Bruno Rosada
Notte in fa minore di Lorella Pagnucco Salvemini
E’ la storia di una donna, una pianista, Éléonore, che ci parla di sé. Ma potrebbe essere un’altra donna. Non una donna qualsiasi, però. Éléonore è una donna eccezionale. Ma è un esempio di donna.
Lo leggi di un fiato. Alla prima lettura insegui
una pagina dopo l’altra con una sorta di fretta di sapere e di capire. E la
prima impressione è che lo stile, sia - anzi no, che lo stile è, senz’altro è -
avvincente: la soave melodia
E quando hai finito di leggerlo, questo libro, avverti dapprima la delusione che il piacere di una lettura così gradita e stimolante, carezzevole, sia finito così presto, poi ti accorgi che lo devi rileggere perché avverti che nella furia della prima lettura ti sono sfuggite un sacco di cose importanti. E quando lo rileggi ti senti rapito e confuso, perché c’è una pluralità di sensi e di significati che risulta abbastanza difficile raccogliere e ordinare. Però sa si sente la necessità di farlo e la tassonomia concettuale che ne deriva è estremamente illuminante, anche se, come tutte le tassonomie, è convenzionale (come sarà questa) in quanto frutto di (opportuna) astrazione prammatica.
Già, il titolo: Notte in fa minore ha
bisogno di una spiegazione. E’ la lunga notte d’attesa dell’io narrante,
Éléonore, in un albergo lussuoso nel sud
Lei è una pianista, ma nell’Islam il
pianoforte è lo strumento
Non è
E questo è l’aspetto intensamente soggettivo. Il risultato lo troviamo molte pagine più tardi quando Éléonore dichiara: Era come se fossi diventata invulnerabile, al riparo dal passato e da un futuro che non mi assomigliasse [pag. 66].
Questo è sostanzialmente il dato oggettivo faticosamente realizzato, l’oggettivazione degli stati d’animo, che per questo processo di oggettivazione costituiscono messi insieme un “sé” che ha sostituito l’”io” e si sottrae alla temporalità.
Ma se andiamo a pagina cinquantacinque leggiamo una cosa simile, ma assolutamente soggettiva: Mi sono detta: ci potrebbe essere qualcosa che annuncia una strana gioia che favorisce la speranza in questo assalto di sangue al cuore, in questa caparbietà dei sensi che non ascoltano che se stessi e come tiranneggiati da un delirio di fuoco. In questa specie di febbre che sento pulsare nelle vene e alle tempie a conferma che, scegliendo lui, ho scelto me.
Deve venire da qui questa insolita fiducia nel futuro, questo inconsueto entusiasmo senza ragioni per la vita, questa voglia che ho, inusitatamente, di sorridere, di diventare leggera, di danzare.
Non mi era mai capitato di conoscere un uomo e, subito, di riconoscerlo. Che il mio corpo, per una volta in anticipo sui pensieri, lo avrebbe riconosciuto. [pag. 55]
Qui l’auscultazione di sé raggiunge il culmine è ritrasforma il “sé” in “io”, come se una sorta di Einfühlung consentisse al “sé” di raggiungere gli abissi estranianti dell’”io”, come se la “Iità”, il “das Icht”, si fosse improvvisamente fatto protagonista.
C’è un elemento rivelatore di questa intensa “umanità umanistica” (si perdoni il bisticcio) di Notte in fa minore, ed è la struttura della narrazione: l’io narrante si confessa, e nel momento in cui con questa procedura celebra la sua massima soggettività in effetti (e non è contraddizione, o meglio è una contraddizione dialettica) oggettiva gli stati d’animo e li trasforma in cose.
Sono davvero piccola – dice parlando dalla sua infanzia in collegio dalle Mantellate - e già sospetto che, brutte e severe come mi sembrano, le devote spose di Gesù che ora formano il mio mondo abbiano rimediato quelle strane nozze con un morto per carenza di spasimanti vivi [pag. 17]
Ed allora il “diario” diventa un
“reportage”, e l’io un inviato speciale nell’inesplorata terra
E’ così che ti chiedi: che cos’è questo? Un diario? una confessione? Si dice: flusso di coscienza stream of consciousness. Ma di che cosa è fatto il flusso di coscienza? Ricordi, rimpianti, sogni, illusioni, desideri: tutto questo insieme. Si tratta di una cosa estremamente rischiosa per uno scrittore, che dal miscuglio di tali eterogenei ingredienti rischia di trovarsi sommerso.
