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SEMINARIO

ALLA RICERCA DELL'INVISIBILE

NELLE POETICHE DELLE AVANGUARDIE STORICHE

2002/2003

IL LINGUAGGIO DELLA CRUDELTÀ.

Artaud

di Daniela Vola

Lettere a Rivière.

 Antonin Artaud, poeta autentico ed estremo, artista poliedrico, ricco di idee e sempre osteggiato nella realizzazione, elabora attraverso una grande varietà di mezzi espressivi un processo di rigenerazione del linguaggio, un congegno di comunicazione che produce choc e poesia crepitante che incendia il linguaggio ufficiale.

Carlo Pasi individua nella corrispondenza che Artaud intrattiene con Jacques Rivière (direttore de "La nouvelle revue française") nel 1923-24 la prima manifestazione del dissidio tra pensiero e linguaggio, dissidio che precipiterà in forme sempre più deliranti fino al raggiungimento di una condizione-limite in cui la scrittura di Artaud diviene diretta espressione di un corpo sofferente e di una condizione mentale a picco sulla follia.

E' il "dolore di dire", provocato da una ferita profonda tra la lingua ormai usurata e il pensiero, che impedisce l'espressione. Artaud ne soffre, vuole reagire, ingaggiare una battaglia contro le concettualizzazioni astratte del linguaggio razionale per riaffermare sulla scena della rappresentazione i linguaggi umiliati, repressi-oppressi della malattia, del disordine, della follia.

Nella comunicazione quotidiana fra uomini il segno non è qualcosa ma sta per qualcosa d'altro. Inevitabilmente si verifica l'appiattimento della parola sul significato, causato dal suo asservimento alla sola funzione comunicativa.

Le parole infatti non riescono più ad esprimere il pensiero, lo bloccano, costringendolo in ambiti separati, in categorie che lo condannano all'erosione.

La lingua non è più espressione, ma freno, costrizione del pensiero. Conseguenza di questo processo è che la cultura nel suo insieme prevarica la vita, detta legge alla vita invece di essere mezzo per comprenderla ed esercitarla.

Già nelle lettere piene di trasporto, indirizzate a Rivière per ottenere la pubblicazione di alcune poesie, emerge la volontà di Artaud di spezzare il linguaggio ufficiale per raggiungere la vita, rifiutare i limiti che l'uomo impone al proprio potere espressivo, allargare infinitamente i confini della cosìddetta "realtà".

«.Voglio fare un libro che confonda gli uomini, una porta aperta che li immetta dove mai sarebbero voluti arrivare, una porta in comunicazione con la realtà.»[1]

Rivière continua la corrispondenza con Artaud, in un certo senso lo incoraggia, ma rifiuta di pubblicare le poesie giudicando il linguaggio troppo "acerbo e violento".

Una tale incomprensione scatena nel poeta una forza reattiva che si incanala in una conquista di creatività, in una rivendicazione del diritto alla vita dell'uomo sofferente e della sua parola: «Je suis un homme qui a beaucoup souffert de l'esprit et à ce titre j'ai le droit de parler»[2].

Forzare la barriera ineludibile del silenzio è certo un grande sforzo, ma diviene l'unico modo possibile di affrontare il dramma psico-fisiologico che colpisce il poeta suppliziato.

Il margine di interesse "epistolare" che Rivière gli concede, nonostante il rifiuto, diventa spazio per un'indagine nelle profondità della propria psiche e del rapporto tra pensiero e linguaggio.

In uno dei suoi attenti studi su Artaud, Carlo Pasi attribuisce grande valore letterario e biografico alla Correspondance:

«La Correspondance sviluppa una forma di autoanalisi stimolata dalla struttura dialogica della lettera. Come se la discesa nei meandri della psiche avesse poi bisogno di disporsi in una dinamica dialettica per trovare la giusta misura della comunicazione, affiorare ad una coscienza che si offre e che si dice. La Correspondance infatti appare come la ricerca di una sintesi espressiva che concili l'intrico solitario del linguaggio interiore con la linearità dello scambio verbale: un riportare alla superficie lo scavo chiuso, ingolfato dei labirinti della psiche. Le intuizioni simultanee, le rapide accensioni interne riescono a superare la soglia embrionale, nella formalizzazione richiesta dall'altro da sé. Rivière diventa lo specchio in cui infrangere i propri tormentati percorsi. Se da un lato si salvaguarda così la libertà di scandaglio senza blocchi o condizionamenti esterni, dall'altro è la presenza di un interlocutore a favorire l'organizzazione consapevole di flussi sotterranei o magmatici»[3].

