Il linguaggio a colori. Nel laboratorio filosofico di Wittgenstein
di Giusy Petruzzelli
1. Introduzione
Le Bemerkumgen über die Farben comprendono le osservazioni sui colori annotate da Wittengenstein a Oxford ed a Cambridge fra il 1950 ed il 1951, l'anno della morte, anche se da più di trent'anni il filosofo si era applicato alla riflessione sui meccanismi logici dell'uso del colore nel linguaggio; una riflessione nutrita di esperienze e corroborata dallo studio, confluita a piene mani in diari, lettere, appunti, conversazioni, opere pubblicate da lui ed opere postume, comunque un lavoro in fieri, sostenuto da quell'approccio sperimentale al tema del linguaggio che assunse i caratteri di un vero e proprio «laboratorio intellettuale», secondo l'appropriata definizione di Aldo Gargani (1).
L'immagine del laboratorio è calzante per l'attività di Wittgenstein, perché la sua filosofia incontra la scienza sul terreno comune dell'analogia dei procedimenti logici, per i punti d'arrivo mai definitivi della riflessione in rapporto ad un tema in così vitale divenire come il linguaggio, per l'abbondanza dei dati, osservati e annotati, preludio all'opera sistematica in senso tradizionale che non venne mai. Un «laboratorio filosofico», dunque, spopolato dai prismi, dagli emettitori di luce, dagli schermi bianchi su cui proiettare i fasci luminosi, dai dischi colorati che proprio a Cambridge aveva adoperato Isaac Newton due secoli e mezzo prima. Ma un «laboratorio» che viaggiò nella mente di Wittgenstein lungo tutta la vita, itinerante, travagliata ed a-sistematica come la sua filosofia.
2. Un estetico rigore
La domanda più frequente riguardo alla via estetica adoperata da Wittgenstein per affrontare il campo rigoroso della logica, a partire dal Tractatus logico-philosophicus, è se si possano rinvenire indizi in tal senso nella biografia. L'amico e corrispondente Paul Engelmann lo definisce un «viennese» a tutti gli effetti, nel senso più elevato attribuito al termine dal punto di vista culturale: «Ludwig Wittgenstein (1889-1951) era viennese e, malgrado abbia completato la sua istruzione in Inghilterra e sia stato più tardi professore di filosofia a Cambridge, appartiene senza alcun dubbio all'ambiente intellettuale di Vienna, non soltanto perché era di quei pochi ad aver veramente compreso le grandi figure della vecchia cultura viennese (il grande Brahms era amico dei suoi genitori), ma anche perché rappresentava il prodotto e allo stesso tempo l'antitesi più grande di quell'epoca della cultura viennese-ebraica che stava volgendo al termine nel primo quarto del nostro secolo» (2). Ma Wittgenstein era anche proiettato verso la nuova cultura austriaca e lo si deduce, tra l'altro, da un episodio legato alla morte del padre, nel 1913, allorché distribuì la sua parte di eredità a favore dei giovani artisti austriaci come Rilke, Trakl, Kokoschka (3).
Il suo era un programma di vita di alto profilo, improntato alla vecchia endiadi filosofica «kalòs kai agathòs», di cui si trova traccia nei Diari segreti, redatti dal Wittgenstein combattente durante la I guerra mondiale vissuta in condizioni al limite della sopravvivenza: «Così è questa vita. Ma come devo vivere allora per superare ognuno di questi momenti? Vivere nel bene e nella bellezza, finché la vita non giunga al termine da sola» (4). Nonostante le tristi vicende della famiglia (5), la vita raminga e non sempre felice fra Inghilterra, Bassa Austria, URSS, Norvegia, Irlanda, USA, fino alla morte per un cancro a Cambridge nel '51, nonostante ciò, la figura di Wittgenstein si staglia nel primo cinquantennio del Novecento come quella di un saggio stoico, inattaccabile dalle avversità. La dichiarazione etico-estetica già citata si completa nell'altra, resa sempre nei Diari nel '14, in condizioni di identica prostrazione psico-fisica: «È indescrivibile lo stato di grazia di cui adesso godo, perché sono in grado di pensare e di scrivere. Devo raggiungere l'indifferenza nei confronti delle difficoltà della vita esteriore» (6): la riflessione filosofica come altra vita, dunque, come un doppio che non cancella l'infelicità, ma la bypassa.
3. Il lungo e significativo preludio alle Osservazioni sui colori
Il primo approccio di Wittgenstein alle teorie cromatiche è di natura fisica. Egli non aveva ricevuto una formazione filosofica tradizionale, ma aveva compiuto studi d'ingegneria a Manchester e poi si era recato a Cambridge ad apprendere i fondamenti della matematica con Russel, autore, tra l'altro, dei Principia Mathematica, de La filosofia dell'atomismo logico, della Teoria delle descrizioni. Si sa anche che ammirava Heinrich Hertz, l'autore de I principi della meccanica, e che lo stile aforistico che influenzò il suo argomentare si deve all'influsso di George Christoph Lichtenberg, professore di filosofia naturale, vissuto a Gottinga nel '700, di cui si registrò un certo revival negli anni della formazione di Ludwig. Non si può immaginare Wittegenstein impegnato in una diatriba come quella che tra Seicento e Settecento oppose i sostenitori dell'origine quantitativa dei colori (colore = sostanza della materia) rispetto ai fautori dell'origine quantitativa (colore = prodotto della radiazione luminosa). Per lui la spiegazione fisica era la più immediata, anche se nelle opere della maturità ne prenderà le distanze. Ma in questa fase iniziale, nelle prime pagine del Tractatus, redatto nel '18-'19 e pubblicato nel '21, scrive: «Detto di passaggio: gli oggetti sono incolori» (7). Più tardi nella Grammatica Filosofica affermerà: «La realtà non è neppure come la luce del giorno, che dà colore alle cose quando sono già presenti nel buio, per così dire, senza colore» (8). Presto, infatti, la riflessione del filosofo vira verso i suoi veri interessi: la relazione tra il segno ed il simbolo - «Il segno è il sensibile del simbolo» (9) - nel suo determinarsi grazie alle «categorie» di spazio, tempo e colore di cui afferma: «Spazio, tempo e colore (aver colore) sono forme degli oggetti» (10). Dunque tali elementi sono intesi come immagini anche perché il filosofo precisa che «L'immagine può raffigurare ogni realtà della quale ha la forma. L'immagine spaziale, tutto lo spaziale; la cromatica tutto il cromatico; etc.» (11). La "riduzione" formale delle immagini richiede, ovviamente, un processo di astrazione, avviato già nel Tractatus (12).
