A partire
dal significante: una teoria della connotazione diversa da quella
di Hjelmslev e di R. Barthes (Parol
14, 1998)
di L.J.
Prieto
A cura di Enrico de Zordo
*Pubblichiamo qui una conferenza di L.
J. Prieto, ancora inedita, tenuta presso l'Università di Bologna nel
1988, da cui tutto il numero 14 di Parol ha preso le mosse. Conferenza
che purtroppo l'autore non ha potuto rivedere trascritta a causa della
sua scomparsa.
Lorenzini - Il prof. Prieto insegna linguistica
generale all'Università di Ginevra, ricoprendo la cattedra che fu
già di F. de Saussure. Partito da studi saussuriani e dalla constatazione
della biforcazione tra una semiologia della comunicazione e una semiologia
della significazione, Prieto ha assunto l'iniziale progetto saussuriano
per poi approdare all'elaborazione di una semiologia che si potrebbe
definire totale, il cui punto fondante e primario è senz'altro costituito
dalla semiologia della comunicazione.
Non a caso, Prieto si è sempre mosso da una concezione della semiologia molto vicina alla prassi e ha sempre prestato particolare attenzione a quelle forme del conoscere, come la logica e l'epistemologia, che si trovano in diretto contatto con i problemi di una conoscenza globale: sono stati centrali, in questa direzione, i suoi riferimenti alla Scuola Fonologica di Praga, soprattutto in relazione al modo critico con cui questa Scuola ha impostato i sistemi semiotici del rapporto suono-lingua. Era naturale che, muovendosi in tal senso, Prieto giungesse ad interrogarsi sull'arte, questione di cui si è occupato di recente, rispondendo al seguente quesito postogli da Luciano Nanni per il n. 7 del "Bollettino di studi di estetica" (1985), che esce presso l'Università di Bologna: " Come conosciamo, oggi, l'opera d'arte?".
Per noi sarà molto importante ascoltare quello che ci dirà sul problema dell'interpretazione, perché, nella sua prospettiva, l'interpretazione tocca i più ampi argomenti, dal rapporto connotazione-comunicazione, alla funzione dell'arte all'interno del sistema della comunicazione, al ruolo del testo come strumento pratico.
Ma sarà bene che lasci a lui la parola.
Prieto - Credo che un buon modo di iniziare la mia esposizione sia quello di inquadrare, in pochissime parole, l'orizzonte teorico in cui andranno ad inserirsi gli argomenti che tratterò oggi: l'orizzonte a cui mi riferisco è appunto quello, come è stato detto, della Scuola di Praga. Il punto di partenza della fonologia detta "praghese" coincide con la scoperta che il modo in cui i suoni sono conosciuti può essere spiegato soltanto a partire dal fatto che essi vengono utilizzati come mezzi di una pratica, cioè della pratica comunicativa.
A partire da questa constatazione, i praghesi ipotizzano che ogni conoscenza di un oggetto materiale si spieghi non a partire dall'oggetto stesso, che è suscettibile di un'infinità di conoscenze diverse, ma a partire dalla pratica che lo fa intervenire come mezzo. Per quanto concerne la fonologia praghese, mi interessa sia chiaro questo collegamento tra pratica comunicativa e maniera in cui il parlante conosce i suoni. Faccio un esempio. Non so se sapete che in Francese è assolutamente stabilito che esistono una sibilante sonora e una sibilante sorda. Ebbene, se un ispanofono ha difficoltà nel riconoscere questa differenza e nel produrla, non è perché abbia difficoltà auditive o fonatorie; semplicemente tale differenza ("s" sorda vs "s" sonora), rilevante per un francofono, non viene utilizzata in spagnolo per distinguere i significati, ossia per raggiungere scopi diversi nella pratica comunicativa; quindi, da un ispanofono, la differenza in questione non viene mai riconosciuta (non dico "tralasciata", perché se dicessi "tralasciata" presupporrei che tale differenza fosse prima riconosciuta e poi dimenticata). E ciò significa che il modo in cui i suoni sono utilizzati determina la forma in cui essi sono conosciuti. Ipotesi della fonologia è che l'oggetto materiale presenti un'infinità di caratteristiche, e che, tuttavia, l'identità che gli viene riconosciuta sia determinata soltanto da una minima parte di tali caratteristiche.
Ma perché proprio da certe caratteristiche e non da altre ? La scelta di certe caratteristiche e l'esclusione di altre dipende unicamente dalla pratica particolare in cui l'oggetto in questione viene utilizzato. A partire da questo inquadramento teorico elementare, prenderò in esame il rapporto denotazione-connotazione, soffermandomi in particolare sulla discussione di due diversi fenomeni connotativi. Ho deciso di trattare questo argomento (tra i tanti discussi con gli organizzatori di questo incontro), perché, a differenza dell'interpretazione in senso stretto, è un argomento che ho avuto modo di sviluppare direttamente nel corso delle mie ricerche. In senso lato, tuttavia, si tratta ancora di interpretazione. Connotazione, come del resto qualsiasi segno per De Saussure, è un termine arbitrario; non si tratta, per tanto, di discutere che cosa sia in sé la connotazione; non esiste una connotazione platonica alla quale possiamo riferirci. Semplicemente, in questa sede, mi propongo di trattare due fenomeni che a mio avviso meritano di essere chiamati connotazione: uno indagato da R.Barthes, l'altro sviluppato da me.
Lo scopo, però, di questa discussione non è di dimostrare la verità della mia connotazione e la falsità di quella di Barthes. Semplicemente cercherò di capire se i due fenomeni in questione sono efficaci per spiegare la vita dell'arte. Comincio col prendere in esame il fenomeno che io propongo di chiamare connotazione, perché ritengo che mi potrà essere utile, come punto di riferimento, quando discuterò la connotazione di Barthes. Per spiegare questo primo fenomeno connotativo è necessario descrivere come si sviluppa ciò che io chiamo l'atto pratico, ossia l'atto nel quale viene esercitata una qualsiasi pratica, compresa quella comunicativa. Affinché tutto risulti più chiaro è bene che io cominci ad esemplificare una pratica il cui scopo non è, come nel caso della comunicazione, la produzione di un oggetto di pensiero, bensì una pratica orientata a produrre un oggetto materiale.
