I film della 56ma Mostra del Cinema di Venezia
a cura di Marco Monsurrò e Tommaso Bartalesi
Prima edizione firmata da Alberto Barbera, a lungo curatore del Festival Cinemagiovani di Torino, senza dubbio il festival più coraggioso ed originale del panorama festivaliero italiano. E' chiaro che per incidere in profondità su una macchina organizzativa delle dimensioni di quella veneziana occorre tempo ed impegno. Tuttavia Barbera è riuscito, almeno in parte, nel tentativo di importare quello spirito audace ed anticonvenzionale (non dimentichiamo che da Torino è partita la riscoperta di personalità e cinematografie ormai consacrate dai maggiori festival internazionali) che da sempre hanno caratterizzato la rassegna torinese Innanzitutto eliminando il ghetto nel quale sono stati a lungo confinati le opere italiane, difese come specie protetta dai precedenti organizzatori e finalmente integrate nelle normali sezioni del festival. Anche se la scelta di due autori poco noti come l'emiliano Zanasi (A Domani) ed il piemontese partenopeizzato (Appassionate) De Bernardi non è stata premiata dalla qualità delle due pellicole, che si sono rivelate piuttosto deludenti, va comunque sottolineato lo sforzo dei selezionatori nel cercare di dare spazio a figure per lo più sconosciute al grande pubblico.Se il tributo alla spettacolarità ed all'industria hollywoodiana è stato assolto con la sezione Sogni e Visioni (una volta intitolata Notti veneziane) in cui sono stati presentati film estremamente convenzionali come Eye of the beholder di Stephan Elliott o Fight Club di David Fincher, ma anche pellicole originali ed insolite come Being John Malkovich di Spike Jonze e Hakuchi di Macoto Tezka, la sezione Nuovi Territori ha dedicato molto spazio ai giovani esordienti come ad esempio James Marsh che con il suo Wisconsin Death Trip ha firmato un coinvolgente docu-fiction, ispirato a fatti di cronaca realmente accaduti in una piccola comunità del Wisconsin alla fine del secolo scorso. Ma questa edizione del festival sarà, suo malgrado, ricordata per l'attesissima anteprima europea di Eyes Wide Shut (che ha aperto il festival), accolto con un misto di trepidazione e delusione dal pubblico festivaliero e per la mancata ed annunciatissima serie di film-scandalo che dalle pagine degli spettacoli, molti quotidianisti avevano incautamente anticipato alla vigilia dell'inaugurazione. A partire da Guardami insipida e banale rievocazione della vita della pornostar Moana Pozzi scritta e diretta da Davide Ferrario, fino a Une liaison pornographique di Frédéric Fonteyne, che di pornografico ha solo l'ostinazione nel proporre un tema, come quello degli annunci proibiti, vecchio di trent'anni. Ma per fortuna questa è stata anche l'edizione delle conferme, come dimostra Julien: donkey-boy del venticinquenne Harmony Korine (che aveva esordito due anni fa con il provocatorio Gummo), un allucinato ritratto dell'insoddisfazione proletaria filmato con lo stile Dogma, che sembra aver fatto proseliti anche nell'ambiente newyorkese da cui il giovane regista proviene o Come te nessuno mai di Gabriele Muccino, che racconta con partecipazione l'educazione sentimentale di un adolescente durante l'occupazione della sua scuola (entrambi presentati nella sezione Cinema del presente). Rimane solo una certa perplessità nel valutare la scelta della giuria presieduta da Emir Kusturica, che ha deciso di premiare un film melenso e ruffiano come il cinese Non uno di meno di Zhang Yimou, invece di orientarsi su opere più sincere e meritevoli di attenzione come Diciassette anni di Zhang Yuan o Il vento ci porterà di Abbas Kiarostami.
LIBERO BURRO di Sergio Castellitto
Libero Burro è il tipico italiano un po' arrogante ed egocentrico che tutti almeno una volta abbiamo incrociato nella nostra vita. Ex buzurro centro-meridionale travestito da manager settentrionale, affabile, deciso, ma anche brusco ed invadente, sembra uscito direttamente da una vecchia commedia all'italiana del boom economico. Castellitto si ispira direttamente a quei personaggi, spacconi dal volto umano che hanno dominato le scene della satira graffiante del cinema di Monicelli e Risi. Il pregio di Libero Burro sta proprio nel tentativo di tratteggiare un personaggio emblematico di questi anni, senza cedere alla tentazione di giudicarlo e sforzandosi il più possibile di renderlo credibile nella sua varietà di toni e di comportamenti. Nonostante qualche faciloneria nella scrittura (il suo antagonista Gaetano Novaro è un cattivo da fumetto, completamente monodimensionale) e qualche eccesso melodrammatico, soprattutto nella seconda parte, Castellitto regista sfrutta al meglio l'eclettismo espressivo del Castellitto attore e rivela un buone dose di intuito nel casting (ottima la Mazzantini nella parte di una ricca e nevrotica "borghese" e Gian in quella di un padre vigliacco e giocatore d'azzardo). (M.M.)
