La bellezza del sublime
di Marcella Tarozzi
C'è
da chiedersi se il sublime escluda il bello. No, è la risposta, considerando
che un'opera brutta non può essere sublime, è semplicemente brutta.
Quindi: il bello e il sublime vivono in ambiti separati ma "comunicanti".
Elaborerò questi ed altri punti in quel che segue.
Paul Valéry, che non può essere preso alla leggera in materia di estetica moderna, dichiarava perentoriamente che "La bellezza non è più". Questa affermazione-negazione segna l'inizio di una nuova era per l'arte. Valéry sapeva che l'esperienza della bellezza aveva poco a che fare con l'esperienza dell'artista, tanto è vero che c'è da chiedersi se l'idea di bellezza sia stata sostituita da un altro e diverso ideale artistico.
Per Schelling il bello era al contempo "reale" e immateriale
e quindi anche un limite atto a proteggerci da quel terribile abisso
che è l'assoluto; ha in sé dunque una funzione consolatoria e protettiva.
In bilico tra finito e infinito, il bello è importante in quanto conferma
che l'arte è intrinsecamente legata alla filosofia. Tutto questo
mette il filosofo in una posizione privilegiata rispetto all'artista
stesso, sia scrittore che compositore o altro, il filosofo detiene
la chiave per comprendere, intuitivamente, che cosa sia il bello e
il sublime. Con tutto ciò arte e filosofia non sono nemiche, anzi,
tra di loro si stabilisce una stretta alleanza che spiega il legame
tra verità e bellezza al punto che non ci troviamo di fronte a una
teoria estetica che si limiti fenomenologicamente a descrivere, bensì
a una vera e propria filosofia dell'arte.
È bene che la distinzione tra bello e sublime sia mantenuta, se non altro perché il bello e il sublime si rivolgono ad aspetti mutevoli del sentire umano. Ciò è particolarmente evidente nel caso del sublime il quale è spesso collegato, ancora oggi, all'idea di infinito[1]. Ma l'idea di infinito, lungi dal chiarire il senso del sublime lo offusca maggiormente, data la "natura" stessa dell'infinito. Nel caso del sublime si nota quindi un disordine che è estraneo all'idea del bello, ammesso che il bello corrisponda a un'idea e non piuttosto a un sentire desideroso di armonie e caratterizzato da un senso di continuità in fondo indimostrabile con mezzi logici. Si dice che è bello anche ciò che turba: non sarà invece un caso di arte sublime? Ed è vero che dopo Valéry e Lyotard il minimo che si possa chiedere all'arte sia il sublime?
A prendere esempio da Hegel sarebbe possibile rispondere
a questa domanda con un netto "no". È noto che per Hegel solo la
bellezza ci assicura che siamo in presenza dell'arte, ma questa bellezza
racchiude dentro di sé il germe della decadenza, un pensare ancora
informe nonostante il fatto che possa essere contemplata con serenità,
lontani il più possibile dall'ironia. Ma non c'è niente di particolarmente
salvifico nell'arte bella se si tengono presenti i limiti concettuali
e sensibili dell'idea del bello. Ora ci possiamo domandare se questo
sia vero anche nel caso del sublime la cui artificiosità lascia intravedere
un universo in preda al caos e, qui sulla terra, alla tragedia. C'è
qualcosa di tragico nel sublime, e viceversa, la tragedia è sublime.
Ancora una volta è bene ricorrere alle parole di Valéry quando parla
del nuovo e dell'intensità, perfino degli shock, provocati dall'arte
del presente: "La Beauté est une sorte de morte. La nouveauté, l'intensité, l'étrangeté, en un mot, toutes
les valeurs de choc l'ont supplanté » [2] .
Una volta che l'idea del bello sia stata se non proprio dimenticata
almeno messa da parte dal sublime ci troviamo di fronte a una situazione
nuova e scioccante considerato che noi incontriamo il sublime solo
in rare occasioni. Eppure non c'è bisogno di ricorrere all'assoluto
come fece già Schelling per afferrare il senso del sublime; pur essendo
ineffabile e, in fondo, inspiegabile, il sublime è immediatamente
riconoscibile come tale. Non coincidendo con l'assoluto di cui non
troviamo traccia nel pensiero di oggi, il sublime rimane tuttavia
enigmatico, misterioso e ambiguo, non gli si può nemmeno più rimproverare
di non essere un'espressione della razionalità filosofica. La legittimità
filosofica del sublime, dunque, si spiega tenendo presenti i cambiamenti
di sensibilità di questo periodo storico, anche se si potrebbe dire
che il sublime rispetto al bello ha in sé qualcosa di primitivo e
di imperfetto. Ma si deve considerare inoltre che al di là del sublime
non vi è nulla nella sfera dell'arte, e non solo, senza il sublime
l'esperienza artistica si troverebbe ad essere limitata perché il
sublime è il modo più intenso e profondo, e quindi a suo modo completo,
di rapportarsi all'arte.
Contrariamente a ciò che ritenevano Burke e Kant, cioè che il sublime non deve essere accompagnato da un pericolo reale, bensì esperito da un luogo sicuro, l'esperienza del sublime mette tutto in questione e la persona che ne fa esperienza è dimentica di trovarsi in un luogo protetto e sicuro. Potrebbe anche essere diversamente. Dato che l'esperienza del sublime è inaspettata, la persona che si trova in presenza del sublime si sentirà trascinata e sopraffatta, dimentica di una "realtà" esterna al sublime stesso.
