La passione
per il teatro: intervista a Luigi Gozzi
di Maria Dolores Pesce
Professore,
se non sono male informata, lei ha fatto studi classici ed il suo
maestro è stato Luciano Anceschi. A questo riguardo vorrei sapere
da Lei quando è nata questa sua, se posso dire passione, questo suo
interesse, la sua decisione, insomma, di lavorare per e con il teatro
?
La
passione o interesse è cominciata all'università.
Anche un po' per caso; ai miei tempi infatti
esistevano attività culturali promosse e organizzate dagli stessi
studenti, io ho cominciato così. Nei primi anni cinquanta, avevo circa
20 anni, con i miei compagni di università.
La passione forse era nata prima andando a teatro, mi ricordo
che andai la prima volta a teatro subito dopo la guerra, avevo dieci
anni e vidi l'ultima esibizione, credo, o una delle ultime esibizioni
di Ruggeri nell'ENRICO IV. Io vengo da una famiglia musicale,
non di professionisti della musica, ma con grandi interessi, con grandi
passioni musicali, e così, fin dall'adolescenza, sono andato a moltissimi
concerti. Anche i concerti sono spettacolo.
Però quando ha deciso di dedicarsi professionalmente al Teatro ?
Uscito
dall'università ho continuato a fare qualche cosa per conto mio. Devo
dire però del teatro che allora si poteva frequentare, a parte alcuni
mostri sacri come il Ruggeri di cui sopra, oppure, lo ricordo con
interesse ed emozione, un grande attore oggi un po' dimenticato, che
ha recitato molto nella nostra regione, Memo Benassi, devo
dire che il panorama del teatro di allora il panorama del teatro di
allora, parlo del periodo dal 55 agli anni 60, era piuttosto triste.
Mi ricordo che quando mi presentai a quello che lei ha già citato
quale mio maestro, Luciano Anceschi, lui ci rimase male: come potevo
occuparmi di cose di teatro ! quasi fossero argomenti deplorevoli.
E Anceschi era uomo e studioso di grande intelligenza e
apertura e dal suo punto di vista forse non era del tutto in torto.
La sua era una posizione che aveva una
ragion d'essere, di fronte aveva un teatro spesso da mestieranti e
anche poco interessante; io ricordo di essermi annoiato spesso a teatro
anche a spettacoli con nomi famosi, per esempio Visconti che mi è
capitato di vedere parecchio. Il teatro bisognava, come sempre, andare
a cercarselo : in quegli anni Streheler e il Piccolo rappresentavano
un buon punto di partenza; il Goldoni e poi il Brecht di Streheler,
ma si poteva vedere Becket in Francia prima che (non) arrivasse in
Italia, e vedere Barrualt e Vilar, o Marceau. Oppure
il Berliner. O straordinari talenti (poi persi, non so come) quali Planchon
e Marowitz. Con queste spinte, con questi
incentivi, ho continuato, ho fatto un po' il saggista teatrale (sul
Verri anceschiano).
Agli inizi degli anni 60 lei ha partecipato alla esperienza della Neo Avanguardia con il cosiddetto Gruppo
63. In particolare è stato uno dei protagonisti del convegno costitutivo
del Gruppo tenutosi a Palermo appunto in
quell'anno. In quella occasione, insieme
a Ken Dewey, ha allestito e diretto la rappresentazione di 11 atti
unici 1), alcuni scritti per l'occasione o per l'occasione
rielaborati da testi preesistenti, di altri partecipanti al Gruppo.
A questo proposito vorrei sapere da lei come è
nata l'iniziativa e, in particolare, se i testi erano stati scelti
e già consegnati a lei anticipatamente oppure solo all'apertura del
convegno ?
