Luigi Rognoni. Contaminazione ideologica di presupposti epistemologici.
Roberto Di Cecco
«Questa premessa basti a giustificare la scelta "unilaterale" dei saggi qui raccolti; i quali tendono, da un lato, ad indagare il significato storico-critico e sociale dell'eredità schönbergiana e, dall'altro, ad illustrare la situazione nella quale si trova oggi imbrigliata quella giovane musica che a tale eredità si era inizialmente richiamata. Non si portano qui "giudizi" sui singoli musicisti delle nuove e sempre più "aggiornate" tendenze ultraradicali, né si partecipa alle loro polemiche e ideologie: si cerca soltanto di puntualizzare una situazione artistica e sociale che oggi assume spesso il carattere della più drammatica ambiguità». Così Luigi Rognoni chiude la propria Premessa al volume Fenomenologia della musica radicale [1], scritta l'anno precedente a quello della pubblicazione della raccolta, vale a dire nel dicembre del 1965.
In seguito a tre anni di costante (non ininterrotto!) ruminare sui diversi concetti in esso espressi, provocati dall'immediata inevitabile presa d'atto d'una sorta di "sacralità" di cui lo scritto godeva - e gode - presso gli addetti ai lavori (esso è ad oggi - ancor oggi - il faro della meditazione sul fare musica, la stella polare d'una certa qual idea d'artisticità), alcuni dubbi sono sorti circa la pertinenza dello scritto con gli obiettivi, prima sottintesi poi dichiarati, richiamati dal titolo: scopo prefissato è l'analisi di tali "frizioni" e la dimostrazione d'una contaminazione poetica che, autonomamente, destituisce il saggio dal ruolo fenomenologico ch'esso vorrebbe auto-attribuirsi.
A questo fine, oggetto primario del presente studio non è l'opera interamente considerata: essa infatti consta di tre parti di cui le ultime due (testimoni ne siano i titoli) affrontano puntualmente le poetiche dei compositori da Mahler a Busoni e, quindi, non rientrano nel campo d'indagine qui proposto; nemmeno poi la prima parte viene interamente discussa (anche se scorsa e man mano ripresa e citata a sostegno di quanto affermato), bensì ricondotta all'ultimo capitolo d'essa, vero e proprio pettine cui vengono tutti i nodi.
Talune problematiche sono dunque venute affiorando, a cominciare proprio da quella già in principio citata Premessa: essa infatti consiste in gran parte - ad essere più precisi quasi per intero - in una autocitazione, cioè nella riproposizione di quanto l'autore stesso aveva scritto a presentazione della traduzione italiana del trattato Style and Idea di Arnold Schönberg; e questo non costituisce certo peccato, ma lo diviene solo nel momento in cui le parole riportate spiegano solo parte degli intenti impliciti nel titolo. E ne dico le ragioni.
Volendo essere (anche noi!) puntuali, dobbiamo prendere atto dell'esistenza d'un duplice problema: il primo, quello concernente il tipo di "puntualizzazione" che Rognoni si propone come fine; il secondo, se tale "puntualizzazione" venga coerentemente onorata nel dipanarsi dei diversi scritti contenuti nel libro.
Partiamo dalla prima questione. Nelle ultime battute del passo riportato, Rognoni si preoccupa di prendere le distanze da qualsiasi coinvolgimento ideologico e polemico, accennando poi alla detta "puntualizzazione" definita "artistica e sociale": non che questo secondo proposito dica molto di più, ché è pur vero che io posso "artisticamente puntualizzare" partendo da tanti diversi punti di vista (posso ad esempio partire dalla mia poetica artistica discriminando tutto ciò che ad essa non si confà, posso assumere come sistema di riferimento le percezioni che ho del mondo sociale che mi circonda o, differentemente, posso tentare un approccio estetologico o sociologico, e così via), ma ciò che sembra nell'interesse dell'autore è un punto di vista che si collochi "al di sopra", epistemologico. Ma si ribadisce, sembra! E dovendocelo immaginare (il tipo d'approccio di studio), non essendo inequivocabilmente definito nel testo, non siamo usciti da quella "drammatica ambiguità" che veniva da Rognoni stesso scongiurata.
Ci si deve allora rifare, entrando nel secondo punto, al titolo: Fenomenologia della musica radicale, dove «l'aggettivo "radicale" va inteso nel senso etimologico di riferimento alle radici del linguaggio musicale nella sua genesi e nel suo sviluppo» [2].
