Nanni Menetti: dall'aula alla galleria
di Chiara Pilati
Quella di Nanni Menetti è l'identità artistica del professor Luciano Nanni, docente di estetica all'università di Bologna, il suo alter ego che prende forma e corpo una volta fuori dall'aula e, facendo ben attenzione a non confondersi con l'altro io, crea e compone.
Nanni Menetti produce opere verbali e visive. Entrambe le forme espressive con le quali si è cimentato, la poesia prima e le arti visive poi, sono attraversate da una comune tensione: la scrittura, sia essa verbale (poesia) o visiva (arte), deve uscire da quella bidimensionalità a cui la relega il foglio di carta.
"Nel lavoro di Nanni Menetti nascono continuamente nuove invenzioni: un'ultima, straordinaria, invenzione - scrive Renato Barilli - è quella delle crio-grafie. "Crio", dal greco, significa freddo, da qui crio-grafie come grafie tracciate dal gelo. Alcuni fondi di questi quadri sono così percorsi da venature stupefacenti e magnifiche". Nanni Menetti ha trovato il modo di riprodurre le belle arabescature che il gelo crea sulle finestre d'inverno con una tecnica del tutto particolare che lo porta a collaborare con la natura stessa. I fondi dei suoi quadri sono così percorsi da magnifiche venature che sono appunto le crio-grafie.
Un altro elemento che accompagna Nanni Menetti in tutta la sua produzione letteraria e artistica è il termine "microviolenze". Il termine é nato prima nella poesia e poi si è spostato anche nell'ambito delle arti visive. Indica la presa di coscienza della violenza che i parlanti esercitano reciprocamente su se stessi. E' la registrazione degli intoppi della comunicazione. La riscrittura di queste difficoltà ha una funzione catartica e avviene nelle opere visive con i materiali della scrittura come la carta-carbone o le carte assorbenti che l'artista utilizza come meteriali creativi delle sue opere, su cui poi si soffermano la mano della natura e quella dell'artista .
Le "crio-grafie" di Nanni Menetti sono esposte in una personale che la Galleria Ariete (via Marsili 7) gli dedica. La mostra dal titolo "nei giorni della merla" inaugura oggi alle 18 e rimarrà aperta fino al 28 marzo.
Intervista
D. Scrive Leonardo Conti nell'introduzione al catalogo "nell'opera di Nanni Menetti è sempre presente una forte referenzialità ad un contenuto filosofico, di cui sono rintracciabili i simboli che ne guidano la comprensione", può illustrarci quali sono i suoi referenti filosofici?
R. I referenti filosofici sono suggeriti direttamente dai cicli in cui la mia opera si suddivide. Il richiamo a Platone e a Derrida è implicito in tutte le opere del ciclo di Tot e, per altro, pervasivo in tutto il mio lavoro, nella misura in cui in esso è presente sempre una riflessione sulla scrittura. Il rinvio ad altri filosofi ritorna nei ritratti scaramazza (ritratti imperfetti), per esempio in quello di Nietzsche, di Haidegger, di Keplero, di Vattimo ecc. Il versante filosofico è fondamentale anche nella riflessione sulla comunicazione in tutto il ciclo di Edipo e la Sfinge. Così, tanto per dire delle linee di maggior peso.
D. Si dice che alcune delle sue opere specialmente quelle prese in considerazione in questa mostra, le "crio-grafie", siano eseguite secondo il concetto duchampiano del "ready-made". Normalmente si interìnde per ready-made la rielaborazione o la reinterpretazione da parte di un artista di un oggetto già creato da qualcun altro, nel suo caso in realtà è lei stesso a fornire il supporto alla natura che e al gelo che opera le sue creazioni che vengono in un terzo passaggio rielaborate dall'artista.
R. Sì, ma credo occorra distinguere tra artigiano e artista. Si tratta di due funzioni diverse che a volte sono svolte da corpi diversi e a volte dallo stesso corpo. Nel ready-made ci sono due operazioni: una di costruzione dell'oggetto, che potremmo dire artigianale, e non è svolta dal corpo dell'artista, ma da quello di qualcun altro. L'artista entra in gioco quando assume questo oggetto già fatto e lo battezza "artistico". Non prima. Quando io appresto il materiale alla natura perché lo lavori io non sono artista, sono un artigiano che chiama a collaborare con il suo lavoro un altro artigiano: la natura. Sono artista quando trovandomi di fronte a ciò che la natura, su mia sollecitazione, ha costruito, lo riconosco come "artistico". In questo senso non vedo differenza logica con il gesto di Duchamp. Ritengo poi che questa verità sia generalizzabile: in fondo in fondo non esistono che ready-made. L'artisticità infatti non fa corpo unico con gli oggetti: gli oggetti attraversano fisicamente culture diverse, ma la loro artisticità no, non viaggia obbligatoriamente sempre con loro: in alcune si configurano come arte in altre invece, pur rimanendo gli oggetti gli stessi, no.