Preciso : non sono stato uno dei protagonisti del convegno del Gruppo
63. Ho messo in scena sette o otto, mi
pare, delle 11 piccole pièces in un unico spettacolo che fu rappresentato
a Palermo nel corso della prima serata del convegno. I canoni
dello spettacolo, le procedure della messa in scena, furono sostanzialmente
piuttosto rozze : mi fu affidata una serie di piccoli testi
che io cercai di mettere insieme in qualche modo. E c'era senza dubbio
qualche testo interessante e compiuto, c'erano tentativi stimolanti
di usare in maniera inconsueta la scrittura drammaturgica. Però il
teatro che seguì quello degli anni '65/'70 e, di seguito, che fu importante,
e sarebbe bene ricordarsene più di quanto a volte non si faccia,
non ha molto a che fare con l'esperienza del Gruppo 63.
Gli
attori chi erano ?
C'era
Piera degli Esposti e due ragazzi della mia compagnia di allora che
poi hanno smesso. Le compagnie che io ho praticato sono state compagnie
che nel tempo si sono fatte e disfatte, con persone che poi hanno
preso, ciascuno, strade diverse. Anche
quando hanno continuato brillantemente come Piera.
In
Europa, soprattutto in Germania, esiste la figura del Dramaturg che
o riscrive testi preesistenti, o scrive testi, "per" il teatro, che
in Italia è assente. Lei intende una figura di questo genere ?
E' vero in Italia è assente, totalmente. Anche se
penso che non esista una strada sola per la drammaturgia. Il
Dramaturg è una delle strade possibili, una delle strade che possono
essere praticate. E forse non sarebbe male che questa figura fosse presente
anche da noi, anche in modo professionale o ufficiale, come succede
nei teatri tedeschi.
Certo c'è sempre stato da parte degli scrittori,
degli accademici, un modo di rapportarsi al teatro un po' troppo leggero,
scarsamente impegnato, quasi che il prodotto teatrale fosse
opera meno importante, meno impegnativa del romanzo o del saggio.
Questa situazione, pur come dice Lei in fase di
evoluzione e cambiamento, è stata ed è, diversamente da quanto
è successo in Europa ove il teatro di regia cominciò ad affermarsi
nel primo dopoguerra, nella genetica del teatro e della cultura italiana
in genere e tende spesso a riproporsi e riemergere. Secondo Lei, anche
come docente universitario, c'è una, o più cause, a fondamento di
questo atteggiamento dell'intellettuale
italiano nei confronti del teatro ? Possiamo tentare una analisi di un modo di pensare, a mio modo di vedere,
inspiegabile sotto certi aspetti ? Come possiamo tentare di capire
?
E'
molto difficile individuare cause precise. Si può tentare di fare
un elenco. Innanzitutto la condanna crociana. La cultura italiana
nel primo cinquantennio del secolo è stata in larga parte di stampo
idealista, e Benedetto Croce aveva espresso la sua condanna
dell'attività scenica, dicendo esplicitamente che ciò che conta,
che ha valore estetico è la drammaturgia, il resto, la messa in scena,
non appartiene alla cultura. Certo le cose sono cambiate, ma ci
è voluto del tempo. Quella che viene
chiamata la cultura materiale, ad esempio l'arte decorativa
o l'arte applicata a cui forse appartiene l'attività scenica non veniva
presa in considerazione : chi se ne occupava, chi la studiava? L'accademismo
italiano non prendeva in considerazione l'attività scenica, che è
cultura materiale. Questa è una delle ragioni di
fondo, poi naturalmente ci sono altre ragioni : la tradizione
del grande attore, la scarsa diffusione della lingua, la lingua italiana
che, nel dopo unità, stentava tanto a diffondersi, fino ai nostri
giorni. Di qui il ritardo storico della nascita
della regia italiana, la scarsa attenzione a fenomeni e personaggi
di grandissimo rilievo. Si pensi a Pirandello che solo in Germania
e in Francia ebbe il riconoscimento che gli spettava. E così in buona parte è successo a drammaturghi come Eduardo
e Fo.