È vero, però, che l'immagine dell'oggetto in sé non basta, è necessario ricorrere al concetto di relazione logica interna fra più oggetti, per far comprendere il quale Wittgenstein ricorre all'esempio "colorato": «Una proposizione è interna se è impensabile che il suo oggetto non la possieda. (Questo colore azzurro e quello stanno eo ipso nella relazione interna di più chiaro e più cupo. È impensabile che questi due oggetti non stiano in questa relazione)» (13). Aldo Gargani riconduce all'opera di Frege le idee-guida del Tractatus perché Frege, nei Fondamenti dell'aritmetica, aveva dissertato di una ideografia, la lingua basata sull'oggettività logico-matematica, diversa dal linguaggio naturale. Allo stesso modo Russell nelle due opere dedicate ai principi della matematica elaborava un sistema logico-formale (14).
Bisognerà attendere la redazione scritta dei Colloqui, annotati da Friedrich Waismann, per conoscere il parere di Wittgenstein circa il numero dei colori primari (ai suoi tempi si era orientati sul fatto che fossero tre: rosso, giallo, blu), allorché il filosofo affronta il problema di come rappresentare fisicamente i colori: «Sono sempre in grado di riprodurre qualunque colore io veda. Indico i quattro colori primari (rosso, giallo, blu e verde) e aggiungo in qual modo si possa ottenere da essi quel determinato colore.
Discussione sulla forma del corpo dei colori. I colori primari molto netti:
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Segno di un colore
Ogni asserzione sui colori può essere rappresentata mediante questi simboli. Se diciamo che sono sufficienti quattro colori primari, allora chiamo questi simboli paritetici elementi della rappresentazione. Gli "oggetti" sono questi elementi. Non ha senso domandare se gli oggetti siano alcunché di simile ad una cosa, un'entità che sta al posto del soggetto, oppure alcunché di simile ad una proprietà, o siano relazioni ecc. Parliamo semplicemente di oggetti laddove abbiamo elementi paritetici della rappresentazione» (15).
Il passo appena citato è molto importante, perché è lo snodo cruciale fra la relazione nominalistica oggetto-nome-rappresentazione - che Hacker chiama isomorfica (16) e che aveva caratterizzato la riflessione del Tractatus - e tutte le successive ricerche filosofiche, allorché nella forma usuale del linguaggio quotidiano (il soggetto-predicato, la relazione diadica nome-segno), confluiscono una serie di variabili e di relazioni logiche, di sovrasensi, consuetudini, modi di dire, gesti, per cui il linguaggio perde la connotazione semplicistica di designatore di cose per approdare alla forma più complessa, ma più vera, di designatore di processi logici. La conclusione è quella esemplificata nei Colloqui, ancora una volta tramite l'esempio dei colori: se i colori, pur non essendo necessariamente legati ad oggetti si possono comunque rappresentare (nei tre modi raffigurati sopra) essi sono asserzioni logiche, hanno un loro posto nel linguaggio umano al di là dei corpi, degli oggetti necessitanti. Un tempo, quando Wittgenstein pensava nella forma bipolare tipica del Tractatus, scriveva: «L'immagine è così legata con la realtà; giunge ad essa. Essa è come un metro apposto alla realtà» (17). Ora, invece, confessando la sua ignoranza su molte questioni allorché aveva scritto la prima opera, precisa: «Oggi preferirei dire che un sistema di proposizioni è accostato alla realtà come un metro. E intendo dire che se accosto un metro ad un oggetto spaziale accosto contemporaneamente tutte le linee di graduazione. Non accosto le singole linee ma l'intera scala. Se so che un oggetto arriva fino alla decima linea, so anche immediatamente che non arriva alla linea 11, 12 e così via. Le asserzioni che mi descrivono la lunghezza di un oggetto formano un sistema, un sistema di proposizioni. È un tale sistema di proposizioni nella sua interezza, e non una singola proposizione, che viene confrontato con la realtà. Se dico per esempio che quel punto del campo visivo è blu, so anche che non è verde, rosso, giallo ecc. Ho applicato di un sol colpo l'intera scala dei colori» (18). Il paragone fra colori e proprietà spaziali individua lo «spazio-logico» di un sistema insieme cromatico e geometrico (19).
Nel concetto di sistema entra dunque tutta quella serie di relazioni articolate, quella complessità di approccio alla realtà che è frutto della maturità di Wittgenstein: «Se la mia concezione attuale del sistema di proposizioni è corretta, allora la possibilità di dedurre dall'esistenza di uno stato di cose la non-esistenza di tutti gli altri che sono descritti da tale sistema è addirittura la regola» (20). Alla domanda dell'amico Schlik, se i colori fossero qualcosa di logico o di empirico, facendo l'esempio del tale rinchiuso nella stanza rossa in grado di vedere solo il rosso, Wittgenstein rispose che «Se qualcuno non esca mai dalla sua camera, sa tuttavia che lo spazio continua, che esiste cioè la possibilità di uscire dalla camera (avesse pure le pareti di diamante), non è quindi un'esperienza: è insito nella sintassi dello spazio, a priori» (21). Invitato a chiarire ulteriormente il senso delle sue affermazioni da Waismann, il quale da parte sua affermava: «La proposizione negativa dà alla realtà uno spazio maggiore di quella positiva. Se dico p. es. che l'azalea non è blu, non so ancora di che colore sia» (22), Wittgenstein replicò: «Nell'attimo in cui so che l'azalea è rossa, so anche che non è blu. Le due cose sono inseparabili. Le condizioni per la verità di una proposizione presuppongono le condizioni per la sua falsità e viceversa» (23). Riconoscere un colore non è semplicemente il riportare alla mente una specie di immagine mnemonica dei colori visti e confrontarla con il colore che ci sta dinanzi in quel momento: infatti la nostra mente conosce già anche la direzione per cercare il colore giusto, perché come si è già detto, «Il colore presuppone già l'intero sistema dei colori [.]. Il riconoscimento ha anche l'aspetto di un confronto ma non lo è [.] Si può cercare solo dove esiste un metodo di ricerca» (24).
