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Un Edipo del futuro

Conversazione con Roberto Gucciardini sulla messinscena di Edipo Re di Sofocle al Teatro Greco di Siracusa

di Salvo Bitonti

Bitonti - Roberto, ritorni al Teatro Greco di Siracusa dopo l’esperienza de Le Rane di Aristofane ed Elena di Euripide degli anni settanta. Due spettacoli, ricordo, particolarmente innovativi, per soluzioni registiche e scenografiche. Le Rane aristofanesche (1976) si avvaleva della traduzione di Benedetto Marzullo e dell’interpretazione protagonistica di Tino Buazzelli. Una regia che sapeva cogliere la causticità della parola di Aristofane e i suoi echi anche contemporanei. La scena (di Giorgio Panni) era un grande ovale translucido, di effetto simbolico che creava straniamento ed evidenziava doppiezze ed ambiguità dei personaggi, mentre faceva risaltare la sacralità del monumento antico. In Elena (1978) lo spazio scenico era sgombro, come per l’Edipo Re di oggi, un grande impiantito ligneo dove creavi un Egitto più fantastico che reale(scene e costumi di Lorenzo Ghiglia) e la regia sembrava sottendere, al lieto fine della fabula euripidea, realtà più dolorose ed amare come i traumi della guerra di Troia. Come affronti nuovamente una regia in questo affascinante ma complesso spazio?

Gucciardini - Ho continuato ad occuparmi negli anni, della tragedia greca seppure nella sua accezione di rivisitazione contemporanea. Ricordo nei primi anni ottanta un Antigone di Sofocle-Brecht per il Gruppo della Rocca o l’Empedocle di Holderlin di Segesta. Ma in realtà la tragedia greca si frequenta poco nel nostro teatro, se non negli spazi dei teatri greci classici, di cui Siracusa è il massimo esempio. Solo questi spazi forse ti permettono di inventare una drammaturgia moderna che possa far comprendere il significato della tragedia antica. Molte cose sono cambiate e il nostro modo di pensare non può essere quello di duemila anni fa.
 La messinscena moderna si deve basare essenzialmente in un confronto critico fra il nostro pensiero e quello greco classico, ricercando i punti di contatto che facciano scaturire la vitalità ed attualità dei problemi della tragedia stessa.

B. - Alcuni registi contemporanei, come ad esempio Luca Ronconi, hanno lavorato sulla tragedia greca tenendo presente una presunta indecifrabilità e oscurità dei significati della tragedia stessa. Cosa pensi di ciò?

G. - Direi che il tasso di oscurità fa parte del suo fascino, esercita un grado di provocazione e di coinvolgimento, mette in moto dei meccanismi di ricezione. Apre la curiosità del confronto fra quel tempo e la nostra civiltà, lungo percorsi tortuosi, ma comunque, in qualche modo, collegati e persistenti. Occorre poi rapportarsi sempre al periodo storico in cui la tragedia greca si è sviluppata. Ritengo che la situazione della polis greca all’epoca di Edipo Re abbia molti punti di contatto con il nostro presente. Era all’acme del suo fulgore ma era anche attraversata da terribili cataclismi, come ad esempio la peste di Atene.

B- Mi sembra proprio che la peste di Atene del 430 a.C e di cui certamente Sofocle dovette pensare nella scrittura dell’Edipo Re, un quindicina d’anni più tardi, sia uno degli elementi fondamentali nell’ideazione registica dello spettacolo. La peste che Sofocle chiama loimòs
 (fango, miasma) è costantemente presente nello svolgimento dello spettacolo stesso, divenendo un elemento protagonistico; questo a differenza di molte interpretazioni sceniche contemporanee, dove la peste rimaneva sullo sfondo.

G- Quando ho letto Edipo Re per la prima volta, la peste fu la prima suggestione che mi colpì.
 Spesso l’interpretazione di un testo nasce per intuito e si cerca di salvare la prima impressione che si è avuta alla lettura. Ho anche sognato questa situazione di peste, i cadaveri sparsi dappertutto … E stata la prima immagine che è poi rimasta sottesa al clima della tragedia e sulla quale si è articolato l’ordito della trama. Ho voluto cercare la motivazione storica che sottende la scrittura della tragedia.

B. - Opportunamente quindi la scena (di Piero Gucciardini) che ricopre l’orchestra e una parte del proscenio del teatro antico, con un materiale ferroso, quasi un grande scudo poggiato sulle pietre, rappresenta simbolicamente ma anche concretamente la devastazione della peste; Essa è ingombra di cadaveri che sembrano ricordare i calchi di gesso delle vittime di Pompei; è un mondo che ha subito una distruzione totale da cui si tenta di costruire una nuova realtà, un nuovo ordine. Questa soluzione scenografica, molto vicina ad una installazione contemporanea, potrebbe vivere di vita autonoma anche senza lo spettacolo.