Lei insegna al DAMS di Bologna, precisamente Metodologia
e Critica dello spettacolo. Quindi in un certo senso è riuscito a
sintetizzare, mantenendole unite, le sue scelte culturali
: da una parte la sua funzione accademica e di studio all'interno
dell'insegnamento universitario, dall'altra la sua attività artistica,
come regista, drammaturgo, impresario ed anche attore, seppure solo
qualche volta. In lei dunque si è verificata quella sintesi che Lei,
mi pare, auspica si diffonda maggiormente; in concreto che, in questo
modo, venga superata anche la divisione
attuale tra studi e cattedre, tra drammaturgia ed istituzioni di regia,
tra studio e pratica del teatro. E' difficile, per Lei, tenere insieme
questi ruoli ? O, in altre parole, una
qualche divisione le viene imposta dal
contesto quando è docente rispetto a quando è uomo di teatro ?
Bisogna
riuscire evidentemente a trovare un rapporto, un canale tra l'una
e l'altra. Naturalmente il pubblico, gli altri, si presentano in maniera
diversa facendo teatro e facendo il docente universitario. E gli altri
sono sua quelli che hai davanti, sia quelli che hai al fianco
e alle spalle, i colleghi, perché anche nel teatro esistono i colleghi
e può andar bene questo orrendo termine burocratico. Evidentemente
allora si può parlare di come è cambiato il DAMS, ma nel contempo bisogna parlare
anche di come è nel frattempo cambiato il teatro. Il DAMS è una strana
creatura, era all'inizio eterogeneo, cioè
si era raccolto (parlo del DAMS teatro perché nelle altre sezioni
le cose sono andate un po' diversamente ) chi c'era dal teatro ufficiale
(io allora ero assistente di Squarzina) e dal teatro non ufficiale.
E si era messo insieme un gruppo di persone
che sostenevano e praticavano diverse idee di teatro. E
teniamo conto anche che gli studi teatrali e di spettacolo erano molto
scarsi. Oggi la situazione è molto semplificata, c'è una maggiore
omogeneità che è naturale, perché i nuovi studiosi e docenti vengono
man mano formati sulla base di un certo
indirizzo; e la cosa si va ripetendo nei nuovi DAMS, che giustamente
dopo tanti anni vengono istituiti in altre università.
Tornando
invece alla sua attività come regista, drammaturgo, impresario, mi
risulta che Lei ha allestito più di trenta spettacoli nel
corso della sua attività.
Questi testi sono molto diversi l'uno dall'altro, ma tra questi ve
ne sono alcuni, penso a "Il caso di Dora" o ad "Anna O", con spiccato interesse
a temi psicanalitici di stampo freudiano. Mi vuole dire qualcosa di
più circa la scelta di questi testi, in particolare il perché di Anna O oppure di Dora ? Insomma perché e come la psicoanalisi
a teatro ?
Pare
che siano ormai più di quaranta gli spettacoli che ho allestito (non
li ho mai contati) e l'ultimo, recentissimo, è stato L'ARMONIA
UNIVERSALE su Mesmer, e gli inizi della psicologia dinamica, che
è poi l'ultimo di quel ciclo di spettacoli, Dora e Anna O soprattutto,
dedicati alla psicologia. Per tornare alla domanda, credo sia per
due ordini di ragioni, la prima è un interesse alla esposizione di vicende e storie che trovo affascinanti,
la seconda è che sono convinto che un certo di cultura, diciamo dell'area
anche se non freudiana in senso stretto, sia uno dei modi più in realtà
efficaci di esporre la realtà che viviamo. La ragione è poi una sola,
perché credo che rappresentare queste vicende sia significativo,
altre non lo sono. Altre non sono molto forti anche dal punto di vista
della rappresentazione. Credo che la scena debba avere dietro un modello
di luogo, di situazione al quale guardare :
beh ! il modello, secondo me, al quale guardare è il divano psicoanalitico,
uno dei modelli interessanti, che mi ha interessato, di nuovo uno
di quelli nel quale il mio interesse poteva coincidere con quello
del pubblico, diciamo, o degli "altri" ; un punto di incontro tra
ciò che mi interessa, e ciò che può interessare che mi sta a sentire.