E come entra la fenomenologia nel corso della trattazione? Ahinoi, l'autore non ce ne dà notizia. Dobbiamo quindi rifarci alle nostre conoscenze sull'iter compiuto da Rognoni, formatosi alla medesima scuola di Luciano Anceschi e facente quindi parte di quella corrente che, passando attraverso il pensiero di Antonio Banfi (egli stesso amante della grande tradizione della musica classica ed attento osservatore degli sviluppi dell'avanguardia musicale), si riconduce alla filosofia di Edmund Husserl.
Ciò di cui Banfi parla è la costituzione di un'estetica come fenomenologia delle arti, come modello comprensivo di un'intimità personale che, in unione ad una obiettività ideale, sarebbe alla base della creazione artistica; per dirla con Husserl, la nascita di una scienza essenziale della soggettività trascendentale. Traducendo ancora: la fenomenologia deve ricercare leggi generali (modelli vuoti) non di dati di fatto (come matematica, psicologia, ecc...), bensì di essenze (scienza eidetica, come geometria e logica); infatti lo stesso Husserl, in risposta a quanti continuavano a sostenere che la fenomenologia, pur non essendo scienza empirica, restasse pur sempre una scienza interessata ai dati di fatto, puntualizza circa la distanza tra eideticità (propria della fenomenologia) e ricerca di leggi generali: l'essere generalizzante di una scienza non coincide con il suo essere scienza di essenza, tant'è che la matematica ricerca sì leggi generali (ad esempio "invertendo l'ordine dei fattori il prodotto non cambia" è una legge che vale per tutti i fattori), eppure è una scienza di dati di fatto (in questo caso di "numeri") e non di essenze [3]. La fenomenologia è ancora scienza intuitiva, non induttiva, tenuta quindi alla descrizione pura, il cui oggetto non è ciò che viene esperito, ma l'esperire stesso.
Tale sistema scientifico entra in crisi «là dove si accerti quella perdita di senso che nasce sempre dalla pretesa di dar valore assoluto ad aspetti parziali, da una riduzione negativa dell'orizzonte teleologico della verità» [4] (a ben pensare, gli stessi concetti sono stati catapultati [non è qui in discussione se con o senza successo] anche nella disciplina teologica, da sempre considerata la più lontana dalla riflessione "scientifica", quando Karl Barth affermava: «In quanto in teologia è quella Parola che viene colta ed è a quella Parola che viene data risposta, la teologia è una scienza nello stesso tempo modesta e libera, [...] scienza modesta, nel senso che tutta la sua logìa in rapporto a quella Parola è soltanto una umana ana-logìa, tutto il suo illuminare è soltanto un riflettere luce altrui (uno 'speculare'!), tutto il suo produrre un semplice umano riprodurre, in breve: non un atto di creazione, bensì una risposta di lode (per quanto possibile la più fedele) al suo creatore e all'atto creativo di lui - e scienza libera, nel senso che da quella Parola essa non solo viene sollecitata, ma anche liberata, autorizzata, abilitata e messa in movimento affinché possa diventare tale analogia, tale riflesso, tale riproduzione, in breve: tale lode del suo creatore» [5]).
Non vi sono più dubbi allora: Rognoni, richiamando la fenomenologia, si appella ad un percorso rigorosamente scientifico lontano, come egli stesso vuole, da "polemiche e ideologie"; il lettore di Rognoni, richiamando tutta la propria fiducia nello studioso, si appella alla di lui onestà nel mantenimento della promessa di una ricerca di leggi generali sull'esperire musicale, onnicomprensive degli stili succedentisi nella storia.
Compito doveroso quanto impervio, se è vero che in ogni disciplina rigorosa è «facile cadere nella disperazione o, peggio, nell'arroganza», facendola diventare «la caricatura di sé stessa» [6]; ma tant'è, sempre se, e solo se, le parole valgono il proprio significato.
Leggendo il volume, senza taluni dissensi che verranno poi mano a mano affrontati, ne giungiamo al cuore, vale a dire a quel quinto capitolo Alienazione e intenzionalità musicale, il cui titolo testimonia - diremmo suo malgrado - dell'esattezza del nostro precedente ragionamento. Se infatti con "alienazione" Rognoni intende riferirsi a quell'atteggiamento di distacco dalle relazioni sociali, canonicamente intese, tipico di certa avanguardia, con il termine "intenzionalità" egli si riaggancia nuovamente ed inequivocabilmente alla dottrina fenomenologica husserliana.