EYES WIDE SHUT di Stanley Kubrick
Impossibile un giudizio sereno sull'ultimo film di Kubrick senza scadere nell'epitaffio celebrativo. Troppo lunga e sofferta la lavorazione (Keitel e Jason-Leigh allontanati dal set durante le riprese e rapidamente sostituiti), che ha tenuto col fiato sospeso gli addetti ai lavori e i fan del regista newyorkese per oltre quattro anni. Troppo improvvisa ed immatura la scomparsa di Kubrick, che i manager della Warner si sono affrettati a dichiarare avvenuta a montaggio ultimato, in fase di sincronizzazione. Ed è proprio questo il dubbio che attanaglia lo spettatore durante le oltre due ore e mezzo di spettacolo. E' realmente tutto opera di Kubrick quello che stiamo vedendo? E' ovvio che dare una risposta definitiva è impossibile. Ma la sensazione riguardo al montaggio è negativa. Pur rimanendo assolutamente fedele al romanzo di Schnitzler (Kubrick e lo sceneggiatore Raphael però spostano l'azione dalla Vienna di inizio secolo alla New York dei nostri giorni), da cui il film è tratto, il risultato finale è piuttosto deludente. Tempi morti ed incertezze impensabili per un autore della sua grandezza ed un doppiaggio che nella versione italiana (vista di recente) non aiutano certo a migliorare la situazione. Al di là della paternità del montaggio su cui, conoscendo l'opera kubrickiana, è fisiologico nutrire parecchie riserve, rimane l'assoluta maestrìa nella direzione degli interpreti (anche se la performance della Kidman oscura decisamente quella del marito), scelti evidentemente come emblematica coppia di successo e un'incomparabile lucidità nel vivisezionare il malessere di una coppia in piena crisi d'identità. (M.M.)
GOJITMAL di Jang Sun Woo
Nel folto drappello dei film orientali presenti a Venezia spicca, in concorso, questo Gojitmal, film coreano nato dall' incontro di due personalità eclettiche e controverse, che hanno avuto non pochi problemi in patria. L'autore del romanzo da cui è stato tratto, Jang Jung Il, ha scontato nel 1996 una condanna a sei mesi per pornografia (in Corea è considerata illegale) ed il libro è stato ritirato dal mercato. Jang Jung Il è uno degli autori coreani più popolari ed estremi dell' ultimo decennio: le note dell'ufficio stampa precisano che in gioventù "è stato anche delinquente". Non so cosa significhi, ma fa la sua figura. Il regista, Jang Sun Woo, ha già adattato un suo romanzo (To you from me, 1994). Personaggio controverso e pluripremiato, anche Jang Sun Woo arriva al cinema dopo esperienze diverse, come drammaturgo ed attivista politico. Gojitmal è il suo decimo film, dal 1986.
"Il film parla di un tipo di vita, di un tipo di tristezza, della perdita di valori (.). Il film parla anche del sogno di vivere, mangiare e scopare senza dover lavorare": nelle parole del regista il senso più pieno e vero del film. Un rapporto a due vissuto all'estremo, fra una ragazzina diciottenne in vena di perdere la verginità ed uno scultore quarantenne, uomo sposato e stimato. Presto, dopo aver sondato ogni orifizio disponibile, il ménage si apre alle possibilità del sadomaso e si concentra sullo spanking ("sculacciate", ma sarebbe meglio definirlo "mazzate nel didietro"), con un'armamentario di fruste e bastoni vagliato con estrema cura. Persa la casa e troncata ogni relazione con l'esterno, i due vagano tra motel e stanzette inscenando il loro rituale erotico con dedizione totale. La messa in scena ne esalta l'aspetto esistenziale, concentrandosi sulla meccanica dell'incontro/scontro tra i corpi che riempiono il quadro in modo mai banale: eludendo ogni riferimento geografico o temporale (che sia Parigi o Seul non fa differenza). Regista ed attori si mettono in gioco con convinzione: il risultato ha grande forza ed ironia e meritava un riconoscimento. Come il romanzo, anche il film è stato censurato e non è mai uscito in patria: questo spiega la folta rappresentanza di giornalisti coreani al festival. (T.B.)