Vera rappresentazione di quel nodo, di quell'elemento, la transferalità,
la suggestione, quel tanto di ricerca del vero e dell'inganno infausto
che è contenuto dentro questo nodo; altre verità, altre falsità non
mi interessano, anzi credo che siano anche poco autentiche.
Se ci occupiamo delle cose che già altri hanno assorbito,
allora non scopriamo niente di noi. Se però la scena deve essere qualcosa
in cui avviene questo processo di identificazione
di un nodo importante, io dico che, sì, avviene secondo me, avviene
tuttora. E allora su questo ho lavorato parecchio, ho fatto altri
spettacoli che affrontavano più marginalmente il tema.
Ad
esempio quali ?
Ad
esempio ho fatto qualche anno fa uno spettacolo che si chiamava "Santità",
che è uno spettacolo su Santa Teresa del Bambin Gesù. Non era molto
edificante/religioso, ma tendeva a cogliere l'elemento di genere della
rappresentazione, nel luogo che poi era il convento. Poi, percorrendo
gli ultimi venti anni, c'è stato un ritorno all'interesse per la drammaturgia,
che forse, per alcuni anni ho praticato meno, e poi anche un diretto
investimento mio nel fatto che ho deciso, e ci ho messo molto tempo,
a fare il drammaturgo. Cosa che all'inizio, e
non solo all'inizio ma anche per parecchio tempo, non ho fatto.
Quando
ha cominciato ? In che anno ?
Nel
1974/75 come altra avanguardia italiana, ho affrontato Shakespeare
e ho rappresentato un "Otello" del tutto particolare. E' stato in
quell'occasione che manipolando il testo shakesperariano aggiungendo,
togliendo mi sono accorto che mi piaceva, mi interessava e così non ho più smesso, anche se ho messo
in scena altri testi come ad esempio, subito dopo, Strindberg che
io amo molto.
Pur amando così Strindberg, come mai non lo ha mai più
messo in scena ?
Per
ragioni così semplici che possono sembrare persino banali
: avessi avuto uno Jean interessante avrai sicuramente fatto
"La Signorina Giulia".
Ho
letto una sua intervista in cui Lei ha dichiarato che l'attore quando
è in scena, paradossalmente, deve essere se stesso e deve lavorare,
in particolare, sui suoi difetti. Mi vuol dire qualcosa di più al
riguardo ?
Che debba essere sé stesso non c'è alcun dubbio, d'altra parte come farebbe ad uscirne; il sé stesso è una cosa larga. Chiunque decida di fare l'attore, di recitare è meglio non riduca il suo lavoro ad un insieme di stilemi o di formule, è un errore, è una limitazione se non altro. E' più interessante cercare, attraverso le occasioni che si presentano, di ritrovare nel ruolo, nel personaggio (termine che non amo perché sempre intriso di psicologismo) sé stessi; e scoprire le proprie risorse come una continua esplorazione, nella quale vengono presi in considerazione anche i difetti, i limiti, le caratteristiche che vanno a costituire la persona.
E farne dunque, Lei diceva, un elemento scenico.
Non
c'è dubbio che tutta questa esplorazione
debba diventare un elemento scenico. Se l'attore è capace di esprimersi,
e qui c'è un vero e proprio salto, se riesce, si apre un grande ambito
di esplorazione che riguarda il sé. E in
questa esplorazione l'attore non può non
esplorare i propri difetti; ma non per emendarsene, ma metterli in
gioco o in campo, e questo può essere anche esaltante. Naturalmente
un attore non può ignorare che agisce sulla base
di elementi di convenzione, ma questi elementi di convenzione
devono essere a maglie sufficientemente larghe per consentire di metterci
dentro tutto quanto l'attore riesce a ricavare da sé stesso, come
propria risorsa, compresi i propri difetti. Altrimenti succede che
nella crescita, nello sviluppo, nella storia di un attore ci siano
dei blocchi, delle censure per cui una
certa parte di sé, non viene fuori, non si esprime e l'attore è come
se non riuscisse a mettere in gioco una parte di sé. Per questo è
importante lavorare insieme più che si può e con continuità, anche
se non è detto in assoluto, poiché possono essere sbagliati anche
i rapporti eccessivamente lunghi. Ma comunque, credo, è poco produttiva la situazione dell'attore
precario, una volta qua e una volta là.