L'esercizio di ogni pratica presuppone uno scopo o un progetto, tale progetto o scopo viene definito da una classe; in altri termini, noi non ci proponiamo di produrre un oggetto determinato in quanto individuo, ma sempre di produrre un oggetto determinato in quanto membro di una classe. Se io intendo costruire una biblioteca con certe misure, sarà l'insieme di tali misure (ed eventuali altre caratteristiche sempre inerenti al progetto della biblioteca) a contribuire alla determinazione del mio progetto. Ma esistono un'infinità di oggetti che possono presentare queste caratteristiche e, di conseguenza, un'infinità di oggetti che possono essere da me riconosciuti come realizzazioni del mio progetto; e ciò è possibile per la semplice ragione che il mio progetto non è un oggetto in quanto individuo, ma è un oggetto in quanto membro di una classe, determinato cioè dalla presenza in esso di certe caratteristiche. Quindi, il punto di partenza dell'atto pratico è sempre una classe. che può essere convenientemente emblematizzata da un quadrato costituito da un'infinità di punti geometrici, ognuno dei quali si configura come membro della classe in questione (il quadrato).
Esistono un'infinità di punti geometrici che appartengono a questo quadrato, come esistono un'infinità di oggetti, individualmente diversi, che possono realizzare il mio progetto (mi riferisco sempre all'esempio della biblioteca). Ma ci sono anche un'infinità di punti geometrici che non appartengono al quadrato, così come esistono un'infinità di oggetti che non possono realizzare il mio progetto (ad esempio un armadio). Il progetto, insomma, viene definito esclusivamente da questa classe; per realizzarlo è necessario disporre di un mezzo, che deve essere un oggetto effettivamente esistente, un oggetto attuale. Non è infatti con un mezzo possibile che si può esercitare una pratica. Lo scopo, invece, è un oggetto virtuale, perché se possedessi già la biblioteca non avrei bisogno di esercitare una pratica finalizzata alla sua produzione. Prima di mettermi a lavorare, tutto ciò che possiedo della mia biblioteca è il suo progetto, cioè la classe alla quale l'oggetto in questione deve appartenere. Ma l'oggetto biblioteca non esiste ancora, non è ancora attuale. Il mezzo, invece, deve essere un oggetto esistente. Certo, può anche accadere che un mezzo non esista, ma ciò non cambia nulla. Infatti, se il mezzo non esistesse, diverrebbe a sua volta lo scopo di una pratica, ecc... Ma è importante comprendere che nel momento in cui si esercita una pratica, il mezzo deve essere un oggetto attuale, un oggetto effettivamente esistente. Ora mi pongo una domanda: in funzione di che cosa si sceglie il mezzo ? Evidentemente in funzione dello scopo: Ma ciò non basta. Non è solo lo scopo a determinare la scelta del mezzo; lo scopo interviene senz'altro, ma non è l'elemento esclusivo. Il mezzo, infatti, viene scelto in funzione della sua utilità. Ora, che cos'è l'utilità di un mezzo o di un utensile (apro una parentesi: nei miei termini, esiste una distinzione sottile tra mezzo e utensile: l'utensile è un oggetto espressamente prodotto in quanto mezzo di una pratica, mentre il mezzo è un oggetto che serve per raggiungere lo scopo di una pratica, pur non essendo stato espressamente prodotto a tal fine.
Ad esempio, in relazione allo scopo della pratica "proteggersi dal sole", un albero può essere un mezzo, mentre un ombrello è sicuramente un utensile). L'utilità di un mezzo è esattamente la classe alla quale deve appartenere lo scopo perché possa essere raggiunto con quel mezzo. Dunque anche l'utilità è una classe, ma non è la stessa classe che determina lo scopo. L'utilità del mezzo (la classe che determina l'utilità del mezzo) può trovarsi in rapporto sia di coincidenza, sia di esclusione, e forse anche di intersezione (non ho ancora esaminato con attenzione questa possibilità) con la classe che determina il progetto; ma mai in rapporto di esclusione, perché ciò significherebbe che nessun oggetto appartenente alla classe che determina il mio progetto, e quindi nessun oggetto che io riconosco come realizzazione del mio progetto, appartiene alla classe degli scopi (e degli oggetti) raggiungibili (e realizzabili) con un certo mezzo. Dopo aver considerato l'utilità del mezzo, ci rimane soltanto una classe da prendere in esame: se io sono in grado di rendermi conto che un determinato oggetto ha una certa utilità, è perché lo riconosco come membro della classe di oggetti che hanno tale utilità: questa classe la chiamo operante.
A questo punto posso procedere: per raggiungere il mio scopo mi servo di un certo mezzo e, valendomi necessariamente del contributo del mio corpo (perché l'utensile da solo non può raggiungere uno scopo: ad esempio, questo gessetto, che è un mezzo per scrivere alla lavagna, senza l'intervento del corpo non funziona) produco un oggetto. Se riconosco che l'oggetto prodotto appartiene alla classe che determina il mio progetto, posso dire di aver realizzato il mio scopo. Se, poniamo, ho sbagliato a calcolare le misure (pensate sempre all'esempio della biblioteca) e produco un oggetto che non presenta l'insieme limitato di caratteristiche che definiscono (che costituiscono) l'intensione della classe che determina il mio progetto, allora non sono riuscito a raggiungere il mio scopo. In questo modo si conclude l'atto pratico.
Ma perché tutto questo ci interessa? Ovviamente, ci interessa in rapporto al fenomeno connotativo. Ma prima di affrontare direttamente l'argomento connotazione, è necessario che siano messi a fuoco tre punti fondamentali.
1. Esistono due maniere di conoscere (di concepire) lo scopo di una pratica. Infatti, esso viene prima classificato in quanto membro della classe che lo determina in quanto scopo, ma la scelta del mezzo utilizzato per produrlo implica che esso sia riconosciuto ugualmente come membro della classe costituita dall'utilità del mezzo impiegato per produrlo. Di conseguenza, lo scopo di una pratica viene sempre necessariamente concepito due volte (classificato due volte). Faccio un esempio. Di fronte a me ci sono tre oggetti: due biblioteche e un armadio.
Le due biblioteche, tra loro molto simili, hanno basamenti diversi: la prima poggia su piedi, la seconda su zoccolo. Supponiamo che nel mio progetto di biblioteca non intervenga la caratteristica piedi vs zoccolo, ovvero che io ritenga entrambe le possibilità adeguate alla realizzazione del mio progetto. In tal caso, riconosco che entrambe le biblioteche (entrambi gli oggetti) realizzano il mio progetto; l'armadio, invece, non può essere riconosciuto capace di tanto. Tuttavia tutti e tre gli oggetti (le due biblioteche e l'armadio) figurano nell'utilità dell'utensile, perché si suppone che l'insieme di attrezzi di un bricoleur possa servire tanto alla realizzazione di una biblioteca in legno di una certa misura quanto alla realizzazione di un armadio del medesimo materiale e della stessa scala. Quindi, rispetto al mezzo, i tre oggetti sono equivalenti, cioè appartengono alla stessa classe.