Il pensiero è impedito ad articolarsi in linguaggio. Artaud si accorge con dolore che il pensiero l'abbandona e scrive a Rivière di una confusion dans sa langue[4].

Lo stato d'animo di confusione non è che la spia di un generale smottamento nei meccanismi alla base della pratica comunicativa. Qualcosa sta franando, rivelando che alla crisi del pensiero è sottesa una "crisi fisiologica". Le radici organiche alla base dei meccanismi ideativi sono state intaccate. Non si possono più presentare idee in forma inerte. E' necessario un linguaggio che recuperi le scosse, le percezioni minimali al di sotto del pensiero. Emerge l'esigenza di una sintesi superiore che riveli l'essere nella sua totalità: alto-basso, spirito-materia, pensiero-corpo.

È necessario restituire alla parola la sua arcaicità, la sua materialità, esorcizzare in tutti i modi la distanza tra realtà e segno.

Tutto questo è espresso da Artaud nella vivace corrispondenza con Rivière che non gli varrà la pubblicazione, ma gli offrirà uno spazio per la ricognizione delle proprie intenzioni letterarie e favorirà il passaggio dal silenzio alla ricerca delle risorse dimenticate del linguaggio; ricerca instancabile condotta a forza di scosse e strappi nella lingua francese, la lingua madre che non può più esprimere la sofferenza e la gioia di stare al mondo di suo figlio Antonin.

La genesi del nuovo linguaggio è un'esperienza articolata in cui corpo e testo si confondono intensificandosi a vicenda.

«Niente mi tocca, niente mi interessa se non si rivolge direttamente alla mia carne. A questo punto mi parla del Sé. Gli ribatto che l'io e il sè sono due termini da non confondere, e sono esattamente i due termini che si bilanciano nell'equilibrio della carne»[5].

Tutto quello che passa attraverso la carne è una sorta di linguaggio preverbale, capace di esprimere una sensibilità che non riesce a trasformarsi in comunicazione quotidiana, ormai ridotta ad uno scambio di informazioni e opinioni che "sterilizza" il pensiero.

Artaud elabora il "linguaggio originario della carne", un sistema che cerca disperatamente di trasformarsi; di stabilire un'espressione, basandosi sul fatto che la mente esiste solo ai limiti del corpo, su una superficie fragile.

«.Io non sapevo proprio cosa fossero

lo spazio

la possibilità,

e non provavo il bisogno di pensarci;

trattandosi di parole

inventate per definire cose

che esistevano

ma solo di fronte

a un bisogno urgente

e pressante:

quello di sopprimere l'idea,

l'idea e il suo mito

e di far regnare al loro posto

la manifestazione tonante

di questa esplosiva necessità:

dilatare il corpo della mia notte interiore,

del nulla interiore

del mio io

che è notte

nulla,

opacità,

ma che è esplosiva affermazione

che esiste

qualcosa

a cui fare posto: il mio corpo»[6].

Grazie all'eclettismo artistico ed alla lucida coscienza di emarginato che lo contraddistinguono, il poeta può finalmente dare voce alle pulsioni oscure che fino ad allora sembravano intralciare il lavoro della scrittura. Il linguaggio da lui elaborato sembra evocare distruzione, perdita, dolore, ma rientra in un sistema di tensione del corpo che Deleuze vede come lotta "salutare" tra forze del desiderio.

Un desiderio, più potente e crudele degli altri in questa lotta, mette in atto una vera e propria disorganizzazione del corpo, e dunque del linguaggio nella sua struttura più tradizionale. Si tratta di «.un desiderio arcaico, rammemorante, che nella sua potenza sfida il giudizio e si beffa di ogni confessione.»[7].

Se gli è negata l'espressione non muore, ma esercita la propria forza sul corpo in un assalto, sviluppando un sintomo privo di linguaggio che fa versare il corpo in una sorta di scacco o rinuncia.

Il corpo-desiderio e la dottrina del giudizio

Per farla finita con il giudizio, saggio della raccolta Critica e clinica, porta un titolo artaudiano, e contiene in una sintesi efficace molti dei motivi più significativi della ricerca di Deleuze. Egli parte dalla constatazione dell'istituzione di un vero e proprio tribunale, una vera e propria dottrina del giudizio, che caratterizza il corso di pensiero che dalla tragedia greca perviene alla filosofia moderna.