G. - Conservando quella prima impressione, ho immaginato la storia di Edipo Re come una sorta di grande incubo che ci può toccare ancora oggi da vicino; una sorte di ossessione contemporanea, su un piano visionario. Per questa suggestione scenica, qualsiasi costruzione architettonica sarebbe stata impropria. In realtà questa scenografia è fuori dal tempo e dalla storia e tuttavia entra dialetticamente in rapporto con le pietre e la storia stessa del teatro. Mentre i costumi (di Lorenzo Ghiglia) seguono una chiave più onirica e una certa deformazione stilistica, anche con l’uso di materiali sovrapposti, quasi incrostati.

B. - Lo studioso francese di psicologia storica Jean Paul Vernant, nel suo saggio Edipo senza complesso (in Mito e tragedia nell’antica Grecia, trad ital., 1976), affermava che nulla vi era di più lontano dall’interpretazione freudiana di Edipo nella tragedia di Sofocle. Cosa pensi dell’interpretazione freudiana di Edipo, così cara all’interpretazione teatrale contemporanea?

G. - Al di là dell’interpretazione freudiana relativa ad Edipo, la vicenda stessa nel suo procedere ha un andamento psicoanalitico, come ricerca di una verità latente. Ha dunque la struttura di una seduta psicoanalitica. Edipo è fondamentalmente innocente, ma ci sono delle colpe interne che sedimentano al di sotto della realtà umana e che l’indagine sofoclea porta alla luce.

B. - A proposito del concetto di colpa e innocenza, mi pare che il lavoro che si sta svolgendo con Sebastiano Lo Monaco, sulla costruzione del personaggio di Edipo, tenda ad evidenziare alcuni riferimenti cristologici nella stessa figura e storia di Edipo; questi riferimenti, ad esempio, sono stati intuiti teatralmente da Jan Kott, nella figura del Dioniso de le Baccanti euripidee, come egli evidenzia nel suo famoso saggio Mangiare Dio (1976), ma appaiono inconsueti in Edipo Re. Quali punti del testo pensi possano avere qualche assonanza con questo tipo di interpretazione?

G. - Entrano in giuoco nel mito che l’uomo si costruisce per trovare delle ragioni alla sua esistenza.
 La concezione del capro espiatorio ha senso anche oggi: si demanda ad altri la responsabilità di quanto accade per riuscire a superare un momento di crisi o di follia che invade la nostra vita. Il fatto di demandare ad altri la funzione della “redenzione” è il fulcro della concezione cristiana. Edipo è una sorta di capro espiatorio. La città alimenta senza saperlo, in modo inconscio, il tarlo del male che già esiste al suo interno ed attribuisce poi la responsabilità ad una sola persona che ne assorbe le colpe. Edipo è a suo modo un redentore. E quando si allontana sanguinante e accecato, porta via il male che ha inferto alla città. Ma è anche vero che Edipo ha infranto due grandi tabù, quali l’incesto e il parricidio ed ha quindi come personaggio, una grande forza eversiva. I riferimenti cristologici non sono voluti ma semplicemente suggeriti.

B. - La stessa malformazione acquisita da Edipo ovvero i suoi piedi forati alla nascita, potrebbero far pensare ad una sorta di martirio, a delle stigmate.

G. - Il confronto con un’ altra civiltà comporta sempre una serie di analogie. Il tessuto della tragedia greca supporta questo ed altro e si proietta nel futuro. Noi non siamo ciechi come Edipo, ma spesso possiamo vivere nella cecità senza accorgercene. Ed ecco anche il valore di Edipo come paradigma della nostra condizione umana.

B. - Mi sembra poi che all’interno della messinscena rivesta forte significato il coro come elemento magmatico in continuo divenire, grazie al lavoro coreografico di Michele Abbondanza, già allievo della coreografa e ballerina americana Carolyn Carlson, che basa il suo lavoro su una destrutturazione fisica del corpo dell’attore.

G. - Il coro non è solo testimone o spettatore, patisce con Edipo, ne subisce il carisma regale o vi si oppone. Insomma è compartecipe. Stabilisce una sorta di conflittuale empatia, ed esso si esprime con la violenza del gesto. Non abbiamo adottato gli stilemi tradizionali del coro greco, ma pensato piuttosto ad un’opera di individualizzazione al suo interno. I coreuti principali agiscono come singoli personaggi e ciascuno evidenzia il proprio sguardo sulla vicenda. Sono cittadini di Tebe che esemplificano il loro stato d’animo in un momento di crisi della città.

B. - La ricerca sonora dello spettacolo, a cura di Dario Arcidiacono, mi sembra indirizzata verso un percorso emozionale, dove troviamo echi della tradizione mediterranea con una libera reinvenzione musicale che va dai canti greci bizantini ad afflati sinfonici fino a “campioni” ipertecnologici.

