events
themes
call for papers
ideology busters
links
staff

Home

La rivolta del lettore: decostruzionismo e reader-response in America (Parol 14, 1998)

di John Picchione

[Conferenza tenuta presso l'Università degli Studi di Bologna, nell'aprile 1997. Alcune parti relative alla situazione generale della critica americana sono riprese con qualche variante dall'introduzione al volume, da me curato, I discorsi della critica in America, Roma, Bulzoni, 1993.]

Malgrado le posizioni a volte radicalemente divergenti tra gli orientamenti che hanno dominato la critica nordamericana fino agli anni '50 (New Criticism, Chicago School, Intellettuali di New York, critica mitico-simbolica), esistevano vari presupposti epistemologici che costituivano una solida base comune. Il discorso critico si fondava sulla certezza che esistono possibilità oggettive di conoscenza. L'attività critica si svolgeva a partire da una prospettiva empirica nella convinzione che l'osservazione dell'oggetto artistico o letterario poteva avvalersi degli strumenti della scienza come garanzia di verità e obiettività. Insomma, nonostante le fratture, il lavoro critico era guidato dal postulato che il testo è un organismo intenzionato, ben definito e strutturato, i cui significati possono esser estrapolati con soddisfacente accuratezza.

In sostanza, tale situazione rimane immutata anche dopo l'avvento dello strutturalismo nei primi anni '60. Infatti, in un primo momento, lo strutturalismo viene accolto come metodo empirico capace di fornire alla critica una solida base scientifica costruita su una teoria rigorosamente linguistica. In quegli anni, in America come altrove, non si avvertivano pienamente le implicazioni di scetticismo e idealismo che si celano dietro le teorie strutturalistiche. In sintesi, non si ravvisava che se da un lato i presupposti epistemologici dello strutturalismo sembravano venire incontro al lavoro scientifico sul testo, dall'altro, iniziavano a corrodere la centralità del soggetto sostituendola con la centralità del linguaggio. Il post-strutturalismo e il decostruzionismo dovevano poi esasperare tale spostamento cercando, tra l'altro, di far cadere la distinzione tra soggetto e oggetto su cui tradizionalmente si fonda il metodo scientifico o qualsiasi prospettiva che affermi una possibile validità o obiettività interpretativa.

Il periodo compreso tra la seconda metà degli anni '60 e la prima degli anni '70 è rappresentato soprattutto dalle problematiche poste dallo strutturalismo e dalla fase di gestazione del decostruzionismo. Esso è segnato, tuttavia, dalla proliferazione di una pluralità di scuole e movimenti critici (ermeneutica, semiotica, reader-response, critica femminista, neo-marxista) che provocano un acceso dibattito inaugurando quello che poi sarà definito "il boom della teoria". Sono questi, in parte, gli anni che coincidono con le proteste contro la guerra in Vietnam, con le rivolte studentesche, con la ricerca di nuovi modelli comportamentali e sociali che, nel loro insieme, formano l'immagine di un periodo anarcoide ed iconoclastico, caratterizzato dalla necessità di un capovolgimento radicale della tradizionale visione del mondo. Anche la critica sembra mossa dall'urgenza di sviluppare strumenti d'analisi radicalmente nuovi. Si iniziano ad organizzare convegni animati dal desiderio di rivedere drasticamente le funzioni della critica; sorgono nuove riviste dedicate alle nuove teorie (Diacritics, Boundary 2); le University Presses (Johns Hopkins, Yale, Chicago, in particolare) danno avvio ad ambiziosi programmi editoriali intenti, tra l'altro, a promuovere un'intensa attività di traduzione di lavori francesi nel campo della teoria critica e letteraria.

Indubbiamente, se fino a quegli anni l'America aveva tenuto aperto un dialogo critico soprattutto con l'Inghilterra (il caso dei New Critics è assai sintomatico) è ora la volta principalmente della Francia. Nel 1966 si svolge, presso la Johns Hopkins, un importante e dinamico convegno (a cui partecipano, tra gli altri, Barthes, Lacan, Derrida, Todorov, Goldman) che rivela chiaramente le tensioni venute a crearsi in quel periodo [Gli atti verranno pubblicati da Richard Macksey e Eugenio Donato, The Languages of Criticism and the Sciences of Man, Baltimore, Johns Hopkins University Press, 1970; ripubblicati con un nuovo titolo, The Structuralist Controversy, Baltimore, Johns Hopkins University Press, 1972.].

