendo ulteriormente
quanto inizialmente avvenuto all'inizio del suo percorso creativo.
"Il mio ultimo quadro è uguale al primo"[60][60],
ha dichiarato Burri, anche se a proposito della
suo impegno d'artista.
Abbiamo visto che l'opera è un inizio,
una fondazione. Se "in arte contano solo
i momenti iniziali"[61][61],
è forse possibile comprendere altrimenti questo "inizio",
riconducendolo all'evento creativo, all'atto fondante di un mondo.
Qui è indubbiamente il futuro la dimensione fondante: non il rapportarsi
all'essere che costituirebbe il fondamento immutabile di
ogni accadere, non una struttura sussistente che si tratta
solo di scoprire, bensì l'evento che si evidenzia e si costituisce
nell'accadere dell'opera.[62][62]
"Metamorfotex" venne presentata nel 1992 negli Ex Seccatoi del Tabacco.
Era stata eseguita per una mostra di Praga in cui tuttavia non apparve
mai. Sembra che vi fossero dei contrasti
sugli spazi espositivi.[63][63]
L'opera riporta il sottotitolo: "Nel segno di Kafka".
Abbiamo già detto che Burri non avvalorò mai interpretazioni contenutistiche o simboliche
delle sue opere:[64][64]
"Non ho mai avuto un rapporto ossessivo, come qualcuno ha detto,
per i materiali su cui ho lavorato attraverso gli anni. Quello che
ho cercato di tirar fuori è solo la loro
proprietà. Il ferro, per esempio, mi suggeriva il senso della
durezza, del peso, del tagliente. Non mi interessava
'rappresentare' il ferro. Che quel materiale fosse ferro, lo
si vedeva subito. Volevo invece spiegare quello di cui il ferro
è capace."[65][65]
Quando Burri realizzò i sacchi, li chiamò
"sacchi" e così avvenne per i legni, i catrami, le combustioni,
i ferri, i cretti, i cellotex e così via. Nella maggior parte dei
casi è la materia a dare il nome alle opere. Non vi sono i simboli
da una parte e la materia dall'altra. Il simbolo è la materia e il
nome allo stesso tempo. L'opera, che è realtà, non si lascia confrontare
con il reale.
E "Metamorfotex"?
Forte è la tentazione di ricorrere
alla trasformazione kafkiana[66][66]:
"la novella è agghiacciante, perchè
proprio dove vi è la più tremenda scissura non sembra essere scissura
alcuna" [67][67].
Col ricucire sacchi, ossidare ferri, bruciare plastiche, così come
con il mostrare lo spaccarsi dei cretti e l'annottarsi, Burri ha
tentato di cogliere il movimento della verità, la trasformazione,
appunto. L'ha fatto necessariamente a partire da una
angolazione, non mostrando ciò che una materia può essere oltre
tutto ciò che usualmente è, ma mostrandone la inesauribile alterità
rispetto all'uso quotidiano.
Il cambiamento di prospettiva auspicato
da Heidegger, quel rovesciamento del nostro modo di pensare, così
evidente in Burri, secondo il quale non è il mondo a produrre l'arte,
ma al contrario è l'arte a produrre il mondo, indica che l'arte, come
evento di verità disvelante e al contempo occultante, dà origine al
mondo ed alla storia.
Meglio sarebbe dire: ad un
mondo e ad una storia.
Lungi dall'essere semplicemente un
oggetto bello da ammirare, lungi dal contenere una verità di cui sarebbe
manifestazione, l'opera colpisce e trasforma,[68][68]
ponendoci in grado di superare ciò che è semplicemente presente e
di esperire ciò che è diverso, indirettamente manifestando l'essere.
"La verità non può mai esser letta presso ciò
che è semplicemente presente e abituale."[69][69]
"Metamorfotex" dunque come materializzazione
del tempo, al contempo forza espressiva originaria slegata dalle contingenze
temporali, fondamento essenziale di ogni
espressione d'arte, soprattutto non l'inizio ma un inizio[70][70],
per alcuni "il più elevato tentativo di rappresentare immaginazione
vera, al di là della favola, al di là del lirismo, e di simili abbandoni,
al di là degli ingorghi di ogni genere eccitati dalla letteratura
e dalle poetiche." [71][71]