Un altro punto fondamentale circa l'applicazione del linguaggio alla realtà viene affrontato dal filosofo nelle Lezioni tenute al Trinity College di Cambridge nel 1930-32. In esse è basilare tutta una serie di riflessioni riguardo alla relazione tra lo spazio logico e lo spazio empirico. Scrive Wittgenstein: «Il linguaggio è connesso alla realtà per il fatto che esso la raffigura, ma questa connessione non è stabilita nel linguaggio, né la si può spiegare per mezzo del linguaggio. Provate a stabilire la connessione in una proposizione del tipo: "Questo è verde". Il "questo" nella proposizione può riferirsi al colore di un pannello, di un pezzo di legno, o di qualsiasi altra cosa. Ma questo non dice alcunché sulla connessione tra il verde e la realtà: presuppone che noi comprendiamo già le parole dei colori» (25). Dunque lo spazio di rappresentazione logica del colore precede la presenza reale, fisica, dell'oggetto colorato e la regola dell'uso dà significato all'impiego delle parole in un sistema grammaticale, altrimenti non ci sarebbe motivo per adoperare due termini insieme. Wittgenstein propone un esempio concreto: «Supponete che io dica: "Questa toga è nera". La parola "nera" in un certo senso è arbitraria; un altro suono o un altro scarabocchio servirebbero altrettanto bene. E la correlazione della parola "toga" con un particolare oggetto è in sé arbitraria e non ha conseguenze. Ma se una proposizione deve avere senso dobbiamo impegnarci a fare un certo uso delle parole che essa contiene» (26). Vi è dunque, a questo punto della riflessione, non solo il superamento del rapporto speculare tra la parola e l'oggetto, non solo il riconoscimento di un sistema di relazioni per l'identificazione di un oggetto (nel nostro caso dell'identificazione di un oggetto colorato), ma vi è anche adesso la consapevolezza di quanto, nelle convenzioni che adoperiamo nel linguaggio, vi sia da un lato di arbitrario (perché qualsiasi segno potrebbe accostarsi alla parola "toga" per definirla nera) e dall'altro di cogente (in forza dell'uso). Ancora una volta il filosofo si è servito dell'esempio "a colori" per far comprendere meglio i meccanismi della logica.
Sono le idee contenute poi nel Libro blu e nel Libro marrone (così intitolati dal colore della copertina che li rivestiva), i quali, però, portano ad un ulteriore passo in avanti nella logica wittgensteiniana con il concetto di «gioco linguistico» che, come scrive Aldo Gargani nell'Introduzione all'edizione italiana dei due Libri, compare nel Libro blu e viene sottoposto ad analisi più elaborata e sistematica nel Libro marrone, il quale costituisce lo studio preparatorio alle successive Ricerche filosofiche. Afferma Gargani che «quest'analisi di Wittgenstein ha un interessante precedente nell'opera di Franz Brentano che nella sua Psychologie vom empirischen Standpunkt (La psicologia dal punto di vista empirico) osservava che gustare un pezzo di zucchero bianco, non significa gustare un pezzo di zucchero come bianco» (27).
L'approdo ai «giochi linguistici» deriva dal considerare in modo estremamente mutevole, vitale, mai fisso, il campo del linguaggio, e della relazione fra questo e la logica, fra questo e la gestualità, fra questo e i vari ambiti d'uso, tra questo ed i vari linguaggi disciplinari, fra questo ed il linguaggio dei segni. Nel Libro blu e nel Libro marrone l'approccio di Wittgenstein al colore si è fatto anche più pratico; si parla spesso di «macchie» (rosse, gialle.) per visualizzare i colori e di campionario di colori, di tabella di colori che serva da modello, di campioni e rotoli di stoffa colorata. I due quaderni di appunti sono nati probabilmente dopo gli anni dal '20 al '26 quando Wittgenstein fu maestro elementare nella Bassa Austria prima e aiuto giardiniere in convento poi. La filosofia di Wittgenstein si nutrì di esperienze vissute in prima persona. Si veda il caso di come far comprendere l'associazione della chiarezza e dell'oscurità delle vocali, mettendole nel seguente ordine: i, e, a, o, u, associazione di tipo psicologico di una vocale ad un colore. E così, come insegnare al bambino a riconoscere il verde ed il rosso, adoperando foglie verdi e rosse e altrettanto fare per spiegare le sfumature di un colore, ad esempio il rosso chiaro ed il rosso scuro, mostrando due oggetti con tali caratteristiche (28). La definizione dei «giochi linguistici» si trova poi nella Grammatica filosofica: «Processi imparentati tra loro in modi diversi, tra i quali c'è una molteplicità di passaggi» (29) e pure nelle Ricerche filosofiche: «Chiamerò gioco linguistico anche tutto l'insieme costituito dal linguaggio e dalle attività di cui è intessuto» (30). Chiarisce bene il concetto di «gioco linguistico» Oswald Hanfling, quando scrive: «Fondamental to the nature of language is the fact, as we might put in, that not all words are proper names: a given word can be used for a number of different things. This is so in two ways. Firstly, a word, such as "red" or "chair", is not confined to one object (one red object, one chair). Secondly, the objects to which it is applied may (and usually do) differ in a qualitative sense - the word "red" is applied to objects which differ in colour, and the word "chair" to a great variety of chairs. It is natural to suppose that there must be a unity underlying the diversity - that all chairs must have something in common in virtue of wich they are called chairs, and similarly with the word "red". Other would be no justification for using these and other words as we do, no rules to hold the different occurrences of a given word together; and commonication by means of language would be impossible» (31).