Il convegno, il cui scopo era quello di consolidare la presenza dello strutturalismo nel continente nordamericano, doveva trasformarsi in una sua profonda messa in crisi soprattutto ad opera dell'intervento di Derrida.

Alcuni anni più tardi, con il trasferimento dalla Johns Hopkins University a Yale di due principali esponenti del decostruzionismo, J. Hillis Miller e Paul de Man, i quali con Geoffrey Hartman e Harold Bloom formeranno il gruppo denominato -- precisamente nel '75 -- "Yale Critics", l'epicentro del dibattito si sposterà verso quest'ultimo ateneo anche grazie alla periodica presenza di Derrida. (Tra gli altri maggiori decostruzionisti ricordiamo Joseph Riddel, Barbara Johnson, Shoshana Felman). Durante il periodo di maggiore sviluppo, tra la seconda metà degli anni '70 e i primi anni '80, le teorie decostruzioniste tentano di scardinare molti dei fondamenti epistemologici su cui si reggono le premesse della critica tradizionale. Come sempre avviene con i movimenti che promettono drastici rivolgimenti, non pochi sostenitori saltano sul band-wagon per non sentirsi emarginati rispetto all'ondata dell'ultima moda ed iniziano ad imitare i maestri spesso in modo acritico e penoso. Non mancano tuttavia i dissensi sollecitati da alcune preoccupanti implicazioni contenute nel progetto decostruzionista e dalla necessità di vagliare la situazione con chiarezza, lontani da entusiasmi troppo facili.

Il decostruzionismo aborre ogni nozione di metodo o di validità metodologica e mira ad allontanarsi dalla logica occidentale della ragione e dal principio di non contraddizione. Il decostruzionismo non solo ritiene falsificabile ogni epistemologia che si fonda sulla possibilità delle verifiche, ma proclama l'inesorabile ricaduta dei segni su sé medesimi, destinati a rimanere a colloquio esclusivamente con se stessi e, quindi, fatalmente privati di un proprio referente. L'insanabile frattura tra segno e referente (la referenza è in pratica annullata in quanto il mondo non si dà mai nella sua immediatezza, ma solo tramite la mediazione della lingua) sovverte ogni principio di conoscibilità e dichiara la fine di ogni validità empirica riconoscendo nei meccanismi autonomi e incontrollabili della lingua la sola fonte di significazione. In sintesi, da un lato il significante non è mai trasparente e, dall'altro, non esiste un significato separato dalla lingua. Ad esempio, de Man osserva:

l'affermazione che la struttura paradigmatica della lingua è retorica anziché rappresentazione o espressione di un significato referenziale proprio... segna un totale rovesciamento delle priorità consolidate dalle pratiche critiche, le quali tradizionalmente collocano le radici dell'autorità della lingua nel suo adeguamento a un referente o a un significato extralinguistico anziché nelle risorse intralinguistiche delle figure [P. de Man, Allegories of Reading: Figural Language in Rousseau, Nietzsche, Rilke, and Proust, New Haven, Yale University Press,1979, p. 106. Tutte le traduzioni dei testi in inglese sono mie.].

Si dichiara l'impossibilità di significati trascendenti, di un centro, di un'origine della significazione. In sostanza, ogni significante è una metafora di un significato il quale non può essere situato al di fuori della lingua. Nietzschianamente le verità sono metafore consunte, illusioni di cui abbiamo dimenticato che sono tali (Hillis Miller dichiara: "La lingua è fittizia, illusoria già all'origine") [J. Hillis Miller, "Tradition and Difference", in Diacritics, Winter, 1972, p.11.]. La nozione di lingua come metafora cancella ogni possibile residuo di significazione letterale e trasforma ogni atto verbale in una fiction, in un labirinto di tropi formato da infiniti rimandi. Non vi è più filo d'Arianna capace di farci la guida. Il concetto di testo come un insieme segnico organizzato ed intenzionato è denunciato dal decostruzionismo e sostituito da quello di intertesto (non esistono testi ma solo intertesti). L'intertesto è costituito da un groviglio di frammenti incontrollabili i cui significanti scivolano, si disseminano in una molteplicità di direzioni inafferrabili. La disseminazione non consente argini capaci di controllarla e quindi di cristallizzarla in una forma definitiva. L'intertestualità, insomma, riduce il testo ad una stratificazione senza fine, ad un palinsesto illeggibile che costantemente ci rammenta dell'impossibilità di una trasparenza.