Tipico del sublime è un altro aspetto che lo avvicina al
bello, ma che nel caso del sublime viene intensificato, mi riferisco
al fatto che di fronte al sublime quello che normalmente è il processo
di verbalizzazione viene quasi a mancare, anzi nell'immediatezza dell'esperienza
manca decisamente; solo dopo un certo lasso di tempo si riesce a far
riferimento al sublime, chiamandolo, appunto, sublime. Anche in questo
caso la differenza tra bello e sublime è una questione di gradi, sebbene
sarebbe futile quantificare questa differenza. Il sublime ha a che
fare prima di tutto con se stesso, se così si può dire, perché non
ha niente a che fare con un'arte semplicemente decorativa, quell'arte
che può far scivolare il bello verso il semplicemente piacevole e
l'utile. All'opposto, il sublime si pone al di là del piacevole fino
a farci giungere alla soglia del conturbante e angosciante. In parole
brevi: il sublime ci mette a disagio mentre l'inquietudine così provata
ci fa pensare alla sua inevitabilità. Quindi il tramonto del bello
non trascina con sé il sublime, ed è qui che i recenti tentativi di
"capire" il sublime da parte di Lyotard e Jean-Luc Nancy, per esempio,
acquistano tutta la loro importanza e peso. La violenza stessa del
sublime di cui parla Lyotard, le emozioni violente da esso generate
rendono il sublime difficilmente comunicabile ragion per cui in questo
caso è da escludere qualsiasi "sensus communis".[3]
Separato dal bello e dalla continuità tipica del bello, il sublime vive di vita propria, indipendente da riferimenti ad oggetti sia empirici che mentali, contraddice infatti sia Platone e il platonismo, sia un empirismo di stretta osservanza. Il negativo (poiché non c'è altro nome in questi casi) prevale, ma non fino al punto da distruggere il positivo. La bellezza è affermativa, non il sublime del quale si può affermare che rappresenta un fenomeno estetico più complesso e più completo in quanto ne fa parte sia il negativo che il positivo. Nessuna concessione all'indifferenza è permessa in questi casi; non si può quindi che dar torto a Kant quando affermava che l'oggetto artistico ha in sé qualcosa di disinteressato e che in questi casi la nostra mente non si prefigge degli interessi specifici. Se è vero che nell'esperienza del sublime (e non si può negare che sia un'esperienza limite come afferma Nancy, una questione di emozioni[4]) mettiamo tutto in questione e che ci regaliamo questa esperienza, è anche vero che da essa riceviamo tutto: il positivo, il negativo, il vero e, perché no?, il bello.
La bellezza viene ammirata, mentre il sublime ci travolge,
si scatena contro di noi, contro le nostre aspettative, ci fa trasalire
nel giro di un attimo; questo trasalimento, caro a Derrida e a quei
filosofi che prima di lui l'hanno teorizzato senza riuscire a ridurlo
a mera teoria, è tutt'uno con l'esperienza vissuta, anche se non sono
mancati i tentativi di ridurlo a Idea; e come il bello, il sublime
rimane impresso, inconfondibile. La vista e l'udito (questi due sensi
tipicamente "estetici" identificati da ogni filosofo che si sia occupato
di arte) non sono lì apposta per dirigerci in modo immediato verso
il bello o il sublime, questi ultimi ce li dobbiamo inventare con
la mano e la mente, creare, come si dice comunemente adesso; la natura
da parte sua fa del suo meglio per incoraggiarci in questo senso.
Il sublime, insomma, è opera nostra, la natura in questi casi ha qualcosa di mentale anch'essa che noi cogliamo grazie alla ragione. E qui Kant potrebbe aggiungere: la ragione ci indica la strada che ci conduce al sublime, non che l'intelletto sia poca cosa, ma la ragione prende il sopravvento (anche su di noi) quando ci troviamo di fronte all'illimitato; e, lo si sa, anche la natura sa essere illimitata. La ragione interviene in mancanza di una apprensione completa dell'oggetto sublime, l'immaginazione si trova allora a mal partito di fronte alla totalità, la quale è anch'essa un'idea della ragione. Un'immaginazione carente non può far altro che soccombere davanti alla ragione, forte delle sue idee. L'immaginazione infatti è imprecisa, ha in sé qualcosa di impreciso; e fra immaginazione e idee della ragione non è sempre possibile l'armonia. Ciò accade nel caso del sublime. Ma la ragione è bifronte: è sia cognitiva che pratica e da queste due funzioni ha origine per Kant la distinzione tra sublime matematico e sublime dinamico.[5] Non è una questione di preferire l'uno o l'altro, la distinzione ha origine teoretica: Kant ci dice che il sublime dinamico (qualitativo più che quantitativo) è dovuto all'impressione di potenza e non solo di grandezza come nel caso del sublime matematico. Ma perché "matematico" se il sublime non può essere misurato e quantificato? Perché è pur sempre una questione di quantità, infinita se si vuole, ma che corrisponde alla ragione.
Lasciamo ora Kant per addentrarci in considerazioni di diversa natura. Se è vero che il sublime è inconfondibile e che si reagisce alla sua prepotenza con una con-fusione di sentimenti come il piacere e la pena, esso si presenta come un esempio di ambiguità che lo rende non trasparente, oscuro, o almeno oscuramente inafferrabile ed enigmatico. Ci si accorge del sublime quando si è completamente immersi nell'esperienza, avvolgente e non subordinata a nulla che le sia estraneo. Come ci si comporta dunque davanti al sublime? Considerato che siamo in presenza di un'esperienza soggettiva ci si può ben porre questa domanda senza timore di essere frantesi. Per prima cosa subentra l'immobilità fisica ma non mentale, perfino la paralisi fisica può essere uno dei tratti del sublime, ovvero dell'esperienza del sublime al suo culmine. Di fronte al mausoleo di Galla Placidia o di fronte alle note di Et expecto resurrectionem mortuorum di Olivier Messiaen non si può che rimanere sbigottiti e immobili. Non è un caso che queste due esperienze appena nominate ci ricordino l'idea della morte; tuttavia ciò non implica nessun decadentismo à la Nietzsche. La morte qui è trasfigurata, e pur non rimanendo un semplice sottinteso, non raggiunge l'evidenza del fatto bruto.
Si ricorre allora alla filosofia: l'esperienza del sublime,
per quanto rara e non accessibile a chiunque, e pur non essendo per
natura tronca e limitante ci chiede perentoriamente qualche spiegazione.
E la filosofia-alleata in questo caso alla storia--ci dice che si
dovrebbe cominciare da un inizio che sia storicamente databile. Ma
si può anche dire in questo contesto che il sublime è "un di più",
un lusso di cui approfitta l'esteta che nel coglierlo non riesce a
controllarlo o ad alterarlo, a trasformarlo in altro, neanche nella
bellezza; la bellezza allora si fa da parte mentre l'enormità del
sublime ci catapulta in un mondo che si può chiamare, pur in modo
approssimativo e provvisorio, "divino".