Viceversa, in quanto realizzazione del mio scopo, non sono equivalenti. Ciò mette in evidenza che taluni oggetti, pur non essendo equivalenti in rapporto alla realizzazione di un determinato scopo, possono esserlo in relazione all'utilità. Per restare al nostro esempio, è evidente che le biblioteche e l'armadio, equivalenti in relazione al mezzo impiegato per produrli, si trovano, sempre riguardo all'utilità, in rapporto di opposizione rispetto ad un vestito, prodotto verosimilmente con una macchina da cucire, ovvero con un utensile del tutto estraneo all'insieme di utensili utilizzati per la produzione di una generica biblioteca in legno o di un armadio.
Si nota così che ci si trova sempre dinanzi a due distinte reti di equivalenze e di opposizioni, una posta al livello del progetto, l'altra al livello dell'utilità. L'utensile, invece, a differenza dello scopo, è classificato necessariamente una sola volta, e dico "necessariamente" perché l'esercizio di una pratica implica la necessaria classificazione del mezzo come membro dell'operante che realizza, e soltanto come membro di quell'operante. Faccio un esempio: se domando a qualcuno di prestarmi un cavatappi per stappare una bottiglia di vino e mi viene portato un cavatappi art nouveau, io riconosco quell'oggetto come membro dell'operante cavatappi. Ciò non esclude che, in qualità di collezionista di oggetti art nouveau, io sia in grado di riconoscere quell'oggetto anche in quanto oggetto art nouveau.
Tutto ciò non viene impedito. Semplicemente, l'esercizio della pratica del cavare tappi da una bottiglia mi obbliga a riconoscere il cavatappi in quanto membro dell'operante cavatappi, mentre non mi obbliga affatto a riconoscerlo come cavatappi art nouveau. Ne consegue che ogni cavatappi può essere conosciuto a partire da diversi criteri di classificazione, ma che in relazione alla pratica del cavare tappi esso può essere necessariamente conosciuto a partire da un unico criterio di classificazione.
2. Ricapitolando, mentre lo scopo di una pratica viene classificato due volte, il mezzo può essere necessariamente concepito una volta sola. Ma non è tutto. Infatti, la seconda classificazione dello scopo viene fatta in rapporto con il mezzo; in altri termini, mutando il mezzo cambia anche la classificazione dello scopo. Faccio un esempio: devo sottolineare la parola "Ginevra".
Il mio scopo o progetto, che chiamerò "sottolineare la parola Ginevra", è produrre una linea diritta, della stessa lunghezza della parola e dello spessore di un millimetro circa. Per raggiungere il nostro scopo posso utilizzare una riga non graduata, poiché riconosco che nell'utilità della riga in questione figura ciò che intendo fare. Allo stesso modo, però, per sottolineare la parola "Ginevra", posso servirmi di una riga graduata; in tal caso, pur non mutando la prima concezione del nostro progetto, cambia necessariamente la concezione del progetto attraverso l'utilità, per la semplice ragione che l'utilità della riga graduata è più estesa dell'utilità della riga non graduata. Ad esempio, utilizzando la riga graduata sono in grado di misurare la lunghezza della parola, mentre servendomi della riga non graduata non sono in grado di farlo. La classe alla quale deve appartenere uno scopo per poter essere raggiunto utilizzando la riga graduata è una classe più larga della classe alla quale deve appartenere uno scopo per essere realizzato con una riga non graduata. Di conseguenza, anche se il mio progetto rimane il medesimo, la riconcezione (la seconda concezione) del mio progetto cambia necessariamente in rapporto al mezzo utilizzato per realizzarlo. Quindi, la concezione dello scopo attraverso l'utilità non fa parte del progetto, bensì dell'esecuzione del progetto. E questo mi sembra molto importante per giustificare la bifaccialità del segno, così come è stata proposta da De Saussure. Nella prospettiva saussuriana, infatti, il mezzo è un oggetto materiale che serve per raggiungere uno scopo; scopo che può essere sia un oggetto di pensiero, come nel caso della comunicazione, sia un oggetto materiale, come nel caso di altre pratiche.
L'utilizzazione di un mezzo presuppone due distinte classificazioni: la prima riguarda il mezzo stesso in quanto membro di un operante, e fin qui De Saussure non dice nulla di nuovo, ma l'utilizzazione di un certo mezzo presuppone anche una classificazione dello scopo, che si spiega soltanto a partire dal fatto che, per raggiungerlo, si impiega un determinato mezzo e non un altro. In termini linguistici, l'utilità del mezzo non è altro che il significato, ovvero l'utilità di quel particolare utensile della comunicazione che viene chiamato segnale. Risulta così evidente che l'utilità del mezzo come significato fa parte dell'entità bifacciale che viene utilizzata nell'esecuzione.
Di conseguenza, pur conservando lo stesso progetto, se si cambia utensile, tutto cambia: l'utensile stesso, l'utilità e l'operante. Quindi De Saussure ha assolutamente ragione nel considerare che il significante fa parte dell'esecuzione del progetto, ma non del progetto stesso.
3. Terza e ultima considerazione: la concezione dello scopo attraverso l'utilità viene ad aggiungersi ad un'altra classificazione logicamente anteriore. In generale, prima si concepisce ciò che si vuol fare (il progetto) e successivamente si cerca un mezzo per realizzarlo. La prima classificazione, dunque, quella che determina il progetto, è sempre logicamente anteriore, mentre la seconda classificazione, quella che ridetermina il progetto attraverso l'utilità del mezzo delegato a realizzarlo, è sempre logicamente posteriore, poiché presuppone necessariamente una prima classificazione del progetto.
A questo punto ci si trova dinanzi a quel preciso fenomeno che io propongo di chiamare connotazione, non tanto in opposizione al termine denotazione, che significa indicare, quanto al termine notazione, che significa determinare. Mi spiego: un oggetto notato, ossia determinato dalla classe che lo definisce in quanto progetto, viene connotato in rapporto al mezzo utilizzato per realizzarlo.
Quindi la prima concezione dei progetto può essere definita classificazione notativa, mentre la riconcezione del progetto, attraverso l'utilità del mezzo impiegato per eseguirlo, può essere definita classificazione connotativa. Ne consegue che questa seconda classificazione, che ridetermina un'entità logicamente già determinata a livello notativo, è un fenomeno senz'altro nevitabile, per la semplice ragione che l'esercizio di ogni pratica lo presuppone logicamente. Infatti, non si dà pratica senza mezzo, ed è evidente che la scelta del mezzo implica una riclassificazione del progetto, o, nei miei termini, una classificazione connotativa.
Ora, sulla base di tali considerazioni, cercherò di svolgere il tema del nostro seminario, Percezione e interpretazione, interrogandomi sul ruolo assunto dal fenomeno connotativo in rapporto alla pratica artistica. In tal senso risulta immediatamente evidente che, associando il termine artista al termine connotazione da me proposto, si arriverebbe ad affermare che ogni uomo, in quanto soggetto di una qualsiasi pratica, è un artista. Ma sappiamo tutti che le cose non stanno così. Infatti, la connotazione, se ha un ruolo nella pratica artistica, ha un ruolo assolutamente limitato.