Ripresa dal concetto di "direzione intenzionale" come atto mentale dirigentesi su un oggetto immanente (cioè il fenomeno fisico che è "segno" del reale esterno) già teorizzato da Brentano, l'intenzionalità husserliana si spiega come modo di essere della coscienza - dell'esperire - che determina il carattere stesso dell'esistenza ed è, anche in questo caso, "direzione" di un fenomeno psichico verso un oggetto. È forse utile ricordare che nella propria teoria fenomenologica Husserl distingue due diversi tipi di percezione: la percezione trascendentale, cioè quella secondo cui la coscienza è in grado di percepire gli oggetti e riconoscerne l'essere extra-coscienziale, il loro vivere al di fuori della coscienza (atteggiamento delle scienze della natura); e la percezione immanente o intenzionale, che ha per oggetto le esperienze vissute (ricordi, desideri) che sono quindi assolute, indubitabili (atteggiamento fenomenologico) e che è oggetto della qui riportata discussione.
Senza entrare
troppo nello specifico della questione, potremmo dire che questa
intenzionalità diviene per Husserl il principio a priori della
correlazione tra ciascun oggetto della nostra esperienza e i modi
in cui esso si dona alla coscienza. Tutto questo a giustificazione
e sostegno della via della scientificità di cui si diceva, cioè di
quel vigile occhio posto "al di sopra", la cui funzione risiede
nel distinguere l'essenza - s'intende in
potenza - dell'obiettiva realtà dal galileiano «venir in notizia» [7]. Sull'onda di questo rigore, immergiamoci nelle
argomentazione di Luigi Rognoni.
Così facendo veniamo portati a ragionare sulla tecnica - che l'autore, piegando il termine alla contemporaneità, rinomina "tecnologia" - e sul suo ruolo nell'arte, facendo così scaturire un'esplicita polemica contro le scuole artistiche del secondo Novecento, ree di essere tanto concentrate sulla tecnica da tramutare la stessa in ideologia. Quale allora il rapporto fra arte e tecnica (tecnologia)? Quale la relazione fra queste e l'ideologia?
Per chiarezza d'esposizione è forse meglio cominciare da questa seconda questione. Parlando di ideologia è da intendersi quell'insieme di princìpi e di idee costituentisi nella formazione culturale di ciascun essere umano; parliamo quindi di quei paradigmi che quotidianamente ciascuno di noi mette in funzione al fine di compiere scelte etiche. Alla dogmaticità dell'agire etico non si sottrae certo il campo dell'arte: si parla infatti di "creazione", di "composizione" dell'opera, la quale per manifestarsi in questo mondo necessita di qualcuno che, inevitabilmente secondo la propria ideologia, compia delle scelte riguardo la realizzazione materiale della stessa. Tale insieme di princìpi, che altro non sono che norme pratiche, è altrimenti denominabile con il termine "poetica"; e non esisterà certo una sola poetica, bensì tante quante le ideologie artistiche "istituzionalizzate" - che noi denotiamo con ben determinate locuzioni (ad esempio "espressionismo", "futurismo", "strutturalismo", ecc.) - sommate alle singole esperienze in esse non comprese.
A queste "teoriche delle neoavanguardie" quindi, in altri termini alle poetiche del secondo Novecento, Rognoni imputa la colpa di avere portato la tecnica allo stato di ideologia, ma, date le premesse di cui sopra, si manifesta immediatamente e nuovamente un'ambiguità: o l'autore intende con "ideologia" un qualcosa d'altro, una sorta di hegeliana superiorità "spirituale" che però, e va detto con chiarezza, ci getta nel campo della metafisica, mutilandoci d'ogni possibilità di ragionamento scientifico, oppure, se viene condiviso il significato sopra esposto (e lo stesso Rognoni sembra condividerlo nel momento in cui scrive: «Scegliere e decidere, in tali condizioni, significa trovarsi, per prima cosa, di fronte all'enorme muro della tecnica» [8]), viene data dei fatti una lettura pregiudicata da una poetica, cioè essa stessa ideologica. Si legge nelle di lui parole solo una certa maniera d'intendere lo scrivere musicale: in sostanza, se Rognoni fosse compositore (ragionando per assurdo, e proprio per assurdo, ché non è certo questa la sua funzione in oggetto), non scriverebbe mai come i neoavanguardisti. Nemmeno dire questo è peccato, basta non illudersi con presunte scientificità - che qui non possono trovare casa - e non confondere i livelli di pensiero: dire, dopo avere invocato la fenomenologia di Husserl, che «nel caso dell'artista la "scienza rigorosa" sta a significare il ritrovamento di una tecnica che corrisponda in modo esatto, "evidente" alla richiesta dell'intenzionalità soggettiva nella relazione col "mondo della vita", contro tutti gli schemi precostituiti» [9], vuol dire mischiare le carte in tavola, perché se abbiamo definito il "ritrovamento della tecnica" come scelta [10], come dogma, deriva che essa non può avere nulla a che vedere con la "scienza rigorosa", che a sua volta non può avere nulla a che vedere con l'artista in quanto tale: l'unico risultato che se ne ricava è la determinazione del fallimento della coerenza intensionale, di quel principio di non contraddizione cui non può rinunciare alcuna teoria che aspiri a divenire - ora sì - scientifica.