Pensiamo a Edmond Jabès: la sua prosa poetizzante, il suo aspirare al divino, con un dio refrattario a farsi conoscere; ce n'è a sufficienza per richiamare le parole di Hegel sul "carattere universale del sublime", sublime che viene definito come l' "essere oltre la determinazione dell'apparenza".[6] Da qui deriva, secondo Hegel, una certa quale primitività del sublime e quindi dell'arte simbolica rispetto alla bellezza classica, anch'essa tramontabile ma almeno non astratta come l'arte simbolica, e per Hegel non vi è peggiore accusa dell'essere qualcosa astratto, non organico. Jabès prosegue parlandoci delle sue intenzioni di poeta quando scrive: "Uno scritto non è uno specchio. Scrivere è affrontare un volto sconosciuto". Un dio absconditus, un volto che non si fa conoscere: "Dio è, di Dio, il silenzio che tace", [7] scritto doverosamente con la lettera maiuscola, quindi degno di avere un nome, quindi un dio non ipotizzato, bensì vissuto, e vissuto tragicamente, là dove l'ironia non è consentita. L'ironia potrebbe salvarci dal sublime, da questo sublime, ma sarebbe come cadere su un terreno estraneo alla sensibilità richiesta dal sublime e dalla grande arte. Almeno a detta di chi si richiama al sublime e ricusa quell'arte che potrebbe chiamarsi scettica. Eppure quest'ultima può essere grande arte, un grande Musil ci ha insegnato a unire le due cose senza che ci se ne debba pentire.
Continuiamo con Hegel: egli ci incita a considerare il sublime
un inizio, uno dei tanti inizi ai quali ci ha abituati, e come sappiamo,
ogni inizio è astratto; nel caso del sublime può risultare in deformazioni
vere e proprie, mentre nel caso della poesia ebraica ci troviamo di
fronte a una divinità anomala, a un "Signore senza volto" (sono parole
di Hegel)[8], alla
grandezza e immensità con cui lo spirito ebraico si confronta ogni
giorno. Gli sterminati silenzi sono davanti a noi, invisibili, il
sublime ci immerge in un universo in cui lo spazio, alleato al tempo
ed entrambi concepiti nella loro immensità, rifiutano i limiti imposti
dalla concretezza delle immagini e dalla finitezza. Perché il sublime
va, o sembra condurci, verso l'illimitato? Non sono domande metafisiche,
o almeno non vogliono condurre a metafore metafisiche: la sostanza,
la causalità, la soggettività vanno considerate prendendo in esame
non il mondo in generale, bensì un mondo conosciuto grazie a una sensibilità
che è quasi anomala come il sublime stesso.
Hegel ha avuto il merito di ricordarci, evitando il platonismo,
che il sublime ha a che fare con un assoluto in cerca di se stesso,
ma secondo Hegel questo assoluto è ancora troppo informe, ancora troppo
simbolico per sfociare nel bello, quindi ci troviamo di nuovo a contrapporre
il bello e il sublime, mentre abbiamo visto e avuto modo di constatare
che il sublime non può fare a meno del bello, mentre il bello può
fare a meno del sublime e di fatto è ciò che fa, dimentico dell'assolutamente
grande e assolutamente imponente. Ma l'assoluto di hegeliana memoria
non ci darà il sublime, al massimo ci darà di che immaginarlo compiuto,
sempre con l'assillo che ne deriva di cercare di coglierlo intatto,
senza contaminazioni critiche. Non dimentichiamo inoltre che l'ironia
(non socratica) aveva già svolto il suo compito rovesciando (Hegel
l'aveva già intuito) il sistema nella sua interezza.
Ma sarebbe fuori luogo criticare ancora una volta Hegel,
è già stato fatto; quello che ci sta a cuore è una visione del sublime
che tenga conto di considerazioni non solo storico-sistematiche ma
soprattutto fenomenologiche, col che si intende dire che è il sublime,
in quanto "oggetto" a richiedere da noi una comprensione sui generis,
una comprensione diversa da quella che spetta al bello, e che non
ammetta repliche. Al sublime non si può negare la sua forza, direi
schiacciante, nel condurci verso l'assolutamente diverso e nuovo.
Come categoria estetica il nuovo è stato portato alla ribalta da Lyotard
e, indirettamente, da Heidegger. Per quello che riguarda Lyotard
c'è da dire che il nuovo riguarda "la volonté d'expérimenter des moyens
d'expression, des styles, des matériaux toujours nouveaux". È quindi
il caso di aggiungere, come fa giustamente Lyotard, che "A la différence
du mythe, le projet moderne ne fonde certes pas sa légitimité sur
le passé, mai sur le futur. Et c'est ainsi qu'il offre une meilleure
prise au processus de complexification » [9] . Rimane da aggiungere, cosa che Lyotard lascia bene intendere
ma che non dice esplicitamente, che la categoria del nuovo (e per
categoria si intende il meccanismo, logico o mentale che sia, che
ci permette kantianamente di differenziare e classificare le esperienze)
è all'origine un ideale tecnologico.
Diventa quindi inevitabile un confronto con Heidegger, a proposito del quale si potrebbe dire con Lyotard che "La sublimité n'est plus dans l'art, mais dans la spéculation sur l'art".[10]
Eppure i poeti ne sanno qualche cosa. Tanto è vero che di
solito si parte dall'idea che il sublime abbia a che fare solo con
l'arte o al massimo anche con la natura, non sempre si considera un'altra
possibilità: che la filosofia stessa possa essere sublime o racchiudere
dentro di sé degli elementi del sublime. Il caso di Heidegger è illuminante:
la sua concezione dell'essere che sfugge e si dischiude, che si manifesta
e si cela ai mortali è paradigmatica di una concezione che sfiora
il sublime, e che per così dire lo alimenta. Non sempre Heidegger
affronta esplicitamente la tematica del sublime, ma questi sentieri
interrotti di lui ha parlato sono forse dei punti di convergenza del
sublime, poi lasciato cadere per rivolgersi all'arte in termini di
poiesis. L'essere si manifesta e lo stesso si può dire del poetare
grazie al linguaggio che quasi ci avvicina al divino; è in gioco la
verità dell'opera d'arte e del linguaggio il quale non si dilunga
in disadorne ma tenaci comunicazioni trasmittente-ricevente, ma va
al cuore dell'essere. Essendo parte dell'esistente, l'arte non può
fare a meno della filosofia e la filosofia dell'arte, questo fatto
le accomuna indissolubilmente e fa della filosofia una forma di sublimità
legata all'essere. E se l'arte è verità, come ci dice Heidegger,
è vero che "L'arte fa scaturire la fondante salvaguardia della verità
dell'ente nell'opera. Fa scaturire qualcosa, porlo in opera con un
salto che muova dalla sua provenienza essenziale, tutto questo è racchiuso
nel significato della parola origine".[11] È
bene soffermarsi su questo punto perché mette in risalto il rapporto
essere-ente, inoltre, invocando il salto, ci mette in contatto con
la sublimità dell'essere che altrimenti risulterebbe lettera morta.