«Il giudizio non è apparso su un suolo che ne avrebbe favorito lo sviluppo; ci è voluta rottura, biforcazione. E' stato necessario che il debito venisse contratto con degli dei. E' stato necessario che il debito non fosse più in rapporto a forze di cui eravamo depositari, ma in rapporto a divinità che si considera ci diano tali forze. La dottrina del giudizio prevede che l'esistenza sia suddivisa in lotti e distribuita da Dio agli uomini. Gli affetti distribuiti in lotti sono rapportati così a forme superiori»[8].

Il Cristianesimo dal suo avvento esercita una nuova forma di potere sulla società, in quanto appalta il destino umano al giudizio divino attraverso la dottrina del giudizio. Questa è costituita da quella infinità del debito a cui corrisponde l'affermazione dell'immortalità dell'anima, che fa così del giudizio l'"ultima istanza" per l'uomo.

Il primo grande critico di tale corso, colui che ha inventato la "vera" critica del giudizio (a differenza di quella kantiana che per Deleuze instaura un tribunale soggettivo), è Spinoza, che rompe senza possibilità di recupero con la tradizione ebraico-cristiana. In questa prospettiva critica, Spinoza ha avuto quattro discepoli ideali: Nietzsche, Lawrence, Kafka e Artaud, autori che hanno provato direttamente sulla loro pelle la prepotenza del giudizio, la sua terribile violenza.

Fondamentale è l'analisi nietszschiana della condizione del giudizio, identificata nella coscienza dell'uomo cristiano di avere contratto dalla nascita un debito impagabile verso la divinità. «L'uomo non si appella al giudizio; è giudicabile e giudica solo in quanto la sua esistenza è sottoposta a un debito infinito. L'infinità del debito e l'immortalità dell'esistenza rimandano l'una all'altra per costruire la dottrina del giudizio e la sua tirannia»[9].

«Non che sia il giudizio in sé ad essere differito, respinto all'infinito, ma è l'atto di differire, di spingere all'infinito, che rende possibile il giudizio: questo deriva la sua condizione dalla supposizione di un rapporto fra l'esistenza e l'infinito nell'ordine del tempo. A chi si trova in questo rapporto è dato il potere di giudicare e di essere giudicato.

Anche il "giudizio di conoscenza" racchiude un infinito dello spazio, del tempo e dell'esperienza, che determina l'esistenza dei fenomeni nello spazio e nel tempo, "tutte le volte che."; ma la dottrina del giudizio è limitante in quanto implica una forma teologica e morale primaria, a partire dalla quale l'esistente è identificato come ciò che ha un debito con Dio»[10].

In questa situazione niente si pone più al di fuori del giudizio e «ogni giudizio verte su un giudizio, abbraccia e controlla tutto come un sogno avvolgente. Il mondo del giudizio si installa come un sogno, attraverso una organizzazione concreta dei corpi»[11].

Deleuze oppone al sogno del giudizio la concretezza della giustizia, che prevede che le parti in causa si confrontino e si risarciscano sulla base di "rapporti finiti" di ciò che costituisce il corso del tempo.

Egli esalta Nietzsche perchè vede come primario (in ogni relazione di scambio) il rapporto creditore-debitore, quando considera la promessa come inizio della relazione e coglie nel debito non tanto una cattiva disposizione nei confronti di un Dio, ma l'effetto, nei riguardi di un partner, di forze che attraversano le parti, provocando in esse un cambiamento di stato, un affetto. L'anticipazione prodigiosa di Nietzsche, rispetto a testi etnografici successivi, consiste nel rilevare «. l'esistenza di una giustizia che si esprime nel marchio dei corpi, nella scrittura del debito sul corpo, secondo blocchi finiti che circolano in un territorio. C'è un diritto che si muove senza sosta, tra corpi che devono pareggiare i conti (restituire o riprendere il sangue) che esprimono, con i loro segni terribili, crediti e debiti»[12].

Da Nietzsche ad Artaud, Deleuze segue la costituzione di un vero e proprio sistema della crudeltà, che vede una scrittura di sangue e di vita contrapporsi alla dottrina "mummificata" del giudizio e alla prigione del suo conto infinito.