Ma i veri problemi hanno ancora da venire.
Segue alla breve dissertazione sul problema della tecnica un'affermazione quanto meno preoccupante circa la natura del dato musicale: «La musica è sempre stata la forma d'arte più svincolata dall'esperienza empirica della quotidianità, slegata da qualsiasi rapporto diretto col "rappresentato" del linguaggio parlato e figurativo, ...» [11]. E qualche dubbio nasce, inevitabilmente! Che la musica sia data da elementi non "visibili", non "figurativi", può essere vero (basta determinare i concetti di visibilità e figuratività), ma questo non legittima certo il dire che per questa ragione essa diventa la forma d'arte più svincolata dalla quotidianità del linguaggio parlato! Ogni forma d'arte è parimenti svincolata dal quotidiano come dalla referenzialità comunicativa. Affermare il contrario significa essere vittima d'un'illusione che, a sua volta, nasce - ed è questo il caso - dall'attribuzione all'arte in genere di qualche cosa che non le è proprio.
Prime avvisaglie di questo equivoco si hanno già nel primo capitolo dove il nostro autore scrive: «Toscanini ha sempre dichiarato di non aver altro merito nel "comunicare" i classici al pubblico se non quello di rispettare scrupolosamente quanto essi hanno fissato nella notazione musicale: basta dunque saper leggere correttamente una partitura musicale, mentre generalmente «i direttori d'orchestra d'oggi fanno a gara per distinguersi l'un dall'altro in modo che si possa dire la Pastorale di X, l'Eroica di Y, dimenticando che il vero autore è Beethoven». Sino a che punto sia vero ciò che afferma Toscanini, dipende, ben inteso, da partitura a partitura, da notazione a notazione, da simbolo a simbolo e dalla loro intelligibilità» [12]. Bene, sia ora sufficiente prendere atto che Rognoni, attraverso la citazione di un esecutore (Toscanini) che esplicita la propria personale poetica e senza troppo esporsi, introduce il concetto del "comunicare".
Ma poi la maschera cade definitivamente quando vi aggiunge del proprio: «Quanto più questo atto dell' "esecuzione" si atterrà all'esattezza del segno, tanto più la comunicazione si attuerà, e tanto più quindi l'entropia della comunicazione diminuirà sino a raggiungere lo stato ideale della corrispondenza tra simbolo e suono. In questo consiste il segreto del grande pianista e del grande direttore d'orchestra» [13]. Comunicazione di che cosa? Quale il messaggio così denso (di così bassa entropia [14]) da consentire il raggiungimento dello "stato ideale" detto? Lasciamo momentaneamente in sospeso queste domande e proseguiamo nella lettura del capitolo che qui interessa.