D. L'utilizzo dei colori nei suoi lavori è molto particolare, soprattutto nelle crio-grafie si avverte una sorta di discrepanza tra il calore dei rossi e degli arancio e la tecnica utilizzata nella quale il gelo disegna le sue forme increspando queste superfici di fuoco. Come avviene la scelta dei suoi colori?
R. Si tratta di pigmenti di vario colore che io mescolo alla tempera da imbianchino. Il gelo muove impasti già colorati e tali impasti mi sono stati, pur essi, suggeriti, direttamente o indirettamente, dal gelo. Gli azzurri, dal colore del ghiaccio. I gialli, gli arancioni e i neri da una leggenda, quella della merla, che fa del gelo il perno della sua esistenza. In fondo mi son preso una grande rivincita. Ho costretto il gelo a rifare il manto degli uccelli che, se non ci fosse stata l'intelligenza della merla a sottrarglieli (in questo senso la mia mostra è anche, nel giorno della donna, un omaggio alla femminilità) esso avrebbe distrutto. Chiara la corrispondenza con il nero, chiara anche quella con il giallo (il becco del nostro merlo è giallo), ma il merlo indiano, oltre a questi colori, manifesta anche il bianco e l'arancione. E perché dimenticarlo?
D. Cosa si cela nel titolo della prima opera del ciclo crio-grafia "Il gelo ha scritto con me l'infanzia che mi nasconde", forse l'idea di questa particolare tecnica ha origine in qualche momento della su infanzia?
R. Sì, negli stupendi arabeschi che, al mattino, decoravano i vetri freddi della camera dove dormivo da piccolo. Tutte le crio-grafie portano, a mo' di icona, il volto che avevo a tre anni, quando fui folgorato da questa forza costruttiva della natura. La natura scrive e disegna, a volte lo fa tramite la mia mano, a volte con altre forze, molto più potenti e precise di me.
D. I materiali e i contenuti delle sue opere sono quelli della scrittura come lei stesso afferma, ma di una scrittura che cerca di andare oltre la bidimensionalità che essa normalmente implica. La scrittura della quale le sue opere sono testo è la narrazione di una particolare storia, è una scrittura per immagini o una scrittura immagine di qualche episodio.
R. Beh! La cosa è complessa e difficile da dire in poche parole. Queste opere non intendono illustrare una leggenda. Avrebbero invece l'ambizione di eleggerla, da un lato, a emblema del dire, dello scrivere in generale e della inevitabile consapevolezza che non può non accompagnare queste pratiche, e, dall'altro, di non staccare questa coscienza dalla corporeità da cui parte. In fondo ho dato fondo a una grande tautologia. Con i segni ho dato corpo al colore dei merli e con i colori dei merli al racconto e alla sua scrittura, augurandomi un equilibrio tra corpo e mente che sarebbe, penso, a noi salutare.
D. La sua arte inizialmente aveva scelto un'altra
forma di espressione, la poesia. Entrambe le forme di linguaggio
che ha utilizzato si pongono perciò sotto il segno della scrittura,
una in modo più diretto una più mediato, quale necessità di apertura
e narrazione sottostà a queste scelte?
Ricorre nei titoli delle sue opere il termine "Microviolenza" che significato
ha questa parola?
R. A dire il vero, quando ho iniziato, negli anni '60, praticavo insieme tanto la poesia che la visualità. Queste due pratiche si sono diversamente gerarchizzate dopo, ma mai del tutto separate. Tutto parte dal rapporto che intratteniamo con gli altri e dalle solitudini in cui spesso ci lascia la cosiddetta comunicazione. Credo che non ci sia esperienza più dolorosa di quella di sentirci incompresi. La scrittura da sempre ha avuto per noi un effetto catartico, proprio di cura (basti pensare alla tragedia greca), ma anch'essa è violenta. Deturpa la verginità dei materiali (la carta bianca, la carta carbone, la carta assorbente) di cui si serve per curarci. Con il termine "microviolenza" intendo indicare queste violazioni che la scrittura esercita sui suoi materiali. Come il gelo, del resto, sulla campitura vergine delle tempere. La violenza si rivela così come una struttura ineliminabile dell'esistenza. L'unica cosa che possiamo fare è prenderne coscienza (ecco perché la propongo alla parete) e cercare di ridurla al minimo possibile. Chi è violento in genere non sa di esserlo: pensa di star difendendo o propugnando dei valori (la patria, che so, la religione, la tradizione ecc,). In genere separa nettamente le due cose. I valori, il bene, da una parte e il male, la violenza, dall'altra. Le mie opere consigliano di stare attenti, perché anche ciò che viene pensato come un valore può nascondere una faccia violenta.