Quindi la filosofia conosce il sublime direttamente, non per sentito dire dall'arte, l'arte certo fa in modo che il sublime si affacci all'esistente, o l'ente, ma è l'essere, questo concetto eminentemente filosofico[12], che si unisce all'arte sublime pur rimanendo, in fondo, incorporeo. Pensare l'essere è già essere in prossimità del sublime, mentre il salto necessario per arrivare a coglierlo rende noi stessi sublimi.
All'opposto, opposta alla drammaticità del momento del salto,
troviamo la noia. La noia non è sublime, mentre c'è da domandarsi
se sia sublime un eccesso di coerenza filosofica. La noia non può
essere sublime perché si accompagna a stati d'animo legati alla vacuità
del nulla e magari se ne compiace, come nel caso di un nichilismo
pessimista, nichilismo pessimista che non va confuso col semplice
pessimismo poiché quest'ultimo, a differenza del nichilismo, conosce
il limite. Per il sublime occorre invece una presenza, che noi siamo
presenti a noi stesso, sebbene l'oblio di sé accompagni, in un secondo
tempo, il sublime nelle sue forme più accentuate, cioè più veramente
sublimi. Si può quindi parlare di gradi di sublimità? Considerato
che siamo di fronte ad un fenomeno legato all'essere presenti a se
stessi e ad esperienze fondamentali (non si può proprio fare a meno
di Kant in questa circostanza, non si può rinnegare il lato soggettivo
di questa esperienza), sarebbe facile per un fenomenologo rispondere
positivamente alla domanda; eppure c'è un'altra concezione del sublime
che ci fa dire che il sublime è una questione di "o tutto o nulla".
Chi non è sensibile vuoi alla natura o all'arte o alla filosofia non
conoscerà questo fenomeno e non potrà nemmeno farselo raccontare.
Impensabile, infatti, sarebbe "raccontare il sublime", così
come non si potrebbe raccontare il bello, bisognerebbe, al massimo,
seguire il consiglio di Wittgenstein e mostrarlo a coloro che diffidano
o che non hanno saputo coglierlo spontaneamente. Il modo ostensivo
però non garantisce che la persona così sollecitata "capisca" l'oggetto
artistico che le sta di fronte. Non si può quindi che dar ragione
a Lyotard e confermare la sua conclusione circa la non-comunicabilità
del sublime. Non c'è sensus communis per quello che riguarda
il sublime e si dovrebbe aggiungere anche che, data l'intensità di
ciò che chiamo l'esperienza del sublime, non si prova neppure il bisogno
di comunicare ad altri il senso e l'impressione di estraneità che
esso provoca in noi. Si può insistere su questo punto importante
se si vuole cogliere l'unicità di ogni esperienza del sublime. E
pur considerato che l'esperienza, ogni esperienza, richiede ed è legata
alla temporalità, ebbene il sublime, diciamo con un'espressione decisa,
della temporalità ne fa a meno. Ciò che risalta, dopo lo shock, è
l'impressione che in quel "momento" la temporalità non ci abbia toccati,
pur presente ed inevitabile, essa si è fatta da parte, travolta da
un fenomeno connesso a un "infinito" parossistico e paradossale.
Si ritorna quindi al problema dell'assolutezza, pur essendo
poco frequentata in questi tempi, e certo non ne mancano le ragioni
storiche e teoriche dato il prevalere di una analiticità molto padrona
si sé; l'idea di assolutezza (e non può che essere una "semplice idea")
pervade il sublime proprio perché è connesso a una sfera atemporale.
Perfino in musica, nell'arte legata alla temporalità, si assiste a
una rarefazione del tempo, a un discostarsi dalla temporalità per
far posto a una verità non ancora del tutto consapevole di sé. Cioè
una verità non analitica bensì sinteticamente presente. Scomporre
gli elementi del sublime è impresa talmente ardua che si è costretti
a ritornare al tema dell'assolutezza (non dell'assoluto): il sublime
vuole, anzi esige, tutto da noi, pretende tutto e ci dà tutto, e noi
otteniamo tutto da lui; si può dire quindi che il sublime ci vizia
specialmente se paragonato al bello la cui tradizionale serenità è
in confronto meno provocatoria.
Inaspettato, il sublime ci scaglia con violenza nello spazio o nel tempo. Guernica di Picasso ci ha dato un esempio di violenza trattenuta nella tela, eppure essa fuoriesce prepotente e nel suo movimento produce in noi osservatori un'immobilità stupefatta. C'è da chiedersi a questo punto se ci sia ancora bisogno di teoria per quello che riguarda il sublime, una teoria che non potrà descrivere o analizzare l'esperienza stessa se non per approssimazione. Qui vige una disparità incolmabile tra esperienza e linguaggio, perfino un linguaggio preparato ad approfondire il senso dell'essere alla maniera di Heidegger. Sarebbe d'obbligo quindi nel caso del sublime astenersi da giudizi determinanti, tenendo presente che il giudizio estetico è universale ma non conoscitivo. I romantici, che tenevano alla loro soggettività, la pensavano diversamente; quindi, semmai, la critica del giudizio, presa nel suo senso più ampio, deve diventare una critica dei giudizi considerato anche che ciò che vale in estetica non è solo la forma, il disegno e la composizione. In questo Kant sarà stato coerente ma è stato sobrio all'eccesso.