«Il sistema della crudeltà enuncia i rapporti finiti del corpo e le forze che lo investono, mentre la dottrina del debito infinito determina i rapporti dell'anima immortale con dei giudizi. E' il sistema della crudeltà che dappertutto si oppone alla dottrina del giudizio»[13].

Al corps morcelé[14] , il corpo suppliziato dal giudizio, Artaud oppone il corpo del sistema fisico, vitale e vivente, che non vuole essere ridotto a semplice organismo, a corpo organizzato e reso veicolo del giudicare divino. Se il giudizio si esercita attraverso gli organi, bisogna liberarsi degli organi, anche a costo della distruzione.

«L'uomo è malato perché è formato male.

Bisogna decidersi a metterlo a nudo per grattargli

via questa piattola che lo rode a morte

Dio

e con Dio

i suoi organi,

tutti i suoi organi.» [15]

La vitalità irriducibile è finalmente restituita al corpo nella presentazione del corpo senza organi: un corpo affettivo, intensivo, anarchico, anonimo, senza soggetto, con cui Artaud "rimpiazza" quello sottrattoci da Dio.

Il c.s.o. è un campo mutante che comporta solo poli, zone, soglie e gradienti ed è attraversato da una "potente vitalità non organica", da affetti organici diversamente potenti. La vitalità non organica è il rapporto fra il corpo e delle forze o potenze impercettibili che se ne impadroniscono, o di cui esso si impadronisce. Eliogabalo, personaggio anarchico dell'omonimo romanzo, è la dimostrazione di questo scontro delle forze e delle potenze; ecco come Artaud lo descrive :

«Eliogabalo si lascia pervadere da ritmi, canti, odori e idee molteplici; e viene il giorno in cui tutto questo si raccoglie, in cui il sangue del sole monta come rugiada nella sua testa, e ogni goccia di rugiada solare diventa un'energia e un'idea»[16].

Farsi un corpo senza organi, trovare un c.s.o. è la maniera di sfuggire al giudizio. Era già un progetto di Nietzsche definire il corpo attraversato da intensità, in divenire.

Artaud mette a punto il c.s.o. non come astrazione o concetto, ma come "insieme di pratiche" legate all'intensità. La metafora più eloquente per definire questa "materia-matrice" d'intensità è l'uovo, in quanto precede l'estensione dell'organismo e l'organizzazione degli organi. L'uovo pieno non conosce forme ma solo forze, intensità. Niente può interrompere il movimento perpetuo di questa energia, niente può ostacolare l'emissione permanente di "correnti del desiderio" come scaturiscono dal c.s.o.

Dato che la produzione della tirannia degli organi avviene sempre con l'appoggio di un'estetica narcisistica che vuole cancellare la vita, la "nuda vita", Artaud lega la produzione del c.s.o. ad un processo di necessaria differenziazione:

«Per esistere è sufficiente lasciarsi andare a essere,

ma per vivere,

bisogna essere qualcuno,

bisogna pure avere un OSSO,

non aver paura di mostrare l'osso,

e rischiare di perdere la carne»[17]

Senza alternativa l'uomo deve disfarsi dell'organismo, non è una questione di strategia, ma di sopravvivenza. Si tratta di un'esperienza in cui si rischia la pelle e.la carne.

Deleuze sottolinea come dal personaggio di Eliogabalo risulti un altro tassello che compone il sistema della crudeltà: la lotta che prende il posto del giudizio, "il combattimento fra". In questo combattimento la lotta avviene "fra le proprie parti, fra le potenze che esprimono quei rapporti di forza": è il combattente stesso a definirsi come combattimento.

Artaud (e Nietzsche prima di lui) sostiene il principio che tutto ciò che è buono non può che provenire dalla lotta, dal conflitto. "Bisogna distinguere il combattimento contro l'Altro e il combattimento fra di sé. Il combattimento-contro cerca di respingere una forza o di distruggerla, mentre il combattimento-fra è il processo attraverso il quale una forza si arricchisce impadronendosi di altre forze e congiungendosi con loro in un divenire.

Invece nella guerra la volontà di potenza esprime una volontà che vuole la potenza sotto forma di dominio: già Nietzsche, Lawrence e Artaud vedono in ciò il grado più miserabile della volontà di potenza. La lotta non ha bisogno di passare attraverso questo "imperialismo della morte"; perché è "quella potente vitalità non organica che completa la forza con la forza e arricchisce ciò di cui si impadronisce ".