L'assenza di una qualsiasi unità di significazione non può che generare, come indissolubile corollario, l'impossibilità di una lettura totalizzante o l'impossibilità di una lettura tout court. Ogni lettura critica non è che la riduzione di un testo ad un altro testo. Essa non è altro che una misinterpretazione, una "dislettura" come la definisce Bloom. Egli dichiara:

non ci sono testi, ma solo relazioni tra testi. Tali relazioni dipendono da un atto critico, una dislettura o mispresa che un poeta fa di un altro, e che non si differenzia nella fattispecie dai necessari atti critici effettuati da ogni lettore forte su qualsiasi testo con cui viene incontro. Il rapporto d'influenza governa il leggere come governa lo scrivere; e leggere è pertanto un dis-scrivere, tanto come lo scrivere è una disleggere [H. Bloom, A Map of Misreading, New York, Oxford University Press, 1975, p.3.].

In tale ottica, non esiste metalinguaggio critico, logico, scientifico, capace di sottrarsi dalla figuralità/metaforicità della lingua e, di conseguenza, capace di decodificare -- come prevede, ad esempio, l'indirizzo semiotico -- obiettivamente il proprio oggetto di studio e possederne conoscenza. (Scrive Bloom: "Cosa può provocare un tropo se non un altro tropo, sarebbe la domanda di Yeats, a cui risponderei: solo la tropizzazione di un tropo precedente, o del concetto di tropo stesso") [H. Bloom, The Breaking of the Vessels, Chicago, The University of Chicago Press, 1982, pp. 30-31.]. Ne deriva che viene a cadere qualsiasi linea di demarcazione tra testo letterario e discorso critico. (Tra l'altro, va detto che i decostruzionisti, privilegiando in assoluto il termine inglese "discourse" [discorso], intendono prendere le distanze dalle implicazioni di scientificità a cui rimendano vocaboli come metodo o metodologia e sottolineare che i "discorsi" della critica, in quanto a possibilità cognitive, non sono affatto dissimili da ogni altra attività linguistica di natura sociale). Non essendo metalinguaggio, la critica diventa un altro genere letterario e, pertanto, viene ad abolirsi qualsiasi distanza tra essa e la letteratura.("Non vedo nessuna differenza, di specie o di grado", -- dichiara Bloom categoricamente -- "tra il linguaggio della poesia e il linguaggio della critica") [H. Bloom, Agon: Towards a Theory of Revisionism, Oxford, Oxford University Press, 1982, p. 16.]. Anzi, quest'ultima, non riuscendo a situarsi al di fuori del testo, rimane intrappolata all'interno di uno spazio che non potrà mai essere perlustrato e esaminato. Per Bloom l'obiettivo della critica non può mai essere quello di comprendere il testo, ossia di ricostruirlo nei suoi percorsi di significazione. Il critico può solo servirsi del testo per perseguire determinati fini. Nell'accogliere vari procedimenti avanzati dal neo-pragmatismo americano, in Agon egli rifiuta completamente la possibilità di letture giuste e aderenti al testo. Egli scrive:

Il pragmatismo americano, come consiglia Rorty, chiede sempre di un testo: a cosa serve, come posso usarlo, a cosa può servirmi, cosa posso fargli significare? Confesso che queste domande mi piacciono e rappresentano ciò che ritengo una lettura forte, in quanto essa non chiede mai: comprendo questa poesia in maniera giusta? [Ivi, p. 19.]