La contemplazione per Kant è ammessa nel caso del bello e del sublime, ma non è ammesso un eccesso di intimismo, i colori vanno tenuti sotto controllo, quasi distaccati dal resto dell'opera d'arte, ciò che la rende tale. Siamo qui in un mondo che, pur se non dimenticato, è lontano dalla sensibilità di oggi, perché l'arte e l'estetica sono in effetti una questione di sensibilità, e il sublime in particolar modo, anzi in modo sommo e sorprendente. Oggi noi siamo meno rigorosi, o almeno alcuni di noi, ma non si può accusare Cézanne di faciloneria quando affermava che la forma è compiuta quando il colore ha raggiunto la sua perfezione[13]; saremmo poco avveduti per non dire imprudenti se accusassimo Cézanne di lesa maestà. E proprio Cézanne ci offre innumerevoli esempi di arte pittorica sublime: è bene tenere in considerazione la perfezione dei suoi acquerelli e la sua montagna, incompiuta perché Cézanne sapeva come si fa a lasciare incompiuta un'opera. Ma dopotutto non è necessario rifarsi ad esempi: ognuno di noi su questo tema ha qualcosa da dire e da richiamare alla mente, considerato che il sublime si distacca da qualsiasi altra esperienza e, se ci allontana forse dalle verità di ragione e alle verità di fatto, ci regala però delle verità soggettivanti che non possono essere contraddette facilmente. Considerato che il sublime mette tutto in discussione, a cominciare dal soggetto, si può pensare che ci avvicini alla follia, quella follia che è regno dell'immaginario, immaginazione portata all'estremo, satura di sé. Senza arrivare così lontano, diciamo con Jabès che "Immaginare è creare in sovrappiù. Il sovrappiù non lo si può precisare"[14]. Diciamo anche che non è tutta questione di immaginazione, c'è in gioco un'altra specie di sovrappiù che ha a che fare con la compenetrazione o uni-formazione (Ineinsbildung, nel senso di Schelling) di scienza e arte, del reale e dell'ideale.[15]
Un linguaggio invecchiato quello di Schelling, ma sappiamo bene che l'arte non ignora la scienza, se lo facesse si impoverirebbe; basta guadare ciò che il sublime, alleato alla scienza, ha fatto in materia di architettura; quindi perché dire che il sublime si ferma, come sbalordito, davanti a una soggettività racchiusa in se stessa? Tale giudizio non tiene conto dell'apporto, anche se solo intuito e colto sommariamente, di ciò che il sublime deve alla scienza, in particolare in architettura e in musica. Sono considerazioni quasi superflue nel caso di queste due forme d'arte da sempre imparentate per via del loro soggiacere a leggi matematiche.
Eppure il sublime non si limita ad incorporare la scienza, da noi vuole partecipazione assoluta, o meglio, siamo noi che gli riserviamo una partecipazione al di là di ogni calcolare. E da qui si può capire che se è ancora lecito parlare di soggettivismo in materia di sublime è perché il sublime, pur non cambiando nelle sue caratteristiche, ci cambia. Coglie nel segno quell'opera sublime che ci fa entrare nel labirinto del tutto-e-nulla e da cui poi si esce storditi ma non dimentichi. Questa soggettività o soggettivismo implicito non è al servizio né dell'arte, né della verità intesa in senso ontologico, né della libertà e tanto meno dell'inconscio. È fine a stessa questa esperienza, ma non, come vorrebbe Kant, perché la contemplazione dell'opera d'arte è disinteressata; in questo ha ragione Heidegger quando si rifiuta di affermare che noi cogliamo l'opera d'arte in modo distaccato e disinteressato, cioè, a guardar bene, obiettivo. L'esperienza del sublime è fine a se stessa perché non ha "oltre". Al di là del sublime non vi è arte nel senso proprio del termine e non c'è esperienza più fondamentale: il sublime non ammette obiezioni. A chi ci dicesse che tale esperienza è nulla perché equivale o assomiglia a un'espressione di un linguaggio privato potremmo rispondere che in effetti un linguaggio privato è un linguaggio a cui nessuno presta ascolto, né vale riabilitarlo per solo nostro uso e consumo; fatta però eccezione per il sublime il quale, pur essendo un'esperienza personale è anche soggettivante, col che si intende dire che è arricchente e inconfondibile. Diciamo anche che si può supporre senza difficoltà che sia capitata anche ad altri. Indipendentemente l'una dall'altra, due persone possono essere d'accordo nel ritenere sublime una data scultura o un quadro; per esempio, il mausoleo di Galla Placidia.
A guardar bene, anche il bello presenta delle difficoltà
da cui non è facile districarsi. Gli insegnamenti di Kant al riguardo
sono insoddisfacenti per non dire insufficienti, ragion per cui è
opportuno rinunciare ad ogni posizione "critica" al riguardo. Il
sublime, da questo punto di vista non molto diverso dal bello, è "soggetto"
nei due sensi del termine: soggetto in quanto presenza e soggetto
a un giudizio. Detto questo è bene tralasciare ogni approccio metafisico:
non si mette da parte il senso comune per abbracciare la metafisica;
metafisica e sublime non hanno punti in comune. Il sublime, semmai,
assomiglia, senza esserne travolto, al misticismo, inteso come rapporto
"diretto" con l'ignoto. Tuttavia il sublime non sta per il vuoto
o il pieno dell'essere, al massimo è la sua sospensione, il suo farsi
a contatto con l'ignoto. Non c'è esprit de géométrie, non
vi sono figure o simboli che siano validi per il sublime una volta
per tutte.
In questo simile al bello (ma sempre meno), il sublime rifugge dalla ripetizione, per quanto il pensiero dell'eterno ritorno dell'uguale di Nietzsche potrebbe essere considerato un pensiero sublime, e tale certamente fu considerato da Nietzsche stesso nonostante il fatto che forse neanche lui, preso com'era da questa esperienza travolgente, ne abbia saputo cogliere tutto il lato soggettivo e accecante. C'è una ragione intrinseca per la quale il sublime rifugge dalla ripetizione: è troppo legato a un'esperienza temporale per farsi oggetto costante di esperienza. Riascoltare un brano musicale sublime per la seconda o ennesima volta difficilmente sarà sentito con la stessa identica intensità dalla stessa persona, e lo stesso vale per un'opera letteraria[16].
La distinzione di arti autografiche e allografiche di Nelson
Goodman[17] non
cambia la questione del sublime né la sua valutazione: un quadro,
nella sua unicità, può essere sublime come un brano musicale che può
essere ripetuto più volte; la ricezione naturalmente sarà diversa,
gli organi di senso preposti all'ascolto o alla visione sono diversi
e lasciano in noi impressioni magari discordanti. Il sublime inoltre
ha anche questo di singolare: mette in evidenza una complessità debordante,
un "di più" che lo avvicina all'incomprensibile; rimane infatti un
residuo dopo l'esperienza del sublime, non tutto può essere pensato
ed è da qui che scaturisce la nostra reazione attonita. Come si vede
è difficile evitare il linguaggio dei romantici nel caso del sublime
e la ragione va ricercata nel fatto che il sublime si pone al di là
delle consuetudini; una verità palese questa che non ha bisogno di
ulteriori precisazioni. Il sublime quindi sconfina nell'assolutamente
nuovo e di questo nuovo ne fa qualcosa di incancellabile
L'arte stessa, anche nelle sue forme non sublimi, non può fare a meno del nuovo perché è sul nuovo che si concentra la sua significatività, ed è qui che la questione del riconoscimento svolge la sua funzione principale. Un'arte che non viene "capita" si trova in una situazione pericolosa, è successo innumerevoli volte: il pubblico diffida del nuovo e allora subentra il critico la cui posizione privilegiata gli permette di "capire" ciò che non è immediatamente evidente nell'opera, ciò che era rimasto implicito per non renderla troppo semplice e quindi insignificante. Qui si gioca l'arte, specialmente il sublime in cui non vi è necessariamente equilibrio e armonia tra il detto e il non detto. Pensiamo di nuovo a Guernica: il messaggio, se così lo vogliamo chiamare, è chiaro, non ci sono equivoci, siamo davanti a un quadro le cui dimensioni ci danno già l'idea dell'entità della tragedia, si aggiunga a questo fatto quantitativo il silenzio gridato della tela; tale "contraddizione" fa parte della sublimità dell'opera che non trova un parallelo in musica.