Lorella Pagnucco Salvemini nello scrivere Notte
in fa minore ha presente un dato, che nella sua occulta ovvietà è quasi
sempre trascurato dai più, che la coscienza non è un luogo “dove” stanno quelle
cose che abbiamo appena nominato e tante altre ancora, la coscienza è una condizione
ed una azione insieme: insomma non è un recipiente. Proviamo ad adoperare un
suo sinonimo, chiamiamola consapevolezza, e allora ci accorgiamo che tutto
cambia aspetto. E scopri anche che l’inconscio c’entra meno di quanto si creda.
Infatti questa scrittrice domina dall’alto desideri e stati d’animo, delusioni
ed esaltazioni, capricci e doveri; e ciò è perché ne ha la consapevolezza:
Non so in quale storia, in quale mare, in quale amore mi stia perdendo o, forse, ritrovando. Non so più chi sono. [pag. 7]
Inizia con queste parole il libro. E nella pagina successiva: Non capisco sulla spinta di quale impulso sia arrivata in questo posto, punto oscuro di un impreciso atlante dell’anima. Accetto la mia impossibilità di comprensione, questa novità che non mi fa più essere padrona di me stessa. Questa debolezza e questa forza, questo smarrimento che, probabilmente, è quello di cui parlano i poeti e i folli quando sfiorano l’essenziale.
Non so quando è successo e perché. Che cosa, improvvisamente, mi abbia fatto decidere che non c’è saggezza senza pazzia, che neanche il meno impalpabile dei pensieri rinuncia a passare attraverso il corpo.
Qui sta la chiave di lettura: o meglio una
delle innumerevoli chiavi di lettura
La conseguenza concettuale è che “non c’è saggezza senza pazzia”, e questo è il punto di scontro senza mediazioni tra razionale e irrazionale, che la scrittrice rappresenta naturalmente con assoluta razionalità.
E’ una chiave di lettura probabilmente centrale, dico “probabilmente” dato che consente di costruire una tassonomia delle diverse affermazioni, anche se l’inevitabile soggettività della lettura consente innumerevoli altre impostazioni. Da essa a cascata ne nascono altre, col carattere del paradosso (ma è una verità, parà tèn dóxan) la prima delle quali a me pare sia questa: “Si tradisce solo chi si ama, altrimenti non si tradisce nessuno” [pag. 15] da cui discende quest’altra: “di quanto possano inibire il genio certe forme di virtù che negano la vita e spingono a interpretare ogni cedimento della carne come una catastrofe” [pag. 76]. E’ il problema fondamentale della consapevolezza a livello cognitivo e della responsabilità a livello etico.
Si tratta di risultati ai quali si può pervenire anche con percorsi diversi, che oltre a tutto sono spesso reciprocamente incompatibili, e tuttavia non è chiaro se è l’esperienza di quel meta-personaggio che è l’io narrante, a produrli o se entrano in gioco per motivi intrinseci: il fatto è che considerazioni di carattere pratico ed etico rendono difficile analizzare situazioni effettive di crisi e la raffigurazione è sempre parcellizzante.
C’è un episodio terribile per gli eventi che comporta e per la qualità delle persone che ne vengono coinvolte, che viene descritto in termini essenziali e con una sorta di nonchalance tipicamente classicista, anzi (sarebbe dir meglio) neoclassica: la protagonista, appena adolescente, viene sedotta dal padre confessore del collegio di monache dove è stata “educata”, resta incinta e successivamente abortisce e non è chiaro quanto l’aborto sia stato spontaneo o procurato.
Questa è la fredda reazione: Provare compassione per lui [questo “lui” è il padre confessore] aiutava a non averne per me [pag. 21].
E l’etica assume un carattere primario
perché si plasma sulla condizione umana. Si veda verso la fine
Prima aveva parlato di “stupore
Essa consiste in un particolare filtraggio per il quale neanche il meno impalpabile dei pensieri rinuncia a passare attraverso il corpo [pag.8].
Lo so che a parlare di epicureismo si rischiano due fraintendimenti, il primo è di attribuire alla visione del mondo di questa raffinata scrittrice la grossolanità di un equivoco già denunciato da Orazio col famoso porco del gregge di Epicuro; l’altro è quello, per i più scaltri e acculturati, di confondere questa “sapienza del corpo” col materialismo “crasso e volgare” settecentesco, che anche Karl Marx aveva deplorato. Invece c’è una classicità nelle lettere di Epicuro e nella sua dottrina, che si ritrova in questo romanzo (romanzo o saggio?) di Lorella Pagnucco Salvemini, naturalmente fatta salva la distanza di ventitré secoli.