Nel '32-'34 Wittgenstein lavorò alla Grammatica filosofica, in cui fece il punto su quella gran massa di riflessioni seguita al Tractatus. Innanzitutto perché «grammatica»: perché «nella grammatica dell'uso si potrebbero benissimo distinguere, tra le specie di parole, «parole per la forma», «parole per il colore», «parole per il suono», «parole per la sostanza», ecc. » (32). Infatti, dire ad esempio, «Questo si chiama "rosso"» non è sufficiente, lo sarebbe «soltanto se mediante l'espressione "colore" si fosse stabilita la grammatica della parola "rosso" fino a quest'ultima determinazione. (Qui però potrebbe sorgere, per es. la questione: "Chiami rosso proprio questo tono del colore, oppure chiami così anche altri toni simili?".) Si potrebbe spiegare così: il colore di questa macchia si chiama "rosso", la forma si chiama "ellisse"» (33). Wittgenstein ritiene che «il significato di una parola è l'ufficio cui la parola assolve nel calcolo del linguaggio» (34). Come per esempio si calcola la parola «rosso»: «Si indica in quale luogo si trovi il colore, quale forma, quale grandezza, abbia la macchia (o il corpo) che porta il colore; se il colore sia puro o mescolato ad altri, se sia più scuro o più chiaro, se rimanga sempre uguale oppure cambi, ecc., ecc. Si traggono conclusioni dalle proposizioni, le si traduce in raffigurazioni, in azioni, si disegna, si misura e si calcola» (35). Comprendere una parola, un colore, risulta, allora, come un gioco all'infinito, come una catena in cui vi sono tutte le «transazioni effettive del linguaggio» (36); il linguaggio "si allarga" all'infinito.
Nelle Osservazioni filosofiche Wittgenstein torna sui temi affrontati nelle Lezioni e nella Grammatica filosofica. Già nei Colloqui aveva affrontato il discorso dei colori primari, tramite l'ottaedro dei colori, ma è nelle Lezioni che si specifica la non arbitrarietà delle scelte della grammatica, riproducendo l'ottaedro con l'indicazione dei colori: «L'ottaedro dei colori è usato nella psicologia per rappresentare lo schema dei colori. Ma in realtà è una parte della grammatica, non della psicologia. Esso ci dice ciò che noi possiamo fare: possiamo parlare di un blu verdastro, ma non di un rosso verdastro, ecc.» (37) :
È solo dopo la lettura della Grammatica filosofica, e dopo aver compreso il significato del termine «grammatica» per Wittgenstein, che s'intende meglio l'affermazione contenuta nelle Osservazioni filosofiche, risalenti al 1929-'30: «L'ottaedro dei colori è grammatica; dice infatti che potremmo parlare di un azzurro che tende al rosso, ma non di un verde che tende al rosso, ecc.» (38).
Ma esiste una teoria dei colori di Wittgenstein? Piuttosto vicina alle interpretazioni psicologiche ante-litteram di Berkeley, Wittgenstein scrive: «Quello che mi occorre è una teoria dei colori psicologica o piuttosto fenomenologica, non una fisica e altrettanto poco una fisiologica. E precisamente dev'essere una teoria dei colori puramente fenomenologica, dove si parla solo di ciò che realmente si percepisce e dove non ricorrono entità ipotetiche - onde, cellule, ecc.» (39). Vi è consonanza con Goethe? Marginalmente, infatti nei Pensieri diversi Wittgenstein afferma in un passo del 1931: «Io credo che Goethe abbia voluto trovare in verità una teoria non fisiologica ma psicologica dei colori» (40). Nelle Osservazioni filosofiche si ipotizza di poter ordinare tutte le tonalità cromatiche lungo una retta, con gli estremi nero e bianco, ma più puntuale è l'organizzazione topologica dell'ottaedro, in cui si configura l'analogia con le regole a fondamento del linguaggio comune. Ottaedro e linguaggio comune, dice Wittgenstein, «sono perfettamente equivalenti, solo che uno di essi (l'ottaedro, n.d.r.) esprime le regole della grammatica già con l'aspetto esteriore. In che misura si può dire che il grigio è nello stesso senso un miscuglio di nero e bianco, in cui l'arancio lo è di rosso e giallo? E non sta tra il nero e il bianco nel senso in cui il rosso sta tra il violetto e l'arancio. Se si rappresentano i colori con un doppio cono invece che con un ottaedro, sul cerchio dei colori sussiste un solo "tra" e il rosso appare su di esso tra violetto e arancio nello stesso senso in cui il violetto giace tra azzurro r rosso. E se questo è realmente tutto ciò che si può dire, allora è sufficiente la rappresentazione mediante il doppio cono o almeno quella mediante una doppia piramide ottagonale» (41):
Nelle Ricerche filosofiche si giunge ad una definizione categoriale, metafisica, del colore. Certo i presupposti si sono rintracciati nelle Lezioni e nei Colloqui, ma qui la riflessione, articolata nei punti che compongono il testo delle Ricerche, si fa più distesa. Si parla del rosso, per tutti i colori, e si afferma che esso non può venir distrutto o lacerato o frantumato come se dipendesse da una materia rossa, perché il colore «esiste in sé e per sé» (42): è appunto un enunciato metafisico, esso è eterno e indistruttibile. Dicendo «il rosso esiste» affermiamo qualcosa che «stava dinanzi alla nostra mente mentre enunciavamo la proposizione! Enunciavamo un'idea ben determinata. Una determinata immagine che vogliamo impiegare» (43).
Agli stessi anni Quaranta delle Ricerche appartiene Zettel, in cui il filosofo prosegue nei suoi aforismi dedicati al colore. Semmai, egli riesce ulteriormente a perfezionare la terminologia dedicata all'argomento: quello che lì aveva definito la "metafisica" o "l'idea" del colore, qui viene definito come "concetto" e "modello" di quel determinato colore. Ma così come il concetto di «sostanza» presuppone il concetto di «differenza di sostanza» così il concetto del colore presuppone il concetto dei colori: il plurale sta ad indicare il fatto che siamo di fronte al gioco consueto della presenza-assenza, considerare un colore presuppone la conoscenza dell'universo dei colori (44).
Fino alla primavera del '50 Wittgenstein si occupò soprattutto dei concetti di colore, difatti un passo manoscritto e poi pubblicato postumo in Ultimi scritti, dice: «Certo, egli può rimanere stupefatto alla vista dell'oggetto, ma per "rimanere stupefatto del colore", perché il colore sia la ragione dello stupore e non soltanto la causa della sua esperienza, egli ha bisogno del concetto di colore e non soltanto della vista» (45).