YEGE DOU BU NENG SHAO (tr. NON UNO DI MENO) di Zhang Yimou
GUO NIAN HUI JIA (tr. DICIASSETTE ANNI) di Zhang Yuan
Venezia '99 all'insegna della Cina (come dire che Marco Polo aveva visto giusto). Due i film cinesi in concorso, due i premiati, anche se a parer mio nell'ordine sbagliato. Posto che secondo me il Leone d'oro lo meritavano Kiarostami o Garrel o Jang Sun Woo, tra i due film cinesi Diciassette anni aveva più frecce nel suo arco.
Non che quello di Zhang Yimou fosse un brutto film. Dopo Keep Cool, il pluripremiato Yimou parte di nuovo dall' ambiente rurale che caratterizzava i suoi primi lavori, concentrandosi su un gruppo di bambini di una scuola elementare di campagna. "Questo film esprime il mio affetto e il mio interessamento per i bambini cinesi" (la pedofilia non ha confini). La tredicenne Wei Minzhi deve sostituire temporaneamente il maestro del villaggio, con un unico ordine tassativo: non fare ritirare nessun bimbo dalla scuola. Quando un giorno il piccolo scugnizzetto Zhang Huike non si presenta in classe, Wei scopre che è stato costretto ad andare in città a lavorare. Novella Qiu Ju, testarda come un mulo, parte per la città decisa a ritrovarlo. E alla fine ci riesce. Anche qui si presentano componenti ormai consolidate del cinema di Yimou: una situazione minimale, un piccolo problema che si ingigantisce col tempo, una figura femminile decisa fino in fondo a compiere la sua missione: siamo dalle parti di La storia di Qiu Ju e Ju Dou. Più interessante l'uso molto efficace di attori non professionisti, per la maggior parte bambini e abitanti del villaggio dove si sono svolti veramente i fatti a cui si è ispirato il film, tra cui la stessa giovanissima protagonista. Nel lieto fine, con lacrime e abbondante spargimento di melassa, si coglie una certa ironia malignetta, che (se fosse nell'intenzione del regista) rappresenta un positivo passo avanti rispetto al passato.
Diciassette anni, del giovane Zhang Yuan, è una coproduzione italiana (di Fabrica, cioè Benetton) e vede al montaggio Jacopo Quadri. Yuan è una figura emergente del cinema cinese ed ha ricevuto già molti riconoscimenti internazionali, oltre ad i classici problemi in patria. La sua attività spazia dal documentario, al teatro, ai videoclip (Patti Pravo, fra gli altri) ed è da considerarsi il primo regista e produttore indipendente della Rep. Popolare Cinese dal 1949. Quella documentaria resta comunque la matrice fondamentale del suo cinema.
Diciassette anni è una tragedia familiare: la rivalità tra due giovani sorelle culmina nell'assassinio, quando Tao Lan, accusata di un furto commesso dalla sorella, la colpisce con un bastone e la uccide. Diciassette anni dopo, all'uscita dal carcere, una guardia carceraria si offre di accompagnarla a casa, ma questa è stata demolita e la famiglia si è trasferita. Trovato il nuovo indirizzo, l'inaspettata riunione familiare comporta tensione e dolore. Il film -sceneggiato tra gli altri dalla moglie del regista- è compatto e rigoroso, ottima la direzione degli attori, quasi tutti alla loro prima esperienza cinematografica. Gli interni della prigione dove è reclusa Tao Lan sono stati ripresi in un vero carcere, nei pressi di Pechino. (T.B.)
MUSIC OF THE HEART di Wes Craven
Da una storia vera. Il maestro dell'horror Wes Craven dirige la pluridecorata Meryl Streep in una melodramma pedagogico. Dovrebbe bastare a mettervi in guardia. Music of the heart è un film insostenibile. Per il suo malcelato razzismo, che fa di un'insegnante wasp una sorta di santa pasionaria, tutta intenta a redimere un gruppo di bambini neri di East Harlem (insegnandogli il violino con un sadismo efferato ed ingovernabile). Per la sua prevedibilità che lo rende un melodramma di genere scontato e consolatorio. Per la sua durata eccessiva (da registrare una forte tendenza alla prolissità narrativa della Hollywood di questi ultimi anni) che annoia anche il fan più integerrimo della Streep. Non ci sembra di eccedere in intransigenza e severità nell'aspettarci di più da un regista che ha impostato tutta la sua carriera sulla rivisitazione e l'innovazione (solo per citare qualche titolo: la serie di Nightmare e di Scream) di un genere come l'horror, che molti avevano dato irrimediabilmente per morto più di venti anni fa e che proprio in questo fine decennio, sta conoscendo un ritorno senza precedenti. (M.M.)
