Dell'estetica adespota: dialogo
di un'ascoltatrice e di un conferenziere (Parol 14, 1998)
di Luciano Nanni
A. Da diverso tempo,
professore Nanni, la seguo. Sono stata
presente a tutte le sue ultime conferenze.
C . Sì.
L'ho notata.
A . Sono venuta a Ravenna, anche, alla
Casa Matha, e poi a Bologna, alla Galleria
d'Arte Moderna, e così via.
C . Sì. Sì. Ma
non so se gioire di questa sua fedeltà o se, invece, preoccuparmi.
Ad ogni modo mi dica.
A . Gioisca.! Gioisca!
Non la seguo per malevolenza. Anzi, al contrario,
devo dire che lei mi diverte.
C . Vorrei dirle che sono contento e
anche commosso, ma sinceramente questa sua dichiarazione potrebbe
anche avere un risvolto di cui preoccuparsi.
Ma lasciamo stare. Veniamo al punto.
A. Ha detto bene !
Veniamo al punto. Di fatti c'è una questione, soprattutto, che vorrei
chiarire con lei.
C. Quale ? Mi dica !
A . Questa. Lei, da un po' di tempo,
s'è messo a definire la sua ricerca con
il termine "adespota". Che cosa intende esattamente con
questa definizione ?
C . Perché
? Non è chiaro ?
A. Ad essere sincera devo dire di no. Parlo per me, naturalmente.
Non per gli altri, di cui non so.
C . Mah ! Può essere. Ma è proprio sicura
di non avere, seppur minimamente e provvisoriamente, un'idea di ciò
che intendo dire con questo termine ? Non
potrebbe essere che lei mi abbia capito
benissimo, ma ritenga di non avermi capito a causa di una sua mancanza
di autostima, a causa insomma di un'eccessiva acribia e sfiducia verso
di sé.
A. Oddio! Adesso lei, con questa "acribia"
mi mette ancora più in crisi. Diciamo che me la raddoppia, la crisi.
Prima mi preoccupavo della parola "adespota" e ora devo preoccuparmi anche di questa "acribia". Non
sono infatti sicura che anche questo termine
significhi ciò che penso.
C. Ha ragione. Mi scusi. Mi scusi. Torniamo
al termine "adespota".
A . Sì. Beh ! Forse non è proprio vero
che non sappia che cosa vuole dire. Ho consultato un vocabolario.
C . E allora ?
A . Sì. Il problema è che nei suoi libri,
e li ho letti veramente tutti.
C . Lei mi intimorisce
.
A . Dicevo: li ho letti veramente tutti
e questa parola non l'ho proprio trovata.
C . Sì. Ho cominciato a usarla da poco e ancora non ne ho fatto un uso scritto.
E' vero. Brava ! Via, che cosa ha trovato nel vocabolario
? Vediamo.
A . Sì. Beh ! Diverse accezioni.
C . Non ne ha trovata anche una giuridica
?
A . Sì. L'ho trovata e un vago sospetto
che fosse questa ad interessarla l'ho avuto.
E' allora secondo la sua eccezione giuridica che lei lo usa
? E' in tal senso che lei definisce la sua concezione dell'estetica, ? E' così?
C . Sì. Anche.
Ma andiamo con ordine. Che significa "adespota"
in campo giuridico ? Che cosa indica
? Ricorda ?
A . Beh! Se la mette così mi imbarazza. Non mi interroghi
! Se fa il professore sono finita.
C . Per carità !
Niente professore, ma Socrate. Tanto Socrate
! Penso infatti che lei non abbia bisogno di me per imparare ciò
che già sa.
A . E' sicuro di questo ?
C . Sì. Io vorrei solo aiutarla, socraticamente
appunto, a prenderne atto, a prenderne conoscenza. Non altro. Guai
ai professori. Brutta razza ! Brutta razza !
A. Se
lo dice lei .
C . Allora mi dica. "adespota",
in senso giuridico: cosa ricorda?