Il seguito riaccende momentaneamente le nostre speranze: esso infatti presenta poco meno di due pagine in cui il saggista torna sul concetto di intenzionalità. Dopo aver accennato alla "radicalità", fatta propria dalle arti (pittura e musica, ma si potrebbe espandere il ragionamento alle altre discipline), dello sconfinamento dalla tradizionale dimensionalità (fatto oggettivamente comprovabile se si pensa alla temporalità delle famose «serie» pittoriche di Monet [15] o alla spazialità proposta già dalla scuola veneziana di S. Marco con i cori detti "battenti", fino ad arrivare al contemporaneo suono in continuo movimento realizzato attraverso il live-electronics), Rognoni parla del «movimento intenzionale della coscienza soggettiva che si attua nella creazione artistica solo mediante la percezione sensibile» [16] e della necessità, insegnata da Husserl, di sgombrare il campo dalle ovvietà, al fine di non perdere di vista le specifiche funzioni e limiti degli umani sensi (strada che, a lungo andare, potrebbe ricondurre all'illusione dell'opera d'arte totale). E su questo tema della percezione soggettiva e sull'ineluttabilità d'un "io" sempre al primo posto si legge: «Proprio su questo punto è bene insistere, quando si sente da parte di certi musicisti ultraradicali e dei loro esegeti più o meno oscuri, invocare talvolta la fenomenologia di Husserl per avallare operazioni che tengono conto di un mare magnum di implicazioni "tecniche", ma perdono di vista come l'opera d'arte parta sempre dal soggetto e come tale sia essa stessa soggetto, ...» [17]. Benissimo, smettiamo di sbalestrare continuamente il povero Husserl e di fargli dire tutto ed il suo contrario; manteniamoci fermamente ancorati all'apriorità, al tenore eidetico, all'intuitività della descrizione pura ed all'intenzionalità (che nulla hanno a che vedere con le ideologie), proseguendo fidenti nella lettura del testo: «Invece si ha, il più delle volte, l'impressione che anziché di "mezzi espressivi", si ragioni di "materiali" e che l'artista pensi che anziché della propria coscienza soggettiva egli debba partire dalla materia» [18]. Addio benemeriti intenti! Siamo ripiombati nello specifico campo delle poetiche, nel mondo della genesi dell'opera d'arte, irrimediabilmente estraniati dal livello aprioristico del rigore scientifico, dalla contemplazione innocente dell'oggetto «arte». In più, se abbiamo definito l'«intenzionalità» come "direzione" di un fenomeno psichico verso un oggetto, dobbiamo definire l'«intenzionalità negativa» come "direzione" di un oggetto verso una "soggettività": ora, supposto e non dato che ciò sia possibile, potrebbe tale intenzionalità negativa essere discriminante - positivamente o negativamente che sia - del costituirsi artistico? E di rimando, se l'ideologia è inevitabile matrice d'ogni agire umano, quale l'obiezione all'attuarsi artistico di questa "alienazione totale"? In termini fenomenologici, non si capisce e non si comprende.
Da tali presupposti non può che nascere l'equivoco fra mezzi materiali e mezzi ideali, tenuto in piedi dall'assolutizzazione di un determinato punto di vista - tipico della funzione etica e dell'atto ideologico - come, nel caso specifico, quello di Paul Klee: «Eppure un artista come Klee, il cui operare appare tanto analogo a quello di Webern, insegnava a "non impiegare mai mezzi materiali - legno, metallo, vetro - bensì mezzi ideali, mezzi impalpabili, come linea, chiaroscuro, colore"; il che equivaleva a dire i mezzi lessicali propri del linguaggio pittorico, giacché "essi sono esenti da materia, altrimenti con essi non si potrebbe "scrivere"..."» [19]. Ma non è forse vero che nella contemporaneità qualsiasi cosa può essere legittimata ad entrare nell'universo dell'arte? Anche la Merda d'artista ha subito tale processo, figuriamoci! E già tempo addietro l'arte cosiddetta concreta aveva pienamente teorizzato ed attuato il passaggio dal materiale all'ideale di qualsiasi oggetto. Ciò significa che nella nostra cultura opera un qualche sistema (che ad esempio Nanni chiamerebbe "di simbolizzazione artistica") «che fa vivere in senso artistico qualsivoglia entità» [20] (e non si dimentichi che anche Rognoni sembra credere in questo processo di simbolizzazione. Ricordiamo ancora: «In quanto astratto, nella sua essenza, il linguaggio dei suoni non può essere fissato che in segni che hanno valore di "simboli" [21]; ed è di fronte a questi simboli che noi ci troviamo, e non di fronte al suono, quando ci poniamo in rapporto diretto con una partitura musicale» [22]). Parlare quindi di mezzi materiali ed ideali come del tutto indipendenti diviene una corruzione dell'intelletto (ennesima babele in cui incappano orizzonte genetico dell'opera [poetica] ed orizzonte d'uso). È evidente che l'artisticità non risiede nella struttura dell'opera, ma nel suo collocarsi nei luoghi propri dell'arte (musei, teatri, cinema, ecc.), destituzionalizzando la materialità in sé stessa intesa: l'arte è ormai del tutto emancipata da ogni sorta di sperimentazione tecnica o tecnologica, dalle cose e dai materiali, dato che, si riafferma, «qualsiasi materiale e qualsiasi tecnica possono divenire arte (possono essere "idealizzate", per dirla con Rognoni), purché vengano assunti secondo la logica del luogo-arte, della funzione arte» [23]. Negando ciò, non si può «sia a Schönberg, sia a Husserl, un servizio peggiore» [24].