Il combattimento è un modo di farla finita con Dio e con il giudizio, in quanto è una delle cinque caratteristiche che contrappone l'esistenza, con le sue ragioni plurali, alla mortificazione del giudizio:

1. la crudeltà che si oppone al supplizio infinito dell'espressione

2. il sonno o l'ebrezza contro il sogno

3. la vitalità che si oppone all'oganizzazione

4. la Volontà di potenza contro la volontà di dominio

5. il combattimento salutare tra forze contro la guerra

La parola al teatro della crudeltà

Il teatro della crudeltà, teorizzato a lungo da Artaud ma mai portato effettivamente sulle scene, doveva essere il luogo della violenza sacrificale, anatomica, "perpetrata sui corpi per distruggerli.", dove alla distruzione segue la rigenerazione attraverso nuove modalità di rappresentazione.

«Io non coltivo sistematicamente l'orrore. La parola "crudeltà" deve essere intesa in senso lato e non nell'accezione fisica e rapace che abitualmente le si attribuisce. Del resto che cos'è la crudeltà in termini filosofici? Dal punto di vista dello spirito, crudeltà significa rigore, applicazione e decisione implacabile, determinazione irreversibile, assoluta. Crudeltà non è sinonimo di versamento di sangue, di carne martoriata, di nemico crocifisso. Questa identificazione della crudeltà con le torture è un aspetto decisamente secondario della questione. La crudeltà è prima di tutto lucida, è una sorta di rigido controllo, di sottomissione alla necessità»[18].

«Uso il termine crudeltà nell'accezione di appetito di vita, di rigore cosmico, di necessità implacabile, nel significato gnostico di turbine di vita che squarcia le tenebre, nel senso di quel dolore senza la cui ineluttabile necessità la vita non potrebbe sussistere; il bene è voluto, è la conseguenza di un atto, il male è permanente »[19].

Il poeta-attore vuole uscire dall'indistinto, dalla confusione, cercando la verità con rigore, ad ogni costo, per "ripossedere" finalmente corpo e linguaggio. Dunque fa del teatro uno spazio terapeutico dove tentare una guarigione possibile attraverso la ricerca di un'espressione totale.

«La teatralità deve restaurare ed attraversare da parte a parte "esistenza" e "carne"»[20].

Il progetto è di mettere in scena la vita in quanto "origine non rappresentabile della rappresentazione".

«.Il teatro deve farsi uguale alla vita, non alla vita individuale, a quell'aspetto individuale della vita in cui trionfano i caratteri, ma a una sorta di vita liberata, che spazza via l'individualità umana e in cui l'uomo non è più che un riflesso.»[21].

La parola cessa di dominare la scena per descrivere i personaggi ed i loro caratteri ma resta presente. Vi occupa un posto rigorosamente determinato, ha una funzione entro un sistema in cui sarà ordinata.

Il teatro della crudeltà intende ridimensionare il valore del copione tradizionale, in cui le parole ambiscono ad essere un dettato, «insieme citazione, recitazione e ordine»[22].

Il regista e l'attore non riceveranno più un copione-dettato. «Rinunceremo alla superstizione teatrale del testo e alla dittatura dello scrittore»[23].

Anche la dizione perde la sua importanza storica, perché trasforma la recitazione in un esercizio di lettura.

La parola e la scrittura, spogliate di un ruolo primario, possono ancora funzionare sulla scena del teatro della crudeltà? Sì, a patto che "imparino a convivere con il gesto".

La sequenza dominante del pensiero logico-discorsivo, che fa assumere alla parola la sua trasparenza razionale e dissolve il suo corpo in direzione del senso, sarà abbandonata in favore di un'attenzione per la materialità, la sonorità, l'intonazione e l'intensità della parola stessa.

C'è un ritorno alla genesi della parola, quando questa non è più grido ma non è ancora "fantasma del concetto".

Saltano le separazioni tradizionali tra concetto e suono, tra significato e significante, tra pneumatico e grammatico. Un tale sovvertimento permette una concezione più libera della traduzione, che segue il movimento dell'interpretazione.

Si tratta dunque di costruire, più che una scena muta, una scena il cui clamore non si sia ancora placato nelle parole. Le parole sono il cadavere della parola psichica e Artaud si propone di ritrovare, con il linguaggio stesso della vita, la Parola di prima delle parole.