Per il decostruzionismo, la funzione della critica potrà anche risolversi nello smantellamento delle presupposte verità che si nascondono dietro alla macchina retorica del testo. Tale progetto conduce allo svelamento delle assenze, dei vuoti, delle contraddizioni che il testo disperatamente cerca di celare dietro ai propri assolutismi e pretese di unità. Comunque, se da un lato la critica tenta di smontare il testo mostrando le sue contraddizioni, i suoi meccanismi e strategie retoriche, dall'altro, come si è già rilevato, non possedendo un metalinguaggio capace di avvicinarsi all'oggetto di studio con distanza e obiettività, rimane essa stessa -- di fronte ad una struttura linguistica en abyme che si moltiplica all'infinito -- imprigionata all'interno del linguaggio che cerca di decostruire. In ultima analisi, non esiste possibilità di trascendere la lingua tramite la logica e la ragione. Di conseguenza, non esiste un luogo privilegiato da cui le contraddizioni e le antinomie del linguaggio letterario -- come pure del reale -- possono essere pienamente comprese.

Gli avversari invece sostengono che il decostruzionismo rappresenta un forma di filosofia nichilista e di assoluto scetticismo che rivelano la negazione della ragione e della conoscenza. Il decostruzionismo è visto come la fine della cultura umanistica, della letteratura, e dell'arte in generale. Eredi di un cieco formalismo e di un pericoloso irrazionalismo, le teorie decostruzioniste -- sottolineano vari oppositori -- hanno abbandonato qualsiasi possibilità di contatto non solo tra parola e mondo, ma tra etica ed estetica. Chiuse nella prigione della lingua, esse confondono epistemologia ed ontologia e sono costrette a negare, nel più radicale solipsismo, l'esistenza di una realtà indipendente dalle nostre rappresentazioni o la distinzione tra vero e falso, finendo col ridurre tutto a finzione, retorica. Critici come M. H. Abrams, E. D. Hirsch, Gerald Graff, John Searle, o quelli che si identificano con l'area marxista, in particolare Fredric Jameson, Edward Said, Frank Lentricchia, formano il gruppo che è riuscito a portare avanti gli attacchi più pesanti nei confronti del decostruzionismo [Si ricordano, come esempi, i seguenti lavori: M. H. Abrams, "How to Do Things with Texts", Partisan Review, 4, 1979; E. D. Hirsch, The Aims of Interpretation, Chicago, University of Chicago Press, 1976; G. Graff, Literature Agaist Itself: Literary Ideas in Modern Society, Chicago, University of Chicago Press, 1979; J. Searle, "Reiterating the Differences: A Reply to Derrida", Glyph, 1, 1977; F, Jameson, The Political Unconscious, Ithaca, Cornell University Press, 1981; E. Said, The World, the Text, and the Critic, Cambridge, Harvard University Press, 1983; F. Lentricchia, After the New Criticism, Chicago, University of Chicago Press, 1980.]. Essi rivendicano, da diverse prospettive, l'esistenza della storia e di una realtà esterna a cui i testi sono necessariamente legati, insieme alla validità e obiettività delle interpretazioni sostenibili anche tramite un consenso di ordine collettivo. Tra l'altro, il decostruzionismo sembra arenarsi in una grave contraddizione filosofica, in una sorta di aporia dello scettico: da una parte esso nega la possibilità di una verità e, dall'altra, non può fare a meno di affermare di sapere qualcosa, quindi, di possedere una certa conoscenza del vero.

Alcuni vedono il decostruzionismo come un fenomeno essenzialmente estraneo alla cultura americana e del common sense e lo considerano una pericolosa importazione di teorie francesi. Altri, nel tentativo di svalutare gli effetti rivoluzionari del decostruzionsmo nel nuovo continente, insistono che esso ha le pretese di sfondare nuove porte senza accorgersene che le porte erano già tutte aperte. In questa direzione, il decostruzionismo è visto come un'esasperazione delle premesse teoriche di Saussure (l'arbitrarietà del segno, la significazione come opposizione di segni), di Pierce (la semiosi illimitata) o, più semplicemente, come il risultato naturale del formalismo dei New Critics.