G. - Ciò è in rapporto diretto con l’idea di realizzare non tanto uno spettacolo limpido e didascalico, quanto piuttosto uno spettacolo legato all’emozione, all’immaginazione e alla visionarietà.

B. - Ritornando alla linee fondamentali della regia, mi pare che tu abbia inteso porre in particolare evidenza la conflittualità tra il mondo del razionale e quello dell’irrazionale, che alla fine sembra imporsi con la sconfitta di Edipo.

G. - Edipo è il rappresentante della razionalità. E’ un uomo fiducioso nella sua intelligenza, la stessa intelligenza che gli ha permesso di sconfiggere la sfinge; ma la sfinge, per quello che rappresenta, gli è rimasta incollata addosso. La vittoria non è conclusa, ha lasciato incrostazioni nelle pieghe del suo carattere. La sfinge è il simbolo dell’irrazionale contro cui Edipo combatte. Ma la sua fiducia nella ragione e nella coscienza viene frantumata e scissa dall’irrompere dell’inconscio. Il mondo non sembra più essere codificabile con la sola indagine, e non può essere modificato; gli dei sembrano essere assenti o inviano messaggi ambigui e l’uomo si sente solo.

B. - La solitudine di Edipo, il suo cammino da primo a ultimo uomo del mondo, è qui evidenziata anche dall’uso di una traduzione classica del testo, quella poetica di Salvatore Quasimodo.

G. - La profondità di pensiero e lo straordinario senso ritmico del testo sofocleo è assai difficile da tradurre. Ci sono altre traduzioni, forse più aderenti all’originale. Ma la versione di Quasimodo ha lo status della poesia antica mediata da una sensibilità moderna ed è questo il motivo della scelta.

B. - La scelta degli attori, mi pare verta verso una direzione di verità e di contemporaneità di interpretazione.

G. - Durante le prove ciascun attore lavora concentrandosi sul centro focale dell’emozione all’interno di ogni singola battuta e cercando poi di trasmettere questo punto con verità, evitando i rischi della declamazione. Non mi interessare una consequenzialità di psicologia , anzi cerco scarti veloci fra le emozioni diverse che devono evidenziate nella loro imprevedibilità. Sebastiano lo Monaco, giunto a un grado notevole di maturità attoriale, è capace di trasmettere l’ampio spettro emotivo del personaggio in maniera evidente, grazie alla sua prepotente presenza scenica. Francesca Benedetti, nel ruolo di Giocasta, partecipa lo sgomento dell’infelice regina di fronte al silenzio degli dei e dimostra il suo disperato coraggio nell’affidarsi al caso in un mondo desolato in cui non ha più senso formulare domande. Creonte, il giovane Claudio Mazzenga, esprime l’alterigia del potere, rappresenta un oscuro futuro politico, in cui potrà verificarsi l’avvento di una chiusa oligarchia.

B. - Per il momento della veggenza, all’interno dello spettacolo, hai voluto la presenza carismatica di un attore come Mario Scaccia, che è Tiresia.

G. - E’ veramente l’irruzione dell’irrazionale nella vita quotidiana; è una presenza al di là del tempo e della storia. Tiresia non ha potuto impedire l’uccisione di Laio ne ha potuto debellare la peste. Non incide sul corso degli eventi, può solo commentarli o immaginarli. Appartiene ad una civiltà ancestrale circoscritta in se stessa, che può provocare solo terrore o sgomento ma non può intervenire sulla realtà. Chi meglio di Mario Scaccia avrebbe potuto interpretare questo ruolo intriso di ambiguità?

 * L’Edipo Re di Sofocle è andato in scena per il XL Ciclo di Rappresentazioni Classiche al Teatro Greco di Siracusa il 14 Maggio 2004, con la regia di Roberto Gucciardini, e la seguente distribuzione artistica nei ruoli principali: Edipo Re, Sebastiano Lo Monaco; Giocasta, Francesca Benedetti; Creonte, Claudio Mazzenga; Tiresia,Mario Scaccia; Pastore di Corinto, Ettore Conti; Pastore di Laio, Giacinto Ferro; Nunzio, Igor Horvath;
 Sacerdote di Zeus, Bindo Toscani;Corifeo, Adriano Evangelisti; Una donna di Tebe, Maria Rosaria Carli; Un uomo di Tebe, Davide Sbrogio’; Altro uomo di Tebe, Mario Parlagreco. Traduzione di Salvatore Quasimodo, scene Piero Gucciardini, costumi Lorenzo Ghiglia,
 movimenti scenici Michele Abbondanza, musiche a cura di Dario Arcidiacono, luci Luigi Ascione.
 Il presente testo è anche pubblicato nel Programma di Sala, XL Ciclo di Rappresentazioni Classiche 1914/2004, INDA, Siracusa, 2004

 

 

 

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