A . Mi sembra che il termine indichi
un codice o un diritto diffuso, non proprio di qualche gruppo o individuo
in particolare, ma di tutta la comunità.
C . Beh ! Più o meno. Ma vediamolo, questo termine, all'etimologia. Abbiamo "a"
, che è un "a" privativo e vuole dire "senza"
e poi abbiamo "despota", che vuole dire "padrone",
per cui "adesposta" vuole dire
"senza padrone".
A . Mi faccia capire.
C . Beh ! Lo si
capisce meglio forse se dal campo giuridico ci spostiamo in quello
letterario-filologico. Nel campo insomma dove, con la ricostruzione
originaria dei testi, si tenta anche la loro attribuzione al loro
vero autore.
A. Conosco...
C. Bene ! In
questo campo un testo adesposta è un testo
non attribuibile a questo o a quello, a quest'autore
o a quest'altro, ma potenzialmente a tutti, perché anonimo.
A . Senza
padrone, allora; non perché non abbia un possessore, ma perché manca
dell'autore.
C . Sì. Certo. Qualcuno o qualche istituzione
ne sarà in possesso, ma è come se venisse da tutti ed è questo venire
da tutti, questo soggetto collettivo che
mi interessa. Non altro.
A . Come ?
C . Sì. Soggetto collettivo, diffuso.
E "diffuso" è forse ancora meglio. Intendo diffuso
in modo tale da abbracciare fino ai suoi confini un'intera comunità.
A . Non l'intera umanità ?
C . No. Non esageriamo. In questo caso
avremmo a che fare con un soggetto metafisico che non mi
interessa. Non mi interessa perché
scientificamente irraggiungibile, congetturabile voglio dire, non
per altro.
A . Soggetti storici allora.
C . Sì. Storici e collettivi.
A. Idiolettali allora, come propri di una data cultura e non di un'altra: che so! della cultura greca, della cultura medievale e cosi via.
C . Naturalmente
sempre congetturalmente. Anche
le identità di queste culture nel loro insieme sono a
loro volta congetturali. Identità che tengono fino a che tengono,
finché l'apparire di documenti e testimonianze ignote non ci costringono
a ridisegnarle diversamente.
A. Eh ! Beh
! Però la sua teoria è sua e non di altri. Quindi un despota,
un proponente, un padrone ce l'ha ! E'
lei. Non è diffusa. Non è di tutti.
C . Ecco, l'obiezione che mi aspettavo ! Devo risponderle sì e no insieme e senza che il "sì"
neghi il "no" e viceversa.
A . Mi spieghi !
Mi spieghi !
C . Non capisce come ciò sia possibile
senza contraddizione ? E' questo
?
A. Sì.
C. Forse perché non ha chiaro cosa significhi fare scienza. Quali
siano i suoi postulati. Che dice ?
A . Forse ...
C . Prendiamo Keplero.
L'ellisse proposta da Keplero non è il
movimento di Keplero - e sto, anche a detta di Ch.S.
Peirce, a un
caso da manuale per ogni ricerca scientifica -, ma dei pianeti. E
non di questo o quel pianeta, ma di tutta la "comunità"
dei pianeti solari. Rispetto ad essi
entità diffusa, insomma.
A . Sì, però è Keplero
che ha visto questo movimento, quindi l'ellisse non sarà sua, sarà
della realtà indagata e in modo "adespota", ma la teoria
che la propone è sua, quindi non è adespota rispetto a Keplero.
C. Distinguerei. Di Keplero
è il resoconto ( la comunicazione ) della teoria, non la teoria, che
resta in proprietà di un occhio di tutti.
A . Mah che dice
! Occhio di tutti ! Resoconto di
Keplero ! Non siamo mica ancora andati a cena, professore ! Ma soprattutto non ha mica
ancora bevuto. Tra l'altro, mi dicono che lei
non sia astemio, ma quasi.