AUTUNNO di Nina di Majo
Quando Napoli diventa Manhattan. Con un occhio a Woody Allen ed un altro a Nanni Moretti, Nina di Majo (già premiata con il Sacher d'oro nel '98 per il suo corto Spalle al muro) tratteggia un angosciante ritratto dell'alta borghesia napoletana da cui proviene. Attraverso la storia intrecciata di tre personaggi del tutto diversi per età, ambizioni e problematiche racconta il malessere che presiede certi meccanismi sociali ed affettivi. Matteo di sedici anni è ossessionato da una madre nevrotica e possessiva e da un padre assente e maneggione; Betta è una donna masochista e distruttiva in fuga da un uomo che la tradisce e che forse non ama veramente; Costanza (interpretata dalla stessa di Majo) infine, è una studentessa stressata e nevrotica, schiacciata dalle aspettative dei genitori (in crisi), incapace di farsi amare ed affetta da una morbosa passione per la scrittura. Il debito della di Majo nei confronti degli autori citati è forte, ma esibito con disinvoltura, senza falsi pudori. Le va riconosciuto il merito di aver costruito la sua storia sull'atavica antipatia di Costanza, un personaggio irritante e scostante, del tutto inusuale nel panorama cinematografico nostrano (che spesso si crogiola in un minimalismo affettivo inutile e consolatorio) e di avere proseguito nel percorso di altri registi napoletani (come Martone, di cui è stata assistente, o Incerti), che come lei hanno tentato di svelarci aspetti poco conosciuti di una città troppo spesso intrappolata in falsi stereotipi cartolineschi. (M.M.)
FIGHT CLUB di David Fincher
Innanzitutto una precisazione: quello del Fight Club è un pretesto. Questo se agevolerà il film nel suo percorso promozionale, potrà risultare fonte di delusione per quanti, legittimamente (gli autori stessi e Medusa, che distribuisce il film in Italia, sembrano orientati ad una campagna che esalti questo aspetto in realtà piuttosto marginale nell'intreccio) si aspetteranno un film sulla boxe o sulle arti marziali. In realtà Fincher è interessato a tutt'altro. Pur conservando quella patina ruvida e noir che ne hanno decretato il successo mondiale con film come Alien³ e Seven, Fincher si impegna in una lussuosa operazione commerciale (Pitt garantisce grandi numeri) ad alto tasso spettacolare. Come ne I Soliti Sospetti (anche se con esiti molto meno felici che nel film di Bryan Synger) lo spettatore è totalmente in balìa del narratore, che lo depista in continuazione fino all'epilogo rivelatore che, ovviamente lo costringe a rivalutare tutto quanto ha visto fino a quel momento. Fight Club è una sorta di confusa denuncia dell'alienazione metropolitana che colpisce l'uomo medio (in questo caso Edward Norton) di fine millennio, costretto a ritrovare una propria identità menando le mani in fetidi sottoscala, lontano dal rassicurante e prevedibile ménage piccolo-borghese (Norton si definisce un "Ikea-boy"). Le parole del romanziere Chuck Palahniuk, del cui romanzo è stato tratto il film sintetizzano bene le intenzioni degli autori: "siamo una nazione di animali fisici che hanno dimenticato di esserlo. Siamo frenati dall'entrare in questo mondo di favole e non abbiamo idea di ciò che possiamo affrontare perché non siamo mai stati sfidati o messi alla prova". Purtroppo gli spunti sono troppo numerosi, perché possano essere pienamente sviluppati nelle canoniche due ore di narrazione; il racconto procede tra colpi di scena e ammiccamenti senza troppo curarsi delle incongruenze e confidando nelle buone intuizioni visive di Fincher (che, non dimentichiamolo, è un maestro nel campo dei videoclip). Fight Club stordisce e delude, aggiungendosi alla lista di film paranoici e schizofrenici che affollano la produzione hollywoodiana di questo fine decennio (Nemico Pubblico e Arlington Road in questo senso sono due titoli emblematici). (M.M.)