La scrittura teatrale coprirà tutto il campo di questo nuovo linguaggio preverbale: non soltanto scrittura fonetica e trascrizione della parola, ma scrittura "geroglifica", scrittura nella quale gli elementi fonetici si coordinano a elementi visuali, pittorici, plastici. Cambiare la destinazione della parola al teatro, ridare vita al segno, questo preme ad Artaud.

«Adopero le parole insieme agli oggetti e agli elementi dello spazio, come immagini, facendo sì che si rispondano a vicenda secondo le leggi del simbolismo e delle analogie viventi. Leggi eterne che sono quelle di ogni poesia e di ogni linguaggio vitale.»[24].

La ricerca del "segno vivente" si orienta verso un elemento che renda il segno credibile e concreto[25] ; lo trova nel grido, che sprigiona forte carica emotiva al variare delle intonazioni. Inserito tra le parole, sembra invocare la verità al prezzo della sofferenza, mettendo in atto una sollecitazione emotiva dello spettatore sregolata ed eccessiva, senza argini.

Il segno credibile e il segno concreto sono specie particolari, mutazioni estreme, ma rientrano nello stesso genere della rappresentazione tradizionale; stanno lì, non stanno più per qualcos'altro; continuano a stare lì in quanto segni anche nella sfida di non (dover) significare.

Ma Artaud vuole andare più in fondo, vuole trovare il segno efficace.

E' possibile rendere efficace il segno intervenendo sulla forza magica del grido, in modo che esso produca il suo effetto senza mediazioni semantiche, emotive o poetiche, ma direttamente per "forza di magia".

Non esiste transizione tra gesto, grido e suono: tutto si fonde quasi passasse attraverso bizzarri canali scavati all'interno dello spirito.

Il territorio in cui si produce la magia è quello della coscienza come condizione che realizza la piena coincidenza di volontà e azione.

La base di realtà che sta dietro al grido e lo provoca (idealmente) è il pericolo, considerato in ciò che implica nella prospettiva fisica e mentale dell'azione, cioè reazione immediata, lucidità.

«Bisogna che tutto sia ordinato esattamente in un ordine fulminante !»[26].

Il teatro della crudeltà si richiama al pericolo proprio perchè attraverso questo concetto avvicina la realtà, con la sua parte imprevedibile, al segno.

L'arve et l'aume

Dopo due arresti infondati, sei anni di internamento e continui trasferimenti da un ospedale psichiatrico all'altro, giunto al manicomio di Rodez, nel febbraio del '43 Artaud è affidato al dottor Ferdière, e gli si presenta dicendo di essere «soltanto uno scrittore che si rimetterà certamente a scrivere quando sarà un po' più felice»[27] .

A conoscenza degli interessi letterari del medico, chiede un lavoro di letteratura "preciso e oggettivo" a cui "ancorarsi". Propone di tradurre per il pittore Delanglade Trough the looking-glass di Carroll, di cui ha già tradotto la poesia Theme with variation. Affrontare questa traduzione significa per il poeta porsi di fronte ad una questione scottante: quella "delle origini del linguaggio", accollandosi una responsabilità senza limiti né alibi, assoluta.

«Farò questa traduzione, la farò rimanendo vicino al testo; ma sforzandomi di ritrovare in francese la vita originale del suo spirito»[28] .

Dalla follia ai problemi di linguaggio, ai problemi del significato. Questo percorso certamente molto battuto nella storia della letteratura assume con Artaud nuove valenze critiche e creative. Infatti nella sua "traduzione", il passaggio al "linguaggio vivente" avviene tramite la mediazione della scrittura, la scrittura ad opera di Carroll di Trough the looking-glass.

In L'arve et l'aume (questo è il titolo che Artaud dà al sesto capitolo della sua traduzione, Humpty Dumpty nel testo originale) viene messa in atto una pratica esercitata per anni dalla ricerca del teatro della crudeltà.

Una sommossa antigrammaticale anima il testo, colpisce la lingua francese, l'idea di testo pre-scritto, le intenzioni dello stesso Carroll, la dittatura dell'ordine del discorso. Sono in gioco in questo tradurre "esistenza" e "carne", il corpo, la vita.

Ad una prima lettura Artaud aveva giudicato le parole-baule di Carroll "stupefacenti", ma durante il lavoro di traduzione ridimensiona la sua opinione. Si accorge che questa trovata linguistica è poco più di un gioco di prestigio che svela il meccanismo di scambio tra significato e significante, ma non denuncia le ipocrisie ad esso sottese. E' invece urgente palesare i legami tra il linguaggio dominante, le strutture sociali, i meccanismi produttivi. In fin dei conti gli sembra che Carroll si sia fermato alla superficie, accontentandosi di «.una scrittura rappresentativa delle superfluità dell'essere»[29].