C . Beh ! Qui il vino non c'entra. C'entra
l'etimologia del termine teoria.
A . Beh ! Viene dal greco e significa
"guardare".
C . Appunto.
A . Keplero
ha guardato e come si può dire che non sia padrone del suo sguardo ? Come si può dire che abbia uno sguardo
adespota.
C . In quanto
non ha questo sguardo, ma c'è solo dentro, diciamo. In
quanto scienziato non può che essere portatore di uno sguardo,
e quindi di una teoria adespota, pena il tradimento della scienza
stessa. Suo sarà il resoconto verbale o scritto di ciò che vede, ma
l'occhio deve essere di tutti, altrimenti come potrebbero
gli altri controllarne le affermazioni? Momento, questo del controllo,
inevitabile nella scienza.
A . Beh! Sì. Se i controllori non possono
vedere la stessa cosa che vede il controllato come farebbero a controllarlo
? E per far questo, lei dice, devono praticare il suo stesso occhio. Devono in qualche
modo esservi ...
C . Le sarà capitato di volere indicare
una particolare configurazione del pae
saggio ( magari durante una scampagnata ) a qualcuno?
A. Sì. Certo.
C. E, per facilitargliene la vista, le
sarà capitato di dirgli: " Non lo vedi ?
Beh! Vieni qui dove sono io e vedrai che
lo vedrai ! ".
A. Come no ?
C . Bene. E che è questo se non la pratica
di un occhio comune ?
A. Ah ! Comincio
a capire ( almeno credo ): un luogo comune dello sguardo e quindi
uno sguardo identico e allora senza padrone. Capisco !
C . Si può essere teorici alla Gramsci, tanto per fare un esempio a tutti comprensibile,
e allora si è proprietari della propria teoria. Alla fin fine che
faceva Gramsci ? Guardava il "cosmo"
borghese per toglierlo di mezzo, per modificare insomma, in qualche
modo, i fatti e questo progetto era suo
e di chi ad esso aderiva. Ma chi vi aderiva
ne riconosceva in lui la paternità ( l'originario creatore ) e quindi
il despota. Ancora in senso buono, si capisce: i
despota in senso negativo, in quel partito, vennero dopo.
A . Ecco, vede che anche lo sguardo teorico un "despota" ce l'ha.
C . Piano. Si può essere teorici alla
Gramsci, ma si può anche essere teorici alla
Einstein (alla Einstein
in quanto scienziato naturalmente ), che non guardava affatto il cosmo
( l'universo fisico, nel caso) per toglierlo di mezzo, ma solo per
guardarlo, per vederlo in qualche suo aspetto o caratteristica. Per
meraviglia, avrebbe detto Aristotele. Per curiosità ha detto il nostro
premio Nobel Rubbia. Non per altro. E
quindi in tal senso, per farlo apparire al nostro ( dico nostro )
occhio, alla nostra ( dico nostra ) mente. E questo è uno sguardo
senza padrone, giacché ciò che appare all'occhio di Einstein pre-esiste ad Einstein ed è la verità di un qualcosa che non è solo di
Einstein, ma anche nostro. E perché resti anche nostro,
l'occhio scientifico ( l'occhio di Einstein
) lo deve accogliere in sé, farsene cosciente, senza modificarlo,
giacché se lo modificasse non sarebbe più il cosmo di tutti noi, ma
solo una sua allucinazione ...
A . Capisco. Se ciò capitasse a lei si tratterebbe, come lei spesso ama dire, di una allucianazione ...
C. Sì. Brava! Una cosa tutta mia, visto
che mi chiamo Luciano, una cosa di cui
sarei despota, ma di nessun valore scientifico, cioè intersoggettivo.
Mi pare evidente. O no ?
A . Sì. Certo. Ma
come si può escludere che la scienza cada in tale sguardo dispotico?