PAZZI IN ALABAMA di Antonio Banderas
"Dopo aver interpretato cinquantuno film, pensavo fosse giunto il momento di mostrare al mondo il mio punto di vista". Così Banderas recita nel pressbook di Crazy in Alabama, suo esordio alla regia e prima collaborazione con la moglie attrice Melanie Griffith. Il film, ambientato nel 1965, si dipana su due assi narrativi, da un lato la fuga di una eccentrica ed elegante signora di mezza età (la Griffith appunto) che viaggia dal profondo sud degli Stati Uniti verso Hollywood con al seguito la testa parlante del marito appena decapitato durante l'ennesima lite coniugale; dall'altro le vicende del suo giovane nipote Peejoe che in una sperduta città dell'Alabama partecipa ai primi movimenti razziali per la conquista dei diritti civili. Sorprende non poco la scelta di un soggetto con una così forte matrice americana da parte di un attore spagnolo, anche se emigrato negli Usa. Ma è subito chiaro che a Banderas interessa molto di più la portata simbolica della lotta di Peejoe (ha subìto la dittatura franchista) e della sua maturazione politica ed emotiva che non che non la specificità dei fatti messi in scena. Sebbene il film ceda spesso alla tentazione di farsi travolgere dalla retorica (troppi rallenti e bandiere a stelle e strisce in primo piano), Banderas riesce a cucire con ritmo ed equilibrio le due storie parallele, variando con leggerezza registro. Ecco allora che il racconto oscilla tra commedia nera e film di denuncia, fino a trasformarsi addirittura in un trial-movie nel finale (dove Rod Steiger ci regala uno spassosissimo cammeo nella parte di un giudice ultra-libertario). Il risultato non è certo originale, ma l'irresistibile interpretazione della Griffith (mai così in parte) e le spiritose citazioni cinefili sulla Hollywood che fu ("potrebbe lavorare con Hitchcock" afferma un sedicente produttore alla figlia di Tippi Hedren, l'icona di Uccelli) fanno perdonare qualche ingenuità di troppo. Certo è che al termine della proiezione si ha la netta sensazione che Banderas abbia definitivamente preso la cittadinanza americana. (M.M.)
LES AMANTS CRIMINELS di François Ozon
Dopo aver scandagliato le piccole ipocrisie dei meccanismi familiari nella sua opera prima Sitcom Ozon tenta con questo film uno strano ibrido tra favola nera e mèlo senza troppa convinzione. Alice e Luc sono due adolescenti di una cittadina qualsiasi della provincia francese, che pianificano l'omicidio di Saïd, un loro compagno di scuola, reo di aver dimostrato con troppa arroganza il suo interesse per Alice. Una coppia di baby-killers simile a tante altre viste sugli schermi cinematografici in questi ultimi anni, vittime della vuotezza ideologica e della crisi d'identità tipiche della loro età, agiscono senza movente e senza troppo preoccuparsi delle conseguenze del loro gesto (nessuna foga mediatica e protagonismo alla Natural born killers). Ma la peculiarità di Les amantes criminels è di trasformare una banale storia di morte in una sorta di Hansel e Gretel in chiave sessuofobica. Alice e Luc, recatisi nel bosco per seppellire il cadavere, saranno rapiti da un orco senza scrupoli, che li terrà in ostaggio infliggendogli ogni genere di tortura fisica e psicologica. L'orco buontempone inizierà Luc alla sodomìa e cucinerà i resti di Saïd, spacciandoli per squisita cacciagione. Ma i due riusciranno a fuggire (complice l'orco) e si riconcilieranno facendo l'amore in uno scenario autenticamente disneyano, con tanto di animaletti festosi sullo sfondo. E' evidente che a Ozon non interessa approfondire troppo la psicologia dei personaggi (non trapelano mai sensi di colpa nei due giovani amanti criminali), ma piuttosto definire la loro confusione sentimentale e sessuale. Putroppo però, nonostante l'impegno degli interpreti (la Régnier conferma le qualità gia apprezzate ne La vita sognata degli angeli di Zonca), il pastiche scivola presto nel grottesco e il mélo nell'autoparodia. E lo spettatore, incredulo, tra ménage a trois e perversioni assortite, finisce col domandarsi se non stia assistendo all'ennesimo rifacimento di Histoire D'O in versione omosessuale. (M.M.)