Una delle problematiche centrali sollevate dal decostruzionismo è quella relativa al soggetto. Se il testo, nell'ottica decostruzionista, non è altro che una delle tante possibili proiezioni del desiderio del linguaggio ne deriva che la scrittura non può fare a meno di compiere un costante parricidio. Il segno abitato all'origine dall'impossibilità della pienezza di sé, non solo dichiara l'assenza della referenza, ma proclama la morte del soggetto. Il testo diventa pertanto un insieme di segni senza padre (autore, soggetto). Di fronte al pericolo di sovvertire l'autonomia dell'io e i principi di soggettività (così saldamente legati a quelli di individualismo e libertà individuale assai sentiti nell'ambito della cultura nordamericana), vi è stato il tentativo di distanziare il decostruzionismo da tali conseguenze. Si è cercato di separare il decostruzionismo dal post-strutturalismo francese (Derrida, Faucault, in particolare) sostenendo che in effetti è solo quest'ultimo, cadendo in una forma di filosofia deterministica, a voler dissolvere il soggetto. L'orizzonte decostruzionista americano garantirebbe la libertà del soggetto anche se questo è venuto a perdere la consistenza di cui godeva. In tale prospettiva, il post-strutturalismo non sarebbe stato un semplice travaso in un contenitore vuoto, ma un fenomeno che ha incontrato numerosi "tagli" e mediazioni da parte della cultura americana. Pertanto, le posizioni di Derrida non sarebbero state accolte come principi epistemologi quanto come paradigmi di lettura. Infatti, sostengono alcuni, il concetto di gioco dei significanti è associato in America con gli ideali di libertà individuale, mettendo così tra parentesi le implicazioni relative alla cancellazione del soggetto. Paradossalmente, quindi, la catastrofe del soggetto nell'ambito del post-strutturalismo viene assunta dal decostruzionismo come spazio liberatorio, come possibilità creativa offerta all'io da parte del linguaggio letterario [Cfr. il capitolo "Deconstruction in America", in A. Berman, From the New Criticism to Deconstruction, Unbana-Chicago, University of Illinois Press, 1988.].

Questi presupposti di libertà e creatività individuale hanno dato luogo ad un totale ripensamento dell'atto interpretativo che trova massima espressione nell'ambito del cosiddetto reader-response criticism, un indirizzo critico il quale, sotto molti aspetti, fiancheggia il decostruzionismo. Sebbene assai diverso dall'estetica della ricezione di origine tedesca (Jauss e Iser), il reader-response -- letteralmente: responso, risposta del lettore -- si inserisce nel generale spostamento verso il lettore promosso dalle varie teorie della ricezione. Alla morte dell'autore, e si direbbe anche del testo inteso come oggetto intenzionato e significante, si è sostituito l'assoluto dominio del lettore.

Sviluppatosi tra gli anni '70 e '80, il reader-response, il cui principale rappresentante è indubbiamente Stanley Fish, in sostanza sostiene che è il lettore a creare, a "scrivere" il testo tramite le proprie strategie interpretative. In opposizione alla visione formalista del testo inteso come entità dotata di significato e saldamente strutturata, Fish riconduce i significati da esso espressi all'esperienza della lettura, vale a dire al processo della ricezione. Secondo il critico, l'atto della lettura consiste nel trasformare le sequenze spaziali dei segni stampati sulla carta in un continuum di esperienze temporali. Nella prefazione a Surprised by Sin: The Reader in Paradise Lost, egli afferma:

Il significato è un evento, qualcosa che accade non sulla pagina, dove siamo soliti ricercarlo, ma nell'interazione tra il flusso dei caratteri della stampa (o dei suoni) e l'attiva coscienza mediatrice del lettore-ascoltatore [S. Fish, Surprise by Sin: The Reader in Paradise Lost, New York, St. Martin's Press, 1967, p. X.].

Fish essenzialmente sostiene che i significati e la forma dell'opera sono il risultato dell'intera esecuzione della lettura la quale, nel suo svolgimento temporale, ingloba l'esperienza totale che il lettore fa del testo -- le interpretazioni di singoli segni sganciati dall'insieme in un particolare momento della lettura, le anticipazioni di significati possibili, i conflitti interpretativi, i depistamenti, le revisioni. In questa prospettiva non esiste una lettura finale, definitiva, e depurata di possibili errori interpretativi, in quanto i significati assegnati all'opera dal lettore sono il risultato di tutto il flusso della ricezione. Tale fenomenologia temporale e soggettiva dell'atto ermeneutico conduce Fish a capovolgere le posizioni estetiche e le implicazioni epistemologiche della stilistica formale dei New Critics (e di ogni indirizzo critico orientato verso la verifica e la ricerca di un fondamento scientifico delle proprie osservazioni) e a proporre quello che lui definisce una "stilistica affettiva". Il testo non è lo spazio circoscritto e obiettivo formato da una serie di messaggi depositati dall'autore e accertabili dal lavoro ermeneutico, ma un luogo in cui il lettore fa agire la propria variabile predisposizione mentale. Infatti, di fronte all'attività del lettore, il testo viene in sostanza cancellato diventando un oggetto del tutto secondario:

se il significato di un testo poetico -- Fish scrive -- è situato nell'esperienza che fa di esso il lettore, la sua forma è la forma di quella esperienza; e la forma esterna o fisica, da un lato così invadente e così innegabilmente presente, è, dall'altro, casuale e perfino irrilevante [Ivi, p. 341.].

 Fino ai primi anni '70, per Fish il lettore modello è un "informed reader" [lettore informato] il quale possiede sia la competenza linguistica sia la conoscenza delle convenzioni letterarie. Se da un lato Fish sostiene un rapporto completamente soggettivistico con l'opera, tanto che nella sua visione in pratica è il lettore a creare la letteratura, dall'altro, facendo leva sulla nozione di competenza -- possibilmente di derivazione chomskiana -- egli tenta di ripararsi dal pericolo di prospettare letture totalmente azzardate e aleatorie. Il concetto dell'informed rearder espone le sue posizioni al pericolo della contraddizione e certamente le spinge verso un'area meno radicale: in quest'ottica il lettore è ancora dialetticamente legato al testo in quanto è chiamato a grammaticalizzare i sistemi semiotici su cui è retto (si riconoscono quindi delle proprietà obiettive del testo).

Tuttavia, a iniziare dalla seconda metà degli anni '70, con una serie di saggi -- in particolare "Interpreting the Variorum" -- poi confluiti nel volume Is There a Text in This Class?, Fish ritorna a modellare la figura del lettore radicalizzando il proprio pensiero e polemizzando sempre più con i principi tradizionali della critica. Egli elabora il concetto di "interpretive communities" [comunità interpretative] sostenendo che la molteplicità e la invariabilità delle letture di un testo sono fondate non dalle oggettive proprietà insite in quest'ultimo, ma dalle strategie interpretative adottate da lettori appartenenti a vari gruppi o comunità di interpreti. Ogni particolare strategia interpretativa viene ideata/progettata a priori, vale a dire nasce e si sviluppa indipendentemente dal testo preso in esame, anzi è essa stessa a intenzionare il testo e quindi a produrre i suoi significati. Le letture sono pertanto il risultato delle modalità interpretative condivise dalle singole comunità di lettori e le varie strategie, creando la forma stessa della lettura, assegnano ai testi le proprie forme. Fish scrive:

le comunità interpretative sono formate da coloro i quali condividono strategie interpretative non per leggere (nel senso convenzionale) ma per scrivere testi, per costituire le loro proprietà e assegnare loro degli intenti. In altre parole, queste strategie precedono l'atto della lettura e pertanto determinano la forma di ciò che viene letto anziché il contrario, come viene normalmente presunto [S. Fish, Is There a Text in This Class? The Authority of Interpretive Communities, Cambridge Mass., Harvard University Press, 1980, p. 171.].

È necessario sottolineare che in questa prospettiva, malgrado il ruolo definitivamente centrale assegnato al lettore, egli non è poi, come sembrerebbe in un primo momento, un protagonista libero e senza condizionamenti nel suo incontro con il testo. In sostanza, l'interpretazione del singolo lettore è controllata e predeterminata dai sistemi di valori, interessi, e pregiudizi della comunità cui appartiene. Per Fish il lettore "non può che leggere ciò che ha già letto" [S. Fish, The Living Temple: George Herbert and Catechizing, Los Angeles, University of California Press, 1978, p. 172.] e le strategie interpretative della comunità a cui appartiene fissano i significati che può estrapolare dal testo (non esistono significati letterali ma solo significati intenzionali, vale a dire muniti di un preciso scopo umano).