A titolo del tutto ipotetico, direi che la connotazione può forse funzionare, in qualità di mezzo espressivo, nella sola pratica letteraria. Penso ad esempio al romanzo, in cui il tema (o livello aneddotico) coincide con ciò che fino ad ora ho chiamato scopo o progetto, ma in cui il fenomeno artistico si produce in un momento logicamente successivo, ovvero quando lo scrittore sceglie i mezzi particolari con cui realizzare il suo scopo (il suo tema).Credo che solo in tal caso, seppure in via assolutamente ipotetica, sia possibile applicare il termine connotazione alla pratica artistica.
Ma non è tutto, perché se è pur vero che il fenomeno connotativo da me proposto non può aiutarci a comprendere il funzionamento dell'arte, è innegabile che esso si mostra particolarmente adatto a chiarire la vecchia questione dell'impossibilità della traduzione. Io credo che nella traduzione (e mi riferisco alla traduzione banale, utilitaria, non alla traduzione letteraria, che è forse comunicativa tanto al livello notativo che al livello connotativo) il progetto venga definito soltanto dal senso. Pertanto, anche se la traduzione implica la sostituzione del segnale di una determinata lingua con il segnale di un'altra lingua, ossia la riconcezione del senso in rapporto all'utilità del nuovo segnale impiegato, essa è possibile proprio perché, nella pratica del tradurre ciò che maggiormente interessa non è il modo di esecuzione del progetto, bensì il progetto stesso.
Non credo sia corretto sostenere che per il fatto di non trovare significati del tutto identici in due lingue diverse, sia impossibile tradurre da una lingua ad un'altra. Se ci troviamo di fronte ad un testo puramente pragmatico, la traduzione è sempre possibile, perché il progetto non viene definito dall'utilità, ma soltanto dalla classe che lo determina in quanto progetto. Recuperando l'esempio precedente, è come se dicessimo che, siccome io ho una riga graduata mentre il mio amico ha una riga non graduata, è impossibile che riusciamo entrambi a sottolineare la parola "Ginevra", perché la concezione connotativa dello scopo che ci proponiamo di raggiungere muta con il mutare della riga utilizzata. Ma è ovvio che se il nostro progetto è semplicemente quello di sottolineare la parola "Ginevra", i mezzi in questione sono entrambi adeguati alla sua realizzazione.
Facciamo un altro esempio, questa volta direttamente linguistico. Mi trovo al bar con due amici, uno italiano, l'altro francese, e intendo produrre nella testa di entrambi la seguente conoscenza: "mio fratello arriva domani". Per realizzare il nostro scopo, decido di utilizzare, in italiano, il segnale fonico (l'utensile) "Arriva domani". La scelta di questo utensile implica una ri-concezione del senso (dello scopo), perché, il significato (l'utilità) di questo segnale è molto più esteso della frase che determina il mio senso. Infatti, con "Arriva domani" posso dire che "mia sorella arriva domani", che "mio padre arriva domani", che "un pacco inviato da Torino arriva domani", ecc.
Successivamente, rivolgendomi al mio interlocutore francese, utilizzo il segnale "Il arrive demain", il cui significato (la cui utilità) è più stretto rispetto all'utilità del segnale italiano "Arriva domani". Ed è più stretto perché, con "Il arrive demain", non potrei mai dire, ad esempio, che "mia sorella arriva domani". In francese, infatti, l'obbligo di impiegare il pronome-soggetto dinanzi al verbo, in tal caso "Il", esclude che con il segnale in questione io possa produrre nella testa del nostro interlocutore la conoscenza che "mia sorella arriva domani". Ma la traduzione è comunque possibile, poiché, nel momento in cui il mio interlocutore comprende il mio scopo (o senso o progetto), egli lo realizza di fatto, qualunque sia il significato attraverso il quale perviene a tale comprensione. In conclusione, i due segnali prodotti, francese e italiano, pur opponendosi in rapporto alla loro utilità, in relazione al senso (in relazione al mio scopo) si mostrano ugualmente adeguati, perché realizzano entrambi il mio progetto, che coincide con l'informazione "Mio fratello arriva domani".
Ora, dopo aver presentato un preciso fenomeno (ed alcuni suoi possibili modi di applicazione) che a mio avviso merita di essere chiamato connotazione, ossia la necessaria riconcezione dello scopo di ogni pratica a partire dalla scelta del mezzo utilizzato per produrlo, passerò a discutere il secondo fenomeno annunciato, a cui Luis Hjelmslev per primo ha assegnato il nome di connotazione, e che è stato ripreso tale e quale da Roland Barthes. In questa accezione la connotazione non è altro che un "un sistema semiologico secondo" che si sviluppa sulla base di una catena semiologica preesistente, o, più specificamente, un segno particolare il cui significante è costituito a sua volta da un segno. Stando a Hjelmslev e a Barthes, insomma, si ha un fenomeno di connotazione ogni volta che un primo sistema significativo, definito denotativo, costituisce il piano dell'espressione di un sistema significativo ulteriore, definito connotativo.
A chiarimento di tale fenomeno connotativo è utile riproporre un esempio ormai classico di Barthes: il segno francese "bon jour", composto dal significante /bon jour/ e dal significato "cortesia mattinale", costituirebbe il significante di un segno ulteriore (connotativo), il cui significato sarebbe "francesità". Pur trovandomi del tutto d'accordo con Barthes quando afferma che il segno "bon jour", sul piano connotativo, può significare "francesità", trovo scorretto ritenere che il significante del segno connotativo in questione sia costituito dal segno denotativo "bon jour", comprensivo cioè sia del significante /bon jour/ che del significato "cortesia mattinale".
Io credo, al contrario, che il significante di tale segno connotativo non sia un segno (un'entità bifacciale), bensì un sottoinsieme appartenente all'insieme di segnali ugualmente adatti a raggiungere lo scopo "cortesia mattinale". In altri termini, ritengo che il segno denotativo "bon jour" significhi qualcosa a livello connotativo soltanto perché esiste almeno un altro segno denotativo che, pur significando necessariamente qualcosa di diverso da "francesità" sul piano connotativo, può essere utilizzato al posto di "bon jour" per raggiungere il medesimo scopo sul piano denotativo ("cortesia mattinale").