3. Le Osservazioni sui colori
Il testo, frutto dei manoscritti redatti tra Oxford e Cambridge negli ultimi due anni di vita, è il testamento filosofico di Wittgenstein. Dedicare tanta parte della propria riflessione ai colori significa che il tema aveva per lui un'importanza basilare. Lo si è potuto comprendere già da una breve annotazione del '48 comparsa postuma nei Pensieri diversi e nel passo che ci si appresta a citare vi è così anche la risposta agli interrogativi iniziali riguardo al notevole numero di esemplificazioni cromatiche della filosofia di Wittgenstein: «I colori stimolano alla filosofia. Forse questo spiega la passione di Goethe per la teoria dei colori. I colori sembrano darci da risolvere un enigma, un enigma che ci stimola - senza inquietare» (46). L'affermazione è del 1948, dunque viene dopo la lunga e appassionante cromostoria asistematica della filosofia di Wittgenstein e prima delle Osservazioni sui colori, un'opera in sé altrettanto asistematica e composta per aforismi, ma un'opera, in assoluto, interamente dedicata ai colori. Un lavoro in cui si fondono le funzioni del mezzo verbale con le funzioni del mezzo pittorico (47).
Fin dalle prime pagine delle Osservazioni ritroviamo, riguardo ai colori, i punti di arrivo delle opere della maturità: il ricorso alle esemplificazioni pratiche fatte con l'uso dei giochi linguistici (pezzi di carta colorata e colori nella natura); la differenziazione tra colori primari e colori intermedi (gli Zwischenfarbe, es. il verde tra il giallo e il blu) o colori misti (es. un rosso che tende al blu).
Si approfondiscono, però, le considerazioni psicologiche derivate dai colori, e queste stanno tra la logica e l'esperienza: «Spesso si usano proposizioni che stanno tra la logica e l'empiria, cosicché il loro senso oscilla da una parte e dall'altra di questo confine; ed esse valgono, ora come espressione di una norma, ora come espressione di un'esperienza»: per comprendere meglio questo concetto, Wittgenstein ricorre ad alcuni esempi: con il colore dell'oro ci riferiamo non tanto al giallo, ma alla superficie splendente del metallo, ricorrendo evidentemente ad una sinestesia percettiva, e dinanzi ad una fotografia in bianco e nero, in cui vi sono molte tonalità di grigi, riferiamo invece dei colori reali degli oggetti (48).
Certo Wittgenstein conosceva sia il dibattito sull'origine del colore che aveva occupato molti studiosi fra '600 e '700, tant'è che egli fa riferimento all'experimentum crucis di Newton (49) - con cui era stato critico senza nominarlo direttamente nelle Osservazioni filosofiche quando aveva detto che il proprio concetto di colore escludeva ciò che non si vede, come onde e cellule (50) - e sia sicuramente aveva letto a fondo la Teoria dei colori di Goethe. Infatti ne parla a lungo, definendola un Denkschema (uno schema concettuale), perché la natura dei colori per Goethe «non è ciò che procede dagli esperimenti; bensì risiede nel concetto di colore» (51); secondo il filosofo, le osservazioni di Goethe non sono utili ad un pittore o ad un decoratore. Piuttosto, come aveva già annunziato vent'anni prima nelle Osservazioni filosofiche, - «Quello che mi occorre è una teoria dei colori psicologica o piuttosto fenomenologica, non una fisica e altrettanto poco una fisiologica» (52). Wittgenstein opta per una spiegazione psicologica, perché a lui interessa il campo di osservazione dei fenomeni: «La psicologia descrive i fenomeni del vedere. A chi dà la descrizione? Quale ignoranza può eliminare, questa descrizione? La psicologia descrive ciò che è stato osservato» (53). La teoria wittgensteiniana non vuol prendere posizione riguardo alla spiegazione fisica della luce e dei colori; l'analisi fenomenologica del filosofo è «un'analisi concettuale e non può né concordare con la fisica né contraddirla» (54). Egli prende le distanze anche da Runge, o meglio confronta le parole di Runge con la pratica pittorica, dimostrando quanto bene conoscesse il mondo della pittura: «Runge dice che ci sono colori trasparenti e colori opachi. Ma non per questo, in un quadro, un pezzo di vetro verde verrà dipinto con un verde diverso da quello con cui si dipinge una stoffa verde» (55). Purezza e saturazione (l'ultima, caratteristica di colori che non contengono né il nero né il bianco), trasparenza e opacità (il bianco è un colore opaco), torbidezza (colore che dà sul nero), fenomeni esemplificati da Wittgenstein con esempi tratti dal quotidiano e dall'arte, dimostrano, inoltre, una conoscenza proprio tecnica del colore. Alla proposizione III.26 egli torna sui colori fondamentali, per lui quattro e non tre (la novità com'è già noto è il verde) (56), dando anche una serie di consigli pratici e facendo una serie di considerazioni psicologiche che tendono a modificare alcuni luoghi comuni, ad esempio circa la chiarezza del bianco: «Non è corretto il dire che in un quadro il bianco dev'essere sempre il colore più chiaro. Tuttavia, in una combinazione superficiale di macchie di colore lo è. Un quadro potrebbe rappresentare un libro di carta bianca nell'ombra, e, più chiaro di questo, un cielo giallo luminoso o blu luminoso. Ma se descrivo una superficie piana, per esempio una tappezzeria, dicendo che consiste di quadrati giallo puro, rosso puro, blu puro, bianco puro e nero puro, allora i quadrati gialli non possono essere più chiari di quelli bianchi, i rossi più chiari dei gialli. Ecco perché per Goethe i colori erano ombre» (57). Varia anche la relazione più abitudinaria tra colore e superficie (colori puntiformi, piccole macchie di colore e aree colorate più grandi) per cui l'impressione di un colore dipende anche dalla sua superficie: estensione e forma sono variabili importantissime circa la percezione dei colori, secondo quanto diffusamente spiegherà Arnheim nella sua opera maggiore Arte e percezione visiva (58). La spiegazione risolutiva Wittgenstein ce la dà già alla proposizione III.71: «Tratto i concetti di colore in modo simile ai concetti delle percezioni sensibili [Sinnesempfindung]» (59).