Il sublime dunque ci scuote, ci coglie di sorpresa e ci travolge, ci può perfino danneggiare sul momento, questa la mia obiezione a Burke e Kant. Non che il loro intento fosse di rassicurarci, è raro che l'arte rassicuri, almeno non agli occhi dei modernisti; rimane il fatto che il sublime, nella sua unicità, si rivolge a noi per sconcertare, in questo senso si potrebbe dire con Jean-Luc Nancy che "tout . est susceptible d'être sublime"[18]. L'affermazione di Nancy tuttavia va precisata: se si crede ancora all'idea del potenziale si può dire che molto potrebbe risultare sublime a una persona attenta e dalla viva sensibilità, dalla percezione eccezionale: l'esempio di Nietzsche a Sils-Maria lo conferma, mentre queste parole di Nancy si adattano molto bene a una definizione del sublime: "le retour éternel est l'affirmation du présent au-delà de toute présence"[19].
È del sublime la capacità di gettarci fuori del tempo, quindi
si può dire che sia qualcosa di innaturale nonostante vi sia un sublime
nella natura; è ciò che noi facciamo di questa natura o di questa
arte a determinare la presenza o meno del sublime. Per far luce su
questo fenomeno è necessario considerarlo dal punto di vista di una
temporalità sospesa nel vuoto ma collocata in un "dove" ben reale
e presente. Se il tempo si prodiga per risvegliare in noi la finitezza,
ebbene il sublime è in questo senso atemporale: la finitezza non compare
tra le caratteristiche del soggetto alle prese con il sublime, all'opposto,
in presenza del sublime ci si sente come spogliati della temporalità
alla quale non rimane che indietreggiare per far posto a un'infinità
certamente instabile eppure vissuta. Possiamo quindi parlare di un'esperienza
che mette a dura prova il nostro stesso essere perché il solo "avvicinarsi"
dell'infinito ci pone in una posizione di sicura inferiorità, ma questa
inferiorità non è "sentita", è circoscritta da uno sfondo auditivo
o visivo che si impone a noi.
A questo proposito Hegel, uno dei grandi maestri del sublime,
afferma che l'inquietudine ben si "adatta" a distinguere il sublime
che però egli concepiva ancora come qualcosa di non completamente
determinato e quindi di astratto e dalla negatività dirompente. Per
lui la sublimità non è ancora spiritualità concreta[20] e
difatti per lui questo è vero dell'arte in generale, la quale non
può competere in materia di concretezza con il pensiero filosofico;
l'arte pur essendo un universale concreto[21], non
è ancora il tutto e non potrà mai esserlo. Ecco allora che il sublime
è inesprimibile poiché l'infinito non si lascia sottomettere dalla
mente umana ma vuole per sé una superiorità anch'essa infinita. Da
qui la critica che Hegel muove a Kant: il sublime non è solamente
legato alla ragione e alla soggettività, si deve andare oltre Kant
e concepire la ragione come essa stessa infinita e assoluta[22].
Non si può fare filosofia, non si può fare estetica senza considerare
un infinito in atto, ed è quindi strano che Hegel ponga la sublimità
al primo gradino della sua progressione estetica, prima del classicismo
e del romanticismo; forse questo suo non essere del tutto sistematico
ma vittima suo malgrado di considerazioni storiche gli ha fatto dire
che il sublime ha in sé qualcosa di primitivo nonostante il fatto
che la poesia possa essere eminentemente sublime anche quando non
è legata all'arte sacra e all'idea dell'assoluta trascendenza del
divino.
Comunque sia, al sublime non manca una verità di fondo nascosta
(se così si può dire) in quella che potremmo chiamare una soggettività
altra, una soggettività che si discosta dalle convinzioni e convenzioni
della ragione. Vedere nel sublime un fenomeno esclusivo della ragione
porta a misconoscere il potere della sensibilità, indispensabile per
cogliere il sublime nelle sue varie forme. Si tratta quindi di un
gioco a nascondersi tra ragione e sensibilità in cui l'una cerca di
disconoscere l'altra per cui ne segue un impatto che va ben oltre
l'esperienza della quotidianità. È bene insistere su questo punto
perché altrimenti si correrebbe il pericolo di vedere nel sublime
solo un fenomeno abnorme che non ha alcun legame con l'arte nella
sua interezza. È bene non dimenticare che il sublime è arte perché
ci tocca senza sfiorarci, ci immerge interamente nel suo "essere"
permettendo al contempo all'immaginazione di vagare indisturbata.
Il vuoto ontologico su cui si sofferma l'immaginazione ci permette
di cogliere nel sublime sia il silenzio che la parola. Il sublime
ci rende silenziosi poiché il sublime ha già detto "tutto" e ci ha
detto cose che non sapevamo o che erano celate nei meandri di un Sé
il più delle volte disattento.
Pur cercando di avvicinarsi al sublime, lo Zarathustra di
Nietzsche ha fallito in quanto sublime, quello che gli mancava era,
diciamolo chiaro, la spiritualità, pur volendo egli presentarsi come
un profeta. Affidare all'uomo o all'oltreuomo il sublime è stata
un'operazione indubbiamente audace, tuttavia entrambi sono risultati
troppo "terrestri" per accedere al sublime a cui non può mancare la
cognizione di un "aldilà" per così dire trasportato nell'aldiqua.
Non si intende qui fare l'elogio della trascendenza la quale ha di
solito altre mire che non siano quelle dell'estetica, rimane il fatto
però che la dissoluzione di alcune forme di spiritualità ci lascerebbe
privi di esperienze personali, sì, ma anche di esperienze volte a
comprendere che ciò di cui ci circondiamo è universalizzabile. Non
universale tout court, Lyotard sarebbe d'accordo con questa
precisazione dato che il sublime si comunica per sentito dire, non
lo si può descrivere, tuttavia se ne può parlare, discorrere con la
prudenza di chi sa che ogni esperienza simile è irrepetibile, almeno
nella sua intensità iniziale.