Tutto ciò funziona, ovviamente, in un contesto almeno bilingue. I due segnali "buon giorno" e "bon jour" sono ugualmente efficaci per raggiungere lo scopo "cortesia mattinale"; ma è precisamente la scelta che si opera tra i due segnali che connota. Quindi il significante del segno connotativo non è costituito dall'operante e dall'utilità del segno denotativo, bensì da un sottoinsieme all'interno di un operante. Faccio un esempio: al Caffè situato di fronte all'Università di Ginevra e famoso perché Lenin vi andava a bere la birra quando risiedeva in Svizzera, lavora un cameriere spagnolo che, come molti camerieri a Ginevra, è sempre di pessimo umore. Ricordo che un giorno, con alcuni colleghi, mi trovavo seduto ad un tavolo del locale in questione; si avvicinò Jaques Bouveresse e ci chiese se poteva bere un caffè con noi.
Naturalmente acconsentimmo, ma gli facemmo notare che avevamo ordinato il caffè da oltre dieci minuti e che non ci era ancora stato servito. Lui sorrise e ci fece intendere che avrebbe risolto personalmente la questione. Si avvicinò al cameriere spagnolo e gli disse poche parole. Dopo un minuto ci furono serviti i caffè. Bouveresse ci confidò che era riuscito in quell'impresa perché, anziché rivolgersi al cameriere con "bon jour", lo aveva salutato utilizzando il segnale "buen dia".
Che cosa significa questo, considerando che entrambi gli utensili, "bon jour" e "buen dia", sono ugualmente adeguati a realizzare il senso "cortesia mattinale"? Significa che in tal caso la scelta del sottoinsieme "buen dia", all'interno dell'insieme di utensili adeguati a realizzare lo scopo "cortesia mattinale", connotando precisamente il significato "ispanità", ha consentito a Bouveresse di instaurare un rapporto di complicità culturale con il cameriere, che ha poi dato i frutti sperati. E' questa, a mio avviso, la connotazione. E ad essa può anche essere ricondotto quel preciso fenomeno, non propriamente comunicativo, che Barthes chiama semantizzazione degli usi. Per spiegarlo mi servirò di un noto esempio di Barthes: supponiamo che io voglia ripararmi la testa dal freddo e che tra tutti gli oggetti (i "copricapo") ugualmente efficaci per raggiungere lo scopo "proteggere la testa dal freddo" io scelga una "lobbia". Perfettamente adeguata a realizzare il mio scopo, e in tal senso perfettamente equivalente a tutti gli altri oggetti appartenenti alla classe "copricapo", la "lobbia" può anche produrre la significazione connotativa "borghesia". Anche in questo caso ciò che connota è la scelta di un sottoinsieme all'interno dell'operante di una pratica. Il significante di un segno connotativo non è mai costituito da un'entità bifacciale (significato e significante insieme), ma, semplicemente, da un sottoinsieme (una parte) di un operante (eventualmente un significante) che, venendo semantizzato, produce una significazione connotativa. Ma guardiamolo un po' più a fondo questo fenomeno della semantizzazione degli usi. Barthes lo chiama anche norma, per la semplice ragione che soltanto un "copricapo" (un oggetto) assolutamente nuovo (inedito) può non avere connotazione. Perché? Perché un copricapo che non è ancora stato sottoclassificato in un sistema connotativo, pur essendo senz'altro utile a proteggere la testa dal freddo, non è stato ancora semantizzato e di conseguenza non connota. Quindi, in questa prospettiva, ogni connotazione è una norma. A mio avviso, Barthes si occupa della norma in maniera "troppo semiologica", perché, se ne interessa non a partire dal punto di vista di colui che l'adopera, bensì dal punto di vista dello spettatore. Se mi capita di vedere qualcuno che mangia il riso con le bacchette, posso senz'altro ipotizzare che si tratti di un orientale, ma io sono solo un testimone, uno spettatore, e non penso che l'importanza della norma in questione si trovi nelle informazioni e nelle indicazioni che può trarne uno spettatore. Piuttosto, sarebbe il caso di interrogarsi sul perché un determinato individuo si serve delle bacchette per mangiare il riso. E sarebbe bene farlo a partire dal suo punto di vista. Mi sembra che Barthes, occupandosi della norma, tralasci questo aspetto fondamentale. La norma è certo molto interessante per lo spettatore, ma prima di essere interessante per lo spettatore è fondamentale per colui che l'assume. Ebbene, che cos'è la norma?
E' ciò che mi propongo di discutere a proposito del secondo tipo di connotazione che abbiamo fin qui trattato. Per Barthes la connotazione (o norma) è l'informazione che uno spettatore può trarre dall'osservazione del particolare sottoinsieme (tra i tanti possibili) che un individuo sceglie in qualità di mezzo di una pratica. Non è tutto: Barthes ci dice anche che l'informazione in questione è sempre relativa all'appartenenza sociale di colui che esercita la pratica. Ma questo risulterà più chiaro tenendo conto di che cosa sia la norma non a partire dal punto di vista dello spettatore, bensì dal punto di vista di colui che esercita una pratica. In tal modo, anche se mi allontanerò ulteriormente da problemi specificamente letterari, non potrò che proporre un'ipotesi di teoria del soggetto.
Questa teoria si fonda su una distinzione che mi pare fondamentale (il professor Nanni la conosce bene, perché, non è estranea al mio lavoro sull'arte): mi riferisco alla distinzione tra identità numerica e identità specifica. Faccio un esempio: a questi cinque gessetti, che mi servono per scrivere alla lavagna, riconosco la medesima identità specifica, perché tutti possiedono le caratteristiche pertinenti alla pratica dello "scrivere alla lavagna". L'identità specifica è una caratteristica o un insieme di caratteristiche compatibili (non contraddittorie) di cui è provvisto un determinato oggetto in rapporto ad una pratica, e di cui, allo stesso modo, sono provvisti tutti gli altri oggetti che presentano le stesse caratteristiche.
Ma l'identità specifica non è l'unica identità che io attribuisco a questi gessetti, perché riconosco che ciascuno di questi oggetti, pur possedendo le stesse caratteristiche degli altri, è diverso in quanto individuo ed è diverso perché è dotato, come si dice in filosofia, di un'identità numerica (o individuale). E' bene sottolineare che I' identità numerica di un oggetto non può essere considerata come una delle caratteristiche che concorrono a determinare l'identità specifica del medesimo oggetto, perché, se così fosse, se cioè l'identità numerica fosse una caratteristica come le altre, dovrei essere in grado di riconoscerla in quanto tale. Ma ciò non è possibile. Se io posassi questo gessetto sulla cattedra e mi allontanassi per qualche minuto e se durante la mia assenza la professoressa Lorenzini, che ama molto gli scherzi, sostituisse il mio gessetto con un altro, al mio ritorno non sarei in grado di verificare se il nuovo oggetto è numericamente lo stesso che avevo posato sulla cattedra qualche minuto prima. Potrei ipotizzare che i due gessetti in questione possiedono due distinte identità numeriche soltanto se mi accorgessi, ad esempio, che il nuovo gessetto è più lungo di quello che avevo posato sulla cattedra qualche minuto prima; ciò dimostra che è soltanto a partire dall'osservazione dell'identità specifica di un oggetto (di alcune sue caratteristiche) che posso fare un'ipotesi sulla sua identità numerica.