A prima vista appare una certa somiglianza fra Wittgenstein e gli psicologi della Gestalt, ma la differenza viene chiarita con quest'affermazione, emessa in relazione al color bianco: «Io qui non dico quello che dicono gli psicologi gestaltisti: che l'impressione del bianco si è originata in questo modo così e così. Invece la questione è appunto che cosa sia l'impressione del bianco, quale il significato di quest'espressione, la logica del concetto "bianco"» (60). E poco dopo chiarisce ancora: «Il dire: l'impressione del bianco o del grigio arriva (casualmente) soltanto in queste circostanze e il dire che è l'impressione di un contesto determinato (definizione), non è la stessa cosa. (La prima proposizione è psicologia della Gestalt, la seconda è logica)» (61). La tesi fenomenologica di Wittgenstein è legata all'apparire dei fenomeni, fatto questo che lo separa anche da Freud: «"Fenomeno originario" è, per esempio, quello che Freud credeva di riconoscere nei semplici sogni di desideri. Il fenomeno originario è un'idea preconcetta che s'impossessa di noi» (62). Inoltre il filosofo dichiara ulteriormente che «Quando parla di apparenza [Schein], la psicologia connette l'apparire con l'essere. Ma noi possiamo parlare soltanto di apparire; ossia connettiamo l'apparire con l'apparire» (63): E ancora: «La psicologia connette il vissuto con un che di fisico. Noi invece connettiamo il vissuto con il vissuto» (64). Ma più stupefacente ancora è l'affermazione per cui: «La fenomenologia non esiste. Esistono però problemi fenomenologici» (65). Il campo, dunque, rimane problematico perché Wittgenstein si è rifiutato categoricamente di dare spiegazioni univoche sul colore, anzi ha rigettato le spiegazioni per occuparsi di ciò che vedeva: «I nostri concetti di colore si riferiscono qualche volta a sostanze (la neve è bianca), qualche volta a superfici (questo tavolo è marrone), qualche altra volta all'illuminazione (nella luce rossastra della sera), qualche altra volta ancora a corpi trasparenti. E non esiste anche un'applicazione a un punto del campo visivo, logicamente indipendente da un concetto spaziale?» (66). Lo stesso oggetto nella realtà e nella rappresentazione ha connotazioni differenti: «"Rosso scuro" e "nerorosso" non sono concetti della medesima specie. Un rubino può apparire rosso scuro se si guarda attraverso ad esso, ma se è limpido non può apparire nerorosso. Il pittore potrebbe rappresentarlo dipingendo una macchia nerorossa, ma nel quadro questa macchia non avrebbe un effetto nerorosso. Si vedrebbe come qualcosa che ha profondità, così come la superficie appare tridimensionale» (67).
Infine, per il filosofo il sapere non è lo strumento che spiega ogni sorta di cose (68) e se qualche disciplina come la teologia gioca con le parole dipende dal fatto che non sa come esprimere i concetti (in quel caso concetti ardui). Invece per Wittgenstein «alle parole dà senso la prassi» (69). In sintesi, l'esperienza estetica, frutto di un atteggiamento mobile, di ricerca, unifica il presupposto artistico a quello scientifico perché, come scrive Bouveresse, «l'esperienza estetica non è obiettiva in alcun senso propriamente scientifico del termine, e ciò nonostante non è soggettiva in alcun senso peggiorativo o drammatico del termine» (70). Le Osservazioni sui colori sono un saggio «fra logica ed esperienza», in cui l'esperienza del colore è indissolubilmente legata al concetto del colore, definito dallo stesso filosofo in inglese Picture theory termine a sua volta indifferentemente usato rispetto al tedesco Bild per intendere tale capacità di costituire un modello da parte della teoria cromatica (71).
GIUSY PETRUZZELLI
NOTE
1) Ludwig WITTGENSTEIN, Osservazioni sui colori, introduzione di Aldo G. Gargani, traduzione di Mario Trinchero, Torino, Einaudi, 1981. La definizione di «laboratorio intellettuale», a cui si deve il titolo di questo saggio è adoperato da Gargani a p. VII.
2) Paul ENGELMANN, Lettere di Ludwig Wittgenstein con Ricordi, prefazione di Josef Schächter, appendice di Brian F. Mc Guinness, traduzione di Isabella Roncaglia Cherubini, Firenze, La Nuova Italia, 1970, p. 91.
3) Wittgenstein fu contemporaneo di molte personalità che hanno avuto notevole influenza sulla storia della cultura europea del Novecento. Vi si sofferma Diego Marconi in Il mito del linguaggio scientifico. Studio su Wittgenstein, Milano, Mursia, 1971, pp. 14-17: «A Vienna poté conoscere, oltre ai membri del "Circolo", il matematico Brouwer, l'architetto Adolf Loos, il giornalista e linguista Karl Kraus; Johannes Brahms, che morì quando Wittgenstein era ancora bambino, era amico di casa, come pure Sigmund Freud. Vivevano a Vienna, negli anni della gioventù di Witgenstein, Gustav Mahler, Arnold Scönberg, Anton Webern, Alban Berg, e tutti furono probabilmente in rapporto con la sua famiglia. Fu in rapporto con alcune delle principali figure dell'espressionismo letterario (che peraltro, come è ovvio, non aprrezzava), da Ehrenstein a Trakl e Rilke; sempre a Vienna conobbe due dei maggiori psicologi europei, Karl Bühler e sua moglie Charlotte: attraverso di loro venne probabilmente a contatto con il pensiero di psicologi del linguaggio sovietico, come Vigotsky. Lesse certamente lo psicologo gestaltista Köhler, e forse anche Koffka: nei suoi ultimi scritti è palese una conoscenza piuttosto profonda della Gestaltpsycologie. Incontrò più volte Frege. A Cambridge conobbe, oltre a Moore, Whitehead e Russel, due dei maggiori economisti del nostro secolo, Keynes e Sraffa. Lesse Husserl, Heidegger e forse anche Bergson». Sulla formazione di Wittgenstein, cfr. Allan JANIK, Stefen TOULMIN, La grande Vienna.(La formazione di Wittgenstein nella Vienna di Schönberg, di Musil, di Kokoscha, del dottor Freud e di Francesco Giuseppe), Milano, Garzanti, 1975. Cfr. anche Aldo G. GARGANI, Il coraggio di essere. Saggio sulla cultura mitteleuropea, Roma-Bari, Laterza, 1992, pp. 200-209 e dello stesso autore l'Introduzione in Ludwig WITTGENSTEIN, Ultimi scritti. La filosofia della psicologia, traduzione di Aldo G. Gargani (§§ 1-600) e Barbara Agnese (§§ 601-979), introduzione di Aldo G. Gargani, Roma-Bari, Laterza, 1998, pp. V-XXII.