Con questa serie di saggi, Fish si colloca definitivamente all'interno dell'area post-strutturalista. La critica è irrimediabilmente condannata ad essere costituita dai paradigmi storici assunti dalle varie comunità interpretative, rimanendo nell'impossibilita di trascenderli e di affrontare il testo da una posizione privilegiata e fondata su basi scientifiche.

Il rifiuto di una qualsiasi possibilità di verifica o principio di validità interpretativa avvicina Fish -- come si è già messo in evidenza per Bloom -- alle posizioni espresse dal neo-pragmatismo americano: la funzione del lettore non è quella di delucidare il testo ma di usarlo come strumento del proprio discorso -- l'intentio operis, ammesso che possa essere identificata, è annullata completamente dall'intentio lectoris. Per Fish, l'attività del lettore, come pure ogni altra attività legata alla comunicazione, non è altro che un'attività retorica. Per questo sofista-pragmatista contemporaneo, non esistono in effetti principi o conoscenze. Nei suoi ultimi lavori (Doing What Comes Naturally, in particolare), Fish porta avanti una critica serrata contro la teoria. Questa, nella sua visione, non incide affatto sulle pratiche critiche o sociali. È la prassi a determinare i sistemi teorici e non viceversa. "Mi ritengo un localista [...] -- egli dichiara -- non credo in nessun principio. Se credo in qualcosa, credo [in rules of thumb] nelle regole basate sull'esperienza, sulla pratica, e non sulla teoria" [S. Fish, There's No Such a Thing as Free Speech, New York-Oxford, Oxford University Press, 1994, p. 289.]. Le nuove versioni del mondo si sviluppano all'interno della prassi, come pure tutti i significati. Questi, secondo l'ottica di Fish, non si realizzano all'interno del sistema linguistico, ma solo nelle particolari situazioni della prassi linguistica (i legami con il Wittgenstein delle Ricerche filosofiche e con la teoria degli atti linguistici [speach acts] sono abbastanza evidenti).

Se vari altri critici come lo stesso de Man e J. Hillis Miller hanno incoraggiato lo sviluppo del reader-response, Norman Holland e David Bleich hanno contribuito in modo specifico e determinante ad una generale teoria della ricezione. Il primo ha cercato di innestare il reader-response sugli apporti della psicoanalisi, esaminando i modi in cui il testo è costruito dalla costituzione psicologica del lettore, il secondo ha esplorato le modalità di interpretazione in rapporto alle reazioni soggettive del lettore e alle pratiche didattiche [Cfr. N. Holland, Readers Reading, New Haven, Yale University Press, 1975; D. Bleich, Readings and Feelings: An Introduction to Subjective Criticism, Urbana, National Council of Teachers of English, 1975].

Nell'orizzonte del decostruzionismo e del reader-response si può collocare anche il distruzionismo praticato da William Spanos e dal gruppo che fa capo alla rivista Boundary 2. Esso parte dal presupposto che la distinzione cartesiana tra soggetto e oggetto, oltre a non tener conto delle loro interrelazioni, ha le pretese di trascendere la storicizzazione del soggetto per accedere ai significati di un testo prodotto in un passato più o meno lontano. L'accesso al testo sarebbe sempre mediato da un soggetto storicizzato. Il distruzionismo afferma la temporalità del soggetto il quale non può sollevarsi dalla propria storicità. Concependo heideggerianamente l'essere come essere-nel-mondo, si distrugge la distanza come base di conoscenza dell'oggetto (ogni distanza è ricondotta a paradigmi definiti metafisico-spaziali tipici del pensiero ontologico) a favore della temporalizzazione del Dasein. L'interpretazione, collocata nella temporalità del Dasein, viene vista, di conseguenza, come un atto che da un lato richiama il testo dal passato e, dall'altro, lo immette in orizzonti di significazione sempre nuovi. L'interpretazione come ripetizione senza fine non può quindi mai arrestarsi in una lettura totale e definitiva [Oltre a numerosi scritti apparsi su Boundary 2, si veda il volume di saggi curato da W. Spanos, Martin Heidegger and the Question of Literature: Toward a Postmodern Literary Hermeneutics, Bloomington, Indiana University Press, 1979.].