C . Non lo escludo. Ci cade. Ci cade,
e più spesso di quanto si crede. Tant'è
vero che molti sono arrivati a farne una sua legge. Sono arrivati
a dire tranquillamente che la scienza non può non modificare quanto
studia. Ma questo può valere in linea di
fatto, non in linea di principio. Ma è proprio in linea di principio che io qui ne sto parlando.
Non facciamone anche qui una questione di volpi e di
uve acerbe ...
A. Lei si riferisce allora ai postulati,
ai principi, che la reggono.
C. Ecco: sì e soltanto. Poi nella realizzazione pratica di tali principi l'errore è sempre
possibile. Ma, appunto, di errore si tratta;
non di sue legalità. E in quanto errore
si deve provare a toglierlo di mezzo.
A . Ma allora
lei la pensa esattamente al contrario di Heisenberg?
C. Al contrario ?
No. La penso esattamente come lui !
A. Come ? Ma
non dice, Heinsenberg, che noi non possiamo
conoscere direttamente l'elettrone, bensì soltanto ciò che l'elettrone
diventa nella relazione che esso intrattiene con i nostri strumenti
?
C . Sì. Ma a leggerlo bene non dice nemmeno
che la fisica, al livello dei suoi strumenti, sia scienza !
A . Come ? Come ? Non capisco. Allora
quando diventa scienza la fisica ?
C. Quando analizza ciò che essa, con i suoi strumenti, e quindi non come scienza
ma come una comune pratica attività, ha prodotto.
A. Ma, mi scusi, la fisica non è una ?
C. Una come soggetto
empirico, ma non come soggetto funzionale. E qui è di soggetti funzionali che si tratta.
A. Una questione un po' complessa...
C . Sì, ma la si
può intravedere in modo rapido, però corretto se ci spostiamo nel
campo delle scienze dell'uomo. Pensiamo alla fonologia.
A. Bene !
C . Che cosa analizza la fonologia ?
A. Il fonema.
C. E che cos'è il fonema ?
A. Un'immagine del suono.
C . Costruita da chi
? Non forse dalla lingua ?
A. Sì.
C . E allora non è solo apparente la
differenza con la fisica ? Qui abbiamo
due funzioni, quella produttiva e pratica e quella puramente teoretica,
svolte da due soggetti empirici diversi, da due pratiche diverse:
la lingua, come produttrice del fonema, e poi la linguistica ( la
fonologia come sua parte ) che lo analizza.
A. E scienza è solo
la linguistica, non la lingua.
C . Appunto.
A. Mi sembra di cominciare a capire.
C . Ecco. Vada avanti
lei.
A . Provo. Omologa alla lingua, nella
fisica, sarebbe la fisica stessa considerata al livello dei suoi strumenti,
mentre l'omologo della linguistica, e quindi scienza, sarebbe soltanto
la fisica considerata nella sua pratica d'analisi di quanto i suoi
strumenti, e perciò essa stessa, ha prodotto.
Lei dice ...
C. No. Lo dice Heisinberg,
anche se è stato letto in modo diverso. Io però ritengo che, dal punto
di vista scientifico, sia corretto leggerlo nel modo in cui qui lo
sto leggendo. Del resto già Aristotele diceva la stessa cosa. Non
parliamo poi di Galileo.
A . Già ! La fisica
Aristotele non la metteva tra le attività pratiche o poietiche,
ma tra quelle teoretiche, assieme alla teologia ecc. E per Galileo
penso alla lettera a Welser.
C. Brava ! Vede
allora che sì può dire che ciò che la scienza vede deve pre-esisterle, e quindi semplicemente apparirle, senza
negare la più avanzata coscienza critica dell'epistemologia ?
A. Sì, capisco. Dire che deve vedere (
guardare ) qualcosa di precostituito non
vuole assolutamente dire che debba in linea di principio descrivere
le cose in sé, ma può volere dire che deve descrivere le determinazioni
delle cose ( del mondo ) prodotte dalle nostre relazioni con esse
( con esso).