I benpensanti hanno inventato la parola
“felicità” per distinguerla dal “piacere”; pare che la felicità si trovi in
Paradiso e il piacere conduca all’Inferno. Invece il nostro secolo ha bisogno
di una rivisitazione (e di un adeguamento, certo!) del pensiero del grande
filosofo di Samo per separare il piacere dal peccato, e per operare la sottile
distinzione tra “star bene” e “benessere”, recuperando l’identità dei sinonimi,
piacere, gioia, felicità, benessere. “Una ferma conoscenza dei desideri –
scrisse appunto l’antico saggio - fa ricondurre ogni scelta o rifiuto al
benessere
E da questa base si dipartono altre e diverse sequenze concettuali, la prima delle quali è la temporalità, che assume la dimensione della memoria e della rappresentazione dell’evento memorando, ma che nella narrazione si intreccia in una serie di anticipazioni e di flashbach.
Sento che il tempo comincia a riprendere faticosamente il suo corso: il ritmo non è più scandito dal cuore dell'arabo. … Devo essergli grata per aver calpestato il mio passato, per avermi così permesso di smaltirlo. … Verranno l'alba e poi la mattina. E poi ancora il momento in cui tutti i pensieri tramontano, costretti precipitosamente a farsi azioni. Vortice in cui annegare il peso della sua mancanza. [pag. 101, passim]
Queste parole precisano il senso della doppia temporalità vissuta da Éléonore, nella quale per usare le parole di Henri Bergson possiamo le temps e la durée, però fortemente aggrovigliate nella realtà narrativa, dove le anisocronie assumono il senso della forma simbolica. Lo scarto forte è fra l’interiorità, che nella formulazione stilistica propone inevitabilmente momenti lirici, e la oggettivazione che usa sapientemente le forme del realismo a volte crudo, se pur contenuto entro i canoni della classicità; si veda per esempio la descrizione della tentata violenza da lei subita alle pagine 90-92, ma anche il ritratto del marito Pierre nelle diverse posture. E a tratti anche l’amante atteso dal nome simbolico Rajul (che vuol dire uomo) presenta tratti estremamente realistici:
Incurante della morte, affascinato dalla
morte. Selvaggiamente eroico, spietato, perverso - le reazioni della bestia
ferita - non poi tanto distante da chi si ritrova a sparare all'altro lato
E questo accade all’esterno, dove la
temporalità distesa nella spazialità si fa materia, in questa caparbietà dei
sensi che non ascoltano che se stessi [pag. 55]. Ma sono sensi che non
hanno solo a che fare col piacere
Forse è questa la radice degli odi e dei rancori umani
Un lampo. Ancora il bagliore spettrale
di un altro missile a squarciare la vastità di un cielo sotto cui era
Un boato, fuoco, fiamme: è lo spettacolo della battaglia. L'eccitazione dello scontro. Di chi si ostina a cercare la propria fine, di chi prega per poter riabbracciare una persona cara e, nel frattempo, estrae dal fondo di una tasca una fotografia stropicciata come la sua anima e la bacia. Di chi si rinserra in una corazza di durezza per non ricordare, percepire, desiderare più nulla.
E’ tempo di allarmi, di rifugi, di terrore. Dentro, o fuori questa stanza d'albergo - deve essere l'alcol a confondermi, non distinguo. Non saprei se le macerie e i corpi atrocemente mutilati che ho davanti agli occhi siano in televisione, a qualche centinaio di metri o di chilometri da qui [pag. 97].
Non si può evitare la necessità di postulare meccanismi di assunzione di questo genere per utilizzare come indice la distanza, o spaziale o, più spesso, temporale: Due eventi straordinari quali l’amore e la guerra ci hanno messi nella stessa situazione di pericolo [pag. 98].
Quando la suggestionabilità è alta e l’azione e la percezione non possono venir regolate in base alla esperienza passata, la tendenza ad isolare se stessi dagli eventi circostanti induce a conservare una organizzazione percettiva stabile e ad agire secondo schemi familiari: ed Éléonore tra sé realizza. Adesso comprendo. In questo buio, comprendo che esiste una forma di cecità peggiore di non vedere il mondo: non voler vedere l’anima [pag. 94].
E allora tutti gli eventi perdono forma; l’amplesso
semiincestuoso col secondo marito di maman, il concerto alla Fenice di Venezia, porte
aperte furtivamente ad amanti da dimenticare in fretta. Scelti mai a caso ma,
scrupolosamente, fra chi meno avrebbe potuto corrispondere all’uomo che, se me
lo fossi concesso, avrei desiderato attendere [pag. 77]. Situazioni incontrollate di comportamenti incontrollati,
non catastrofiche ma intensamente emozionali. Bastava poco a negare
l’avvenire [pag. 77]. I personaggi che ruotano attorno ad Éléonore
diventano così consapevoli dei significati
Lorella Pagnucco
Salvemini
Notte in fa minore
Marsilio Editori
2006 Venezia
pp 103, € 12,00