4) Ludwig WITTGENSTEIN, Diari segreti, a cura di Fabrizio Funtò, introduzione di Aldo G. Gargani, Roma-Bari, Laterza, 1987, p.64..
5) Ci si riferisce, in particolare, alla guerra ed alla prigionia italiana, al suicidio del fratello Hans in America nel 1902, al suicidio del fratello Rudolf a Vienna nel 1904, al ferimento ed alla conseguente perdita del braccio destro da parte del fratello Paul durante la guerra nel 1914 (pianista di grandi promesse che continuò comunque a suonare e molti compositori scrissero appositamente per lui concerti «per mano sinistra», notissimo quello di Ravel), al suicidio del fratello Kurt durante la guerra nel 1918 per non cadere in mano nemica.
6) Ludwig WITTGENSTEIN, Diari segreti cit., p. 65.
7) ID., Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-16, traduzione di Amedeo G. Conte, Torino, Einaudi, 1983, p. 7.
8) ID., Grammatica filosofica, edizione italiana a cura di Mario Trinchero, Firenze, la Nuova Italia, 1990, p. 101.
9) ID., Tractatus logico-philosophicus cit., p. 17.
10) ID., ivi, p. 8.
11) ID., ivi, p. 10. Un approfondimento su tali forme è in Merril B. HINTIKKA, Jaakko HINTIKKA, Indagine su Wittgenstein, Bologna, Il Mulino, 1990, pp. 180-ss.
12) Cfr., in particolare, Diego MARCONI, Il «Tractatus», cap. I in AAVV, Guida a Wittgenstein, a cura di Diego Marconi, Roma-Bari, Laterza, 1997, p 20-ss.
13) Ludwig WITTGENSTEIN, Tractatus logico-philosophicus cit., p.29.
14) Aldo G. GARGANI, Introduzione a Wittgenstein, Roma-Bari, Laterza, 1985, pp. 11-13; cfr. anche David PEARS, The Relation between Wittgenstein's Picture Theory of Propositions and Russell's Theories of Judgement, in AAVV, Ludwig Wittgenstein Critical Assessments, vol. I, edited by Stuart Shanker, London, Sydney, Dover New Hampshire, Croom Helm, 1986, pp. 92-107 e Garth HALLET, Is There a Picture Theory of Language in The Tractatus?, in AAVV, Ludwig Wittgenstein Critical Assessments, vol. I, edited by Stuart Shanker, London, Sydney, Dover New Hampshire, Croom Helm, 1986, pp. 108-115.
15) Ludwig WITTGENSTEIN, Ludwig Wittegenstein e il Circolo di Vienna. Colloqui annotati da Friedrich Waismann, presentazione di B. F. Mc Guinness, edizione italiana a cura di Sabina de Waal, Firenze, La Nuova Italia, 1975, pp. 31-32. Per un approfondimento sull'argomento, cfr.
Stuart G. SHANKER, The Appel-Haken Solution of the Four-Colour Problem, in AAVV, Ludwig Wittgenstein Critical Assessments, vol. III, edited by Stuart Shanker, London, Sydney, Dover New Hampshire, Croom Helm, 1986, pp. 395-412.
16) P. M. S. HACKER, The Rise and Fall of the Picture Theory, in AAVV, Ludwig Wittgenstein Critical Assessments, vol. I, edited by Stuart Shanker, London, Sydney, Dover New Hampshire, Croom Helm, 1986, p. 120.
17) Ludwig WITTGENSTEIN, Tractatus logico-philosophicus cit., p. 9.
18) ID., Ludwig Wittegenstein e il Circolo di Vienna. Colloqui annotati da Friedrich Waismann cit., p. 51.
19) Antony J. P. KENNY, Wittgenstein, trad. di Enrico Moriconi, Torino, Boringhieri, 1984, p.133.
20) Ludwig WITTGENSTEIN, Ludwig Wittegenstein e il Circolo di Vienna. Colloqui annotati da
Friedrich Waismann cit., p. 52.
21) ID., ivi, p. 53.
22) ID., ivi, p. 74.
23) ID., ivi, p. 75.
24) ID., ivi, p. 76.
25) ID., Lezioni 1930-1932. Dagli appunti di John e Desmond Lee, a cura di Aldo G. Gargani, Milano, Adelphi, 1995, pp. 28-29.
26) ID., ivi, p. 55.
27) Aldo G. GARGANI, Introduzione, in Ludwig WITTGENSTEIN, Libro blu e Libro marrone, edizione italiana a cura di Amedeo G. Conte, Torino, Einaudi, 1983, p. XXXVII.
28) Ludwig WITTGENSTEIN, Libro blu e Libro marrone cit., pp. 175-179.
29) ID., Grammatica filosofica cit., p. 41.
30) Ludwig WITTGENSTEIN, Ricerche filosofiche, edizione italiana a cura di Mario Trinchero, traduzione di Renzo Piovesan (pp. 3-182) e di Mario Trinchero (pp. 183-301), nota introduttiva di Mario Trinchero, Torino, Einaudi, 1983, p. 13.
31) Oswald HANFLING, "I heard a plaintive melody": (Philosophical Investigations, p. 209), in AAVV, Wittgenstein Centenary Essays, edited by A. Phillips Griffiths, Cambridge University Press, Cambridge, New York, Port Chester, Melbourne, Sidney, 1991, pp. 120-121.
32) Ludwig WITTGENSTEIN, Grammatica filosofica cit., p. 27.
33) ID., ivi, pp. 26-27.
34) ID., ivi, p. 34.
35) Ibidem.
36) ID., ivi, p. 51.
37) ID., Lezioni 1930-1932. Dagli appunti di John e Desmond Lee, a cura di Aldo G. Gargani, cit., pp. 21-22.
38) ID., Osservazioni filosofiche, introduzione e traduzione di Marino Rosso, Torino, Einaudi, 1976, p. 8.