Narrare il sublime non è possibile, quello che possiamo fare è di immaginarlo quando, come nel caso già ricordato di Nietzsche a Sils-Maria, ci immedesimiamo con quello che Nietzsche stesso ci ha narrato. Il sublime non invita reazioni a catena, ci isola invece, ma col nostro consenso, e dato che non andiamo in cerca del sublime con l'intento di impadronircene, il sublime ci coglie di sorpresa, fantomatico, al di là della tragedia e della commedia. È al di là della tragedia perché ci trasporta in una sorta di "aldilà' da noi stessi costruito e che ci permette di sorvolare sull'esistente, sugli enti che non lo riguardano. La tragedia invece ci sospinge verso il non-voluto, la sua realtà è innanzitutto interazione e conflitto, il che non si può dire del sublime. A maggior ragione il sublime non è commedia, in parte per lo stesso motivo poiché anche la commedia implica interazione. Il comico è contrasto tra opposti che in fondo si amano anche se non si rispettano a vicenda; niente di tutto questo nel sublime che ci sopraffà proprio perché ci fa soggiornare nel negativo e ci trattiene in forza della sua negatività. C'è da chiedersi allora, per completare il quadro, se vi siano delle affinità tra sublime e ironia. L'ironia, quella socratica in primis, che si avvale di una discorsività dirompente alla quale è sempre possibile dare una risposta più o meno adeguata, fosse anche un rassegnato "Sono d'accordo", si serve di risorse soprattutto verbali. C'è invero un'ironia critica e una tragica, come c'è un'ironia sentimentale, e per la verità quasi tutti gli aggettivi potrebbero accompagnare l'ironia, ma queste forme di ironia sono soprattutto ironie degli eventi, che hanno a che fare con episodi vissuti. L'ironia verbale, al contrario, come ben sapeva Kierkegaard, vive di contrasti, e le piace inoltre capovolgere situazioni verbali senza tener conto del loro effettivo valore semantico; in altre parole, l'ironia verbale può essere mero gioco, come già riconobbe Hegel, il quale vi vide il gusto di contraddire e perciò nella sua filosofia del diritto espresse un giudizio particolarmente severo sull'ironia, equiparandola al male[23].
Ora il sublime non vuole capovolgere nulla o contraddire
alcunché, semmai ci trascina in uno stato d'animo caratterizzato da
turbamento al quale si pone rimedio, per così dire, lasciandosi andare
e dimenticare quelle forme di inquietudine che appartengono invece
alla quotidianità. L'inquietudine del sublime non ha nulla di banale,
anzi rappresenta una sfida al mondo della quotidianità. Unico tra
tutte le esperienze legate all'estetica, il sublime ci avvicina a
un nulla caratterizzato, paradossalmente, da un di più e da una pienezza
assoluta; il vuoto dunque può richiamare a sé il pieno: uno scontro
che si tramuta in un attimo in coinvolgimento totale: il nulla e il
tutto ci portano così all'esaltazione caratterizzata da uno stato
d'animo contrario perché l'esaltazione è accompagnata da un senso
di abbattimento. Se ne esce dunque con la sensazione di essere passati
per un'esperienza spossante seguita da una stanchezza che oserei chiamare
"meta-fisica".
Per 'meta-fisica' non si deve intendere un'esperienza dovuta
a uno stato di cose permanente e dal significato universale; l'esperienza
del sublime però ha qualcosa di potenzialmente duraturo. Data questa
configurazione, il linguaggio si trova a mal partito e povero rispetto
al sublime, non c'è identità fra il linguaggio che potrebbe esprimerlo
e l'esperienza stessa. Lo stesso vale per la musica di cui non si
può, se non con difficoltà, verbalizzare l'esperienza e a volte lo
si fa con parole generiche. Dunque la meta-fisica ha poco a che fare
con il sublime se la si intende nel senso di presentarci dei concetti
descrittivi della realtà ed esprimibili in un linguaggio chiaro e
distinto. Ma il sublime può essere avvicinato a una concezione metafisica
in senso lato e non tecnico del termine dal momento che si pone come
esperienza che ci trascina verso l'incorporeo nonostante le sue caratteristiche
materiali sempre indispensabili all'arte. Eppure il sublime mette
in discussione la materialità stessa dell'esperienza chiamata tale
e si pone al di fuori di ogni intento didattico. Il sublime non ci
insegna nulla, non almeno qualcosa che possa essere trasmesso direttamente
a un altro passando per descrizioni più o meno approssimative.
Se nel sublime c'è qualcosa di definitivo che non ci permette
di ignorarlo a meno che non si sia vittima permanente della mancanza
di sensibilità, è anche vero che dal sublime si esce trasformati,
non più buoni o più saggi, ma più in contatto con il nostro essere
senziente; dire questo è dire anche che la sensazione del sublime
permane nel ricordo. Se è vero, come afferma Kirk Pillow in Sublime
Understanding, che l'esperienza che ci regala il sublime è di
tipo intellettuale e che quindi presenta un lato conoscitivo (il quale,
aggiungo, è comune a tutte le forme artistiche ed estetiche) legato
però al perturbante, al contempo il sublime rappresenta una sfida
al modo di pensare concettuale[24][24],
è un modo metaforico di afferrare quel qualcosa che alcuni chiamano
realtà e che si potrebbe chiamare verità, la verità (o una delle tante
verità) della soggettività intenta a capirsi o a immaginarsi. Ora
si sa che le metafore hanno a che fare con il nostro modo di recepire
e di far fronte alle nostre esperienze: la realtà è intoccabile e
così è il sublime per cui siamo costretti ad interpretare, con mezzi
a volte grossolani ed approssimativi, quello che ci sta intorno, il
mondo, come veniva chiamato l'insieme delle cose e che Wittgenstein
ha chiamato invece "tutto ciò che accade" e "la totalità dei fatti,
non delle cose"[25].