A
proposito di questo Lei ha una compagnia di attori
fissa, oppure occasionale ?
Non
ho una compagnia, ho avuto molte compagnie perché è difficile dare
continuità a una compagnia. Le difficoltà maggiori sono di ordine economico, gli attori che lavorano con me, che
spesso sono dei giovani, hanno ambizioni, vogliono, giustamente anche,
guadagnare. Poi ci sono stanchezze (anche reciproche), abbandoni.
Quello dell'attore non è un mestiere facile. Credo comunque
che sia importante lavorare con gli stessi attori per lo meno per
lunghi periodi e faccio di tutto per riuscirci.
Attualmente
Lei ha una collaborazione ..
Ho una collaborazione con una attrice da tanti anni, Marinella (Manicardi) è anche mia moglie. Ho avuto attori che hanno lavorato con me per cinque, sei, sette anni; ora siamo in una fase di passaggio. Ho riunito alcuni ragazzi che mi interessano e vorrei lavorare un po' con loro, poi vedremo, dipende da tante condizioni, curiosità e interessi. Tra l'altro è un brutto mestiere, ancora trattato male, molto male.
Ancora
adesso, ancora questi pregiudizi..
Non
so se si tratti di pregiudizi, è certamente oggi una
attività poco valutata, e per la quale spesso si tiene poco
conto delle reali capacità per non parlare del livello culturale che
è sempre più necessario. Ovviamente il giovane che un po' annaspa
per sopravvivere ha poca scelta, e tutto questo in un quadro di prove
confuse, rinvii che non consentono un impegno più serio; e poi c'è
la pubblicità, la televisione.
Nel
teatro contemporaneo c'è dunque una scarsa possibilità, al di fuori
dei circuiti pubblici, di trovare opportunità, finanziamenti e spazi.
Oltre a ciò, credo, ci sia una certa difficoltà
nell'interessarsi l'uno del lavoro dell'altro. Lei
cosa ne pensa ?
E'
un atteggiamento largamente diffuso. Io credo che in gran parte derivi
da una povertà di fondo; anche di mezzi,
e questo è sbagliato. Da un continuo rincorrere
le cose in una maniera un po' costernata, un po' eccessiva.
Questo è un teatro povero, che spreca ma che è povero, e un po' lo
fanno più povero di quello che è. Poi ci sono le particolarità italiane
e il fatto che non ci sia una
storia del teatro italiano degli ultimi cinquant'anni; ci sono tante
storie, diverse, quindi tanti ambiti che non presentavano elementi
di osmosi, oppure erano scarsi. Tutto questo,
con le ovvie eccezioni, nella sua generalità ha fatto sì che ognuno
bada ai fatti suoi senza avere una visione più larga della situazione
e delle prospettive.
Non
è un po' limitante, deprivante, tutta questa autoreferenzialità
?
Assolutamente,
tanto è vero che ogni tanto qualcuno se ne accorge
e prova a correggere il tiro, ma il difetto rimane vivo e operante.
Infine,
vuole farsi da Lei una domanda ? C'è qualcosa
che vuole puntualizzare, qualcosa che non le ho
chiesto o che Lei vuole aggiungere ?