Un'altra cosa mi preme sottolineare. Questo resto di gessetto, come ogni oggetto, anche più modesto, possiede un'identità numerica, e ciò fa sì che esso sia una determinata entità e non un'altra. Ma tra questo gessetto e ognuno di noi c'è una differenza fondamentale: questo gessetto ha un'identità numerica, il nostro corpo ha un'identità numerica; ma un soggetto è un oggetto che ha coscienza della sua individualità, che ha coscienza della sua identità numerica. Questa è la mia ipotetica definizione di soggetto. Credo che esistano due livelli di coscienza. L'animale inferiore ha senz'altro coscienza di qualità come "fame", "freddo", "rosso", ecc., ma non della propria individualità; non è in grado di organizzare la percezione in oggetti, perché, per organizzare tale percezione, è prima necessario scoprire se stessi come oggetti, riconoscere se stessi come uno. E' questo, a mio avviso, l'elemento differenziale che produce uno scarto tra il primo e il secondo livello di coscienza.
Per riuscire ad accedere al secondo livello, che ci permette di prendere coscienza della nostra individualità, è necessario essere dotati della capacità di decidere, che a noi è presumibilmente consentita dal nostro sistema nervoso. Vediamo perché.
I fenomeni, in generale, si producono per necessità specifica. Qui davanti a me, sulla cattedra, ci sono due contenitori: un bicchiere e una bottiglia. Entrambi contengono dell'acqua. Travaso l'acqua contenuta nella bottiglia in un recipiente metallico e la metto su un fornello. Quando l'acqua raggiunge i cento gradi comincia a bollire. Poi prendo l'acqua contenuta nel bicchiere e compio la stessa operazione. Il risultato è lo stesso. Cosa intendo dire esattamente? Che questi fenomeni, queste trasformazioni, dipendono necessariamente da certe caratteristiche (da certe identità specifiche) degli oggetti. E' questo che ci consente di costruire la scienza. Infatti, se ogni singola quantità d'acqua avesse una diversa temperatura d'ebollizione, la scienza non potrebbe esistere. L'identità numerica, in questo caso, non conta. Affinché certi fenomeni si producano, è necessario che siano presenti alcune identità specifiche. Poniamo che io voglia togliere la vernice dal mio tavolo. Vado dal droghiere e vedo, esposte, due bottiglie di acetone.
Ora, a me non importa che il droghiere mi dia una bottiglia oppure l'altra. Mi è sufficiente che mi dia una sostanza che possieda l'identità specifica "acetone". Allo stesso modo non è importante che la vernice sia la vernice del mio tavolo; potrebbe essere anche la vernice di una sedia; ciò che conta è che possieda l'identità specifica "vernice". Per raggiungere il mio scopo, l'unica cosa necessaria è che negli oggetti in gioco siano presenti certe caratteristiche (certe identità specifiche). Per questa ragione è possibile la scienza. Perché la scienza non è mai scienza dell'individuale, ma è sempre scienza dello specifico. Tuttavia, se non è un'illusione che la fisiologia del cervello si occuperà di liquidare, il corpo dell'uomo è capace di trasformarsi senza che ci sia una necessità risultante dagli oggetti in presenza.
Per esempio, pur avendo sete e pur avendo a portata di mano questo bicchiere d'acqua, io posso decidere di non bere per le ragioni x; oppure, in un'altra occasione, posso dire: "Ho fame, ma non voglio mangiare questa pera, non perché la pera mi dispiaccia, ma perché trovo antipatica la persona che me la offre". Cosa significa tutto ciò? Significa che in rapporto al medesimo stato (in rapporto ad una situazione che presenta le medesime caratteristiche) posso modificare il mio corpo in modo tale che l'acqua (o la pera) giunga alla mia bocca, o posso non modificarlo. Il poter fare, insomma, implica il poter non fare, perché se ho la possibilità di impiegare il verbo potere per dire "posso fare qualcosa", è chiaro che quella cosa posso anche non farla, altrimenti non mi trovo nell'ambito del potere ma del dovere. Potere è sinonimo di decisione, non di necessità. Il corpo dell'uomo, quindi, è un oggetto che può modificarsi in maniera non necessariamente dipendente dagli oggetti in presenza. E questa modifica del corpo, che non risulta dall'identità specifica degli oggetti in gioco, è la decisione, ossia esattamente ciò che ci consente di prendere coscienza della nostra individualità, perché la decisione non dipende da un'identità specifica, ma dipende interamente dalla nostra individualità Una vera decisione è tale perché, sono io a prenderla. E quanto più una decisione è irrazionale, tanto più essa è dimostrativa della mia individualità. Poniamo che io abbia l'influenza e decida di non uscire di casa perché fuori fa freddo.
Un simile comportamento è così ragionevole da poter essere spiegato per categorie. Anche in un caso del genere ci troviamo di fronte a una decisione, ma la decisione in questione è senz'altro poco dimostrativa, perché qualsiasi animale malato, anche se non ha coscienza di sé stesso come uno, evita di prendere freddo. Se ai pesciolini del vostro acquario gettate alcune briciole di pane dopo averli lasciati per parecchie ore senza mangiare, vi accorgerete che le divoreranno senza fare i difficili. Ma è possibile che in una situazione simile un bimbo si comporti diversamente: non è raro, infatti, che un bambino lasciato per diverse ore senza mangiare, almeno in un primo momento, rifiuti il cibo. Perché può accadere? Perché, a mio avviso, il bambino ha bisogno di dimostrarsi la sua individualità con decisione. Le decisioni negative sono più dimostrative delle decisioni positive.
Se ho fame e decido di mangiare, dimostro meno la mia individualità (il mio essere uno) rispetto ad un soggetto che se ho fame e decido di non mangiare. Insomma, più una decisione è irrazionale e più è dimostrativa. Andiamo avanti: per essere uno (per riconoscersi come uno) è necessaria la presenza di un altro, ma non di un altro qualsiasi, bensì di un altro a sua volta in grado di decidere, di un soggetto, insomma.