39) ID., ivi, p. 231. Nel passo citato vi è un bersaglio polemico, non nominato direttamente, ed è Isaac Newton, il fisico inglese che scoprì le proprietà dello spettro visibile e che proprio con ciò che non si percepisce ad occhio nudo aveva sperimentato la scomposizione della luce nei colori. Newton dedicò all'argomento le Lectiones Opticae (1669-'72), la Nuova teoria sulla luce e sui colori (1672) e l'Optiks (1704). Sul versante opposto si mosse in quegli stessi anni il filosofo irlandese George Berkeley, autore del Saggio di una nuova teoria della visione (1709), il quale contestò l'ottica geometrica e ribadì che non vi è nulla di oggettivo nella visione dei colori, secondo il principio che la nostra conoscenza è conoscenza di idee e non di fatti e che ad esempio, gli oggetti ci appaiono ad una certa distanza solo per un'abitudine associativa. Sull'argomento cfr. Giusy PETRUZZELLI, Teorie della visione cromatica in età moderna: Grimaldi, Newton e Berkeley, in «Annali della facoltà di Lettere e Filosofia», 1999, Università degli Studi di Bari.
40) Ludwig WITTGENSTEIN, Pensieri diversi, a cura di Georg Henrik von Wright con la collaborazione di Heikki Nyman, edizione italiana di Michele Ranchetti, Milano, Adelphi, 1980, p. 44. Nelle Osservazioni sui colori i riferimenti a Goethe si fanno più numerosi, come si vedrà nel paragrafo successivo. Cfr. Johann Wolfang von GOETHE, Viaggio in Italia, introduzione di Giulio Carlo Argan, a cura di Renato Troncon, Milano, Il Saggiatore, 1981.
41) ID., Osservazioni filosofiche cit., pp. 236-237.
42) ID., Ricerche filosofiche cit., p. 42. Cfr. per approfondire: Alberto VOLTOLINI, Guida alla lettura delle "Ricerche Filosofiche" di Wittgenstein, Roma-Bari, Laterza, 1998.
43) ID., ivi, p.43.
44) ID., Zettel. Lo spazio segregato della psicologia, edizione italiana a cura di Mario Trinchero, Torino, Einaudi, 1986, p. 79.
45) Ludwig WITTGENSTEIN, Ultimi scritti. La filosofia della psicologia, traduzione di Aldo G. Gargani (§§ 1-600) e Barbara Agnese (§§ 601-979), introduzione di Aldo G. Gargani, Roma- Bari, Laterza, 1998, p. 218.
46) ID., Pensieri diversi cit., p. 124.
47) Sull'argomento, cfr. in particolare: Roberta DE MONTICELLI, Dottrine dell'intelligenza. Saggio su Frege e Wittgenstein, introduzione di Michael Dummett, Bari, De Donato, 1982, p. 165.
48) Ludwig WITTGENSTEIN, Osservazioni sui colori cit., pp. 15-18; in queste pagine compaiono molti esempi relativi alla psicologia del colore ed alle sinestesie percettive. Torna sull'esempio della fotografia a colori nello stesso testo alle pp.55-56.
49) ID., ivi, p. 19. L'esperimento consisté nella scomposizione della luce bianca nei colori dello spettro e nella ricomposizione della luce dai raggi colorati. Esso fornì fu la prova cruciale dell'ipotesi fisica dell'origine della luce, avallata già da molti studiosi prima di Newton. L'eccezionalità del fisico inglese si deve proprio alla seconda parte dell'esperimento.
50) Cfr. la nota 39).
51) Ludwig WITTGENSTEIN, Osservazioni sui colori cit., p. 20.
52) Cfr. la nota 39).
53) Ludwig WITTGENSTEIN, Osservazioni sui colori cit., p. 22.
54) ID., ivi, p. 28.
55) ID:, ivi, p. 47. L'interesse di Wittgenstein per Runge, pittore e teorico del Romanticismo, concerne non solo l'ambito dell'esperienza pittorica diretta del colore, ma afferisce anche all'uso, da parte di Runge, di un linguaggio logico-matematico; lo afferma pure Renato Troncon, autore del saggio introduttivo all'opera nelle edizioni del Saggiatore: Ph. O. Runge teorico della figurazione romantica, in Philipp Otto RUNGE, La sfera del colore e altri scritti sull'«arte nuova», a cura di Renato Troncon, Milano, Il Saggiatore, 1985.
56) ID., ivi, p. 35.
57) ID., ivi, pp. 42-43.
58) Rudolf ARNHEIM, Arte e percezione visiva, prefazione e traduzione di Gillo Dorfles, Milano, Feltrinelli, 1991.
59) Ludwig WITTGENSTEIN, Osservazioni sui colori cit., p. 46.
60) ID., ivi, pp. 81-82.
61) ID., ivi, p. 83. Chiarisce la relazione e le differenze tra la teoria di Wittgenstein e quella gestaltica Joachim SCHULTE, Wittgenstein e la Gestaltpsychologie, in AAVV, Ludwig Wittgenstein e la cultura contemporanea, Atti del Convegno Internazionale di Studi, Biblioteca Classense di Ravenna 26-27 aprile 1982, a cura di Aldo G. Gargani, Ravenna, Longo Editore, 1983.
62) Ibid.
63) Ibid.
64) ID., ivi, p. 84.
65) ID., ivi, p. 87. Tale approccio fenomenologico guida la riflessione di Maurizio Barberis, che si occupa sia pure marginalmente anche di Wittgenstein alle pp. 99 e 106 del testo seguente: Maurizio BARBERIS, Teorie del colore. Frammmenti per un'analisi fenomenologica, prefazione di Giovanni Anceschi, Bologna, Esculapio Editore, 1991.
66) ID., ivi, p. 88.
67) ID., ivi, p.92.
68) ID., ivi, p. 111: «Se lo si introduce in questa ricerca, il concetto di sapere non serve a nulla; infatti il sapere non è uno stato psicologico grazie alle cui particolarità si spiega ogni sorta di cose. Anzi la logica del tutto particolare del concetto "sapere" non è quella dello stato psicologico. »
69) ID., ivi, p. 103.
70) Jacques BOUVERESSE, Wittgenstein. Scienza Etica Estetica, a cura di Sergio Benvenuto, introduzione e traduzione di ID., Roma-Bari, Laterza, 1982, p. 175.
71) Cfr. Valeriano FANELLI, Ludwig Wittgenstein: Le Osservazioni sui colori, in «Rivista di Filosofia neo-scolastica», anno LXXIV, 4-1982, pp. 680-688; sulla logica di sistema, che attraversa l'intero corpus dello opere di Wittgenstein tra gli studi più recenti si segnala David G. STERN, Wittgenstein on mind and language, New York Oxford, Oxford University Press, 1995.
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