Abbiamo fatto una strana chiacchierata che è andata da tutte le parti, a Lei il compito di raccoglierne i diversi elementi. D'altra parte che siano abbastanza sparsi a me non dispiace, perché dà l'immagine della situazione variegata per non dire confusa che noi oggi, da un certo punto di vista, non possiamo non vivere. Io penso che viviamo non riuscendo a mettere in gioco, a trattare un sacco di cose; non trovando, in altre parole, il modo, il canale per riuscire a dirle. Questo, al di là di problemi a volte contingenti, ma anche per inattitudine; io questo lo soffro abbastanza. E' come se ci fosse intorno molto di non detto (mentre naturalmente altre cose, altri argomenti vengono ripetuti incessantemente). Io per esempio posso fare le scelte che voglio, più di tanti altri, da questo punto di vista, faccio molta fatica, ma sono abbastanza libero. Però ho notato che ci sono degli argomenti, o dei nessi, dei significati, che poi non sono misteriosi o difficili o stravaganti, ma anzi abbastanza affioranti che è difficile dire, che è difficile fare entrare nelle cose che si fanno : spettacoli, scritti o discorsi. Lo dico anche perché Lei diverse volte mi ha chiesto perché certi filoni di ricerca, perché certi argomenti ritornanti. Certo uno ha una sua storia, procede da un punto all'altro, però questo è anche restrittivo. Non gli è consentito buttare tutto all'aria. Detto con altre parole mi piacerebbe cambiare molto di più e mi riesce profondamente difficile. La difficoltà viene un po' dagli altri, un po' anche da me stesso. Prima ho detto una cosa che vorrei correggere, non mi piace la coerenza, ad un certo punto mi annoia, non vorrei annoiarmi da solo.
Le interviste sembrano non dover finire mai ed in effetti, paradossalmente,
non finiscono; ancora di più questa con Luigi Gozzi.
Ci siamo messi in cammino, io affiancando per brevi momenti un più lungo cammino. E' il teatro come luogo di conoscenza, luogo in cui non si rappresenta un qualcosa ma lo si cerca.
Lo cerca il regista, lo cerca l'attore e lo cerca il pubblico. Nella
scena si prova la sintesi di un comune interesse che può fondarsi
solo sulla conoscenza - meglio sul tentativo di, sullo
sforzo di - di sé stessi.
Ecco che il problema del rapporto tra scrittura e scena può inquadrarsi
nella eccessiva ricerca di finitezza, completezza
della scrittura letteraria, attraverso la quale l'intellettuale non
si mette in gioco, spesso non cerca ma sa, o crede di sapere.
La scrittura deve dunque aprirsi alla problematicità dell'incontro con
gli altri, nella scena. I modi che Luigi Gozzi ha
cercato sono diversi, sparsi come dice lui, a noi il tentativo di
seguirne e scoprirne il percorso.
Ritorna tra questi, ancora una volta, il tema, anzi il problema del
Dramaturg, come soggetto, in questo caso, che spinge, opera verso
la riapertura del discorso - sia esso testo
letterario o soggetto specifico - attraverso la sua rappresentazione;
attraverso la sua messa in gioco sulla scena, nell'incontro con gli
altri, il pubblico.
Anche l'attore, nelle parole di Gozzi, va forzato a mettersi in gioco
in quanto sé stesso, in quanto elemento
imprescindibile nello sforzo di conoscenza, nel viaggio "alla scoperta"
che, credo, è il Teatro quale lo pensa Luigi Gozzi.
A lui non piace la coerenza, lo annoia, infatti, nella misura in cui è limite, ostacolo, alla scoperta, al buttare all'aria ciò che siamo e sappiamo per scoprire, appunto, ciò che siamo e sappiamo.
NOTE :
1)
Le opere presentate furono :
"Qualcosa di grave" di Malerba, "La prosopoea" di Leonetti, "I peripotesi" di Manganelli, "Quartetto su un motivo padovano" di Lombardi, "Serata in famiglia" di Falzoni, "Lo scivolo" di Perriére, "Lezioni di fisica" di Pagliarani, "Povera Juliet" di Giuliani, "Imitazione" di Balestrini, "Mister Corallo XIII" di A. Gozzi e "K" di Sanguineti.