Carroll sbircia nello specchio, ma non regge l'incontro con il doppio intravisto e l'ombra.

«La sommossa che tutta la sua opera sembra invocare è da lui stesso sedata, la battaglia del profondo, i suoi mostri, la mescolanza dei corpi, il sovvertimento dell'ordine, l'incontro di infimo e elevato, di cibo ed escremento, il mangiarsi delle parole, tutto questo è soppiantato da un gioco di superfici»[30].

Invece di scegliere la profondità, Carroll si limita a movimenti laterali di scivolamento su una superficie. «Gli animali del profondo diventano figure di carta prive di spessore. Non che la superficie abbia meno nonsenso del profondo, ma non è lo stesso nonsenso. Gli eventi puri e senza mescolanze brillano al di sopra dei corpi misti, al di sopra delle loro azioni e delle loro passioni intricate. Come un vapore della terra, sprigionano in superficie un incorporeo, un puro "espresso del profondo: non la spada, ma il lampo della spada; il lampo senza spada come il sorriso senza gatto"»[31].

Artaud attraverso la traduzione ricorda che la crudeltà è sempre all'opera; la vita e il corpo sono crudeltà, in quanto sono entrambi soggetti ad una tremenda ed ineluttabile necessità.

La crudeltà è mascherata dall'ipocrisia, dalla buona coscienza, dalla verità, dalla legge. La coscienza risvegliata, lucida, conferisce a qualsiasi atto di vita una nota crudele, «.perché è chiaro che la vita è sempre la morte di qualcuno»[32].

La critica della rappresentazione, messa in atto nella "traduzione" è critica della trascrizione come riproduzione, in favore di un recupero della scrittura, della vita umana stessa, del corpo come scrittura. La parola vivente si sottrae alla generalità del concetto e della ripetizione, resistendo al processo che la riduce a segnale, che la assoggetta a meccanismi di codificazione e decodificazione.

Il recupero della parola avviene attraverso l'esaltazione della parte unica ed irripetibile dell'enunciazione, non riconducibile agli elementi costanti della lingua. L'enunciazione ritrova il suo carattere di unicità e irripetibilità: «Un'espressione non vale due volte, non vive due volte, ogni parola pronunciata è morta e non agisce che nel momento in cui viene pronunciata; una forma, quando sia stata impiegata, non serve più e invita soltanto a ricercarne un'altra»[33].

La scrittura cessa di essere semplice trascrizione, diventa spazio senza origine, anarchico, un sito totalmente esposto, rischioso.

Solo a queste condizioni la parola ritrova la sua materialità, la resistenza, lo spessore di significante non asservito al significato, non trasparente, non subordinato all'intenzione discorsiva.

La scrittura opposta alla trascrizione, che non delega e non si fa sostituire «.Non può essere ingenua, naturale, spontanea. Essa è calcolo, metodo: alla crudeltà del calcolo della conservazione, la crudeltà del calcolo della perdita; alla crudeltà del calcolo della ripetizione, la crudeltà del calcolo dell'irripetibilità»[34].

Determinazione e calcolo nella creazione letteraria sono necessarie per far fronte all'organizzazione della traduzione, che si ridurrebbe ad una sostituzione di parole.

«Non ci si può più accontentare di essere semplici organi di registrazione; l'essere è ripetizione, la vittoria sul vivere, sull'alterità del corpo. L'essere è la vita che, ostinandosi ad essere, a ripetersi, anche nelle parole, a riconfermarsi, si sottrae alla vita; conatus essendi che si economicizza, che non si espone, che non vuole rischi, che si preserva»[35].

L'arve et l'aume ha certamente qualcosa in più del testo che si pretende "originale", in quanto ritrova la materia-matrice, l'arve, con un atto di crudeltà che va a colpire il testo stesso, la lingua inglese e la lingua francese:

«ne risulta una metamorfosi-rinascita in un testo che si pretende più originale del testo originale tradotto, perché si porta e si espone alla sua stessa origine più di quanto esso abbia mai rischiato di fare»[36].