Questo l'ho discusso soprattutto con un amico, specialista di psicologia infantile. Egli sostiene che il gioco della mamma col bambino, quello che in spagnolo si chiama "gulli gulli gulli gulli" e che sembra assolutamente ridicolo, è necessario perché consente al bambino di dimostrarsi il proprio libero arbitrio (la propria capacità di decisione) e, insieme, di riconoscere questa stessa capacità in un altro(la mamma). Nel momento in cui il bambino si rende conto che il suo libero arbitrio (la sua capacità di produrre degli effetti che non sono conseguenze necessarie della natura) viene condiviso da un altro a lui simmetrico, egli ha la possibilità di riconoscersi come uno. Solo scoprendo un altro uno, solo riconoscendo l'individualità dell'altro, il bambino è in grado di scoprire la propria identità numerica, il proprio essere uno. Un bambino che cresce in un'incubatrice, pur avendo uno sviluppo biologico normale, non riesce a costituirsi come soggetto perché ha di fronte a sé un'entità che non reagisce alle sue decisioni. Perché ho fatto questo lungo discorso? Io proporrei di considerare la norma come un insieme di decisioni negative condivise da parecchi soggetti, che consente loro di riconoscersi reciprocamente come soggetti.
Faccio un esempio: devo riporre alcuni mozziconi di sigaretta in un contenitore. Ho a disposizione tre oggetti: un posacenere, una tazzina da caffè e un accendino. La tazzina da caffè e il posacenere servono a realizzare il mio progetto, l'accendino è inutile. Perché ? Perché i limiti dell'operante sono naturali: per raccogliere i mozziconi è necessario un oggetto concavo. L'accendino non è concavo e di conseguenza non serve. Ma la norma non ha nulla a che fare con tutto ciò. Essa è precisamente un sottoinsieme all'interno dell'operante e risulta da quell'insieme di decisioni negative condivise da alcuni soggetti, grazie alle quali i soggetti in questione hanno la possibilità di rinviarsi reciprocamente l'immagine dell'altro, e dunque di costituirsi in quanto comunità di soggetti. Poniamo che io abbia fame e debba necessariamente nutrirmi. Di fronte a me ho un maiale, un cane e una pietra. Essendo i limiti dell'operante naturali, escludo immediatamente la pietra, che, come è noto, non è commestibile. La carne di cane e la carne di maiale, invece, sono ugualmente utili a realizzare il mio scopo. Ma la scelta tra la carne di maiale e la carne di cane non è naturale, è culturale. Solo a questo punto interviene la norma, nel momento in cui scatta una decisione negativa (condivisa da diversi soggetti) del tipo: "io non mangio carne di cane", oppure, tornando all'esempio precedente, "io non uso le tazzine da caffè per raccogliere i mozziconi di sigaretta". Ma all'interno della norma esistono anche decisioni negative non condivise: ad esempio, io potrei preferire la carne di cane alla carne di maiale. Ogni decisione negativa non condivisa è ciò che io chiamo il gusto del soggetto.
Schematizzando, si può dire che l'operante è l'insieme di oggetti naturalmente adatti a raggiungere lo scopo di una pratica, e che la norma è un suo sottoinsieme arbitrario condiviso da un determinato gruppo sociale; anche il gusto è un sottoinsieme arbitrario dell'operante, ma è un sottoinsieme non condiviso da un determinato gruppo sociale. E ciò spiega perché Barthes trova così interessante la norma, mentre si disinteressa del gusto: perché essa rinvia ad un gruppo sociale, che si costituisce in quanto comunità di soggetti proprio grazie all'esistenza della norma in questione.
Io credo, comunque, che sia utile considerare la norma di Barthes non a partire dal punto di vista dello spettatore, ma a partire dal punto di vista del soggetto, perché la norma, rivelando a un individuo la sua appartenenza ad una comunità di soggetti, è esattamente ciò che gli consente di riconoscersi in quanto soggetto. Inoltre, è bene non dimenticare che l'esistenza della norma implica l'esistenza del gusto, ossia l'arbitrario negativo non condiviso, grazie al quale il soggetto è in grado di sentirsi uno all'interno di una comunità di altri (di altri uno).
Per concludere, in maniera forse un po' deludente, direi che le due connotazioni prese oggi in esame non possono servire a spiegare il fenomeno dell'arte.
Dibattito
Lorenzini - A questo punto io non oso neppure aprire una discussione, perché credo che il professor Prieto, con la sua ricchissima presentazione, abbia già sottoposto se stesso ad un duro esercizio.
E' vero che rimane aperto il problema dell'arte, ma mi pare che quanto abbiamo potuto ascoltare abbia già fornito una risposta ad alcune domande fondamentali, che mi limito ad enunciare senza pretendere che siano discusse: per quanto riguarda l'oggetto artistico, la percezione è davvero sempre una percezione intenzionale? O la percezione che entra nel campo dell'arte mette in gioco anche elementi di arbitrio e di inintenzionalità?
E ancora: quando la "x" che indica l'utensile (il mezzo) viene applicata al discorso letterario e artistico, la dobbiamo pensare comunque come già esistente, oppure dobbiamo ritenere che nel mondo dell'arte il mezzo possa essere inventato? La poesia, insomma, inventa di volta in volta il proprio mezzo?
Sono problemi, questi, relativi ai termini essenziali del comunicare, che la precisa esposizione del professor Prieto ha in parte chiarito. Rimane irrisolto, mi pare, il problema dell'arbitrio (dell'arbitrario) nel linguaggio dell'arte.
Prieto - A questo proposito vorrei fare una puntualizzazione: io credo che il mezzo della poesia non sia la lingua, ma il poema; così come credo che la prospettiva nel disegno e il sistema armonico nella musica non siano i mezzi dell'artista e del musicista.
La lingua, la prospettiva, il sistema armonico, costituiscono, per gli artisti in questione, dei veri e propri campi di possibilità, ma non i mezzi della loro arte. Per Mozart, ad esempio, il sistema armonico non è un mezzo, ma un deposito di scelte possibili. Un mezzo di Mozart è, ad esempio, la sua quarantesima sinfonia.
Nanni- Tradizionalmente, nella retorica, esiste il terrnine "stile". Vorrei sapere se quando lei dice "connotazione" non pensa, in fondo, alla nozione di stile.
Prieto - Oggi ho preso in esame due fenomeni che meritano di essere chiamati connotazione, ma ritengo che nessuno dei due possa spiegare il fenomeno artistico. Forse la nozione di stile può avvicinarsi alla norma.
Poniamo che io mi trovi nella necessità di porre, ad un mio interlocutore francese, la domanda "Dove è egli?". Posso usare "Où est- ce qu'il est?", "Où est-il ?" oppure "Où qu'il est?". Non uso "Où est-il?" perché è troppo letterario, e scarto "Ou qu'il est?" perché troppo volgare. Alla fine scelgo "Où est-c'e qu'il est?", che costituisce la norma intermedia rispetto alle due espressioni precedenti.
Questa è la norma, ma non credo possa coincidere con ciò che lei chiama stile.
Nanni- Sì e no. Generalmente, per stile, s'intende il modo particolare in cui un determinato poeta (un dato artista) lavora il suo poema (la sua opera).