Sono stati soprattutto i critici vicini al marxismo a prendere le distanze da questi orientamenti. Se il decostruzionismo, essi sostengono, si ritrova chiuso nella gabbia dell'ontologia e dell'intralinguismo in cui si rimane vittima del principio luttuoso e apocalittico dell'assenza di realtà nel linguaggio, il reader-response, con il suo esasperato soggettivismo, si espone inevitabilmente al rischio dell'aleatorietà. Lo svincolamento del testo dai sistemi di codici culturali e dal contesto storico all'interno dei quali viene prodotto, significa immetterlo in un'area di assoluta autonomia, privarlo idealisticamente del proprio mondo e ridurlo ad una testualità che lo imprigiona nei propri segni o in quelli di altri testi. La riduzione di ogni messaggio a testualità comporta la fine di ogni principio di verità o di rapporti tra letteratura e mondo.

La svalutazione dei legami tra letteratura e realtà può essere vista da un lato come un lungo tentativo da parte della critica americana di de-politicizzare la propria attività e, dall'altro, come risultato del tardo capitalismo che cerca di assorbire e disintegrare ogni forma di dissenso e opposizione. Il capitalismo avrebbe ora trovato nel pluralismo armonizzante una efficace strategia per bloccare ogni attacco rivolto al sistema. La convivenza pacifica delle differenze si trasforma in tolleranza repressiva [Questo aspetto era stato anticipato da H. Marcuse, One-dimentional Man, Boston, Beacon Press, 1964, p. 61 e sgg.].

Anche la critica, quindi, verrebbe a ritrovarsi all'interno di quella condizione post-moderna -- in quest'ottica quindi strettamente legata alle strategie tardo-capitalistiche -- in cui si assiste ad una babelica moltiplicazione di discorsi che impedisce la possibilità di proporre un modello di lettura del mondo efficace e alternativo.

La dissoluzione delle metanarrazioni e la riduzione di ogni discorso a schegge autonome di micronarrazioni favoriscono l'annientamento di principi-guida e annunciano il rischio di una forma di paralisi istituzionalizzata. Non esistono più gerarchie, o centri, in tale topografia culturale. L'atomizzazione conduce da una parte ad un senso di impotenza e inutilità del lavoro intellettuale e, dall'altra, ad una inclusività indifferenziante di punti di vista che non è solo segno di un innocuo vociferare ma di un narcisistico consumo di idee, di giochi senza traumi e conseguenze che si inseriscono perfettamente nell'ottica del consumismo.

Questi nuovi paradigmi culturali hanno esercitato una profonda e dilagante influenza anche nel contesto delle pratiche didattiche e dei programmi universitari. In tale campo, l'inclusività è venuta a significare la necessità di dare spazio a tutto ciò che si trova ai margini. Contro la civiltà occidentale considerata egemonica, patriarcale ed esclusivista, contro i cosiddetti DWEM ("Dead White European Males"/uomini bianchi europei morti -- vale a dire i vari Platone, Aristotile, Dante, Shakespeare), i sostenitori della nuova pedagogia americana vogliono cambiare la faccia soprattutto dei corsi di natura umanistica, promuovendo materiale didattico considerato politicamente corretto: materiale di natura femminista o prodotto dalle varie minoranze, non solo quelle di colore ma anche gay [In questo ambito è stata fatta molta confusione. Il valore di un testo letterario e il suo inserimento in un programma di studio, certamente non possono essere stabiliti a partire da scelte sessuali o da considerazioni razziali. Tra l'altro, queste pratiche didattiche hanno creato preoccupanti forme di ghettizzazione culturale e sociale, o hanno contribuito all'istituzione dei programmi di "Cultural Studies", all'interno dei quali lo studio della letteratura è diventato occasionale o del tutto secondario.].

Tutto questo ha dato vita ad una continua eruzione di dibattiti assai infuocati. Poi, negli ultimi anni, ci sono stati segni di raffreddamento e di moderazione. Se si tratta di un momentaneo esaurimento di forze o di un pericoloso abbandono di tensioni è prematuro stabilirlo.

John Picchione

York University

 

Logo Parol
© 1985/2003 Parol - quaderni d'arte e di epistemologia
Per qualsiasi utilizzo delle risorse presenti sul sito contattare la redazione
Site designed and managed by Daniele Dore