C. Questo dico.
A. Ah ! Mi ricordo
! Mi ricordo ! Lei ha usato, a volte,
per spiegare tutto questo, la metafora del bue ...
C. Vediamo se si ricorda bene ...
A. Sì ! Sì ! Il bue può ruminare ( scienza)
soltanto l'erba che il bue pascolante ( la nostra pratica del mondo
) ha già portato dentro di sé e quindi ben ritagliato e definito ...
C . E che ciò sia
fatto da due soggetti diversi, come abbiamo visto nell'ambito
della lingua, o da uno stesso soggetto in due funzioni diverse ( come
abbiamo visto nella fisica ) poco importa...
A . Importa che la scienza appare soltanto
quando appare l'analisi e basta ...
C . Ecco !
A. Allora, se capisco bene, la sua estetica
vuole essere adespota su due livelli. Sia a livello di
oggetto indagato, giacché lei non vuole indagare la concezione
dell'arte di questo o di quello autore, di questo o di quel gruppo
particolare, ma quella di tutta la comunità che li ingloba, nel caso
quella della nostra contemporanea, occidentale, cultura in particolare
...
C . E orientale,
nella misura, in cui l'oriente si va occidentalizzando.
A . Concezione necessariamente
formale, se la comunità è pluralista e democratica. Se le concezioni dell'arte dei singoli e dei gruppi che unifica
sono tra loro diverse.
C. Sì. Un po' come i nostri diversi partiti
politici trovano unità e regola di vita nella nostra costituzione,
la sola estesa e diffusa quanto la comunità stessa. Ma
queste concezioni produttive dell'arte hanno un nome ...
A. Sì. Lo so. Me lo
lasci dire ...
C. Dica.
A. Poetiche. Si tratta di poetiche.
C . Non però nel senso di Jakobson.
A. So. Nel senso tradizionale del termine,
tornato, nel Novecento, in auge soprattutto ad
opera di Antonio Banfí e Luciano
Anceschi.
C . Sì. Diciamo "poetiche"
come teorie alla Gramsci allora. Tutte
tese a fare l'arte. Mentre in Jakobson
la poetica viene in linea di principio pensata come parte della linguistica,
quindi non omologa all'ideazione alla Gramsci,
ma alla Einstein,
che é come dire all'estetica. Ma torniamo alla doppia adespoticità
della mia ricerca. Adespota dalla parte dell'oggetto studiato, giacché tutta tesa a cogliere poetiche
collettive a soggetto diffuso, in primis quella nostra in cui ci troviamo
gettati, e adespota...
A . Nelle modalità,
nell'occhio, da lei scelti per questo suo studio, giacché vogliono
essere ( e come potrebbe essere diversamente ) quelle (quello ) della
scienza.
C. Sì.
A. Scienza che, nel momento in cui viene riempita dall'identità dell'arte, nel suo caso collettiva,
ma potrebbe trattarsi anche di una qualche poetica a soggetto singolo
o di gruppo determinato ( in fondo, abbiamo visto, la scientificità
non sta nei contenuti studiati, ma nel modo con cui noi ci rapportiamo
ad essi ) scienza, ripeto, che lei propone di chiamare, come
già suggerito, estetica.
C . Sì. Non si chiama forse biologia
la scienza quando si occupa della vita e chimica quando si occupa
della composizione della materia e fisica, quando si occupa delle
sue forze, delle forze della natura ? Insomma,
non cambia forse nome la scienza, la stessa e immutata scienza,
col cambiare del campo di studio ?
A. Sì.
C . Ebbene,
passando a studiare l'arte, la scienza la chiamerei estetica, senza
farne, a livello di bagaglio teorico, una scienza speciale
...
A . Del resto già in Baumgarten l'estetica voleva essere scienza.
C . Appunto e proprio,
credo, nel senso che qui sto indicando. Che c'è ? Non la vedo tranquilla. Che cosa la turba ?
A. Beh! Qualcosa c'è che non quadra.
C . Coraggio. Dica.