Ad esempio: se si parla dello stile del Petrarca ci si riferisce al modo con cui il Petrarca costruisce i suoi testi. Parlando di stile, insomma, si fa riferimento, nel caso della poesia, a un modo di organizzare la lingua. Mi interesserebbe sapere se è possibile tradurre il termine connotazione, come lei lo intende, con il termine "stile", intendendo per stile, appunto, il lavoro indicato ?
Prieto - No, io credo che lo stile individuale non abbia nulla a che fare con la connotazione.
Nanni - D'accordo, ma se noi intendiamo lo stile nel senso di norma, cioé capace di abbracciare delle scuole d'arte, lei pensa che il termine stile possa essere assimilabile alla connotazione?
Prieto - Sì, certo, ma credo che così inteso lo stile non abbia molto a che fare con l'arte, perché indica semplicemente un ventaglio di possibilità messe a disposizione dell'artista. Non altro.
Nanni - Sì. Ho capito che con il suo discorso non intende descrivere il mondo dell'arte. Lo ha chiarito esplicitamente.
Mi interessava soltanto capire, a partire dalla sua esposizione, se parlando dell'arte siamo tendenzialmente invitati a viaggiare verso la connotazione o verso la notazione.
Prieto - Per concludere, vorrei fare una proposta positiva sull'arte a partire dalla questione del soggetto. L'individualità presuppone la coscienza del tempo; il tempo produce cambiamenti e il cambiamento presuppone la continuità numerica. Ad esempio, se posso affermare che questo gessetto, che era bianco, è diventato rosso, è perché, il gessetto, in quanto individuo, è numericamente lo stesso. Se invece il gessetto è stato cambiato, ci troviamo di fronte a una sostituzione e non a una trasformazione.
Quindi, la coscienza del tempo presuppone la coscienza dell'individualità
Nanni -Anche in questo caso ci sarebbe molto da discutere, ma vorrei tornare, in breve, alla distinzione norma-gusto. Ho l'impressione che il gusto sia a sua volta una norma. Nel senso che forse noi interpretiamo come gusto l'apparire individuale di un altro sistema. Le faccio un esempio: per un certo periodo ho preso il caffè con lo zucchero; e mi piaceva.
Un giorno il medico mi ha impedito di assumere zuccheri. Da allora ho cominciato a bere il caffè amaro. Qualche giorno fa, per errore, ho messo lo zucchero nel caffè e l'ho trovato imbevibile. Ora, a questo punto, io non so più se sono in possesso di un gusto fuori da delle norme o se invece il gusto è in qualche modo modellato da delle norme. Per questa ragione ho qualche difficoltà a comprendere la distinzione, nei suoi termini, tra norma e gusto.
Prieto - Se lei definisce la norma come un potere condiviso... lo pensavo a un'altra cosa: non c'è una norma; ci sono norme..
Nanni -Forse dipende da come si gerarchizzano.
Prieto - Io conoscevo una coppia. La ragazza non diceva mai: "A me piace il caffè senza zucchero "; diceva sempre: "A noi piace il caffè senza zucchero". Questa è la norma di due soggetti. Ma ho l'impressione che chi opera certe scelte creda, almeno a livello cosciente, di agire fuori dalla norma.
Nanni - Lei parla sempre di un soggetto sociale (anche nel testo Pertinenza e pratica). Oggi ha parlato di un soggetto individuale. Mi interessa sapere da lei che tipo di rapporto si dà, secondo lei, tra questo soggetto individuale e il soggetto sociale. Mi rendo conto che è una domanda senza fondo.
Prieto - Vorrei riprendere e concludere la mia proposta positiva sull'arte. Il soggetto, proprio in quanto soggetto, ha necessariamente coscienza del tempo, perché il tempo presuppone l'individualità. Infatti ogni cambiamento (trasformazione) non viene riconosciuto in quanto tale se non c'è continuità numerica.
Chi non ha scoperto l'individualità non può riconoscere il cambiamento, non è in grado di distinguere tra cambiamento e sostituzione; quindi non ha coscienza del tempo. Il soggetto, insomma, entra nel tempo. E per me la morte non è qualcosa che avviene alla fine della vita; in fondo, la morte si vive ogni giorno, ogni ora vissuta è un'ora morta; vivendo, si muore; e io direi che più intensamente si vive, più intensamente si muore. Perciò tanti poeti associano "amore" e "morte"; perché se si fa coincidere l'intensità massima con l'amore, proprio in forza dell'amore si vive più intensamente e di conseguenza più intensamente si muore. In un certo senso ogni amore è triste, ma ciò non significa che l'amore sia negativo. La vita stessa è triste per definizione, perché, vivendola la si muore, ma ciò non significa che non sia bella.
Dunque la prima dialettica del soggetto è la dialettica vita-morte; la seconda, invece, consiste nel fatto che per essere uno bisogna non essere l'altro. A partire da questa premessa, avanzo una proposta che spero di sviluppare in futuro, anche se non so dove potrà condurmi: io direi che ogni opera d'arte, in qualche modo, è un'icona di queste due dialettiche, così come esse vengono vissute dal loro autore. E questo avviene al di là del tema, al di là del livello meramente aneddotico. Faccio un esempio.
Un amico mio artista, che attualmente dipinge quadri non figurativi, continua a ripetermi che tra i suoi quadri dipinti vent'anni fa (che rappresentano le colline di Ginevra) e i suoi quadri attuali, non c'è molta differenza, perché l'unica cosa che gli interessa è il ritmo spaziale. Cos'è il ritmo spaziale ?
E' la divisione dello spazio. E questa icona dimostra che per essere uno bisogna non essere l'altro. Sempre a proposito di questa dialettica uno-altro, un'esemplificazione negativa la traggo da una nota canzone napoletana in cui il protagonista, volendo dimenticare "una femmina cattiva" che lo fa soffrire, arriva alla conclusione che " sulo 'o mare fa scurdà l'ammore". E questo che cosa significa ? Che così come a partire dalla dialettica vita-morte, per non morire si dovrebbe non vivere, ovvero si dovrebbe fare in modo che l'intensità di vita diventasse così debole da far sparire l'intensità di morte, a partire dalla dialettica uno-altro l'unica possibilità di riuscire a recuperare l'altro, che ci sfugge sempre come la carota all'asino, sarebbe la confusione totale (" o mare "), nella quale niente è più uno e di conseguenza niente è più altro. Insomma, "sulo 'o mare fa scurdà l'ammore" significa che solo la confusione ci consente di riposarci in questa disperata ricerca dell'altro.
Per concludere, direi che ogni opera artistica (una casa, un quadro, un romanzo ecc.) è sempre un'icona del modo particolare in cui il suo autore vive queste due dialettiche. E questo vale per ogni opera d'arte disperata, come mi sembra debba essere ogni opera d'arte vera.