Concentrando quanto finora discusso nella difesa della soggettività come necessario «punto di partenza» [Schönberg] e nel voler «svuotare il più possibile i mezzi espressivi della loro materialità» [Webern] [25], Rognoni rivendica, ora definitivamente, lo stato della musica come "linguaggio". E dopo avere citato Schönberg aggiunge: «...dove l'accento è posto sul "qualcosa" (etwas) e non sui suoni, i quali per sé stessi non esprimono nulla». Allora è forse il caso che ci soffermiamo un momento su questo "linguaggio" e su questa "espressione" del qualcosa, su questa teoria della comunicazione, insomma, che evidentemente (il tema era già stato precedentemente toccato) sottostà a tutta la costruzione teorica di Rognoni [26].
È indubbio
che per riconoscere in un'entità artistica una funzione comunicativa
occorra "riempire" la stessa - autonomamente - con un significato
che l'emittente (autore) vi avrebbe inscritto e che un ricevente
(fruitore, spettatore) dovrebbe semplicemente recuperare: ciò porta
evidentemente a parlare del segno artistico come segno linguistico
d'uso referenziale e, conseguentemente, a definire tutto il processo
(mittente e recettivo) come appunto "linguaggio". Siffatta teoria [27] porta quindi alla determinazione dello stato d'artisticità nella
maggiore difficoltà nella decifrazione del messaggio dell'autore rispetto alla comunicazione
comunemente attuata. Ma se così effettivamente fosse, non si spiegherebbe
la
legittimazione - da parte della coscienza collettiva - dei più disparati
paradigmi critici, cioè non si
darebbe conto di quella caratteristica prima dell'opera d'arte quale è la polisemia.
Se quindi la teoria rognoniana - che potremmo dire intratestuale - non dà ragione dei dati della realtà, dovremmo cercare la causa dell'artisticità non nell'opera stessa, ma al di fuori d'essa: ed in questo "al di fuori" d'essa non vi sono altro che le relazioni fra le "cose" ed i luoghi che le regolamentano. È infatti innegabile che ciascuno di noi decide come interpretare le costruzioni segniche in base ai luoghi in cui si trova [28]. Quindi soltanto l'a priori dei luoghi (istituzioni) determina in che senso utilizzare un'esecuzione sintattico-grammaticale: tornando ad un già citato esempio, è solo l'istituzione "sala-da-concerto" che mi spinge a considerare i «rumori di tram, di motori a scoppio, di carrozze e di folle vocianti» [29] come rumore musicale, come suono rumore - come opera d'arte, insomma - anziché come inquinamento acustico.
Conseguentemente la condanna dell'alea, in cui Rognoni si lancia con tanta veemenza, è fenomenologicamente destituita d'ogni legittimità: «...la musica aleatoria invece aprirebbe una nuova èra, perché ha il coraggio, se occorra, di non essere più nemmeno musica, ma "azione" che elide il consunto rapporto fra opera e ascoltatore e fa dell'ascoltatore stesso una parte vitale, responsabile della creazione artistica. Il livellamento come alienazione del soggetto alla "collettività" (la quale, tra l'altro, così intesa non è che una mera astrazione) si trova pienamente attuato. I risultati si conoscono: la musica che nasce oggi in questa direzione non è che musica da "festival", prodotta unicamente per questa mercificazione e consumo turistico. Essa vorrebbe essere "provocatoria" come lo era (in ben altro senso) quella data del primo Novecento, ma in effetti è "conservativa" in senso reazionario dichiarato, perché la società "colta" acquista volentieri tali prodotti come oggetti di lusso della propria ragione formalizzata. Siamo al punto limite dell'alienazione come totale abdicazione del soggetto al controllo sulla materia, la quale anziché essere dominata dalla tecnica fa della tecnica uno strumento di rivolta contro l'uomo. Proprio l'artista che vorrebbe ribellarsi a questo processo tipico della civiltà industriale capitalistica, finisce con l'accettarlo, nell'illusione di operare all'interno di esso e di disgregarlo; ma in realtà soggiace ad esso. Il prodotto musicale qualitativo che si vorrebbe opporre alla musica ridotta a "persuasore" psicologico dal cinema, dalla televisione, dal mezzo meccanico in genere che la mercifica, finisce col presentarsi in effetti come prodotto brutalmente quantitativo che distrugge nel suono-massa provocato dal "caso" ogni possibilità di parlare ancora un linguaggio musicale significante e comunicante» [30].