A. Ecco. Se l'occhio dello scienziato non
è suo, ma comune, chi è lo scienziato ?
Dovrebbe sparire. Nemmeno essere nominato e invece
perché ne facciamo dei nonumenti: Newton,
Einstein ...
C. E monumenti siano
! Sono stati, infatti, i più bravi a farsi
cavi, a farsi vuoti per tutti, così da farsi riempire
dal livello di realtà indagato. I più bravi a a realizzare l'epoché, avrebbero detto gli antichi, a mettere
insomma tra parentesi, tenendolo a freno, quanto in loro incongruo
alla realtà indagata (ruminata)...
A. Realtà non in sé.
C . No. Questa è roba da scientismo,
da positivismo metafisico. L'abbiamo visto: si può analizzare ( ruminare
) ciò che la nostra coltivazione del mondo ( la nostra
cultura ) ha già portato come determinato dentro di sé. No. No. Per
carità ... Come potrebbe, del resto, esistere
una linguistica senza una lingua? La lingua può vivere ( è successo
) senza una linguistica, ma non viceversa.
A. Lo scienziato, allora, come luogo d'epifania,
luogo privilegiato in cui qualcosa riesce a farsi veder come è.
C. Sì. In linea di principio e purché previamente, non mi stancherò mai di ribadirlo,
determinata da una qualche pratica, a soggetto umano o naturale che
sia.
A. Sì. Ho capito. La fonologia non è il
luogo in cui può epifanizzarsi, manifestarsi,
il suono, ma il fonema, vale a dire il suono definito all'interno
di una qualche lingua; la fisica non è il luogo dove può manifestarsi
l'elettrone direttamente, ma solo l'elettrone già determinato dagli
strumenti della fisica stessa ...
C. Bene. Sono contento che implicitamente
lei abbia ricordato anche L.J. Prieto,
cui devo molto e da poco, purtroppo, scomparso
...
A. Devo dire che ora mi sembra anche di
capire che cosa lei voglia dire quando dice che la scienza postula
per il proprio occhio l'innocenza...
C . Occhio innocente secondo l'etimologa
del termine e cioè occhio che non nuoce,
che non porta alcuna modificazione a ciò che studia.
A. Sì. Lo so che da
tempo lei dice questo, ma fino ad ora il suo significato non
mi si era ben chiarito ...
C . Ora sì ?
A . Mi pare. Ma
mi permetta ancora una domanda. Poetica in senso anceschiano,
abbiamo detto. Ora Anceschi ammette che
le poetiche si trasformino in Istituzioni e quindi in qualcosa di
collettivo, ma per lui un despota ce l'hanno
ed è l'artista o il gruppo di artisti che per primi le hanno proposte.
C. Ecco! Questo, all'osso, è proprio uno
dei punti di mia maggiore autonomia. Autonomia. da
Anceschi, ma non contro di lui. Le poetiche di cui io mi
occupo sono a statuto adespota, ma restano
poetiche e diciamo che provo a far sì che mi appaia un livello di
verità della poetica, che ad Anceschi
e a infiniti altri non è apparso.
A. Del resto, se ci si chiede "che
cosa è arte ?" s'intende che cosa è arte per tutti, non per qualcuno
in particolare, e mi sembra che la risposta adespota non sia solo
opportuna, ma necessaria. Sto passando totalmente dalla sua parte
...
C . Sì. Non si può fare come molti fanno
e cioè rispondere alla domanda "che
cosa è arte ?", sottintendo l'arte in generale, con la trasformazione
in generale e quindi in poetica adesposta
di una poetica parziale, magari quella dell'artista o del gruppo d'artisti
che gli estetologi amano.
A. Capisco ?
Ideologia, negazione della scienza, avrebbe detto Prieto.
Ma siamo poi proprio sicuri che questa
cosa a soggetto diffuso ci sia ?