Il sublime allora, visto in questa ottica, come può essere definito o interpretato? Il sublime non è una cosa, è un fatto e un evento allo stesso tempo, quindi fa parte del mondo, direi del nostro mondo, se questa non fosse un'aggiunta troppo soggettiva e quindi colpevole di precipitarci in una problematica non più al passo coi tempi. Con tutto ciò siamo ancora alla ricerca di processi interpretativi che tengano presente il mondo inteso in senso wittgensteiniano e che poi diventino delle metafore dalla portata cognitiva. Le metafore, si sa, non sono tutte di natura estetica, ma quelle di natura estetica ci allontanano dalla quotidianità coatta delle abitudini[26], eppure c'è qualcosa di coatto anche nel sublime nel senso che non si sfugge alla sua presa e alla sua immediatezza. Il sublime si manifesta, direbbe Heidegger, e noi accettiamo una simile affermazione; dunque il sublime è più vicino all'essere che non all'ente, ha più a che fare con il manifestarsi dell'essere che non con il Dasein in senso stretto, anche un Dasein pronto a riconoscere l'importanza di un mondo (per un attimo) insolitamente statico. Se il poetare e il pensare sono in realtà una sola cosa per Heidegger come ci ricorda Véronique Fóti in un saggio dedicato a Heidegger e i poeti[27], allora si può concludere, e non provvisoriamente, che il sublime è poesia, e poesia che ci fa pensare; il pensiero stesso di Heidegger continuamente sfiora il sublime. Porsi in uno stato tale per cui diventa possibile l'intrecciarsi, se non addirittura la fusione, di pensiero e arte in genere e poesia in particolare tiene conto delle esperienze più estreme e financo pericolose che ci siano date se per coerenza si va incontro al sublime.
Per il vero non si va in cerca del sublime, ci imbattiamo
nel sublime ma non completamente per caso; come direbbe Boulez, volontà
e caso convergono per regalarci quasi su un piatto d'argento, il sublime
[28].
E Boulez come sempre coglie nel segno quando afferma, pur non riferendosi
esplicitamente al sublime, che in un'opera d'arte ci si deve poter
perdere dentro. L'immagine del labirinto è magari un po' sfruttata
da quando più di un secolo fa Nietzsche scrisse che ogni architettura
onesta non può essere che labirintica, tuttavia questa immagine si
adatta molto bene all'esperienza del sublime, la quale, se non si
sta attenti, potrebbe farci perdere il senso di orientamento; ci salva
invece il lato "bello" del sublime che fa tutt'uno con la nostra immaginazione
alla quale dobbiamo poi il riconoscimento del sublime.
Il ruolo dell'immaginazione in tutto questo non è limitato a farci "sentire" il sublime, l'immaginazione contribuisce a farcelo "vivere" e rivivere nel ricordo. Senza l'apporto dell'immaginazione subiremmo il sublime senza essere capaci di elaborare in noi (a livello viscerale quanto si vuole) quegli aspetti estetici che fanno di lui un tutto a cui manca solamente la piena razionalità. Per essere completamente razionale il sublime dovrebbe rinunciare al suo aspetto inquietante e perturbante, mentre invece abbiamo visto che questi due aggettivi lo descrivono, sebbene approssimativamente, nella sua essenza di fenomeno estetico, quindi legato da sempre alla sensibilità.
Heidegger ci insegna che verità e bellezza non si escludono a vicenda, tutt'altro: "Il bello rientra . nel farsi evento nella verità. Non è quindi qualcosa di relativo al piacere, quale suo semplice oggetto"[29]. A maggior ragione non ne è escluso il sublime. Il suo essere evento fa sì che rimanga sempre qualcosa di incompiuto nella sua totalità, se fosse compiuto sarebbe da identificare con un mero fatto. Ora, il rapporto tra sublime e "mero fatto" è ambiguo come il sublime stesso perché i fatti ci chiedono, anzi esigono, il nostro assenso; sappiamo invece che il disagio e la fascinazione provata davanti al sublime va oltre l'abitudinario. Dall'immediatezza dell'esperienza del sublime, si passa alla sua ambiguità, un'ambiguità che non ha rinunciato alla perfezione e che perciò è più significativa della bellezza stessa.
L'opera d'arte "sta solitaria in se stessa"[30] e ci chiede in cambio la nostra solitudine perché è anche grazie alla solitudine che si può "capire" quello che ci circonda. Nietzsche non ha mai cessato di lodare la solitudine, quindi non è certo che ciò che dice in Zarathustra sull'uomo sublime debba essere preso seriamente. In queste poche pagine Nietzsche, senza esitazione (ma quando mai ha esitato?), parla dell'uomo sublime come di qualcuno che non conosce la bellezza, che è incapace di ridere e che è pieno di disprezzo per il mondo; egli conosce solo delle brutte verità e si tiene lontano dall'arte. Questo contrastare il sublime e la bellezza è stato il nostro punto di partenza, ma è bene essere prudenti e non affrettarsi quando sono in gioco i due concetti del mondo dell'estetica; pur essendo identificabili e distinti non si può negare che qualcosa li unisca: il bello ci può avvicinare al sublime e farcelo intravedere, mentre il sublime può essere bello, cioè celare qualcosa di armonioso e non essere solamente angoscioso. Nietzsche tuttavia ha ragione almeno in questo: il sublime è altezzoso e non si ferma al bello, va oltre, ed è strano che Nietzsche, sempre proteso verso l'Oltre, non abbia esplicitamente riconosciuto l'importanza del sublime, almeno come possibilità futura. Ma dopotutto se l'Oltreuomo non è sublime può esserlo la sua arte. L'oltreuomo invece, a nostro avviso, può essere sublime anche se Nietzsche ha rifiutato il sublime come atteggiamento, così come aveva rifiutato l'ironia socratica. Il sublime, è vero, non ride, non sa ridere e non può ridere, quello che è meno chiaro nell'insistenza di Nietzsche sul riso è a che cosa in effetti si rida quando ridiamo[31]. Dire, come afferma Foucault, che ridiamo alla tragedia e, aggiungo, non della tragedia, è dire qualcosa di vero solo in parte.
A questo punto, quali conclusioni si impongono in tema di
sublime? La prima riguarda il modo in cui lo avviciniamo: presuppone
una disponibilità mentale e sensoriale da cui si viene poi travolti.
Del sublime in sé e per sé non molto si può dire: non avendo una struttura
sempre identica a se stessa o prefissata è alla mercé di giudizi soggettivi
ma non per questo fuorvianti. Rimane il problema della sua comunicabilità
la quale come aveva già osservato Lyotard non "è dovuta", non ci possiamo
nemmeno aspettare che venga compreso da tutti. Ne segue che con il
sublime non si possono prendere confidenze, che non possiamo considerarlo
alla stregua di un'esperienza qualsiasi; per essere tale dovrebbe
accompagnare sia la banalità quotidiana sia venire incontro a dei
nostri desideri specifici. All'opposto, il sublime giunge inaspettato,
ed è in buona parte impensato, cioè enigmatico, ed è augurabile che
rimanga tale. Sia la ragione che l'intelletto su questo punto possono
trovarsi d'accordo, anche se per ragioni diverse.