«I miei quaderni scritti a Rodez, tre anni di internamento e mostrati a tutti, scritti in un'ignoranza completa di Lewis Carroll sono pieni di esclamazioni, interiezioni, di abbai, di grida, sull'antinomia tra vivere ed essere, agire e pensare, materia e anima, corpo e mente»

Il poeta suppliziato continua a rispondere alle domande che sente "bruciare", fino alla fine, sempre più fedele alle proprie visioni e sempre più indifferente alla loro comunicabilità.

Colpito duramente dall'ostilità pubblica in tutte le sue voci (questioni finanziarie, sfratti, guai con censura e polizia, stroncature critiche da tutti i fronti), a pochi giorni dalla morte si rivolge per lettera al Reverendo Laval:

«C'è qualcosa che la coscienza generale non comprenderà mai

ed è che un corpo macerato e battuto

frantumato e ricomposto

dalla sofferenza e dai dolori della messa in croce

come il corpo sempre vivo del Golgota

sarà superiore allo spirito

abbandonato a tutti i fantasmi della vita interiore

che non è che il lievito e il grano

di tutte le fantasmagoriche nauseanti bestialità»[37].

Artaud entra in gioco senza riserve, con un concerto di mezzi espressivi, affrontando l'arte come si affronta una questione di vita o di morte.

[1] A. Artaud, Lettere ai prepotenti, Stampa alternativa, Viterbo, 1999, pag. 5

[2] A. Artaud, Lettere(1929), in Oeuvres completes vol. I, Gallimard, Paris, 1977, pag. 30.

[3] C. Pasi, Artaud attore, La casa Usher, Firenze, 1989, pag.14

[4] A. Artaud, op. cit, vol I, pag. 54

[5] A. Artaud, Al paese dei Tarahumara e altri scritti (1971), tr. it. Adelphi, Milano, 1966, pag. 58

[6] A. Artaud, Per farla finita con il giudizio di Dio (testo dello spettacolo radiofonico, 1947), El Paso, Torino, 1991, pag. 39

[7] G. Deleuze, Critica e clinica (1993), Cortina,  Milano, 1996, pag. 171

[8] G. Deleuze, op.cit, pag. 168.

[9] Ibidem, pag. 169

[10] Ibidem, pag. 166

[11] Ibidem, pag. 171

[12] Ibidem, op.cit., pag. 169

[13] Ibidem, pag. 168

[14] G. Deleuze, F. Guattari, Come farsi un corpo senza organi, in Millepiani. Capitalismo e schizofrenia sez.II, 1980, tr. it. Castelvecchi , Milano, 1997, pag 83

[15] A. Artaud, op. cit. (1947), pag. 6

[16] A. Artaud, Eliogabalo (1934), tr. it. Milano, Adelphi, 1984 (Definito dall'autore stesso "romanzo storico che si rivolta contro la storia" )

[17] A. Artaud, op. cit. (1947), pag. 25.

[18] A. Artaud, op. cit, pag. 36

[19] A. Artaud, Il teatro e il suo doppio (1936), Einaudi ,Torino, 1968, pag. 217

[20] Ibidem, pag. 20

[21] Ibidem, pag. 119

[22] A. Ponzio, Follia, scrittura, crudeltà, in Millepiani n°11, 1999

[23] A. Artaud, op. cit., pag. 20

[24] A. Artaud, op. cit., pag. 168

[25] C. Pasi, Artaud attore, La casa Usher, Firenze, 1989, pag. 90

[26] F. Ruffini, I teatri di Artaud, il Mulino, Bologna, 1996. La citazione riportata è di Artaud

[27] A. Ponzio, Follia, scrittura, crudeltà, in Millepiani n°11, 1999. La frase è di Artaud

[28] A. Artaud , L'arve et l'aume, suivi de 24 lettres à Marc Baberzat, L'Arbalete, Paris, 1989

[29] G. Deleuze, op cit., pag

[30] Cfr  G. Deleuze, Logica del senso (1969), Milano, Feltrinelli, 1975, pag. 209

[31] G. Deleuze, op. cit., pag. 37-38

[32] A. Artaud, op.cit., pag.  88

[33] A. Artaud, op.cit., pag. 192

[34] A. Artaud, op.cit., pag. 216-217

[35] G. Deleuze, op.cit., pag 174

[36] A. Ponzio, op. cit, pag. 58

[37] A. Artaud, lettera aperta al padre domenicano Reverendo Laval (1948), in A. Artaud, Opere complete, vol. XXVI, pag 212

 

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