Ora, sorvolando sull'infondata determinazione - come s'è cercato di dimostrare - dello statuto musicale come linguaggio «significante e comunicante», pietosamente liberando questa bistrattata arte da giudizi morali di matrice reazionaria o rivoluzionaria che sia (come si usa ancora correntemente fare, anche in sede estetologica o presupposta tale), non si può che nuovamente biasimare a Rognoni un ulteriore slittamento per rilevanza, la costruzione cioè di una pseudo-teoria che non spiega le ragioni della polisemia (artisticità), bensì le toglie di mezzo (atteggiamento etico e non scientifico) attraverso una lettura paradigmatica dell'opera (nello specifico attraverso una lettura data secondo un indirizzo politico che è dato come rilevante). Se l'aleatorietà non è condivisa poeticamente, non è comunque artisticamente invalidata, essendo già stata portata - e non da poco - dalla coscienza collettiva nei luoghi dell'arte.
Giusto poi per piacere di cronaca, constatiamo una "certa qual vaghezza" nell'esprimere «l'immediatezza comunicativa di cui il musicista ha sempre disposto in confronto alle altre arti» [31], quando nella prima pagina del primo capitolo si leggeva (diremmo quasi contraddittoriamente) «...le altre arti entrano in comunicazione diretta [immediata?] con chi le avvicina, mentre la musica deve essere "interpretata" da un esecutore» [32]. E poi, stando al ragionamento del saggista, non dovrebbe essere assai più immediata la poesia, che utilizza come materiale costitutivo proprio ciò che nella quotidianità viene detto "linguaggio" (divenendo quindi essa stessa, interamente considerata, forma di linguaggio "poetico", analoga - ma più densa - a quella del linguaggio "musicale")? E che non sia questo un ennesimo segnale che le ragioni della polisemia non sono da ricercarsi nella costituzione stessa del "testo" (inteso qui, naturalmente, come oggetto che aspira a diventare arte)?
Chiude il capitolo - e con esso la prima parte del volume - un ritorno ad Husserl che sembra finalizzato al sostegno della poco prima esposta idea "sociale" (progressista!) dell'arte, cui è propria «un'esistenza intersoggettiva che è un bene comune... Un'arte che vuol essere arte per gli artisti è un'arte anomala...» [33]; se ciò è vero, non se ne intende il nesso con quella delegittimazione dell'aleatorietà precedentemente tentata che reggeva sull'impossibilità di detta tecnica di «parlare ancora un linguaggio musicale significante e comunicante»: qualora tale capacità comunicante conferisse lo statuto d'artisticità, escludendo quindi il luogo in cui essa si trovasse a vivere, allora l'arte per gli artisti e per i loro salotti sarebbe tutt'altro che anomala, bensì consueta e ordinaria.
In chiusura si torni agli ultimi passi del primo capitolo del saggio: «La musica è il linguaggio più interiore e segreto dell'uomo, perciò è il più libero e per questo il più difficile da "comunicare": un esecutore è tanto più perfetto quanto più sa decifrare questo segreto nei segni e oltre i segni, mettersi in comunicazione con esso e comunicarlo agli altri. "L'arte è un mezzo di espressione perfettamente adeguato al sentimento della vita, mentre tale non è la metafisica", ha scritto Carnap. Potremmo concludere che molti esecutori che "ricreano" quando suonano, fanno della metafisica, poiché "forse è la musica che esprime il sentimento della vita con i mezzi più puri, giacché è completamente libera da tutto ciò che è obiettivo"» [34].
Potremmo concludere che molti pensatori «ricreano» quando teorizzano e fanno della metafisica, poiché forse è la loro propria poetica che esprime un parziale punto di vista, giacché è completamente libera da tutto ciò che è obiettivo.
E la fenomenologia che c'entra?