C. Direi che non ci sono problemi, per
questo. Noi siamo già usi pensare come sensate formazioni simili in
altri campi della nostra cultura. Quando e chi ha fondato la lingua
che noi parliamo ? Non si può dire, ma non per questo pensiamo che la lingua
non sia retta da un soggetto collettivo. De Saussure
dice: la lingua non è completa in nessuno dei suoi parlanti, ma solo
nella sua coscienza collettiva, insomma non nell'
"io", non nel "tu", ma nel "noi".
Certo si tratta di realtà inconsce, che si manifestano soltanto operativamente,
attraverso i comportamenti che reggono e che legittimano, quindi
indirettamente attraverso i loro segni, ma questo che c'entra? Perfino
gli astronomi si permettono di congetturare la presenza di galassie
invisibili attraverso i loro segnali.
A. Certo Una coscienza collettiva non è
mai uscita allo scoperto a dirci direttamente: io ho deciso questo
e questo.
C . Bisogna congetturarne l'identità
indirettamente, come si fa appunto per i corpi celesti invisibili
direttamente.
A. Da qui allora, il
suo interesse per la semiotica.
C . Inevitabile. Volendo indagare poetiche
collettive non si può che farlo attraverso i loro segni, i comportamenti
cioè che esse legittimano, ergo ...
A. Ancora una cosa. Ma lei è proprio convinto che sia praticabile un occhio innocente
adespota, capace di vedere, senza curvature, questa nostra poetica
collettiva adespota e quindi capace di rendere teoreticamente separabili
la poetica, come pensiero pratico produttivo dell'artisticità,
e l'estetica come scienza che la studia ? Ne è proprio convinto ?
C. Intanto io parlo sempre di tutto questo,
ribadisco, in linea di principio e non
in linea di fatto, dove le commistioni sono sempre possibili. E, in
linea di principio, è lei stessa, e, con lei, tutta la nostra cultura,
e con la nostra cultura tutte quelle che hanno costituito come sensata
la pratica del meta-pensiero o pensiero critico, a dare per scontata
la praticabilità sensata dell'occhio innocente.
A. Come ?
C . Mi ascolti. Quando lei dice a una qualche sua amica: " Ah! Questo proprio non fa
per me ! " oppure,
che so? " Mi piacerebbe essere diversa, ma non ci riesco
! ". Le sarà capitato, no ?
A . Sì. Certo.
C . Ebbene, scommettendo su quale occhio
lei può dire tutto questo ? Non forse scommettendo
su un occhio capace di vederla, così com'è ?
E poi, via, non andiamo dal medico presupponendo
che possa dirci che cosa abbiamo senza immettervi nulla di suo ? Diversamente
che ci andremmo a fare ? E non ci facciamo
analizzare i nostri liquidi e altro ancora in base al senso di un
tale sguardo ? E allora perché, se noi già
ci crediamo, stupirci che anche la scienza ci creda?
A. Già !
C. La scienza non solo presuppone di trovare già costituiti i suoi oggetti di studio, ma
anche i suoi costituenti teorici: quest'occhio
appunto. Essa è entrata in gioco quando già la storia aveva dato senso a quest'occhio. Non altro.
Aveva ragione Giorgio Prodi: la scienza non fa altro che portare a
purificazione ciò che in modo più confuso quotidianamente facciamo.
Ripeto: non altro.
A. Che è come dire che la scienza è esistita
e esiste perché già esisteva.
C . Appunto!
A. Beh ! Professore, le ho fatto fare tardi. Mi scusi tanto, ma a sua gratificazione
sappia che continuerò a riflettere su quanto mi ha detto.
Ancora, grazie.
C. Grazie a lei. La riflessione
degli altri è anche il più potente motore della nostra. 0 si pensa
insieme o non si pensa. Il vero pensiero teoretico non può avere padroni.
Siamo sempre lì: all'adespota ! Si potrebbe
ricominciare e dire molto meglio.
A. Un'altra volta, professore, un'altra
volta.
C. Sì. Un'altra volta ! un'altra volta !